Donne della Bibbia

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Donne della Bibbia
di Sr Grazia Papola
Donne della Bibbia
Matera 10 ottobre 2007
Le formelle rappresentano un itinerario che porta a Maria.
In Maria si concentra ed esprime il suo frutto più maturo la storia precedente del popolo dell’alleanza. La fede
cristiana ha scorto delle prefigurazioni e delle anticipazioni di Maria nelle madri di Israele (Sara, Rebecca,
Rachele, Lia), nelle sue eroine (Miriam, la sorella di Mosè, Debora, Giaele, Giuditta, Ester), nelle sue figlie
favorite con il dono di una maternità straordinaria.
Per la fede e la riflessione cristiana Maria rappresenta lo sbocciare di Israele, in continuità perfetta e
trasfigurata, nell’assemblea della nuova alleanza, la Chiesa.
Portando a compimento il senso di tante anticipazioni e preparazioni dell’Israele a statura piena, Maria non
cancella, né pone in ombra, né si sostituisce a nessuna di esse. Al contrario, essa le promuove tutte, le mette in
luce, ne rivela il pieno significato e l’ultima smagliante bellezza, attraverso un principio di totalità e continuità
nella storia.
Nel Magnificat Maria dice: «Dio si è ricordato della promessa fatta ad Abramo e alla sua discendenza per
sempre». L’iconografia, disponendo, anche solo idealmente, le figure delle donne di Israele intorno a Maria, è
fedele a queste parole.
Maria è nuova Eva, ma questo non è sufficiente, essa è anche nuova Sara, nuova Rebecca, Rachele...
Maria nuova Eva è un motivo comune della tradizione, a partire dall’interpretazione di Gen 3,15: «Io porrò
inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il
calcagno». Così, molti Padri, a partire da Ireneo nella loro predicazione affermano che «il nodo della
disobbedienza di Eva ha avuto la sua soluzione con l’obbedienza di Maria; ciò che la vergine Eva legò con la
sua incredulità, la vergine Maria sciolse con la fede»; e fatto il paragone con Eva, chiamano Maria «madre dei
viventi», e affermano: «la morte per mezzo di Eva, la vita per mezzo di Maria».
Tuttavia la corrispondenza tra le due donne, non è soltanto da questo punto di vista. Eva, infatti, nella sua
pienezza di senso è madre e simbolo dell’intera umanità, poiché, in quanto donna è custode del mistero della
vita. A partire da Eva fino a Maria, possiamo guardare a tutte le donne rappresentate nelle formelle come a
custodi del mistero della vita e per questo tutte hanno a che fare, da angolature e secondo modalità diverse,
con la maternità.
Il nostro itinerario parte da Eva, ma non la vediamo subito come la donna della tentazione, ma come colei che
è stata creata dalla costola di Adamo. La donna è creata da Dio per l’uomo come «aiuto alla sua altezza, aiuto
che sta davanti all’uomo». La donna è dunque innanzitutto un soccorso indispensabile per la vita dell’uomo
che subisce, perfino nel giardino di Eden, una minaccia, la solitudine («Non è bene che l’uomo sia solo» dice
Dio). Essere solo vuol dire essere rigettato lontano dal fiume della vita che è comunione e condivisione,
fecondità e benedizione. La vita non è ciò che è se non nel momento in cui la si può condividere e
trasmettere. Solo la donna può liberare l’uomo dalla solitudine. Dio ha pensato l’umanità come una relazione
tre uomo e donna; l’essere umano è fatto per la comunione, può vivere solo a patto di essere in una
comunione maggiore che lo supera. La prima parola che l’uomo dice nella Bibbia è appunto il riconoscimento
di questa necessaria comunione nella reciprocità e nella differenza (Gen 2,23).
Questa è l’immagine della donna e della comunione di’amore con l’uomo che troviamo nel Cantico dei Cantici,
di cui la formella raffigura la protagonista. Se secondo Gen 3, la donna è stata l’occasione per uscire dal
paradiso («La donna […] mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato Gen 3,12); secondo il Cantico, la donna è
lo strumento che Dio ha dato all’uomo per ritornare nel paradiso.
Alla radice di questa dimensione che è teologica c’è il carattere personale dell’amore tra l’uomo e la sua
amata. In nessun’altra esperienza umana, peraltro, si dà un incontro più profondo tra un io e un tu. Il Cantico
è l’unico libro della Bibbia ad essere composto dall’inizio alla fine come un dialogo. Qui non si parla di qualcosa
ma a qualcuno. Il fatto stesso del dialogo è significativo, perché indica, nella prossimità, anche la distanza tra i
due amanti, com’è tipico del vero amore.
La figura della donna del Cantico è una figura femminile sfaccettata, complessa, non certamente
convenzionale. La donna del Cantico è tenera, vicina, ma anche nobile, cosciente di sé, irraggiungibile. Porta
guerra e pace allo stesso tempo. È disarmata e debole, ma ha in sé una forza irresistibile. Il carattere
paradossale della donna corrisponde a quello dell’amore, mistero fascinosum et tremendum che sconvolge la
vita di una persona e allo stesso tempo sazia i suoi desideri più profondi, è disarmato, eppure «forte come la
morte».
La vita che continuamente si rinnova chiede di non chiudersi in sé, ma di immergersi nella corrente della vita. È
vero, la vita include anche la morte, e se uno guarda all’inverno gli viene voglia di restare in casa. Non è tutta
una illusione la festa della vita? Non termina tutto con la morte? E tuttavia la donna del Cantico si lascia
trascinare dalla follia dell’amore: esce, cerca e trova. Non è ingenuo, l’amore del Cantico, sa del lato negativo
della vita. Se canta, nonostante la morte, l’inno all’amore, è per un atto di fede che, appunto, l’amore è più
forte della morte, che vale la pena danzare la vita, perché lo sposo viene.
La vittoria della vita sulla morte trova la sua verità profonda nella morte e resurrezione di Gesù Cristo. Anche
qui la vita passa attraverso la morte, attraverso la perdita della vita. Giovanni, l’evangelista dell’amore, fa
comprendere la morte e la risurrezione di Gesù come una festa di nozze. Già il vino di Cana (Gv 2) e l’unzione
di Betania (Gv 12) sono allusioni alla morte di Gesù, che è rappresentata come un atto di amore. E Maddalena
ha i tratti della donna del Cantico che cerca nel giardino l’amore perduto («Donna, perché piangi? Chi cerchi?»,
Gv 20,18; cfr. Ct 3,1) e che, poiché ama, riesce a vedere il Risorto, come, nel Cantico, Diletta trova l’amato del
suo cuore.
Inoltre, in nessun luogo si coglie meglio la forza paradossale dell’amore come nella croce di Gesù Cristo. Gesù
ha rinunciato coscientemente alla forza delle armi e ha creduto alla forza disarmata dell’amore. La sua forza sta
nella sua stessa debolezza, come è vero anche per la donna del cantico, malmenata dalle guardie, eppure
vittoriosa.
L’esperienza dell’amore è esperienza di innocenza prima che il peccato turbasse l’armonia. È vero che in Gen 3
la prima responsabile del peccato, colei che dà per prima ascolto alla voce del serpente è Eva: Il serpente,
però, si rivolge alla donna, non perché si vuole sottolineare la sua debolezza, ma proprio perché la donna è
considerata la custode del mistero della vita. La donna infatti è una figura sapienziale, rappresenta tutto ciò che
nell’essere umano è desiderio, ed insieme capacità di intuire e volere la vita in pienezza. Se è la donna ad
essere ingannata ciò vuol dire che la tentazione e il peccato riguardano la dimensione intima e spirituale
dell’essere umano.
È in questa occasione che la donna riceve il nome di Eva, cioè «madre di tutti i viventi» e questo vuol indicare
che è vero che la donna dà la vita ma lo fa per la benedizione di Dio, non per l’azione o la parola del serpente.
A partire da Eva si dispiega la storia delle generazioni e alcuni capitoli dopo incontriamo, sempre in Genesi, la
storia delle matriarche, Sara, Rebecca e Rachele.
Ora, la testimonianza della grazia di Dio concerne queste donne in ciò che è proprio della donna: la fecondità e
la maternità. Sara partorisce il figlio della promessa dopo essere rimasta sterile per tutto il tempo della sua
fecondità generativa e quando ormai le era cessato «ciò che avviene normalmente alle donne». Proprio allora il
Signore sorride su di lei e la visita ed ella canta il suo Magnificat (Gen 21,1-7; cfr. 17,19). Rebecca e
specialmente Rachele non sono del tutto sterili, ma riescono a generare solo con difficoltà e il testo biblico
sottolinea che è sempre il Signore colui che presiede alla loro fecondità.
Questa sterilità o quasi sterilità delle madri del popolo di Dio sta a significare che il popolo è, appunto, di Dio. La
vita negata e poi offerta da parte di Dio è come la sigla di tutte le generazioni. Fosse avvenuta una sola volta,
la sterilità sarebbe passata forse inosservata e non significherebbe più che un disguido. E invece la sterilità si
ripete con tenace incongruenza. Da una parte la storia patriarcale è scandita dai canti di una promessa di
benedizione e di fecondità sconfinate nella terra di Canaan, dall’altra si può dire che i patriarchi «hanno veduto
e salutato di lontano» sia la terra sia la discendenza, nel senso che la porta di accesso alla benedizione è stata
sempre per loro quella di una fede e di una speranza esercitate a partire da una mortificante povertà. Una
«povertà» che non ha tanto dei riscontri sociologici e ancor meno è frutto di ascetismo morale, ma deriva dalla
dimensione teologale della fede.
La benedizione di Dio su Sara non solo conferma la fedeltà del Signore alle sue promesse (cfr. Gen 21,1), ma si
mostra come segno che svela in lei colei che è stata «vistata» dall’Onnipotente e, proprio per questo, è
diventata una sorta di canale attraverso il quale la benedizione divina si diffonde nella storia. Il nome di suo
figlio Isacco viene da una radice che ha il duplice significato di «ridere» e «gioire». Il commento di Sara in Gen
21,6 «motivo di riso mi ha fatto Dio» è stato interpretato come «rideranno di me» e come «gioiranno per me»,
perché molte donne sterili diventarono feconde con lei, molte preghiere furono esaudire e vi fu grande gioia nel
mondo.
In modo particolare, il motivo delle madri sterili che Dio rende feconde ha continuato a scandire certi momenti
cruciali della storia della salvezza del popolo di Dio, come per la nascita dei giudici Sansone e Samuele o per
quella del profeta Giovanni Battista, nato dalla sterile e anziana Elisabetta.
Elisabetta, chiamata per sua natura a trasmettere la vita, sente che il suo corpo, cioè tutta la sua persona, tutta
la sua storia, è incapace di comunicarla, sente in sé i segni della morte senza senso.
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Ora, proprio questa donna, che vive a casa sua, sulle montagne di Giuda, lontana dai grandi avvenimenti,
apparentemente esclusa dalla misericordia di Dio, viene visitata due volte, prima dal marito Zaccaria,
diventando feconda (1,24), poi dalla cugina Maria (1,39ss).
Le parole di Elisabetta: «Ecco che cosa ha fatto per me il Signore» le diceva tra sé e sé nel tempo del suo
nascondimento. Il vangelo sottolinea questo tempo di silenzio: un lungo periodo di germinazione in lei della vita
silenziosa, probabilmente con sentimenti di esitazione e di stupore per quello che capitava al suo corpo e infine
con la serena certezza di chi può dire «a me il Signore ha fatto questo».
Elisabetta è visitata da Maria. Questa seconda visita giunge inattesa, perché viene da lontano.
Maria è come un angelo che, entrando nella dimora umana, la illumina con una parola di benedizione. Prima di
abbracciare la cugina o nell'atto di stringerla a sé, Maria parla.
Il saluto di Maria fa sobbalzare il bambino nel grembo di Elisabetta (1,41.44). La parola raggiunge la profondità
del grembo ed Elisabetta sperimenta la vita in sé, la vita di suo figlio. Forse solo adesso, alle parole di Maria,
Elisabetta percepisce la bellezza e la gioia di quello che era presente in lei, di quello che le era donato. La visita
di Maria era del tutto inattesa per Elisabetta, ma essa attendeva che qualcuno le parlasse, le dicesse qualcosa
che facesse sussultare nella gioia il suo grembo di madre. Doveva essere una parola senza derisione, senza
biasimo, senza gelosia, doveva essere una parola di innocenza e di rispetto, una parola di amore puro.
Il motivo della generazione per opera di Dio giunge fino alla maternità verginale, umanamente desolata di
Maria di Nazaret. Sarà quest’ultima una fecondità che trascende quella delle madri sterili precedenti, tanto
quanto il figlio di Maria trascenderà i giudici e i profeti che lo hanno preceduto. Il Signore dell’alleanza ama farsi
conoscere come «il Dio dell’impossibile».
La Bibbia non si stanca di esaltare una «impotenza» sul piano della natura e della carne, quale luogo
privilegiato della potenza salvifica di Dio, che vuole guarire l’uomo da ogni peccaminosa pretesa di
autosufficienza e liberamente condurlo per grazia alla fede che tutto può.
Tutte queste donne, oltre che sterili, sono anche straordinariamente belle.
La bellezza di queste donne nasce dal cuore, produce segni di bontà e di pace, sa rinnovare i rapporti umani,
cambia la storia.
Così la narrazione di Genesi che riguarda Rebecca ci fa scoprire una donna giovane, di aspetto affascinante e
non ancora legata a nessun uomo, di indole libera, generosa e intraprendente, tanto che non esita un attimo a
dissetare uno sconosciuto che le chiede da bere: il servo di Abramo, e di sua iniziativa gli propone di
abbeverare anche i suoi cammelli. Il suo gesto di accoglienza semplice, e forse naturale nel deserto dove la
sete si fa spesso sentire con crudeltà, viene recepito dal servo come segno di riconoscimento della volontà
divina, un segno che lo lascia «stupefatto di lei, in silenzio». Rebecca concepisce due gemelli: Esaù e Giacobbe,
amati in modo diverso dai genitori. Rebecca preferisce Giacobbe e sa come farsi obbedire da lui per il suo bene:
gli suggerisce il momento e il modo migliore per ricevere con l’inganno dal padre, oramai anziano e cieco, la
benedizione della primogenitura che Esaù ha disprezzato barattandola con un piatto di lenticchie; dispone
inoltre ogni cosa affinché Giacobbe possa fuggire dalla collera omicida del fratello solo dopo che Isacco ha
benedetto tale partenza. Si può quindi dire che Rebecca, nel suo essere «segno» per i suoi discendenti, sa
coniugare l’apertura al misterioso di Dio a un modo di agire da protagonista che, se necessario, sa anche
essere coraggioso e ardito.
La vera bellezza che nasce dal cuore rimane anche dopo la morte come «segno» per le generazioni successive
che si recano a pregare sulle tombe dei patriarchi e delle matriarche. Rachele è stata sepolta sulla strada per
Betlemme, il luogo dove è morta dando alla luce il suo secondogenito, Beniamino. È sepolta lì perché Giacobbe
vide in senso profetico che gli ebrei in esilio sarebbero passati di là, perciò la seppellì lì perché chiedesse per
loro misericordia (Ger 31,14). Il pianto di una madre per i suoi figli esprime la profondità di una tenerezza che
altro non è se non uno dei tratti della sua bellezza.
Un ultimo aspetto che riguarda le matriarche è che anche per queste donne, come per i loro mariti, c’è una
distanza tra la santità della loro elezione e l’insufficienza o deficienza della loro condotta morale. Sara non ha
certamente un carattere leale, docile e generoso, ma piuttosto incline alla ossessività egoista e alla litigiosità. La
leggiadra Rebecca non brilla per imparzialità nei confronti dei suoi due gemelli, o per lealtà verso il proprio
marito, o per pazienza e generosità verso le sue nuore straniere mogli di Esaù. L’affascinante Rachele non
sfugge all’abito familiare dell’accaparramento indebito e menzognero. Tutto ciò però non impedisce che,
nell’economia delle scelte e dei criteri di Dio, queste donne siano elette, insieme ai loro mariti, per testimoniare
la trascendenza della grazia del Dio dell’alleanza. Nel mondo di Dio trionfa la libertà. Come i patriarchi, così le
matriarche rimangono perfettamente libere e, dunque, moralmente responsabili delle ingiustizie che
commettono, e d’altra parte anche il Signore è liberissimo e responsabile dei suoi teologali criteri di elezione.
Questa elezione è il fondamento della loro «santità».
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Alla dimensione della maternità, che presiede e custodisce la vita, appartengono le figure di Miriam, la sorella di
Mosè, colei che salva il fratello dalle acque consegnandolo alla figlia del faraone; di Ester, la giovane ebrea
andata sposa del re Assuero, che con il suo intervento salva il suo popolo dallo sterminio; di Rut e Noemi, due
donne appartenenti a popoli diversi, legate da un rapporto di parentela ma non di sangue, sono nuora e
suocera; della Samaritana, la donna incontrata da Gesù presso un pozzo, divenuta protagonista di un dialogo
straordinario con il Maestro.
Sono tutte donne che vivono la responsabilità della vita determinando la sorte di altri, affidati alle loro cure, in
maniera discreta e fattiva.
Miriam è la donna che, dopo il passaggio del mare, guida le altre donne nel canto e nella danza, orientando i
sentimenti di esultanza verso il vero protagonista della liberazione, il Signore, unico operatore di prodigi. La sua
profezia si manifesta nella musica e nel canto poiché profetare è essenzialmente lodare Dio per quanto ha
compiuto. Ester si ritira dallo sfarzo della corte e dai suoi costumi fastosi per implorare l’aiuto del Signore e la
sua preghiera riassume mirabilmente la solitudine radicale e la rischiosa esposizione che l’elezione divina
comporta, mentre confessa la sua profonda fiducia nel Signore, l’unico capace di rovesciare le sorti. La regalità
di Ester si manifesta così come coraggio e pietà capaci di trionfare sul male.
Rut è la donna pagana che rifiuta di abbandonare l’anziana suocera e l’accompagna nel suo viaggio di ritorno
legandosi a lei in una alleanza fino alla morte e in un’obbedienza che diventa speranza di una discendenza
addirittura messianica. La diversità di Rut, il suo essere straniera e nemica, diventa lo spazio della rivelazione di
una generosità e fedeltà nell’amore che proprio nel proteggere la vita di chi è debole ed emarginato produce
nuova vita.
Infine la Samaritana è madre perché nel suo dialogo con Gesù, nella sua ricerca della vera sapienza, ci dice che
la maternità può voler dire anche fare l’esperienza di un’autentica e continua conversione. Inoltre questa figura
descrive la maestra e testimone della sapienza trasmettendoci una testimonianza netta e pulita resa a Gesù:
«Mi ha detto tutto quello che ho fatto, che sia lui il Messia?» (4,29). Una maternità che promuove e custodisce
la vita vuol dire formare e rifare la coscienza così che si interroghi e che si lasci interpellare e in questo modo si
metta in cuore la ricerca della sapienza. Si è perciò madri perché custodi delle grandi domande che riguardano
la nostra umana esistenza.
L’itinerario delle formelle si conclude con Maria alla croce di Gesù e Maria madre della Chiesa.
Le due immagini sono legate fra loro: è sotto la croce del figlio, dando il suo assenso alla morte che Maria
diventa madre della Chiesa.
Il testo di riferimento è evidentemente Gv 19,26-27: «26Gesù allora, vedendo la madre e lì accanto a lei il
discepolo che egli amava, disse alla madre: “Donna, ecco il tuo figlio!”. 27Poi disse al discepolo: “Ecco la tua
madre!”. E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa». Maria è sotto la croce dove non fa
assolutamente niente (mentre il discepolo è attivo perché almeno accoglie la madre). Giovanni la chiama
sempre «la madre di Gesù» menzionando la relazione così unica che ha con Gesù; e «donna» quando Gesù le
parla, indicandola come la sposa del Signore.
Con la parola di Gesù alla madre veniamo a sapere che la vocazione dell’uomo-discepolo è di essere figlio. Con
la parola rivolta al discepolo ci viene detto che la vocazione della donna è di essere madre. L’identità del
discepolo è inscindibile da una maternità che genera nell’obbedienza e nella consegna. L’obbedienza propria
della maternità avrà anzitutto i tratti del sì di Maria che si compie al Calvario. L’obbedienza materna di Maria si
presenta come condizionante la generazione del Figlio e viene ordinata all’espropriazione e alla consegna, la
consegna definitiva del Figlio e di sé al discepolo. Questo ruolo materno di Maria è evidente anche nel testo di
At 1,14: « Tutti questi erano assidui e concordi nella preghiera, insieme con alcune donne e con Maria, la
madre di Gesù e con i fratelli di lui». La tradizione ha visto in Maria il centro spirituale unificatore della
comunità, colei attorno alla quale erano raccolti i discepoli, in quanto madre di Gesù.
La Chiesa madre di Gerusalemme è la prima ad essere con Maria. Maria è in mezzo ad essa, è inseparabile
dalla Chiesa di cui è il centro e il cuore.
Infine, nei vangeli insieme a Maria di Nazaret ci sono altre due Maria; si tratta di Maria di Madgala e di Maria di
Betania, il cui ritratto ci restituisce l’immagine non solo della Vergine, ma anche del discepolo che appartiene
alla Chiesa, che è figlio di Maria.
La prima rappresenta la sposa liberata da una totale schiavitù satanica; essa, come Maria di Nazaret con
Elisabetta, è figura della Chiesa in cammino che annuncia il Regno di Dio e insieme le cose riguardanti il Signore
Gesù.
Alla seconda Maria, la discepola di Betania, una concorde, anche se varia tradizione evangelica, ha assegnato il
compito di prolungare nella comunità dei primi discepoli l’ascolto silenzioso e obbediente dell’autentico
discepolato, la scelta giusta dell’unica cosa necessaria nel momento giusto, la creatività inventiva e profumata
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dell'offerta di sé e del proprio corpo alla Parola pronunciata da Dio, la novità più espressiva dell’evangelo
neotestamentario. Anche in questo Maria di Betania era stata preceduta da Maria di Nazaret, la vergine
dell’annunciazione e la madre meditativa e riflessiva di Betlemme e di Nazaret.
Anche attraverso queste due ultime donne emerge che Maria è la figura e il luogo più perfetto della sposa che
è la Chiesa e che ciascuno di noi, nella Chiesa, deve essere. Questo significa che tutto ciò che esiste nella
Chiesa, nella fede cristiana, è presente in lei. Per questo Giovanni Paolo II può affermare nella Redemptoris
Mater: «Maria è presente nella Chiesa come madre di Cristo ed insieme come quella Madre che Cristo, nel
mistero della redenzione, ha dato all’uomo nella persona di Giovanni l’apostolo. Perciò, Maria abbraccia, con la
sua nuova maternità nello Spirito, tutti e ciascuno “nella” Chiesa,abbraccia anche tutti e ciascuno “mediante” la
Chiesa. In questo senso Maria, Madre della Chiesa, ne è anche modello» (47).
Bibliografia
G. BARBIERO, Cantico dei Cantici, Milano 2004
R. CORTI, Ecco la serva del Signore, Milano 1988
F. ROSSI DE GASPERIS, Maria di Nazaret icona di Israele e della Chiesa, Magnano 1997
F. ROSSI DE GASPERIS – A. CARFAGNA, Prendi il libro e mangia, 1, Bologna 1997
E. LOWENTHAL, Eva e le altre, Milano 2005
di Anna Maria Canopi
Donne nella Bibbia
da “Avvenire” edizione del 14\10\20007
Quando, secondo il racconto della Genesi,
Dio presenta Eva ad Adamo, l’uomo finalmente esclama con
gioioso stupore: «Questa volta essa / è carne dalla mia carne / e osso dalle mie ossa!' (2,23). È il primo canto
d’amore che si trova nella sacra Scrittura. La gioia dell’incontro e della corrispondenza dell’uomo e della donna
illumina tutto l’Eden, che solo adesso diventa veramente «paradiso», perché vi risplende il sorriso della creatura
umana fatta a immagine di Dio, in rapporto comunionale.
Il primo canto d’amore ben presto, però, si muta in pianto a causa di una oscura presenza nemica nascosta nel
giardino. Incomprensibile mistero d’iniquità! Nella sua perfida astuzia il «serpente» si avvicina alla donna e la
seduce sibilando alle sue orecchie parole che insinuano in lei la diffidenza verso Dio; Eva cede alla tentazione,
mangia il «frutto proibito» e ne dà anche all’uomo.
Il testo sacro commenta brevemente: «Allora si aprirono loro gli occhi e si accorsero di essere nudi» ( Genesi
3,7). Si vedono nello squallore della loro povertà e se ne vergognano. Cercano di nascondersi, ma la voce di
Dio li raggiunge: «Dove sei?». Il peccato li ha distolti da Dio e divisi tra di loro... La condanna che ne consegue
apre una via di sofferenza e nello stesso tempo una speranza di redenzione.
Creati per essere insieme cultori e custodi del giardino paradisiaco nella pace e nella gioiosa comunione, Adamo
ed Eva si ritrovano in una terra piena di triboli e spine. Ancora insieme e ancora chiamati ad aiutarsi, fanno
l’amara esperienza che nella loro stessa relazione c’è un ostacolo, una tensione a volte drammaticamente
accentuata sotto la spinta dell’istinto passionale, a volte, sia pure faticosamente, superata in forza di un
cammino di purificazione interiore.
Dio dispone che, come attraverso la donna era passata la seduzione del maligno, così ancora attraverso una
donna – Maria, la vergine madre – potesse passare la grazia inestimabile della redenzione. Ma prima di arrivare
a lei, e quasi andandole incontro, quante donne nel corso dei secoli, attraverso la maternità fisica e spirituale,
hanno preparato la pienezza dei tempi! Colui che è «nato da donna», dall’unica Donna immacolata, tutta bella
nell’ordine della grazia, è stato, in certo modo, già concepito e portato in grembo dalle antiche «madri di
Israele», da tutte quelle donne che, nonostante la loro condizione di povertà e di debolezza, hanno avuto un
ruolo determinante per la salvezza del popolo eletto e dell’intera umanità. I loro nomi brillano come perle
preziose nelle pagine del testo sacro: sono Sara, Rebecca, Rachele, Myriam, Debora, Rut, Anna, Giuditta,
Ester...
Sullo sfondo del quadro della storia dell’umanità appaiono innanzitutto, come stelle radiose, le donne dei
patriarchi: Sara, Rebecca, Rachele...
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Donne nelle quali il fascino della bellezza fisica è unito al fascino della bellezza interiore. Tutte però segnate
dalla sterilità e tutte, in questa povertà, visitate e benedette da Dio.
Sara, il cui nome significa «principessa», segue silenziosamente e docilmente Abramo nel suo pellegrinare
dietro la voce del Signore verso la terra promessa (cf. Genesi 12). Lungo questo viaggio pieno di peripezie, di
fatiche, di notti oscure, se pur trapuntate di stelle, ella gli è sempre accanto come sposa, come sorella, come
madre, come donna saggia che gli attira benevolenza... Ma nasconde nel cuore una ferita che vela di tristezza
la sua esistenza: è sterile.
Ed ecco che un giorno, mentre ormai anziana dimora con Abramo nella tenda presso la quercia di Mamre, il
Signore la visita e le dà l’annunzio della maternità umanamente impossibile. JHWH si rivela così come colui che
può e vuole operare meraviglie di grazia nell’estrema debolezza e impotenza umana. Al tempo stabilito, davanti
al tanto desiderato dono, Sara esclama: «Motivo di lieto riso mi ha dato Dio», e chiama il bambino Isacco.
Il viaggio di Sara con Abramo continua; le grandi prove non mancano, eppure non spengono mai quella gioia,
perché tutto è vissuto nella fede e nella speranza. Anche il morire si illumina: Sara muore a Ebron, nel paese di
Canaan, ed è sepolta nel piccolo campo che Abramo acquista in Macpela, primo lembo di Terra promessa che,
con questo primo seme che le è affidato, ancora terra straniera, comincia a diventare Terra santa.
Dopo Sara, Rebecca, sposa di Isacco: una donna tutta disponibilità. Cercata in terra lontana, lascia la casa
paterna accompagnata da una bellissima benedizione: «Tu, sorella nostra, diventa migliaia di miriadi...»,
scenda su di te la benedizione che Dio ha promesso.
Il volto nascosto dietro il velo, il suo mistero traspare nella bellezza di quel segno di pudore e di fedeltà, di
esclusiva appartenenza. Vera madre anche nello spirito, Rebecca avverte come suo principale compito quello di
proteggere, di tutelare la vita, di evitare gli scontri violenti tra i due fratelli che ha dato miracolosamente alla
luce dopo lunga attesa e che fin dal suo grembo aveva percepito in rapporto conflittuale.
Le generazioni umane sono come un ruscello che diventa fiume. Ed ecco Rachele, sposa di Giacobbe che, nel
suo incontenibile desiderio di maternità, dà un nome altamente simbolico al figlio ottenuto per grazia:
Giuseppe, ossia «Dio aggiunga». Che cosa? Un altro figlio... E mentre è in viaggio, lungo la strada verso Efrata,
Rachele muore dando alla luce Beniamino, il «figlio del dolore». Evento carico di umano pathos! Altra tomba
nella Terra promessa.
Proprio per questa strada un giorno passerà Maria di Nazaret che, giunta nella campagna di Betlemme, darà
alla luce il Figlio di Dio concepito unicamente per grazia, per potenza di Spirito santo.
Se le donne dei patriarchi sono madri che portano avanti la catena delle generazioni mettendosi al servizio della
vita con struggente amore, fino all’estremo sacrificio, altre donne dopo di loro, fragili ed eroiche ad un tempo,
sostengono il popolo nel suo cammino irto di difficoltà. Esse sono figure paradigmatiche che mostrano quanto il
«genio femminile» – come si esprimeva il santo padre Giovanni Paolo II – sia necessario nella storia, poiché
esso ha come caratteristica fondamentale l’amore che attinge energia dalla preghiera e diventa sorgente di
pace, supplemento di forza e di fede, offerta e dono di sé per tutti.
La carestia aveva costretto i figli di Israele a ritornare popolo errante, a scendere esuli in Egitto. Nell’ardua
attraversata del deserto per la riconquista della Terra promessa incontriamo, accanto al grande e umile Mosè,
anche la sorella Myriam, significativa figura femminile che sembra impersonare gli slanci di ardore e le gravi
debolezze dell’intero popolo in cammino.
Ci appare allora come colei che porta su di sé le conseguenze del peccato di molti ed insieme come colei che,
guarita per intercessione dello stesso Mosè, impara per viva esperienza che cosa siano l’umiltà e l’amore
gratuito.
Nel libro dei Giudici emerge la figura di Debora, la profetessa, che, abitata dalla Spirito del Signore, veglia su
tutto Israele.
Debora allora celebra la liberazione di Israele con uno stupendo cantico in cui esprime l’amore di Dio per il suo
popolo e l’amore riconoscente del popolo per il suo Dio da cui si sente fortemente protetto. Poesia, teologia e
storia si intrecciano, offrendo un grandioso quadro dove è messo in risalto l’intervento dell’onnipotenza divina
mediante figure femminili. Infatti: «Era cessata ogni autorità di governo, / era cessata in Israele, / fin quando
sorsi io, Debora, / fin quando sorsi come madre in Israele. / Si preferivano divinità straniere / e allora la guerra
fu alle porte [...]. / Il mio cuore si volge ai comandanti d’Israele, / ai volontari tra il popolo; / benedite il
Signore!» ( Giudici 5,7-9). In definitiva è sempre il Signore ad essere glorificato.
Con Giuditta ed Ester – che danno il nome a due libri deuterocanonici – ci troviamo ancora, come con Debora,
di fronte a donne che, attingendo forza da Dio, salvano il popolo di Israele in momenti in cui ai capi responsabili
viene meno il coraggio. L’esercito di Oloferne avanza minaccioso, tutta la città di Betulia è in preda al panico:
l’acqua e i viveri scarseggiano. Il re Ozia e gli anziani del popolo sono sul punto di consegnarsi al nemico. Ma
c’è una donna che crede fermamente nell’aiuto che viene dal Signore proprio nelle situazioni più disperate:
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Giuditta. Vedova, vive ritirata nella sua casa sotto lo sguardo di Dio; tutta raccolta in preghiera, riceve luce e
forza dall’Alto. Ella si pone perciò davanti agli anziani con l’autorità che le viene dall’essere una donna che ama
Dio al di sopra di tutto e che ama il popolo con viscere materne.
Questa fiducia non la rende però passiva; anzi, pur consapevole della propria debolezza, riceve il coraggio di
mettere in pericolo la propria vita per affrontare apertamente il «nemico».
Giuditta perciò si prepara al passo decisivo con digiuno, penitenza, preghiera. E così preme sul cuore di Dio:
«La tua forza non sta nel numero, ma nell’amore che si china pietoso al grido dei poveri, degli oppressi, dei
deboli, dei derelitti, degli sfiduciati, dei disperati».
Dopo la debole-forte Giuditta, la Bibbia ci presenta un’altra mirabile donna d’Israele. Sul popolo eletto in terra
d’esilio pende un edito di sterminio. Per vie misteriose Dio prepara una giovane ebrea, Ester, a diventare
strumento di salvezza per Israele. Orfana e lontana dalla sua terra, ancora giovinetta viene provvidenzialmente
scelta tra tante sue coetanee per sostituire la regina Vasti ripudiata dal grande re Assuero. Ella si trova quindi a
corte nel tempo in cui tutti gli Israeliti esuli vivono con «la morte davanti ai loro occhi» ( Ester 4,17i). Il suo
posto di privilegio diventa subito per lei un posto di più grande responsabilità: se è lì, non è per avere salva la
propria vita, ma per salvarla ai suoi fratelli.
Fede integra e angoscia mortale si combattono nel suo cuore da cui sgorga un grido di preghiera che è insieme
altissima testimonianza di amore e pressante invocazione di aiuto: «Mio Signore, nostro re, tu sei l’unico! Vieni
in aiuto a me che sono sola e non ho altro soccorso se non te, perché un grande pericolo mi sovrasta» ( Ester
4,17).
Malgrado le grandi tentazioni cui ogni giorno la vita di corte certamente la esponeva, il cuore di questa donna è
unicamente posseduto dall’amore del suo Dio e del suo popolo.
All’inizio del primo libro di Samuele troviamo Anna, moglie di uno zufita delle montagne di Efraim, un’altra
donna sterile, come le spose dei patriarchi... Essa, umiliata e disprezzata per questa sua condizione, va a
sfogare la sua angoscia davanti al Signore nel santuario di Silo. Là osa pronunciare un voto: «Signore, se vorrai
ricordarti di me [...], se darai alla tua schiava un figlio maschio, io lo offrirò al Signore per tutti i giorni della sua
vita». La sua preghiera di povera è esaudita e Anna mantiene il voto. Dopo lo svezzamento, offre il piccolo
Samuele al Signore per tutti i giorni della sua vita. Al momento dell’offerta, dal suo cuore e dalle sue labbra
sgorga un bellissimo cantico di ringraziamento, il primo Magnificat: «Il mio cuore esulta nel Signore, / la mia
fronte s’innalza grazie al mio Dio [...]. / L’arco dei forti s’è spezzato, / ma i deboli sono rivestiti di vigore» (
1Samuele 2,14).
In uno scenario di povertà e di debolezza si apre anche il libro di Rut: Noemi, emigrata in terra di Moab, rimasta
vedova, senza figli e senza nipoti, decide di far ritorno alla sua terra d’origine... Benché si avvii da un paese
straniero verso la terra dei suoi padri, non parte sospinta dalla speranza, bensì con l’animo abbattuto di chi si
sente sconfitto dalla vita. Ma Rut, la nuora, tenacemente fedele, la segue: «Dove andrai tu andrò anch’io; dove
ti fermerai mi fermerò; il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio sarà il mio Dio; dove morirai tu, morirò
anch’io e vi sarò sepolta» (1,16-17).
Ed ecco le due donne giungere a Betlemme al tempo della mietitura dell’orzo: bellissimo segno di speranza. Rut
va a spigolare dietro i mietitori, con l’umiltà di chi è consapevole non solo di essere povera, ma anche di essere
straniera.
Sollecita e riservata, viene definita donna virtuosa (cf. 3,11): donna forte nel bene, forte nella mansuetudine,
nella bontà, nell’amore fino al sacrificio. Ed è per questo che trova grazia agli occhi di Booz, il padrone del
campo e suo parente prossimo con il «diritto di riscatto».Quando egli – alla porta della città secondo il rito in
uso in Israele – dichiara di volerla prendere come sposa, gli anziani pronunziano un bellissimo augurio
benedicente: «Il Signore renda la donna, che entra in casa tua, come Rachele e Lia, le due donne che
fondarono la casa d’Israele» (4,16).
Così Rut entra nel solco delle generazioni d’Israele, diventa antenata di Cristo, anzi, entra nel Nuovo
Testamento, perché il suo nome compare nella genealogia del nato Messia (cf. Matteo 1, 1-17). Non con le
parole, ma con la sua stessa vita, Rut intona uno splendido cantico all’amore provvidente e gratuito di Dio; un
cantico che potrebbe esprimersi così: Dio d’Israele, Dio di tutte le genti, Tu, che mi hai guardata nella mia
estrema povertà di vedova e straniera, Tu, che mi hai condotta fuori dalla mia terra, dal mio popolo e dalla
casa di mio padre, Tu, che mi hai accolta all’ombra delle tue ali, Tu, che mi hai nutrita con il pane della terra
promessa, Tu, che mi hai consolata dandomi una insperata prole, Tu, che mi hai onorata dandomi il tuo Nome,
Tu che sei il Benedetto e la fonte d’ogni bene: accogli il mio rendimento di grazie!
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