Pdf Opera - Penne Matte
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PERCHÉ SIAMO UMANI Il riflesso nello specchio del bagno era l'esatta copia di quello che sentiva dentro. Il suo volto era magro, scavato, gli occhi infossati in mezzo al nero. Alan era allo stremo. Avrebbe voluto abbandonare tutto, rimanere chiuso in casa e straziarsi da solo. Eppure non poteva rinunciare. C'era troppo in gioco, la sua missione era troppo importante. Il tuono rimbombò in lontananza. Quanti ne erano scoppiati quella mattina? Cinque? Forse sei. Alan intinse la spugna nel vasetto del cerone, poi la strofinò sul volto. A ogni passata, la stanchezza svaniva, l'oscurità veniva imprigionata. Era la sua protezione, l'armatura che gli dava la forza di andare avanti. Davanti a lui ora c'era un viso spettrale, l'espressione triste in mezzo al bianco. Poi prese il pennello. Tracciò linee rosse sopra gli occhi e attorno alle labbra. Infine la matita nera, che terminava il rituale mattutino. Si infilò la parrucca arancione sopra la testa, con quei riccioli che gli solleticavano di continuo il collo. Un fastidio che sopportava volentieri. Spostò coi piedi alcuni calcinacci per terra e ripose il set del trucco nell'armadietto sulla parete. Era di nuovo storto. Colpa delle vibrazioni, forse? Alan tornò allo specchio. Infilò la mano in tasca ed estrasse il naso finto. Tondo. Rosso. Lo stesso colore… meglio non pensarci. Non avrebbe fatto altro che allargare la voragine che due giorni prima gli si era aperta in mezzo al petto. Se lo mise addosso, cancellando ogni pensiero. Il clown era tornato, pronto a portare un pizzico di allegria per chi ne aveva più bisogno. … Sua madre lo aspettava sulla soglia, come sempre. Una maschera di rughe distorte dall'ansia. Era china, col peso della preoccupazione sulle spalle. Stava appoggiata alla porta mezza divelta, col sacchetto del pranzo in una mano e l'astuccio dell'ocu-navigatore nell'altra. «Vai anche oggi?» disse. «Devo» rispose Alan. Povera donna. Non avrebbe mai voluto metterla in quella situazione. «Prendi almeno questi.» «Ne hai abbastanza per te, mamma?» «Non ti preoccupare. Ci dev'essere ancora qualcosa in cucina.» Mentiva. Ma era inutile stare a questionare, lo sapeva bene. «Prendo solo la busta, la lente è tua.» «Non esiste. Io sto qui in casa, tu sei là fuori. Non ti faccio uscire senza.» Alan sospirò. Poi prese tutto e le diede un bacio sulla guancia. La morsa allo stomaco era intollerabile, non poteva rischiare di piangere. Avrebbe rovinato il trucco. Uscì senza voltarsi. … I detriti del giorno prima erano stati rimossi. I ripulitori continuavano a fare il loro lavoro, nonostante tutto. I palazzi erano scheletri abbandonati, la gran parte della gente che li abitava era riuscita a fuggire. Erano rimasti in pochi nel quartiere. Alan tentò di dare un calcio a uno dei sassi rimasti sull'asfalto. Lo mancò. Era difficile coordinarsi con quelle scarpe così lunghe. Sospirò, poi aprì l'astuccio. La lente galleggiava nel liquido ricaricante. L'indicatore segnalava che le nano-batterie erano al massimo. Forse sarebbe riuscito a usarla tutto il giorno senza che si scaricasse. La prese con delicatezza e la appoggiò sull'occhio destro. Sbatté le palpebre due volte per attivarla. Il reticolo del navigatore si sovrappose alla strada, lampeggiando in ricerca del segnale GPS. Ci sarebbe voluto un po'. Alan si mosse sul marciapiede fino al termine della via, poi svoltò a sinistra con circospezione. Non c'era nessuno, solo le carcasse delle monovetture cittadine. Si ricordava ancora quando aveva guidato la sua per la prima volta, sei anni prima. Le turbine ioniche che rombavano alle sue spalle. La distorsione magnetica che faceva rimbalzare via la pioggia anche nelle giornate più brutte. Ne aveva fatta di strada con quella. Dopo che si era rotto il sistema di levitazione non l'aveva fatta riparare. Non c'erano i crediti per farlo, ma dopotutto non avrebbe avuto senso. Se fosse stata funzionante, gliel'avrebbero requisita. Il GPS faceva fatica ad allinearsi. Forse dipendeva dalle nuvole dense che saturavano il cielo. Il bollettino non prevedeva pioggia per quel giorno, eppure erano tanto scure da far quasi pensare che i meteoracoli avessero sbagliato le previsioni. Un nuovo tuono provenne da Est. Il terreno vibrò un secondo più tardi. L'ansia cominciò a salire. Perché quella dannata lente non funzionava? Era pericoloso andare in giro senza informazioni. Senza volerlo si mise a correre. Svoltò alla prima traversa e quasi inciampò tra i detriti per terra. Qui non erano ancora passati a pulire. C'era una bambola di pezza in mezzo alla polvere, forse persa da qualche ragazzina spaventata. La raccolse. Poteva tornare utile. Il navigatore smise di lampeggiare e la solita musichetta metallica gli risuonò nei timpani. Prego, configurare la destinazione. «Via Ampère, Milano» disse. La linea verde del tragitto si formò sopra l'asfalto. Gli indicatori di sicurezza erano in stato medio. Piccoli bagliori rossi sfarfallavano deboli verso Est. La via era sicura. … Alan piegò l'ultimo palloncino con un po' di fatica. Lo legò e poi lo porse ad Antonio, otto anni, corporatura robusta e sorriso sempre stampato in faccia. Il cane gli era uscito un po' sbilenco, ma lui non era mai stato bravo in quello. Lei invece… Si sforzò di sorridere e sperò che i bambini non si accorgessero di nulla. Aveva di fronte metà dell'istituto di affido temporaneo. Gli altri erano fuggiti o scomparsi. Bambini sfortunati, a cui il destino aveva tolto tutto, o quasi. Erano in venti, perlopiù orfani, anche se alcuni avevano almeno un parente vivo, ma che stazionava alle postazioni difensive. Un posto pericoloso dove stare in questi giorni. Il pavimento vibrò per una manciata di secondi, gli alogeni sfarfallarono sulle pareti. «È stato un tuono, vero?» balbettò Ibrahim, nove anni, pelle olivastra e la gamba ondeggiante in un moto ansioso perenne. «A quest'ora? Non credo proprio!» mentì Alan. «Secondo me è Babbo Natale con la sua carrozza metropolitana che sta facendo le prove generali per dopodomani.» «Mio fratello mi ha detto che Babbo Natale una volta entrava dai tetti e non dai tombini» disse Choi, dieci anni, un ragazzino dai tratti asiatici, magro come uno stecco con una camicia a fiori troppo grande per lui. «Certo! Una volta era così, ma da quando in cielo non si può più volare ha pensato bene di trovare un nuovo modo per portare i regali ai bambini coraggiosi.» «Ci saranno anche per noi, maestro Alan?» domandò Sabrina, sette anni, capelli in trecce rosse e volto pieno di lentiggini. «Ovvio che ci saranno anche per voi. Anzi, mi ha dato un piccolo anticipo! Però dovete promettermi di usarlo un po' per uno. Posso fidarmi di voi, vero?» Alan infilò la mano nello zaino e attese. «Sì, maestro Alan!» risposero tutti in coro. «Bene! È un po' impolverata perché ha fatto tanta strada per venire qui, quindi non badateci troppo.» Estrasse la bambola che aveva trovato prima e la porse alla bambina. Gli occhi di Sabrina si spalancarono. Gliela strappò di mano e cominciò a giocare assieme ad Alessia e Gabi. «Maestro Alan, ma dov'è la maestra Sheba?» domandò Ibrahim, che ancora guardava i pannelli delle finestre sprangati in alto ai muri. Una fitta in mezzo al petto. La voragine diventò un abisso. Che cosa poteva rispondergli? «Ora la maestra Sheba è con gli aiutanti di Babbo Natale» intervenne Cristina, quattordici anni, la più grande del gruppo. «È molto impegnata e non si sa quando potrà venire.» Cristina sorrise al ragazzo, poi fece un cenno d'intesa verso Alan. Lei sapeva. Doveva aver sentito il bollettino. Alan la ringraziò col pollice in alto. Eppure la tristezza stava scavando dentro alla corazza del clown. Doveva uscire di lì alla svelta o sarebbe crollato. Estrasse l'oloproiettore e lo fissò alla cattedra. Con tre battiti di ciglia impostò la lente oculare in modalità display e premette il tasto di avvio. L'ologramma di Topolino comparve in mezzo ai ragazzi. Ciao ragazzi! Siete pronti per accompagnarmi in qualche avventura? «Sììì!» risposero in coro tutti. Topolino cominciò a raccontare una storia, mentre sulle pareti prendevano forma le immagini della narrazione. Una casetta in cima a una collina, la cuccia di Pluto e l'auto sgangherata di Pippo. Alan si avvicinò a Cristina e portò le labbra al suo orecchio. «Esco cinque minuti a prendere una boccata d'aria» «Non preoccuparti, maestro. Li guardo io.» C'era pietà nei suoi occhi. Cristina era cresciuta troppo in fretta. La sua adolescenza non gliel'avrebbe ridata nessuno. … Alan uscì dalla porta di servizio dopo aver percorso le scale tutte di un fiato. Pensava di farcela, invece era già crollato la prima volta che i ragazzi l'avevano nominata. Come avrebbe fatto senza Sheba? Era troppo per lui. Ricacciò le lacrime a stento. Con le dita tremanti prese una sigaretta e l'accese con grandi boccate. Il cortile interno era in stato pietoso. C'erano cumuli di sporcizia ovunque e alcuni calcinacci che ostruivano l'apertura del cancello tutto arrugginito. Alzò lo sguardo verso il palazzo di fronte. Una signora anziana di colore buttò giù dei liquami con un secchio. Lui le sorrise. Lei ricambiò con una smorfia e richiuse gli scuri. Poi scoppiò il tuono. Un altro dopo pochi secondi. Un altro ancora. La terra vibrò come in un terremoto. Che cosa stava succedendo? Non ce n'erano mai stati così tanti in rapida successione. Alan si ritrovò a fissare il cielo. Gli edifici bloccavano la visuale. Del fumo cominciò a salire da Est, troppo vicino per essere al di là delle postazioni difensive. Alan sbatté due volte le palpebre per far uscire la lente dalla modalità di riproduzione. Poi scorse i comandi fino al navigatore. I secondi passarono con una lentezza omicida. Alan tentò invano di tenere i piedi fermi che parevano avere vita propria. La sigaretta giaceva a terra in una striscia di cenere. Il GPS si allineò. Il rosso lampeggiò in ogni direzione. «Bollettino!» urlò mentre l'ansia si stava trasformando in panico. Il messaggio comparve in sovraimpressione. Evacuare. Le sirene lanciarono le loro grida asincrone. I bambini! Alan si voltò di scatto e la porta si spalancò all'improvviso, quasi sbattendogli sulla fronte. Cristina stava davanti a lui, il piccolo seno che si alzava e abbassava a un ritmo impossibile. «Che sta succedendo?» domandò. «Hanno sfondato! Dobbiamo chiudere tutti nel rifugio.» Una macchia colorata passò alle spalle della ragazza, salendo verso l'uscita principale. «Cristo, Choi!» Alan scattò dentro la tromba delle scale e lanciò un'occhiata a Cristina. «Raduna tutti nel bunker. Io lo prendo e arrivo subito!» Saltò i gradini due a due, cercando di guadagnare terreno. Choi era già arrivato alla porta a vetri. Alan accelerò, poi qualcosa gli bloccò il piede. L'urto col pavimento gli tolse il fiato. Una fitta penetrante gli risalì la gamba dal ginocchio. Fottute scarpe! Se le l'inseguimento. sfilò in qualche modo e riprese Uscì all'esterno, il cielo invaso dal nero. La puzza degli incendi già si sentiva nell'aria. Choi era più avanti, al termine della via. Alan zoppicò verso di lui, ma faceva fatica a stargli dietro. Il ragazzo sparì sulla destra, oltre la serie di palazzi che nascondeva la fermata della metro di Piola. Dove cazzo stava andando? Forse voleva raggiungere il fratello alla guarnigione di piazzale Loreto. Dopo una decina di falcate il dolore al ginocchio diventò tollerabile. Alan pestò dei calcinacci, ma ignorò il fastidio. Girò in via Pacini, stando rasente alle barricate erette sullo spartitraffico centrale. Choi era un puntino in lontananza, che sparì un istante dopo in mezzo alle decine di persone che si stavano riversando in strada. Alan proseguì controcorrente, superando un gruppo di anziani guidati da una suora combattente del Sacro Ordine. Tutti andavano nella direzione opposta alla sua. Eppure L'Est era dall'altra parte… Un mezzo militare sbandò da una traversa di viale Gran Sasso, carico di soldati con esoscheletri da combattimento e fucili al plasma. Si fermò in mezzo alla carreggiata di traverso, i lampeggianti verdi e bianchi sul tetto pulsavano in un ritmo serrato. Altri cinque camion articolati scesero dalla via, gli ultimi due bloccarono totalmente quel che restava del passaggio. Un militare in divisa scese dal primo abitacolo con un nanofono attaccato alla guancia. «Sono il sergente Lanzafame» esclamò, la voce amplificata echeggio contro i palazzi ormai abbandonati. «Tutti i civili devono salire sui mezzi e lasciare la zona seduta stante. Sarete trasportati nell'Area C, dietro la nuova linea di difesa perimetrale.» Un nuovo boato esplose a Est. Seguito da due scie che spaccarono a metà le nubi. Una colonna di fuoco si alzò sopra la cima dei palazzi a Nord. Il tempo di un respiro, poi una violenta onda d'urto investì la zona. Alan si ritrovò a baciare l'asfalto, con un fischio continuo nelle orecchie e punti luminosi davanti agli occhi. «Salite sui mezzi, ora!» continuò Lanzafame. Alan si alzò a fatica. Aveva le nocche sbucciate e bruciavano come fuoco vivo. Choi, dov'era finito? Gli sfollati stavano già dirigendosi verso i camion. Si guardò ancora attorno, poi lo vide. Era in braccio a un soldato dai tratti asiatici. Forse aveva trovato il fratello. Qualcosa lo tirò indietro, mandandolo a sbattere contro a un lampione. «Ma come cazzo ti sei conciato?» ringhiò Lanzafame. Il suo alito sapeva di cipolle e curcuma. «C… Come, scusi?» rispose Alan. «Credi che sia uno scherzo? Secondo te quello che sta succedendo è una pagliacciata?» «No, signore…» «Ci sono persone che si ammazzano per voi e tu te ne vai in giro come se fosse il fottuto e merdoso carnevale?» Lanzafame lo incenerì con gli occhi. Il suono di alcuni spari si alzò da Piazzale Loreto. «Merda!» Lanzafame lo lasciò andare e corse verso i camion. «Tutti su, presto.» Alan non ebbe neanche il momento di riordinare le idee. I mezzi gli sfrecciarono di fianco, con il sergente che saltò al volo sull'abitacolo. Choi lo fissò da uno dei finestrini blindati, con le lacrime agli occhi. Almeno lui era salvo. I soldati con esoscheletro cominciarono a rispondere al fuoco. Il primo droide di fanteria emerse dagli sbarramenti, ma esplose dopo quattro colpi di fucile. Alan si girò e corse indietro verso via Pacini. Doveva raggiungere il bunker prima che fosse troppo tardi. I rumori della battaglia alle sue spalle diventarono una sinfonia di spari, urla e boati. Superò la fermata della metro, poi un fischio. Un'ondata di calore gli investi la faccia. Una forza dirompente lo sbalzò all'indietro e tutto divenne nero. … Sheba si allontanò da lui col sorriso che gli faceva sempre sciogliere il cuore. Aveva ancora il suo sapore sulle labbra. Alan la abbracciò e la baciò di nuovo, rigirandosi nelle lenzuola. Adorava quel corpo d'ebano, la luce che si rifletteva sui suoi seni perfetti. «Dai, abbiamo appena finito. Non dirmi che ne vuoi ancora» disse lei, scostandosi un poco. «Sai che non mi basti mai.» Le afferrò il sedere e la tirò ancora di più a sé. «Scemo!» Sheba lo picchiettò sulla fronte con le dita. «Va bene. Però ce ne stiamo a letto a fare nulla. I tuoni sono finiti da un bel pezzo.» «Ti ricordi, vero, che sono bombe? A furia di raccontarlo ai bambini non vorrei che te ne fossi dimenticato.» «A proposito di bambini.» Alan la lasciò andare, poi si girò a prendere una sigaretta. «Ho sentito che hanno trovato un magazzino con dei giocattoli dopo Lambrate. Mario mi ha detto che possiamo prendere qualcosa per l'istituto. Visto che la situazione pare calma magari posso farci un salto.» Sheba gli scoccò un bacio sulla guancia. «Bella idea. Ma ci vado io. No, non farmi quella faccia! Tu hai fatto il doppio turno oggi. Devo già vedermi con Mario tra un'oretta, mi ci faccio portare.» «Sei sicura? Guarda che non mi pesa.» «Vai tranquillo. Tu fatti una dormita, poi ti sveglio quando torno per il secondo round.» … Alan si svegliò di soprassalto. Il cervello pareva volergli uscire dal cranio. Gli occhi pulsavano e non ci sentiva dall'orecchio sinistro. Era seduto su una sedia, davanti a un tavolo pieghevole di metallo. Un led giallo lampeggiava da un macchinario medico alla sua destra. Aveva sognato Sheba, l'ultima volta che l'aveva vista. Non era mai tornata da quel cazzo di magazzino. Alan si lasciò andare, con le lacrime che gli inondarono la faccia. Ora del trucco non gliene fregava più nulla. I singhiozzi gli risalirono dal petto e a ogni sussulto le costole lanciavano una fitta penetrante. Due droidi entrarono nella tenda. Erano due repliche umanoidi, di acciaio temprato e titanio. Sul loro petto spiccavano i tre bracci della svastica. Alan rimase senza fiato. Erano i nemici. Era loro prigioniero. «Cosa volete da me?» domandò, irrigidendosi sopra la sedia. Falsche anfrage, umformulieren in der richtigen sprache, risposero le macchine in coro. Non aveva capito una parola. Un uomo entrò a sua volta e si fermò dall'altra parte del tavolo. Indossava una divisa lunga, senza il minimo segno di polvere sopra. Aveva il mento squadrato, gli occhi neri e un'espressione divertita. «Hier ist mein clown» disse, sorridendo. «Non capisco quel cazzo che dici» ribatté Alan. Non sarebbe uscito vivo di lì, già lo sapeva. Tanto valeva tenere la testa alta. L'uomo lo fissò, poi gli andò a fianco e gli infilò qualcosa nell'orecchio facendogli un male del diavolo. «Ora mi capisci, sì?» domandò quello, tornando a sorridere. «Cosa c'è di tanto divertente, me lo spieghi?» «Ma tu, non è ovvio? Non è da tutti i giorni trovare un clown in mezzo alla guerra.» «Cosa vuoi da me?» «Ero solo curioso. Come mai sei vestito così?» Alan sputò verso di lui. «Che carattere. Dovresti farmi ridere, non farmi arrabbiare. Non devi essere molto bravo come clown. Forza, rispondi alla domanda.» «Per i bambini. Per dar loro un momento di pace in questa merda che voi avete creato.» «Suvvia, ci prendiamo solo quello che una volta era nostro. Per i bambini dici? Ma perché un clown? Ci sono tante altre cose forse più divertenti.» Perché questo stronzo xenofobo ci teneva così tanto a sapere queste cose? Che c'era sotto? Rispondi, dissero i droidi in sincro. Il tono piatto, impersonale. Sapeva di minaccia. «Ho trovato un vecchio post sul blog di mio nonno. Parlava di un uomo vestito da pagliaccio che portava speranza durante un assedio in medio oriente.» «Capisco. È tutto. Rilasciatelo in zona franca.» I droidi si mossero all'istante, prendendo Alan per le braccia. «Cosa? Mi lasciate andare?» «Certo, Herr clown. Contrariamente a quanto ti hanno detto, noi non siamo mostri.» «Perché le domande? Cosa volevate sapere da me?» «Solo una mia piccola indagine. Una conferma, semmai.» «Conferma di cosa?» «Che la storia è ciclica, non è chiaro il concetto? Prima o poi tutto torna. Guarda te, per esempio. Hai fatto la stessa cosa dell'uomo che morì ad Aleppo nel duemilasedici.» Alan si irrigidì di colpo. «Conoscete la storia?» «Io so molte cose, Herr clown.» «Sapete anche che la seconda guerra l'avete persa?» «Tutti lo sanno, ma non è detto che questa volta il risultato sia lo stesso. Chi può dirlo? Solo il futuro potrà risponderci.» L'uomo si sistemò il cappello e schioccò le dita. I droidi si mossero verso l'uscita. «Lasciatemi in via Ampère!» gridò Alan. «Devo tornare dai bambini.» L'uomo si girò, gli occhi tristi questa volta. Diede un rapido comando e i droidi lo lasciarono andare. «Non penso che sarà possibile. Non esiste più una via Ampère.» Il vuoto calò su Alan. Poi la voragine lo spaccò in due. Morti. I suoi bambini erano tutti morti. La rabbia soffocò ogni altra sensazione. Si alzò di scatto e si scagliò contro l'uomo, urlando con tutte le sue forze. Uno stridio metallico. Il suono di ossa che si spezzano. Alan crollò al suolo a una spanna dal suo bersaglio. Non sentiva più nulla dal collo in giù. In bocca gli esplose il sapore del sangue. La gamba del droide si fermò alla sua destra. Alan tentò di alzare lo sguardo, ma non riusciva a muovere null'altro che la bocca. «Perché lo fate?» balbettò, mentre il nero avanzava ai margini del suo campo visivo. «Perché avete distrutto tutto?» L'uomo si abbasso sulle ginocchia, ora era solo una macchia scura. «Perché siamo umani, Herr clown. È nella nostra natura.»