4 - L`Italia del dopoguerra 1945-1960

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4 - L`Italia del dopoguerra 1945-1960
4 - L’Italia del dopoguerra 1945-1960
L’Italia del dopoguerra 1945 - 1960
L’Italia del dopoguerra. Un primo quadro di insieme
Sotto il profilo degli elementi strutturali che fanno da sfondo al problema
della casa in Italia, a partire dagli anni della ricostruzione post bellica, è forse opportuno definire una approssimativa periodizzazione.
Un primo arco temporale può essere individuato tra la fine delle ostilità, la
caduta del secondo Governo De Gasperi e la rottura del patto di unità sindacale nel 1947.
Un secondo intervallo di tempo va dal 1948, anno che segna la vittoria elettorale dalla Democrazia Cristiana, al varo della Legge Fanfani l’anno successivo. Il periodo si conclude con l’emanazione della legge 167 del 18.4.1962 e
con l’istituzione della GESCAL l’anno seguente.
In ognuno di tali periodi si possono leggere a posteriori mutamenti non trascurabili nei ruoli degli Istituti preposti all’edilizia pubblica nel quadro di
cambiamenti profondi che avrebbero attraversato il Paese segnando dinamiche irreversibili sul piano del costume, delle culture, delle forme organizzative dello spazio urbano. Si seguirà pertanto una duplice lettura del processo
storico, mettendo in luce da un lato le reciproche influenze dell’edilizia residenziale pubblica e della pianificazione della città, e dall’altro riconsiderando il rapporto tra la disciplina architettonica e la costruzione della casa a
basso costo, la “casa per tutti”.
Il primo periodo - Dalla fine della guerra all’istituzione della Legge
Fanfani
La ricostruzione fu lenta e incerta, venata da euforie e velleità di palingenesi
da un lato, dall’altro lato dalla deprimente consapevolezza dell’inconsistenza
delle risorse rispetto agli obbiettivi; su tutto pesavano le molte incertezze
determinate dalla profonda crisi istituzionale che la guerra aveva portato
con sé, e dal permanere nella mentalità, nella cultura, nelle pratiche di lavoro di moduli di pensiero, di attitudini e pregiudizi ancora radicati nel clima
del passato regime.
Dei vari problemi legati a condizioni di difficoltà economica o di miseria,
la disoccupazione e la domanda di case erano i più evidenti, e le difficoltà
enormi che essi ponevano erano aggravate dal fatto stesso di non saperli
quantificare correttamente, né in termini di numeri né in termini economici;
le stime pubblicate1 sul fabbisogno di case erano molto diversificate e potevano variare secondo alcune fonti da 1 a 3, secondo altre da 1 a 8. Il mercato
dell’affitto, fortemente preponderante sulla casa in proprietà, era paralizzato
dal regime di blocco instaurato durante la guerra, ma se liberalizzare o no gli
affitti e in quali termini nessuno era in grado di deciderlo e soprattutto nessuno era in grado di definire, anche solo approssimativamente, quale quota
di fabbisogno sarebbe stata coperta dal libero mercato dei fitti. Molte stime
ipotizzavano affitti contenuti tra il 5 e il 10% dell’ammontare degli stipendi,
ma si sapeva che a Roma e nelle principali città del Nord già negli anni ‘30
1
Tra gli altri, V. Angiolini su Rinascita, sett./ottobre 1948, A. Garboli su Realtà, n°9/10, aprile 1945, C.
Broggi ancora su Realtà, n° 6, marzo 1945, C. Calcaprina su Metron, n° 1, agosto 1945 fornivano stime
di costi per la ricostruzione di abitazioni che oscillavano tra gli 80 e i 240 miliardi, e stime di fabbisogno che variavano da 1 milione a 8 milioni di vani, e con costi di costruzione a vano tra le 80.000 e le
300.000 lire.
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L’Italia del dopoguerra 1945 - 1960
Fig.1: quartieri statali in via Dina
Fig.2: quartieri statali in via Dina
gli affitti assorbivano il 30% delle retribuzioni e questo voleva dire che la
domanda non solvibile avrebbe avuto dimensioni molto più ampie.
La destra liberale tendeva a sottostimare il peso dell’intervento pubblico,
ritenendo che il problema fosse prioritariamente una questione di rifusione
di danni subiti da proprietari immobiliari, e che la ricostruzione sarebbe
consistita sostanzialmente nella messa in atto di provvedimenti congiunturali volti a contenere il problema della disoccupazione, assegnando allo stato
il ruolo di erogatore di mutui e prestiti agevolati, e non di soggetto direttamente partecipe alle costruzioni.
Il ruolo dell’edilizia pubblica nel processo di ricostruzione fu particolarmente evidente nelle città di Napoli e Milano. A Napoli furono realizzati diversi
complessi sia dalla IACP che dal Genio Civile per un totale di circa 3000
alloggi, mirando a dare una prima risposta ai bisogni degli sfollati e dei senza
tetto. Questi quartieri, concepiti in maniera piuttosto sbrigativa dal punto
di vista dei servizi, erano però ben esposti e soleggiati, avendo definitivamente abbandonato il modello a blocco chiuso d’anteguerra, sono 9 e fra
essi spiccano il complesso residenziale di Luigi Cosenza in viale Augusto e
alcuni insediamenti che in tempi successivi verranno ampliati, come i quartieri a Poggioreale, al Vomero, a Capodichino, il quartiere Barra e quello di
Soccavo.
Milano invece diede avvio, parallelamente alla edificazione di alcuni complessi dell’IACPM come il quartiere Mangiagalli ad opera di F. Marescotti, a
quella che fu senz’altro la prima esperienza di un grande quartiere autosufficiente: il QT8. Progettato da Piero Bottoni nel 1946 in occasione dell’VIII
Triennale, e concepito come parte integrante del piano di ricostruzione di
Milano, subì costanti revisioni progettuali e costruttive anche in virtù del
suo essere un quartiere sperimentale legato all’attività della Triennale e
come tale soggetto e periodiche costruzioni e demolizioni. Esso fu la prima
occasione di studio circa le attrezzature di cui si sarebbe dovuto dotare un
quartiere residenziale della nuova generazione, fu infatti organizzato intorno ad una grande parco, con un lago e una zona sportiva2.
In generale questi nuovi quartieri vennero collocati in aree periferiche, ma
non in aperta campagna, come avverrà invece per gli insediamenti successivi.
Il resto degli interventi sul territorio italiano sarà rivolto alla ricostruzione
del tessuto residenziale gravemente danneggiato dai bombardamenti.
A Torino il patrimonio di edilizia pubblica usciva malconcio dalla guerra:
252 alloggi erano stati distrutti e 3425 avevano subito danni rilevanti.
Nel 1946 venne istituito l’Ente autonomo per la ricostruzione edilizia al fine
di promuovere lo sviluppo delle “costruzioni economiche a favore dei senzatetto”; nel capoluogo piemontese il programma di intervento, forse il più
importante del periodo, inizia con la costruzione di Case Statali in regione
Mirafiori, lungo l’ambito di via Dina, con i quartieri S1, S2, S3, S4, S5, SR1,
SR2. A partire dal 1947 gli immobili vennero dati in amministrazione allo
IACP.
Sempre nel 1947, parallelamente all’inizio delle discussioni sulla ricostruzione della città e alla riformulazione di ordini corporativi all’indomani della
caduta del Fascismo, il Gruppo Architetti Moderni Torinesi “Giuseppe Pagano” si unì alla associazione nazionale per l’Architettura organica, l’APAO.
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Buona parte dell’ambito sportivo del QT8 è oggi occupato dal Lido di Milano.
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Ne fanno parte Aloisio, Astengo, Becker, Levi Montalcini, Mollino, Morelli,
Passanti, Renacco, Rizzotti e Sottsass. Da un lato dunque la sezione piemontese dell’Apao, alla cui guida nazionale vi era Bruno Zevi, e dall’altro
la specializzazione ingegneristica di Rigotti guidano l’avvio alla rinascita
dell’urbanistica torinese. Sulle riviste specializzate, da Urbanistica a Metron, si discuteva circa la metodologia e le finalità della nuova pianificazione
urbana, per un verso intesa come disciplina fatta di “arte e scienza”3, il cui
compito era quello di mediare tra le aspettative del mercato e i canoni della
buona pianificazione e per l’altro verso una concezione più allargata, attenta
all’indagine sociale, più sensibile alla naturale vocazione del territorio e più
propensa in linea di principio a un concetto di pianificazione maggiormente culturale e politicizzato rivolto ad amministrare la nuova società. È proprio questa concezione della pianificazione del territorio, a metà strada tra
il politico e il sociale, che viene particolarmente enfatizzata con la ripresa
economica ed edilizia del paese, tutta unitamente rivolta a considerare la
città come il luogo dell’identificazione collettiva. In quest’ottica vanno letti
gli intenti delle sperimentazioni più o meno d’urgenza, come i piani di ricostruzione e il Piano INA Casa, ma soprattutto la predisposizione di una
legislazione nazionale in materia edilizia e urbanistica e dei suoi strumenti
attuativi locali, i Piani Regolatori Generali, intesi come un’attività programmatica costante e flessibile ai bisogni della città e del territorio.
Immediatamente all’indomani della fine del conflitto architetti e urbanisti
promuovono a gran voce le posizioni disciplinari formulate a partire dagli
anni ’40, la necessità di una ricostruzione pianificata come strumento di governo, come strumento guida di una visione a lungo raggio. “Anziché come
un fine, la ricostruzione va intesa come un mezzo, come il motore di tutta
una trasformazione sociale ed economica capace di rivoluzionare la struttura del paese”4; in tal senso l’urbanistica doveva essere il principale strumento
tecnico e politico.
Il primo concorso per il nuovo Piano Regolatore torinese, che doveva sostituire quello del 1908 e che doveva mettersi al passo con la legge urbanistica
nazionale del 19425, venne bandito nel 1946, ma nel 1950 i suoi esiti vennero accantonati; per la sua approvazione bisognerà attendere il 1956. Questi
dieci anni, i cosiddetti anni della ricostruzione d’emergenza, interverranno
sul tessuto cittadino, già dilaniato dalla guerra, in maniera devastante e al di
fuori di ogni controllo, con continue deroghe ai regolamenti edilizi vigenti.
Prevalse “la logica della ricostruzione per piani episodici e parziali, con la
sconfitta della disciplina urbanistica intesa come ricerca rigorosa”6. La pubblicazione di De Magistris L’urbanistica della grande trasformazione (19451980)7 riporta alcuni interessanti numeri circa il processo di ricostruzione
3
È questa in particolare la posizione di A. Rigotti, espressa nella sua pubblicazione Urbanistica, edita
dalla Utet in due volumi nel 1948 e nel 1952.
4
E. Tedeschi, Urbanistica: arte di governo, in Metron, n.3, 1945.
5
La legge prevedeva che i Comuni fissassero degli standard edilizi e stabilissero le finalità d’uso del
suolo attraverso la suddivisione del territorio in zone omogenee di intervento. L’articolo 18 prevedeva
inoltre che i comuni potessero espropriare, previa adozione di Prg, i terreni destinati all’edificazione
nell’ambito delle zone di espansione, a un prezzo che non tenesse conto degli incrementi di valore derivanti dalle previsioni di piano, consentendo dunque la formazione di demani comunali e calmierando
il mercato edilizio. Cfr. V. De Lucia, Dalla legge del 1942 alle leggi di emergenza, p. 90.
6
P. Vitillo, Torino: il piano e la Fiat, in Cinquant’anni di urbanistica in Italia. 1942-1992, a cura di G.
Campos Venuti e F. Oliva, Roma Bari, Laterza, 1993, p.279
7
A. De Magistris, L’urbanistica della grande trasformazione (1945-1980), in A.A.V.V., Storia di Torino,
Einaudi, Torino 1999, vol.9, p.211.
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Fig.3: tavola n°5 PRG 1956. “Le zone residenziali e la loro densità“
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della città o per essere più precisi della sua crescita in altezza, nell’arco di 10
anni furono approvate 3130 concessioni per nuove edificazioni, 2756 concessioni per sopraelevazioni e solo 367 per ricostruzioni. Questo processo,
commenta lo stesso De Magistris, fa emergere quale fosse in realtà l’idea
di ripresa e di sviluppo cittadino che l’amministrazione pubblica intendeva
perseguire: favorire in ogni modo il primato della libera iniziativa e il diritto alla legittima rendita da parte dei proprietari, in totale sordità rispetto a
quella idea di città che tecnici e intellettuali rincorrevano.
Unici episodi programmati in questo caotico e “anarchico” panorama urbano saranno gli interventi di edilizia residenziale pubblica. Se letti parallelamente alle direttive della pianificazione urbanistica essi riassumono ed
esemplificano la modernità della disciplina. Ripercorrendo i punti principali
della relazione di Rigotti al Piano Regolatore del 1956 si rileva una organizzazione del territorio a settori, abitazioni e industria, intervallati da profondi cunei verdi che penetravano il più possibile all’interno della città “ad
interrompere la continuità della massa costruita e a isolare le varie cellule
attive. [...] Tale composizione, che in futuro si sarebbe accentuata con l’indispensabile espansione del piano attraverso il piano intercomunale, era un
sistema stellare assimilabile alla forma di una mano – e qui si cita lo stesso
Rigotti - “una grande mano, che ha il palmo rigidamente piantato nella vecchia zona centrale di Torino e che protende le dita della sua attività verso il
territorio circostante”8.
La tavola n. 5 di PRG, di seguito riportata, fa riferimento ai nuclei residenziali in progetto o in ampliamento e alle rispettive densità fondiarie.
La collocazione delle zone residenziali all’interno del territorio comunale
veniva suddiviso in tre fasce principali: una coincidente con il vecchio centro
urbano, una compresa tra il centro e l’anello delle tangenziali e una esterna a
tale anello fino ai limiti del territorio comunale; una quarta e ultima area di
natura speciale era individuata nell’ambito collinare.
La terza fascia, quella esterna all’anello delle tangenziali, viene definita come
ancora libera e non compromessa da lottizzazioni precedenti, pertanto è
proprio questa che viene considerata come la porzione di territorio su cui
“la zonizzazione potrà avere il massimo effetto e in cui la destinazione delle
singole aree potrà costituire un vincolo già fin d’ora operante allo scopo di
ottenere la formazione di quartieri organici isolati”9. Dalle altre tavole di
piano si possono poi leggere nello specifico quali erano le zone deputate
ad accogliere i quartieri definiti come organici: la zona di Falchera, con una
densità prevista 170 ab/ettaro, la zona di Lucento con una densità di 250 ab/
ettaro, l’ampio ambito di Via Dina e di Corso Orbassano con una densità variabile tra i 250 e i 330 ab/ettaro e in ultimo l’attuale zona di Via Artom con
la densità più elevata di 330 ab/ettaro.
Vi erano poi alcune zone definite come miste in cui potevano convivere industrie e residenze, esse erano sostanzialmente tre (sud, ovest e nord), ciascuna con precisi indici edilizi al fine di garantire un giusto bilanciamento
tra zone industriali e residenziali”10.
8
D. Adorni, P. Soddu, Una difficile ricostruzione: la vicenda del nuovo Piano Regolatore, in La città e lo
sviluppo. Crescita e disordine a Torino 1945-1970, a cura di Fabio Levi e Bruno Maida, Franco Angeli,
Milano 2002.
9
Tratto da Lineamenti del Piano Regolatore Generale della Città di Torino, pubblicato in Atti e Rassegna
Tecnica, n. 7, Torino, Luglio 1956, p. 258.
10
D. Adorni, P. Soddu, Una difficile ricostruzione: la vicenda del nuovo Piano Regolatore, in La città e lo
sviluppo. Crescita e disordine a Torino 1945-1970, cit.
6
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Fig.4 esempio di schema planimetrico dai “Consigli
ai progettisti“ piano INA Casa
All’interno della relazione di Piano una sezione specifica era dedicata all’Impostazione teorica di un quartiere residenziale intesa come riferimento di
massima “su cui fondare l’impostazione generale di un quartiere residenziale organico e cioè autosufficiente dal punto di vista dei servizi pubblici competenti alla zona”11. A partire da questo modello teorico sarebbero poi stati
predisposti dei Piani Particolareggiati zona per zona. “Il modello prevedeva
si assumesse che l’affollamento medio da porre a base dei calcoli dovesse
essere quello di 1 abitante per ogni vano d’abitazione e che il volume medio
del vano d’abitazione variasse da un minimo di 90 mc a un massimo di 130
mc”12; tali valori valevano ovviamente sia per l’edilizia di carattere pubblico,
che per quella privata. Un’altra serie di dati era poi relativa all’ampiezza della
superficie da destinare agli impianti di pubblica utilità definiti in rapporto
alla densità di popolazione, e quindi asili infantili, scuole elementari, centri
culturali, centri religiosi, centri sociali (definiti come “area libera necessaria
a facilitare le relazioni reciproche tra gli abitanti di una zona e a polarizzare le attività che a queste relazioni sono collegate”), centri sanitari, mercati
rionali, giardini pubblici e impianti sportivi. Per ciascuna di queste voci si
sarebbe proceduto a delineare un progetto di massima che sarebbe poi stato
reso operante attraverso un piano particolareggiato.
A questo punto è necessario dire che l’attuazione dei piani particolareggiati
relativi alla residenza (si intendono pertanto esclusi i piani di riaggiustamento del centro storico e delle aree centrali destinati alla zona culturale e a quella direzionale dei servizi) avvenne quasi esclusivamente per la progettazione
dei quartieri di edilizia pubblica. La stragrande maggioranza degli interventi
residenziali privati operò invece negli anni a venire senza che questo tipo di
strumento attuativo fosse mai stato redatto, andando a saturare il territorio
urbano destinato all’espansione senza alcun disegno d’insieme e senza altra
regola che non fossero gli indici edificatori consentiti dalle norme.
La grande polemica portata avanti da architetti e urbanisti sulle riviste specializzate si rivolgeva in tono accusatorio non direttamente all’azione dei
privati, che in fin dei conti operavano come e dove la legge lo permetteva,
ma proprio alle mancanze dello Stato del tutto reticente ad attivarsi in maniera decisa al fine di regolamentare l’espansione urbana, prediligendo delle
rapide prese di posizione legate ad esigenze più immediate, piuttosto che
investire sulle prospettive ben più redditizie che un metodo pianificatorio
avrebbe a lungo termine garantito.
Franco Mellano vede nel Prg di Rigotti “una applicazione attenta e scrupolosa dei principi della manualistica europea, che proprio nel dopoguerra aveva
generato concrete esperienze nella realizzazione di città e di quartieri nuovi autosufficienti. […] La scomposizione dell’organismo urbano in unità via
via aggregate in insiemi più complessi, la ricerca scientifica di un equilibrio
costante fra quantità insediative e servizi pubblici ai diversi livelli urbani (in
un momento storico in cui il concetto di standard era ancora scarsamente
sconosciuto), la fiducia nelle capacità ordinatrici della corretta regolamentazione edilizia e la consapevolezza di dover indicare strade concretamente
praticabili anche in tempi brevi per ricomporre, in un disegno credibile e afferrabile, un’area urbana che la guerra aveva disintegrato in alcune sue parti
11
D. Adorni, P. Soddu, Una difficile ricostruzione, cit.
12
D. Adorni, P. Soddu, Una difficile ricostruzione, cit.
7
L’Italia del dopoguerra 1945 - 1960
Fig. 5: esempio di schema planimetrico dai “Consigli
ai progettisti“ piano INA Casa
Fig. 6: esempio organizzativo dai “Consigli ai progettisti“ piano INA Casa
vitali e che l’affannosa ricostruzione del dopoguerra rischiava di cristallizzare nei suoi aspetti più precari, costituiscono sicuramente gli elementi più
interessanti del piano Rigotti”13. Giovanni Astengo, in particolare, si battè a
lungo sulla necessità di istituire un organo ministeriale competente in materia di pianificazione, indipendente da quello dei Lavori Pubblici, al fine
proprio di indirizzare l’urgenza della ricostruzione nella direzione di uno
sviluppo pianificato del territorio nazionale che anteponesse agli interessi di
pochi l’eticità di una rappresentazione collettiva.
Il primo strumento legislativo ricollegabile a questa tipologia normativa sarà
il Piano per l’edilizia residenziale pubblica INA Casa; indipendente e parallelo alla pianificazione ordinaria, esso diede alle richieste dell’élite intellettuale
e tecnica una ventata di ottimismo: finalmente grandi comprensori di territorio potevano essere progettati secondo i canoni della moderna urbanistica e di una architettura socialmente “equa”. Andando a posizionarsi in aree
vergini questi insediamenti volevano elevarsi a modello per l’edificazione
successiva. Purtroppo la speranza che la metodologia di questo strumento
indipendente potesse inserirsi nell’operatività corrente e ordinaria di tutti i
piccoli e grandi comuni italiani non si realizzò mai, la spinta propulsiva era
destinata a spegnersi in fretta.
Le nuove forme di insediamento nel processo di espansione della città
del dopoguerra
La spinta del modernismo e delle sue teorie tecnico-sociali sull’abitazione
portarono il quartiere a tradursi in una realtà urbana concreta di un certo
peso, solo nel secondo dopoguerra, con l’avvio della ricostruzione edilizia.
Per la prima volta nel paese architetti e urbanisti si trovarono a poter influire direttamente sull’impostazione di un piano nazionale per l’edilizia riuscendo ad affermare su vasta scala, sia nelle linee programmatiche che più
modestamente nei risultati, le ricerche e gli ideali sedimentati nell’arco di
un ventennio. Renato Bonelli14 scrive sulle pagine di un numero del 1959
della rivista Comunità, con evidente orgoglio corporativo, che si deve solo
all’azione della cultura architettonica, attraverso l’opera di pochi architetti preparati, aggiornati e attivi, quella spinta risolutiva che ha impresso un
nuovo carattere ed una propria fisionomia alla recente edilizia economica
italiana.
Risulta quindi fondamentale considerare, parallelamente allo sviluppo normativo della politica insediativa, quei fondamentali apporti metodologici e
teorici che la classe professionale diede al processo storico che ha investito
la città della seconda metà del Novecento; ciò è possibile ripercorrendo da
un alto la manualistica e la teoria contenuta sulle pagine delle riviste di settore, e dall’altra talune realizzazioni che hanno tuttora importanti caratteri
didascalici e metodologici.
In linea generale la politica urbana del momento si esprime in un principio
di accrescimento discontinuo della città fatto per nuclei; dalle isole residenziali dell’immediato dopoguerra costruite dagli IACP, e da vari enti appaltanti quali il Genio Civile, l’Incis, l’Unrra-Casas, le cooperative edilizie, si
13
D. Adorni, P. Soddu, Una difficile ricostruzione, cit.
14
R. Bonelli, Edilizia economica: politica dei quartieri, in Comunità n. 17, 1959.
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L’Italia del dopoguerra 1945 - 1960
arriva ai piccoli e grandi quartieri Ina Casa e poi agli interventi coordinati
Cep. In relazione al contesto urbano emerge la questione dell’individuazione dell’unità minima ottimale di intervento; l’isolato, l’isola residenziale, il
quartiere incarnano altrettanti possibili approcci metodologici di progettazione urbana, ciascuno contrassegnato da un diverso concetto e grado di
autonomia, da una propria entità dimensionale e qualitativa, da un significato urbano e sociale specifico ed estremamente caratterizzato. Rispetto alla
procedura d’intervento dell’edilizia privata, che continua a costruire l’isolato fiancheggiato da assi stradali, il quartiere diventa la “ricetta” dell’edilizia
pubblica.
Lo studio pubblicato nel 1952 da Adalberto Libera, La scala del quartiere
residenziale15, è il tentativo, attraverso l’esame delle prime realizzazioni, di
produrre una guida pratica per la progettazione urbanistica del quartiere e
di scrivere quindi lo status quo dell’esperienza italiana in materia. Il punto
di partenza è l’individuazione di due prototipi urbani diversi per dimensioni, caratteri, dotazioni e ruolo all’interno della città: l’unità d’abitazione e il
quartiere residenziale.
L’unità d’abitazione, dimensionata per un massimo di 1500 abitanti, “è l’organismo edilizio nella sua espressione più completa ed è nel contempo cellula
dell’organismo urbanistico”. Essa è basata su motivazioni di tipo funzionale
relative alla vita del nucleo familiare, come la possibilità di avere a disposizione, entro un raggio territoriale molto limitato (si parla di un massimo di
200 metri), tutta una serie di servizi minimi indispensabili alla quotidianità.
Offre inoltre la possibilità di contatti sociali, di relazioni di vicinato e determina il senso di appartenenza dell’individuo alla comunità.
Il quartiere residenziale viene invece definito introducendo i concetti di
“grado di autosufficienza” e “grado di differenziazione”, parametri proporzionali alle sue dimensioni e al numero di abitanti.
L’autosufficienza è una prerogativa esclusiva degli insediamenti completamente a sé stanti, ovvero di realtà urbane distanti da altri insediamenti
abitati e dotate di tutte le attrezzature primarie necessarie; solo per alcuni
servizi di carattere urbano generale esso fa riferimento al nucleo cittadino
di appartenenza.
Il “grado di differenziazione” dell’organismo quartiere è ricollegabile invece
alla scala dimensionale del nucleo abitato e all’individuazione delle diverse
parti di cui è composto; esse consistono nel centro, luogo degli edifici e degli spazi pubblici e collettivi, nella trama edilizia e nelle arterie di traffico.
Aumentando la dimensione del quartiere, sia che aumenti il numero degli
abitanti o che diminuisca la densità edilizia, sarebbe indicato, dice Libera,
introdurre un “secondo grado di differenziazione”, con la creazione di più
centri o di settori di quartieri, concepiti come unità di abitazione differenziate.
L’analisi del quartiere residenziale conduce a una meticolosa catalogazione
dei servizi e delle attrezzature in funzione del numero degli abitanti e della
dimensione dell’unità insediativa; questa dettagliatissima trattazione definisce, a partire da esperienze concrete realizzate, gli standard urbanistici ottimali per il dimensionamento delle funzioni e la loro trasposizione in aree
progettate inserite all’interno del piano di quartiere.
15
A. Libera, La scala del quartiere residenziale, in Esperienze urbanistiche in Italia, Istituto nazionale di
urbanistica, Roma 1952.
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Questo prontuario per la progettazione urbanistica verrà ripreso di lì a pochi anni per la redazione di quattro fascicoli voluti dalla gestione Ina Casa,
contenenti norme e raccomandazioni progettuali, sia urbanistiche che architettoniche, per la realizzazione dei nuovi quartieri residenziali. L’aspetto
forse più interessante delle sintesi progettuali contenute all’interno di questi
fascicoli suddivisi per tematiche, come fa notare anche Lilia Pagano16, non
è tanto il tipo di paesaggio a cui si tende, quanto il meccanismo di gestione
elaborato che riesce a introdurre nei processi di costruzione reale della città
il parametro della “forma” dei luoghi dell’abitare come concetto portante
delle scelte funzionali e quantitative, conferendo all’architettura un ruolo centrale nella definizione dei nuovi insediamenti. […] Ciò che interessa
sottolineare è che l’estrema chiarezza dei concetti base contenuti in questi
fascicoli non solo permise di ottenere un adeguamento generale degli standard tipologici e dimensionali, così come proposti negli schemi di progetto che vi erano illustrati, ma consentì la diffusione e l’affermarsi di un’idea
progettuale più complessa riguardante la qualità, la forma e il carattere del
quartiere e dell’alloggio. Sono proprio questi gli aspetti che nella sostanza
fanno risaltare, all’interno delle periferie contemporanee, gli interventi di
edilizia pubblica di questa generazione, come qualcosa di profondamente
diverso e nella maggior parte dei casi di alto livello qualitativo.
Un concetto analogo verrà ripreso, molti anni dopo, in una intervista rilasciata da Giancarlo De Carlo17, in cui egli evidenzia come nella stagione
edilizia successiva a quella in esame (ovvero a partire dalla seconda metà
degli anni ’60), quando ormai la programmazione e la realizzazione di edilizia residenziale pubblica è entrata a far parte della pianificazione ordinaria,
manchi totalmente questa componente. La mancanza di qualità e la poca
attenzione al contesto territoriale capita a quasi tutti i Piani urbanistici che
definiscono la configurazione dello spazio in termini numerali, attraverso
limiti, indici e standard, nella persuasione che questo sia sufficiente a garantire la qualità. Prosegue poi ancora dicendo che, a parer suo, per definire
la qualità è necessario usare strumenti che le siano congeniali e questi sono
solo quelli attraverso i quali si esprime la progettazione architettonica. Perciò bisognerebbe prima elaborare i progetti e poi definire di conseguenza i
piani.
Ludovico Quaroni18 in un complesso articolo, pubblicato sul numero monografico di La Casa del 1956, interamente dedicato agli argomenti della città
e del quartiere, cerca di descrivere lo “stato di fatto” nella prassi progettuale
del quartiere in quei primi anni sperimentali.
Egli parla della tendenza ad un richiamo agli spazi della società tradizionale
e in alcuni casi rurale, derivante dalla volontà di imprimere una deviazione
a quella che si vedeva come una strada degenerativa, la città storica stava
diventando invivibile, caotica, insalubre, in due parole “non moderna”; da
qui i principi, sperimentati da prima nei quartieri di edilizia pubblica, di
separazione dei traffici e dei percorsi (viabilità tendenzialmente esterna al
quartiere e pedonalizzazione del nucleo), di un abbondante uso del verde,
della tensione, attraverso il progetto di architettura, alla costituzione di una
nuova comunità all’interno della neighbour unit.
16
L. Pagano, Periferie di Napoli. La geografia, il quartiere, l’edilizia pubblica, Electa, Napoli 2001
17
G. De Carlo, Interviste ai progettisti degli interventi ERP, in Edilizia Popolare n. 175, 1983.
18
L. Quaroni, Città e quartiere nell’attuale fase critica di cultura, su La Casa, 1956.
10
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Proprio questo ultimo aspetto viene definito dall’autore “pregiudizio del vicinato”, ovvero la pretesa da parte dei nuovi quartieri di fondarsi, dice, su
un fatto vecchio quanto il mondo, una delle solide basi su cui da sempre
si basa l’agglomerato abitativo, in special modo quello rurale. Ma la critica
che egli apporta al sistema, in tempi relativamente precoci per l’esperienza
fino a quel momento condotta19, è che si sia commesso l’errore di non considerare il “rovescio della medaglia”, di non aver ovvero studiato cosa succede negli, allora attuali, vicinati d’antica tradizione, di aver riprodotto un
modello ormai condannato e di non aver provveduto in modo tale da dare
all’individuo anche la possibilità di rinunciare ai vantaggi e agli svantaggi del
sistema. In sostanza se ne deduce che il modello del vicinato, almeno quello
spazialmente costrittivo, che vede ad esempio più case affacciarsi tutte su di
un giardino comune compreso fra di esse come unico percorso di accesso,
non risponde più al modello sociale degli abitanti della città; l’unico modo
di eliminare tale degenerazione, continua Quaroni, consiste nel rigenerare il
senso sociale del modello stesso e nel non obbligare la gente a stare insieme.
Un processo progettuale che si fondi dunque su uno spazio articolato, che
possa dare la possibilità di scelta, momento per momento, fra l’isolamento
dal vicinato o la vita comune con gli altri, potrebbe contribuire all’educazione sociale.
Definendo il cosiddetto “piano del quartiere” si tenta dunque di far emergere
sia aspetti tecnici che sociologici, nell’ottica quindi di una progettazione di
tipo dinamico che contempli le mutazioni fisiche del quartiere a partire da
fattori maggiormente sociali.
La cultura architettonica nell’attuazione della “casa per tutti”
Sul piano culturale e del confronto delle idee, due aspetti, in questi anni,
avranno ricadute sul tema delle abitazioni “popolari”: il primo, di più vasto
respiro, riguarda quel moto di cultura che va sotto il nome di Neorealismo;
il secondo, in parte connesso col precedente, riguarda il dibattito intenso,
anche se destinato a esiti molto contenuti, sull’architettura, le tecnologie,
l’innovazione e le tradizioni
Neorealismo è la parola che più diffusamente indica la cultura, le poetiche,
i programmi d’arte presenti nell’Italia “dei ladri di biciclette”, nei primi anni
del dopoguerra: cinema, letteratura, pittura, architettura di quel periodo
vengono accomunati da questo termine un poco sfuggente. Se si volesse fare
riferimento a precisi criteri di delimitazione si finirebbe con l’ammettere
che il neorealismo non è che una nebulosa indistinta di fenomeni culturali,
prevalentemente letterari, molto debolmente connessi tra loro, se non da un
insieme eterogeneo di matrici comuni: dalla visione intimista e borghese di
certa letteratura anni ’30, al populismo fascista, alle eredità di Verga e della
letteratura di fine secolo. Secondo alcuni autori, un denominatore comune
indispensabile per leggere correttamente la cultura di quegli anni non può
prescindere da riferimenti al clima nato con la Resistenza e con la lotta antifascista, anche indipendentemente da questioni strettamente ideologiche
o di schieramento politico. A rigore sono più gli elementi di differenza che
19
Questa sarà infatti di lì a pochi anni, la critica più comune fatta ai progettisti, spesso dai progettisti
stessi, dei quartieri organici e in special modo neorealisti.
11
L’Italia del dopoguerra 1945 - 1960
non di omogeneità della nostra cultura leggibili in letteratura, negli scritti
di Vittorini, Levi, Moravia, Pratolini, Pavese, Calvino, Bernari, Cassola, o
nei dipinti di Guttuso, Sassu, Migneco, Cassinari, Vedova, oppure nel cinema di Visconti, Rossellini, Fellini, De Sica, Germi, Blasetti, Zavattini, o
nell’architettura di Ridolfi, Rogers, Bottoni, Aymonino, Gorio, Quaroni….
Tuttavia sono innegabili trame e fili rossi che fanno di questo periodo un
episodio unico dotato di una sua peculiare fisionomia: oltre allo sperimentalismo continuo, al desiderio di aderire a una visione del mondo propria di
nuovi protagonisti e di nuovi soggetti sociali, vi si ritrova viva la volontà di
rendere plausibile e offrire come praticabile un’idea di comunità, di collettività, di casa, di città dotate di contorni inediti, comunque antitetici a quanto
proposto nel passato recente, e questi aspetti sono diffusi e compresenti in
settori molto variegati del panorama culturale italiano in cui l’architettura
non è esente.
Per quanto riguarda invece il dibattito sull’architettura, il cantiere, le innovazioni e le tradizioni tecnologiche, il clima di quegli anni, riportato nelle poche riviste che riprendevano lentamente le pubblicazioni, era vivace,
appassionato, dispersivo e ricco a un tempo; tutto questo fino al varo della
legge Fanfani. I “maestri della prudenza“ e i novatori20 disputarono a lungo
tra loro sul destino dell’architettura, il ruolo della tecnologia, l’orientamento
della ricerca, anche in rapporto all’eredità razionalista d’anteguerra. Il Movimento Studi di Architettura MSA, legato a Milano e alla rinascente rivista
Casabella (non a caso-Continuità) attento al recupero della grande cultura
razionalista europea, si contrapponeva all’APAO, Associazione per l’Architettura Organica, legata a Roma e alla figura di Bruno Zevi, che richiedeva
un taglio netto col passato e proponeva riferimenti wrightiani e nord europei. Analogamente si contrapponevano i sostenitori del vernacolo e del
locale nei confronti di chi intravedeva, in quella congiuntura, l’occasione di
continuità delle commesse e di grande scala degli interventi, atte a far decollare l’arretrato settore edilizio nella direzione dell’industrializzazione.
Dal punto di vista dei problemi di obsolescenza si deve ammettere che la
vittoria dei sostenitori del cantiere tradizionale è stata una fortuna, anche
se gli argomenti che venivano utilizzati all’epoca erano o decisamente sbagliati o dettati da un opportunismo puramente congiunturale: un cantiere
a bassa composizione organica di capitale, proprio per la modestia dei suoi
investimenti fissi, é in grado di assorbire un maggiore numero di braccia, e
l’incremento dell’occupazione operaia è proporzionalmente maggiore. Tuttavia andava persa in questo modo l’occasione, destinata a non ripetersi, di
un consistente flusso di risorse distribuite con continuità su di un arco di
tempo rilevante, capaci di mettere in moto forme di sperimentazione e di
razionalizzazione del cantiere; erano ancora fresche, all’epoca le discussioni,
i tentativi, ma anche le esperienze (non ultima il concorso bandito dal CNR
e dal Ministero per i Lavori Pubblici nel 1945 per la progettazione di case di
rapida costruzione)21 che sull’onda del problema urgente della ricostruzione
avevano cominciato a esplorare, anche con riferimento ad analoghe speri-
20
L’espressione è contenuta in un articolo di E. Gentili, Prefabbricazione al convegno di Milano, in Metron, n°4/5, novembre/dicembre 1945, p.48, che commentava gli esiti dell’iniziativa assunta dal CNR
con un “Appello” ai professionisti per la proposizione di progetti di case prefabbricate a basso costo. E.
Peressutti in un articolo nello stesso numero di Metron, a pagina 2, parlava del convegno come di un
inutile dialogo tra sordi, divisi da posizioni inconciliabili e incapaci di un minimo di mediazione.
21
Cfr. nota precedente.
12
L’Italia del dopoguerra 1945 - 1960
Fig. 7: Firenze: quartiere Isolotto
mentazioni americane ed europee22, il problema dell’arretratezza del settore
edile e, più in generale, l’esigenza di un salto culturale molto forte in tutto il
processo che lega progettazione ed esecuzione di opere edili. A posteriori
se si confronta sia la durevolezza nel tempo, sia il problema della riqualificazione di case realizzate “in tradizionale” (spesso a setti portanti o a struttura
mista, tamponamenti in mattoni a vista o in intonaco, serramenti e infissi
in legno verniciato) rispetto a esempi di case prefabbricate con vari sistemi
negli anni ’60, è evidente che ci si trova di fronte a difficoltà più contenute.
Inoltre, sotto un profilo più generale, si potrebbe dire che il problema della
riqualificazione di questi manufatti non è tanto e non è solo un problema di
scala edilizia, ma riguarda più in generale le dinamiche secondo cui questi
complessi sono venuti interagendo, o dando le spalle, alla città così detta
“ordinaria” che cresceva loro intorno. La posizione urbana della maggior
parte dei nuovi insediamenti faceva di questi delle enclave sociali, raramente messe in relazione con la città esistente. La stessa ottica con cui vennero
pianificati e realizzati puntava alla loro totale autosufficienza, prevedendo
strutture di servizi (realizzate poi spesso in maniera tardiva e discontinua)
sovradimensionate rispetto ai canoni della città consolidata, ma che fungeranno molto dopo da serbatoi per la periferia fitta e densa dell’iniziativa
privata in cui la dotazione dei servizi al vivere, primi fra tutti gli spazi aperti
trattati a verde, saranno più che mai carenti.
I quattordici anni del Piano INA Casa e la sperimentazione dei grandi
quartieri
Fig. 8: Milano: quartiere Harrar
Fig. 9: Milano: quartiere Harrar
Nel settembre 1949 il numero 9, anno III, della rivista “Atti e Rassegna Tecnica” della Società degli Ingegneri e degli Architetti in Torino dedicava ampio
spazio alla documentazione delle prime realizzazioni del Piano “FanfaniCase” in Piemonte. La legge n. 43/’49 era stata pubblicata il 28 febbraio di
quell’anno; in sei mesi erano state progettate, appaltate e messe in cantiere
in Piemonte 1757 abitazioni, sovvenzionate con i fondi stanziati dalla legge;
su 539 cantieri, 38 erano stati aperti a Torino. La rivista illustrava 17 esempi
di realizzazioni in corso d’opera nel capoluogo e in altre città del Piemonte.
Due brevi interventi introduttivi, uno di Filiberto Guala, Presidente del Comitato di Attuazione del Piano23, l’altro di Gino Levi Montalcini mettevano
in rilievo questioni di tipo politico-gestionale e di natura tecnico-professionale intorno alle quali si sarebbe poi articolato e sviluppato il dibattito per
un lungo arco di tempo. Guala ricordava come l’obiettivo prioritario della
22
Forse la più celebre era la casa “Churchill” fabbricata a cura del Ministero Inglese dei Lavori Pubblici
al ritmo di 130.000 l’anno, ma tra le case ricovero anche la “Quonset House” utilizzata su vasta scala
dagli Americani nella guerra in Europa rappresentava un esempio interessante di casa ricovero. Esempi
più completi erano poi le case “Airoh” e Arcon”, vere e proprie truckable houses prodotte dall’industria
aeronautica inglese, anche in funzione di contenere i bruschi ridimensionamenti dei livelli occupazionali legati alla fine delle ostilità e alla concomitante contrazione dell’industria di guerra.
23
Due enti distinti, le cui mansioni finivano per sovrapporsi almeno in parte, erano al vertice dell’InaCasa: il Comitato di attuazione, responsabile delle direttive generali del Piano, e la Gestione INA-Casa,
ente autonomo con figura giuridica preposto all’esecuzione del piano sia a livello nazionale che a livello
locale. Personale dell’Istituto Nazionale delle Assicurazioni, inquadrato nella Gestione INA-Casa e in
collaborazione con gli Uffici Tecnici Erariali, forniva le stime per i passaggi di proprietà dei terreni alla
Gestione. Istituti previdenziali, quali INAM, INADEL, ENPAS, INPS, erano incaricati della esazione
dei contributi provenienti da lavoratori e datori di lavoro. Stazioni appaltanti furono praticamente tutti
gli enti pubblici operanti nel Paese sia a livello nazionale che locale: INCIS, INAIL, IACP, Amministrazioni Provinciali, grandi consorzi di imprese, cooperative. Il prezzo base a vano non doveva superare le
400.000 lire, comprensivo del costo del terreno. Gli appalti a forfait globale, anziché a misura, costituivano una innovazione rilevante per il settore pubblico.
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L’Italia del dopoguerra 1945 - 1960
Fig.10: Roma: quartiere Tuscolano, unità di abitazione
orizzontale
Fig. 11: Roma: quartiere Tuscolano, unità di abitazione
orizzontale
legge fosse l’incremento dell’occupazione e l’uso anticongiunturale del settore edile per favorire il decollo della ripresa economica complessiva del
Paese; gli intenti sociali ed economici avevano finito col prevalere su tutti
gli altri aspetti, forzando i tempi di attuazione e scontando molte difficoltà
derivanti da un difficile coordinamento di enti locali e stazioni appaltanti,
in un quadro di eredità centraliste e stataliste radicalmente alternative al
decentramento delle decisioni e alle autonomie locali.
Levi Montalcini metteva in rilievo la condizione di sostanziale inadeguatezza tecnico-amministrativa del territorio: l’assenza di quello che, in anni successivi, si sarebbe definito come autentico “regime dei suoli”. La disponibilità
di risorse economiche consistenti, una relativa snellezza delle procedure,
intenti politici espliciti nel voler dare il segno che le cose si muovevano,
finivano per “atterrare” su sistemi territoriali scarsamente attrezzati, sostanzialmente privi di strumentazione urbanistica adeguata, avvalendosi di una
cultura tecnica e professionale non sempre in grado di cogliere in tutta la
sua complessità la stratificazione culturale, prima ancora che tecnico-costruttiva, sottesa dal problema della casa e della nuova edificazione.
Il principio di autosufficienza che è stato alla base di molti interventi pubblici del periodo e in particolare per quanto riguarda la strutturazione dei
grandi quartieri degli anni ’50 e ’60, non voleva negare totalmente il rapporto con la città, ma voleva più precisamente creare nuove e diverse polarità,
nell’ottica di evitare che il costruito si allargasse a macchia d’olio avendo
come unico riferimento l’antico centro, ma creando al contrario dei nuovi
fulcri. I quartieri di nuovo impianto venivano quindi usati per gettare le basi
oltre “frontiera” e attirare poi la città in quella direzione fungendo da modelli per il costruito nuovo. Presupposto questo lungi dal realizzarsi, perché
se è vero che essi funzionavano relativamente bene finché presi singolarmente, nonostante i problemi relativi a servizi tardivamente o addirittura
mai realizzati e i difficili collegamenti con il nucleo urbano consolidato, fu
però impossibile riuscire a creare armonicità nel tessuto delle fasce di saldatura con le urbanizzazioni successive. Le differenze d’impianto tra questi
organismi riconoscibili in uno schema urbanistico di aggregazione, caratterizzati da una limitata densità edilizia, e un tessuto, quale quello della città
d’espansione, che nella migliore delle ipotesi si è invece ripetuta per isolati e
sistemi di connessione viaria sostanzialmente a griglia, se non addirittura in
maniera casuale e spontanea, ha posto il problema dell’integrazione formale
del quartiere pubblico al pari di un monumento.
Unica possibilità è forse stata quella di ricorrere alle fasce di verde, giardini,
parchi e impianti sportivi, che già all’epoca della città giardino erano prescritte per “bordare” e dividere i vari nuclei abitati.
Questi riferimenti non avrebbero dovuto essere tanto di carattere formale
o compositivo quanto legati a principi insediativi nuovi e più moderni, una
densità minore rispetto a quella della città storica, una maggiore salubrità, forme più organiche. Nei “Consigli ai progettisti”, quel sintetico manuale
edito in occasione del triennio sperimentale del Piano INA Casa (1949/51)
e di cui si è già parlato in precedenza, sono riprodotti esempi organizzativi di nuovi quartieri residenziali (figure) esplicitamente riferiti a modelli
nordeuropei: quartieri residenziali scandinavi, case olandesi su lotti gotici, permeati da intenti espliciti di democratizzazione e di modernizzazione
dell’habitat; stereometrie, angoli retti, suggestioni cubiste sono sospinte al
margine come reminiscenze sgradite del passato ventennio. Ricorrenti sono
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L’Italia del dopoguerra 1945 - 1960
i richiami all’igiene, al rispetto della privacy, alla consapevolezza di un’evoluzione in atto nei costumi e nella mentalità.
Nel primo settennio di operatività del Piano sono individuabili due linee di
progettazione urbanistica. La prima legata alle esperienze del razionalismo
europeo, la seconda alle realizzazioni scandinave e anglosassoni filtrate attraverso la scoperta dell’architettura spontanea delle varie regioni italiane.
Queste due linee di tendenza, come evidenzia Acocella24, vengono sviluppate in maniera specifica in due ambiti italiani: Milano e Roma. Nell’area
milanese, viene ripreso e rielaborato il patrimonio culturale del Razionalismo, specialmente quello tedesco, e le proposte urbanistiche degli anni ’40
collegate al Piano della Milano Verde, alle Quattro città satelliti, con l’uso di
“tracciati ortogonali, volumi puri e superfici lisce”25. Si prendano a esempio
i quartieri di Cesate, in parte il quartiere Harrar, Canton Vesco a Ivrea, Bernabò Brea e Mura degli Angeli a Genova, in un certo senso l’unità d’abitazione orizzontale di Libera al quartiere Tuscolano di Roma, se non altro per
i forti collegamenti con tutta la tematica della casa bassa a patio, di quella
casa unità che andava a formare la città orizzontale, sviluppata a Milano da
Marescotti, Diatollevi e Pagano .
In ambito romano invece il citatissimo quartiere Tiburtino ben spiega la
tendenza allo studio e alla riproposizione dell’aggregazione urbanistica di
antichi borghi medievali e in generale di insediamenti storici minori. Si vedano alcuni esempi come il quartiere Falchera a Torino, Borgo Panigale a
Bologna, l’Isolotto a Firenze, la Fiorita a Forlì, ecc…
Al di là di questi interventi per certi versi “illustri” nel panorama italiano,
molti sono i problemi legati alla vita all’interno dei nuovi quartieri. Il processo è parso difficile da difendere quando gli investimenti pubblici tendevano
a fermarsi alla sola creazione di case (nonostante i progetti fossero fortemente basati sulla presenza di servizi alla residenza, volti a legittimare la
loro valenza di nuclei organici così distanti dalla città consolidata) e quando
la maggior parte della richiesta di abitazioni era assolta dal privato. Il processo stava venendo a cadere per mancanza di forza e di numeri.
Nel 1954 si diede avvio alla sperimentazione dei quartieri CEP, i quali sarebbero nati sotto la direzione di un Comitato di Coordinamento Nazionale
per l’Edilizia Popolare e avrebbero presumibilmente avuto una dimensione
territoriale maggiore, e quindi forse anche un maggior peso urbanistico; vista la compresenza di diversi enti preposti alla costruzione si poteva anche
presumere l’insediamento di una popolazione maggiormente eterogenea. In
contesto torinese unico grande esempio di questa fase è il quartiere delle
Vallette. Questo progetto, che temporalmente si colloca circa a metà dei due
settenni del Piano INA Casa, viene concepito come vera e propria ricerca
sperimentale in un certo senso anche rivolta a recuperare gli errori fatti sul
campo con le realizzazioni precedenti. Non a caso viene redatto da uno dei
gruppi che poi opererà nella progettazione del quartiere, composto dagli
architetti Renacco, Rizzotti, Fasana, Grassi, Nicola, Raineri, un interessantissimo sondaggio ad un campione di 160 famiglie (corrispondenti al 7% dei
nuclei familiari di ogni quartiere esaminato) scelte all’interno di 6 quartieri
torinesi di diversi periodi storici e facenti riferimento a enti costruttori differenti: il quartiere di corso Racconigi (analizzato nel secondo capitolo di que-
24
A. Acocella, L’edilizia residenziale pubblica in Italia dal 1945 ad oggi, Cedam, Padova, 1979, p. 88
25
A. Acocella, L’edilizia residenziale pubblica in Italia dal 1945 ad oggi, cit.
15
L’Italia del dopoguerra 1945 - 1960
Fig. 12: Torino, via Medail, arch. M.Passanti
e P.Perona
sta ricerca), il quartiere di via Sospello (analizzato nel capitolo precedente),
il quartiere INA Casa di Lucento, il quartiere INA-Fiat del Lingotto, l’intervento su Corso Agnelli (inserito del più vasto ambito residenziale di via Dina
in parte trattato all’interno di questo lavoro di ricerca) e in ultimo il quartiere Falchera26. Le interviste miravano a mettere in luce aspetti più o meno
efficienti dei quartieri costruiti, sia a livello residenziale vero e proprio, sia a
livello delle attrezzature, sia del clima sociale e comunitario. In particolare
si indagavano quali fossero e come venissero percepiti i pregi e i difetti dei
quartieri per quanto riguardava: la viabilità sia interna che esterna al nucleo
abitato, gli spazi verdi, gli impianti fissi, i servizi (attrezzature collettive per
la vita associata) e gli edifici residenziali (tipologia e morfologia). Ancora
una volta, mutuati gli esiti dell’indagine, i professionisti si auspicavano, al
fine di rimediare al costante problema della non realizzazione dei servizi
indispensabili al vivere, o quantomeno della loro tardiva realizzazione, che
venisse messa a punto una legislazione nazionale unica per tutti gli enti che
operavano nel campo dell’edilizia sovvenzionata, e infine che al Comitato di
coordinamento per l’edilizia popolare fosse finalmente affidato il compito di
provvedere autonomamente e direttamente a tutte le attrezzature che la costruzione di un quartiere organico richiedeva: da quelle residenziali a quelle
commerciali, a quelle collettive, agli impianti, demandando alle pubbliche
amministrazioni il solo compito degli oneri di gestione dei servizi27.
Poco dopo l’istituzione dei CEP, nel 1956 venne varato il secondo settennio
del Piano INA Casa. Il processo si aprì con l’intenzione di rivedere le linee
guida che avevano strutturato gli interventi del primo periodo e di promuovere l’intervento diretto delle aziende nella costruzione di case per i dipendenti28. Due nuovi fascicoli-guida vennero pubblicati a seguito di convegni,
tenutisi nel 1956 e nel 1957, il primo approfondiva la tematica della progettazione delle attrezzature pubbliche di quartiere, inizialmente definita nel
1952 da Adalberto Libera per quanto riguardava il dimensionamento e la
localizzazione, il secondo, più ricco di indicazioni urbanistiche si concentrava su tre aspetti di primaria importanza. Il primo punto era riprendere
le tematiche che già erano state trattate con l’istituzione dei CEP, ovvero
la necessità di politiche coordinamento tra gli enti preposti, gli organi amministrativi e gli strumenti di Piano Regolatore, il secondo proporre una
densità per i nuovi insediamenti inferiore a prima, da 500 abitanti per ettaro
si voleva passare a 300; la terza e ultima parte infine era destinata alle modalità di reperimento delle aree fabbricabili e di fatto denunciava ufficialmente
l’attività speculativa generatasi all’interno dal sistema. Quest’ultimo aspetto
resterà fino alla fine del periodo, ma poi anche inseguito, come il principale
problema di tutta la politica urbana dell’INA Casa: l’emarginazione/integrazione dei nuovi insediamenti urbani all’interno della città.
Ma indagando oltre può essere interessante partire da questa vicenda di
storia italiana unica nel suo genere e destinata a non ripetersi più nel Paese (dopo la fine del secondo settennio INA l’intervento pubblico si sarebbe
ridotto a percentuali molto ridotte della produzione edilizia) per rivedere,
26
Il sondaggio è stato reso pubblico nell’articolo di N. Renacco, Indagine urbanistica su alcuni quartieri
residenziali di Torino, in Edilizia Popolare, n. 23, 1958, p. 22.
27
N. Renacco, Indagine urbanistica su alcuni quartieri residenziali di Torino, cit., p. 48.
28
L’anticipo completo dei fondi permise a molte aziende, almeno in un primo tempo, di utilizzare queste
risorse come sostegno finanziario alle proprie attività: un volano dentro al volano fu definita questa
iniziativa.
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L’Italia del dopoguerra 1945 - 1960
da un lato, presupposti e scenari entro i quali maturò e prese forma questo
progetto, dall’altro lato quali esiti, quale tipo di eredità materiale e culturale
siano tuttora riconoscibili nel panorama recente della città e dell’architettura. La famiglia che utilizzerà queste abitazioni avrà nel capofamiglia un
esempio tipico di “operaio evoluto”, unico percettore di reddito; tra le altre raccomandazioni era sottolineato l’accorgimento di sovradimensionare
leggermente la camera matrimoniale in modo che potessero trovare posto
adeguato una culla e una macchina da cucire.
Sarebbe antistorico accusare i pianificatori e i progettisti dell’epoca di non
avere colto le trasformazioni profonde che erano presenti in nuce e già stavano maturando nel costume e nella società italiana (che cosa saremmo in
grado di dire noi oggi intorno a ciò che sarà da qui a dieci anni, da qui a
vent’anni il nostro costume abitativo?); tuttavia pianificatori e progettisti italiani, sul finire degli anni ’40, sembrano disporre di una sociologia riduttiva,
poco incline a esplorare fenomeni e tendenze che si erano venuti manifestando già a partire dagli anni tra le due guerre.
In breve volgere di tempo il numero di donne in grado di confezionare in
casa un vestitino si sarebbe ridotto enormemente, soprattutto nel Nord del
Paese, soprattutto nelle grandi città industriali; quasi più nessuno avrebbe
tenuto un neonato nella camera dei genitori potendolo sistemare in una cameretta ad hoc; una famiglia con quattro figli da medio-piccola sarebbe stata considerata statisticamente anomala; lo stesso “miracolo economico italiano” sarebbe sostanzialmente sfuggito agli osservatori e alla pubblicistica,
proprio negli anni in cui si stava realizzando; se se ne é parlato è stato solo a
cose avvenute, per rievocarlo o per esorcizzarlo. Non è decisamente questo
il vero problema. Sembra invece più corretto chiedersi quali erano in quel
tempo le risorse, quali erano i limiti con i quali pianificatori, professionisti,
amministratori si dovevano misurare, e in che modo, all’interno di queste
coordinate che rappresentano comunque confini durissimi entro cui ogni
epoca e ogni stagione si trova a muoversi, sono state date o non sono state
date risposte.
Per chiarire meglio questo punto è necessario esplorare brevemente ulteriori aspetti della vicenda.
Il Tiburtino a Roma, Falchera Vecchia a Torino, Spine Bianche a Matera,
il Pilastro a Bologna, il Mangiagalli a Milano erano alla fine degli anni ’60
alcuni tra i luoghi urbani in cui si manifestavano in modo più acuto, e in
alcuni casi violento, il malessere abitativo, la rabbia per l’emarginazione, il
rifiuto della segregazione. I toponimi stessi assumevano il connotato di “città sbagliata”, di ciò che non si sarebbe mai dovuto fare. Il fatto che tra i progettisti di quei quartieri di edilizia pubblica comparissero i nomi di alcuni
tra i migliori progettisti italiani, da Ridolfi a Gorio, da Astengo a Passanti,
dagli allora giovani Aymonino e De Carlo, ad Albini, solo per citarne alcuni,
rendeva ancora più inquietante il fenomeno, almeno agli occhi di chi aveva
a cuore questioni di architettura e urbanistica.
Ma gli anni delle case e delle città non coincidono con gli anni degli uomini.
Passata la grande ventata di lotte, alienato a privati il patrimonio pubblico
dell’INA (spesso senza alcuna seria verifica delle reali condizioni economiche degli acquirenti) questi “pezzi” di città sono oggi davanti a noi e non è
affatto andata perduta, là dove era stata spesa, la volontà di impegno professionale e civile di chi li ha progettati e realizzati.
La storia dell’INA-Casa è piena di aspetti controversi; il lavoro serio di molti
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L’Italia del dopoguerra 1945 - 1960
si è intrecciato con la fretta e con l’approssimazione, la volontà di futuro con
la miopia, l’intento di promozione civile con l’opportunismo; è una storia
molto italiana, che suscita la curiosità e la voglia di capire unite nella solita
ricerca incerta di significati e di ragioni. Si è trattato di un caso relativamente isolato di messa a punto di un programma di intervento pubblico
in edilizia capace di trasformare in case un patrimonio non indifferente di
risorse. Furono investiti 930 miliardi di lire, realizzando 355.000 alloggi, pari
a 1.920.000 vani su tutto il territorio nazionale: il 62% al centro-nord, 38% al
sud; il costo medio a vano è stato di 484.375 lire, a conferma che la stima di
300.000 lire a vano era ancora ottimistica.
I lavoratori contribuirono al sostegno finanziario del Piano, in media, per il
25%; i datori di lavoro per il 39%; lo Stato, da una quota iniziale del 32% scese
nel secondo settennio al 13,9%, a dimostrazione del fatto che chi governava
il Paese riteneva che il ruolo propulsivo dell’intervento pubblico fosse in sostanza da archiviare, essendo esaurito il suo ruolo di innesco di un processo
che andava affidato, da quel momento in poi, in esclusiva al settore privato.
Tra gli esempi di case INA a Torino, documentati sul numero di Atti e Rassegna Tecnica citato all’inizio del paragrafo, c’è un edificio progettato da
Mario Passanti e Paolo Perona per i dipendenti torinesi del gruppo Sip e
Consociate: è una casa a quattro piani fuori terra e due alloggi per piano, realizzata tra i prati che a quel tempo bordavano il margine Nord occidentale
del vecchio Borgo San Donato. Oggi è una casa tra le altre, ma non sfugge
a un occhio attento il suo tono dignitoso e un poco austero, tra gli edifici
anonimi e vacuamente pretenziosi che le sono cresciuti attorno. Alla casa
non si accede dalla strada principale ma da un cancello che delimita, lungo
la via traversa, il lotto di pertinenza. Si accede quindi dal cortile come in una
qualsiasi neighbour unit degna di questo nome. La sistemazione a giardino
con alberi di alto fusto che, negli intenti dei progettisti, doveva celare almeno in parte “la non gradevole vista della casa da quel lato” è sparita per fare
posto a una decina di auto.
La realizzazione di maggiore portata negli anni 1955/58 è il Quartiere Falchera, sorto tra i prati a 12 km dal centro cittadino, e formalmente aggregato
ai dispositivi del Piano di Ricostruzione come zona di espansione. Il complesso è inizialmente costituito da 22 fabbricati per 4271 vani in 917 alloggi costruiti dallo IACP e da altri Enti per conto della Gestione INA-Casa;
successive integrazioni porteranno a 1446 alloggi e circa 6000 abitanti. Nei
gruppi di progettisti, coordinati da G. Astengo che redige il piano urbanistico
dell’intervento, sono presenti molti tra i migliori progettisti torinesi, da M.
Passanti e P. Perona, a G. Becker, a N. Renacco e A. Rizzotti, ma le splendide
texture di mattoni faccia-vista che possiamo ancora ammirare suscitarono,
come in altri casi, motivo di scontento tra i destinatari che ritenevano le case
non finite. Assurto a simbolo del disagio abitativo, dell’emarginazione e della
segregazione urbana, questo quartiere testimonia ancora oggi, soprattutto
nei confronti della periferia che gli è cresciuta intorno, gli intenti e la cura
progettuale con cui fu concepito, e le trasformazioni capillari che hanno
coinvolto gli edifici, dalle verande alle tinteggiature, non hanno cancellato
il significato ambientale e civile delle grandi corti alberate e aperte, bordate
dalle spezzate di case di altezza contenuta.
Altro intervento relativamente cospicuo è la realizzazione di cinque fabbricati, per 165 vani, in Borgata Pozzo Strada nel 1956.
18