Un passo indietro

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Un passo indietro
Un passo indietro
Non intendevo riempire il calice per donargli un sorriso da utilizzare per risollevare il mio umore. Lo rigirai fra le mani studiandone le forme. Rotonde, prive di asperità. Ne studiai le trasparenze
ponendolo fra il mio sguardo e la luce del sole, leggermente ingrigita da una fitta nuvolaglia. Era tutto imbrattato dalle mie impronte.
Lo maneggiai con un tovagliolo di carta alitandovi sopra e ripulendolo perfettamente. Lo ripassai davanti alla luce del sole. Era
trasparente, lucido.
Lo posi davanti a me, incerto se riempirlo. Decisi di no. Poi
cambiai idea. Presi una bottiglia di latte fresco e ne versai due
dita. Il sorriso si agitò fino a fermarsi, perfettamente dritto, morbido, pannoso.
Il profumo del latte attirò una mosca che si posò sul bordo. La
scacciai infastidito e stesi il tovagliolo sul bordo. Pareva un berretto, ma un po’ troppo teso. Ne piegai i lembi, ma ritornavano su
perfettamente dritti. Avevo bisogno di qualcosa che li tenesse giù.
Il pensiero andò alla credenza della cucina, dove avevo notato un
copritazza di alluminio con una scanalatura a lato per infilarvi il
cucchiaino e in cima un pomellino per afferrarlo.
Sarebbe stato perfetto. Lo posai sul calice. Sembrava fatto su
misura. Il tovagliolo si piegò ai quattro lati. Pareva un foulard. O,
meglio, un fazzoletto per tergere il sudore. Aveva un’aria vagamente
coloniale. Lo fissai. Lo rigirai cercandone il retro, il profilo. Ma non
era possibile individuarlo. Mi serviva un riferimento. Con la punta
del coltello accarezzai il panetto di burro che era là e che avevo
intenzione di spalmare su crostini caldi appena sfornati. Spalmai
quel velo di burro sul calice disegnando due occhi strampalati. Lo
ripresi e lo fissai, stavolta sapendo dove guardare. Mi soffermai sulla forma del calice. Avevo bisogno di un altro bicchiere che andai
a prendere in cucina. Lo affiancai all’altro, lo rigirai. Poi levai il
copritazza e il fazzoletto, appoggiando, in equilibrio precario, i due
bicchieri, l’uno sul bordo dell’altro, e mi soffermai sulla forma geometrica che i due calici formavano. Era una ellisse, perfetta. Levai
il secondo bicchiere e rimisi tovagliolo e copritazza. Ridisegnai gli
occhi e guardai il mio lavoro terminato.
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“Ellis… buongiorno, mi fai compagnia mentre faccio colazione?”
Ellis assentì silenziosamente. Lo appoggiai di fronte a me e iniziai a sorseggiare un caffè dialogando con il mio nuovo amico.
Il trillo del telefono cellulare mi distolse dalla conversazione.
Chiesi scusa a Ellis e presi il telefono guardando il display per individuare chi mi stesse chiamando.
Veronica Sky, così avevo memorizzato e così lessi.
Lasciai squillare, meravigliato della telefonata, incerto su quale
tono assumere. Decisi. Mi alzai e impostai il busto.
“Pronto, chi parla?” risposi, fintamente indifferente.
“Ma come? Non aveva memorizzato il numero?”
“Prego? Un attimo” finsi di guardare il display. “Certo, scusi,
Veronica, avevo risposto senza guardare. Come mai questa telefonata?”
“Avvocato, mi deve scusare, la chiamo perché ho bisogno di
lei.” La sua voce era stranamente suadente, sommessa, per nulla
aggressiva.
“Di me? In che senso, scusi?” mi pavoneggiavo, ma ero incuriosito da quella necessità.
“Io, io” balbettava “io sono nei guai con la giustizia. Si dice
cosi, vero? Insomma, non mi fido del mio avvocato. Mi dice sempre
che va tutto bene. Poi ogni tanto mi telefona e mi comunica che le
cose vanno male. Mi chiede un fondo spese per raddrizzare le cose
e le raddrizza. Poi le cose tornano come stavano prima. Cioè male.
E io fra un po’ ” iniziò a singhiozzare “fra un po’ rimango senza
casa.”
Il pianto prese il sopravvento. Lasciai fare anche perché non
sapevo che dire, non sapevo come aiutare quella donna che era convinta che fossi un avvocato.
Quando avvertii che si era sfogata osai: “Veronica.”
“Sì” singhiozzò.
“Ma lei lo ha già un avvocato. Io non posso.”
“Io non voglio che lei lo sostituisca. Insomma, lei mi è sembrata
una brava persona, con tutta quella storia del decoder a pagamento, non mi sembra uno che vuole spillare quattrini. È che mi sento
presa in giro e non capisco se sono in buone mani o se alla fine mi
troverò povera oltre che senza casa. Voglio solo che guardi le carte.
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Voglio un suo parere. La prego, solo quello. Sono disposta a pagare,
il giusto, ma la pagherò.”
Ero fortemente imbarazzato. Non sapevo cosa avrebbe risposto
un vero avvocato in quella circostanza. Tentai di prendere tempo
chiedendole se si era calmata e facendo inverosimili domande sullo
stato della causa. Dalle risposte capii che era più preparata di me
in questioni di diritto.
Alla fine dissi la frase più sbagliata della mia vita.
“Va bene, vedrò le carte…” fin qui tutto bene, ma mi lasciai
prendere dalla mano “Le porti al mio studio.”
Non avevo nessuno studio, tanto meno di avvocato.
“Anzi no” interruppi il silenzio che precedeva la risposta prima che lei potesse chiedermi dove fosse. “Meglio di no, lo stanno
ristrutturando. Ci vediamo, mi faccia pensare.” Tentai di farmi venire in mente un posto pubblico dove incontrarla, ma le mie scarse
frequentazioni non lasciavano spazio a molte ipotesi. Pensai al bar
di Armando, ma sorrisi per quella soluzione. Poi, improvvisamente,
smisi di pensare da falso avvocato e prese il sopravvento il cacciatore, il conquistatore, il playboy e per la mia mente passarono
ristoranti in riva al mare, molto suggestivi, pub con luci soffuse, e
ne nominai uno, che non avevo mai frequentato, ma che sapevo da
Daniele essere posto dove le donne si scioglievano.
Doveva saperlo anche Veronica che, riprendendo contegno, rispose: “Avvocato, non mi sembra il posto adatto per parlare di lavoro. Facciamo così, le mando un fax o gliele spedisco, come vuole lei,
poi ci sentiamo e mi dice che ne pensa. Va bene?”
Doveva andar bene per forza o non avrei fatto figura peggiore,
se mai fosse stato possibile. Non avendo un numero di fax, se non
quello dell’ospedale, le confermai l’indirizzo di casa che lei già conosceva. Ci salutammo cordialmente.
Guardai Ellis. Dallo sguardo sornione compresi quanto avevo
gestito male quella telefonata.
“Io non sono un avvocato” mi giustificai. Un occhio di burro scivolò lentamente giù. La scusa non era valida. Se volevo conquistare
quella donna, avevo fatto un clamoroso passo indietro, pur essendo
ancora al punto di partenza.
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