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Sulla conversione del permesso di soggiorno per motivi di lavoro in permesso per motivi di studio.
Le linee direttrici recentemente fornite dagli orientamenti giurisprudenziali
A cura di ELEONORA STEFANELLI
Sommario: I. Uno sguardo al complesso quadro normativo : T.U. Immigrazione di cui alla Legge
286/1998 e Regolamento di attuazione di cui al D.P.R. 31 agosto 1999, n. 394; II. Un accenno
all’istituto giuridico della conversione, alla luce degli indirizzi dottrinari e giurisprudenziali; III.
III. Sulla conversione del permesso di soggiorno rilasciato per attività di lavoro in permesso per
motivi di studio : la risposta negativa dei Giudici di Palazzo Spada.
I. Uno sguardo al complesso quadro normativo : T.U. Immigrazione di cui alla Legge 286/1998
e Regolamento di attuazione di cui al D.P.R. 31 agosto 1999, n. 394.
In materia di permessi di soggiorno, il primo referente normativo è sicuramente rappresentato dal
Testo Unico Immigrazione, la cui formulazione risale al lontano 1998. Da un punto di vista
strutturale, esso si compone complessivamente di 49 articoli, molti dei quali ruotano attorno alla
regolamentazione di una tematica che in tale prospettiva ci interessa particolarmente : i permessi di
soggiorno.
Norma cardine è rappresentata, in prima battuta, dall’articolo 5, sistematicamente collocata nel
Titolo II, Capo I, rubricato : “Disposizioni sull’ingresso e il soggiorno”. In particolare, risulta
interessante il comma 9, laddove nel riferirsi al rilascio, al rinnovamento nonché alla conversione
del permesso di soggiorno, statuisce espressamente che le suddette modalità possono trovare
accoglimento (e, dunque, esito positivo) entro venti giorni decorrenti dalla data di presentazione
della domanda, sempre che sussistano i requisiti e le condizioni appositamente indicate nel Testo de
quo nonché nel Regolamento di attuazione del permesso di soggiorno.
Due risultano essere le conseguenze scaturenti dal disposto normativo di cui sopra : per un verso, la
disposizione sembra rinviare al rispetto del principio di legalità e, consequenzialmente, ad una, sia
pure implicita, riserva di legge (relativa); per altro verso, emerge l’esigenza di attingere da fonti
integrative, qual è appunto il Regolamento attuativo di cui al DPR 394/1999, ai fini di una maggiore
completezza e di un maggior rigor descrittivo della materia de qua.
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Nel primo caso, la predeterminazione di presupposti legittimanti il soggiorno e la analitica
previsione di specifici meccanismi da cui far discendere l’emissione di un provvedimento
favorevole o sfavorevole risulta, senza alcuna ombra di dubbio, un fondamentale corollario del
principio di legalità1. Quest’ultimo, non a caso, permea la complessa disciplina dell’immigrazione
e, al contempo, rappresenta una sorta di barriera protettiva del patrimonio di diritti riconosciuti in
capo agli stranieri. La ratio è chiaramente desumibile : garantire un uso non arbitrario ed equilibrato
del potere pubblico.
A ciò certamente va aggiunto l’ulteriore e non secondario richiamo alla previsione della riserva di
legge, dal momento che l’articolo in questione ha una precisa finalità : far sì che non venga lasciata
scoperta la disciplina della materia, dovendosi richiamare, in chiave suppletiva, diversi ed ulteriori
referenti di tipo normativo. Nel caso specifico, invero, la previsione di cui all’art. 5 contiene una
riserva di legge non assoluta bensì relativa, atteso che viene lasciato spazio a fonti secondarie (qual
è il Regolamento attuativo del 1999) e non anche ad una legge ordinaria o ad atti ad essa equiparati.
Secondariamente, rileva il riferimento, operato dal comma 9 dell’art. 5 T.U. Immigrazione, al DPR
394/1999, volto a garantire una lettura combinata ed integrata delle varie disposizioni inserite
nell’ambito delle rispettive fonti normative. Emerge, pertanto, una vera e propria vis espansiva cui il
Legislatore ha inteso chiaramente mirare; necessità, quest’ultima, ricavabile non da una bensì da
molteplici disposizioni presenti sia nella legge 286 sia nel Decreto n. 394. Basti pensare, a titolo
esemplificativo, agli articoli 5 - 17 del Regolamento attuativo, i quali, in un chiaro intento di
delimitare, tutelare e regolamentare dettagliate previsioni in tema di ingresso e soggiorno, rinviano,
a più riprese, alle linee direttrici del testo unico.
Altrettanto significativa è la tematica involgente il rilascio del permesso di soggiorno per motivi di
lavoro, laddove risulta di fondamentale e preliminare importanza la norma di cui all’art. 13 del DPR
n. 394, dato che al comma 2-bis contiene un rinvio formale ai parametri cristallizzati nell’articolo 5bis, comma 1, lettera a), della Legge n. 286/1998.
Più specificatamente, si richiede che il rinnovo del permesso di soggiorno per motivi di lavoro sia
soggetto alla sussistenza di un contratto di soggiorno per lavoro nonché all’autocertificazione del
datore di lavoro attestante la sussistenza di un alloggio del lavoratore ed, in aggiunta, che il
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Un esempio emblematico di “stretta legalità” si evince, altresì, dall’art. 10, 2 comma, della Costituzione, a mente del
quale : “La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati
internazionali”. Il precetto in questione, tuttavia, a detta della dottrina maggioritaria e della giurisprudenza
costituzionale, va inquadrato in termini di adattamento automatico delle previsioni di matrice costituzionalistica e, più
in generale, del nostro ordinamento, alle fonti di derivazione internazionale. Da intendersi, queste ultime, non già quali
norme pattizie strictu sensu bensì come norme consuetudinarie internazionali di carattere generale.
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contratto di soggiorno per lavoro subordinato siglato tra un datore, italiano o straniero regolarmente
soggiornante in Italia, ed un prestatore di lavoro, presenti, a livello contenutistico, una serie di
presupposti, tra cui la garanzia, da parte del datore, della disponibilità di un alloggio per il
lavoratore, sempre che lo stesso rientri nei parametri minimi previsti ex lege in tema di alloggi di
edilizia residenziale pubblica.
A completamento del quadro sinora esposto, non possono non considerarsi gli ulteriori precetti
normativamente sanzionati, tesi a disciplinare il permesso di soggiorno per motivi strettamente
funzionali a garantire e tutelare il diritto allo studio e, dunque, l’accesso all’istruzione. Trattasi,
rispettivamente, dell’art. 39 della Legge n. 286/1999 nonché degli artt. 44-bis e 46 del D.P.R. n.
394/1999. Dati da doversi preliminarmente analizzare uti singuli, al fine di rendere maggiormente
agevole una valutazione di tipo globale.
Partiamo dall’art. 39 del T.U. Immigrazione, propriamente rubricato “Accesso ai corsi delle
università” e sistematicamente inserito nel Titolo V, Capo II intitolato “Disposizioni in materia di
istruzione e diritto allo studio e professione”.
Particolarmente interessante risulta essere il terzo comma della disposizione de qua, laddove
richiama esplicitamente il regolamento di attuazione nel chiaro intento di garantire un
coordinamento di disciplina negli ambiti tassativamente indicati alle lettere a), b), c), d), e), f)
dell’art. 39. In particolare, rileva il passaggio in cui si rinvia al predetto regolamento attuativo al
fine di stabilire gli adempimenti richiesti agli stranieri per il conseguimento del visto di ingresso e
del permesso di soggiorno per motivi di studio, anche con riferimento alle modalità di prestazione
di garanzia di copertura economica2 da parte di enti o cittadini italiani o stranieri regolarmente
soggiornanti nel territorio dello Stato in luogo della dimostrazione di disponibilità di mezzi
sufficienti di sostentamento da parte dello studente straniero3.
Infine, spostando l’attenzione verso il D.P.R. 394 del 1999, entrano in gioco gli articoli 44-bis e 46,
rispettivamente collocati nel Capo VI, contenente diposizioni in materia sanitaria nonché nel Capo
VII, regolamentante, invece, la materia dell’istruzione, del diritto allo studio e delle professioni.
L’intenzione del legislatore di agevolare una lettura combinata delle diverse normative traspare, nel
caso dell’art. 44-bis, dalla lettura del primo comma, il quale nel disporre che l’ingresso in territorio
nazionale è consentito, per motivi legati allo studio, ai cittadini stranieri che intendano seguire corsi
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La giurisprudenza amministrativa è ormai concorde nel ritenere che la borsa di studio non possa in alcun caso
qualificarsi in termini di adeguata copertura economicamente rilevante, in considerazione della modesta entità e della
mancanza di specifiche disposizioni.
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Nello specifico, cfr. III comma, art. 39, lettera a), T.U. Immigrazione.
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universitari, richiede, al contempo, che vengano osservate le modalità appositamente prescritte
dall’art. 39 del Testo Unico e dall’art. 46 del Decreto. Traspare, per un verso, un esplicito richiamo
alla disposizione di cui precedentemente si è già fanno accenno (art. 39 T.U.) e, per altro, un rinvio
alla previsione incardinata nell’alveo dello stesso D.P.R. 394, qual è appunto l’articolo 46.
Quest’ultimo, in linea con le pregresse disposizioni ed in un’ottica fortemente integrativa, entra nel
vivo del thema : l’accesso degli stranieri alle università. In apertura, la norma pone l’accento su
diversi profili, catalogabili sotto un triplice ordine : 1. il rispetto e la sintonia con gli orientamenti di
stampo comunitario in materia di accesso di studenti stranieri all’istruzione universitaria; 2. la
predeterminazione
di
criteri
e,
conseguentemente,
l’applicazione
di
una
dettagliata
regolamentazione sugli accessi all’istruzione universitaria; 3. infine, la coerenza con le esigenze
della politica estera culturale e della cooperazione allo sviluppo, ferma restando la valenza degli
accordi di collaborazione universitaria siglati con Paesi terzi.
I successivi commi contengono ugualmente un richiamo all’art. 39 del Testo unico4.
Si pensi, a titolo esemplificativo, al terzo comma dell’art. 46 del Regolamento, il quale nel sancire
che le università italiane sono tenute ad istituire con altre istituzioni formative, enti locali e regioni,
corsi di lingua italiana, stabilisce, al contempo, che ad essi sono ammessi non solo gli stranieri
provenienti dai Paesi terzi in possesso del visto di ingresso e del permesso di soggiorno per motivi
di studio bensì anche gli stranieri indicati dal quinto comma dell’art. 39 del Testo Unico, sempre
che non siano in possesso di una certificazione attestante una opportuna conoscenza della lingua
italiana. Quinto comma che, invero, non è rimasto esente da successive modificazioni e sostituzioni,
operate dalla Legge n. 189 del 2002 e, più recentemente, dal D.L. 14 settembre 2004, n. 241. Nello
specifico, in un intento di parificazione della posizione degli studenti stranieri con quelli italiani,
esso consente l’accesso ai corsi universitari ed alle scuole di specializzazione delle università agli
stranieri procedendo ad un implicito distinguo. Per un verso, l’accessibilità viene estesa agli
stranieri titolari di carta di soggiorno o di permesso di soggiorno per lavoro subordinato o
autonomo, per motivi familiari, per asilo politico, per asilo umanitario o per motivi religiosi; per
altro, agli stranieri, ovunque residenti, che siano titolari dei diplomi finali delle scuole italiane
all’estero o delle scuole straniere o internazionali, operanti in territorio italiano o estero, purchè le
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Il secondo comma dell’art. 46 nel definire gli adempimenti amministrativi e i criteri utili alla valutazione della
sufficienza dei mezzi di sussistenza4, ha sempre prescritto la necessaria emanazione di un decreto, rinviando
espressamente al quarto comma dell’art. 39 del Testo sull’immigrazione. Rinvio che, tuttavia, è stato oggetto di
revisione dal momento che stando alla attuale normativa non può trovare più alcuna positivizzazione, laddove il quarto
comma dell’art. 39 T.U. è stato oggetto di una abrogazione operata dall’art. 5, comma 8, lett. f), D.L. n. 145 del 2013 4,
poi convertito nella Legge n. 9 del 2014, recante interventi urgenti di avvio del piano “Destinazione Italia”.
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stesse siano oggetto di intese o di normative speciali per il riconoscimento dei titoli di studio ed in
sintonia con le condizioni generali richieste per l’ingresso per studio.
II. Un accenno all’istituto giuridico della conversione, alla luce degli indirizzi dottrinari e
giurisprudenziali.
La conversione, quale istituto che giuridicamente affonda le proprie radici nello ius di matrice
civilistica, va propriamente intesa quale utilizzazione di un negozio giuridico, previamente
dichiarato nullo5, attraverso una ripresa degli elementi considerati rilevanti, al fine di trarne uno
nuovo e valido, senza che si rendano necessarie ulteriori manifestazioni di volontà. Dietro a tale
istituto, dunque, tende a celarsi una vera e propria opera di trasformazione, caratterizzata dalla
ripresa di quegli elementi e/o termini di natura negoziale ritenuti necessari per la continuità di un
dato schema negoziale, seppur sotto altra e diversa veste.
La finalità è chiara : salvaguardare, sotto il profilo dell’efficacia, un atto giuridico, tenendo conto, in
ogni caso, della meritevolezza degli interessi coinvolti. Entra in gioco, pertanto, il principio di
conservazione, la cui valenza emerge con maggiore preponderanza se si guarda alle disposizioni
cristallizzate nel codice civile ed, in particolar modo, all’art. 1424 c.c., intitolato “Conversione del
contratto nullo”.
Da un punto di vista contenutistico, la norma in questione sancisce che il contratto nullo può
produrre gli effetti di un diverso contratto sempre che ricorrano date condizioni. Ovvero che
sussista una identità di requisiti di sostanza e di forma tra negozio affetto da nullità e quello nel
quale lo si voglia convertire ed altresì che le parti, avuto riguardo allo scopo perseguito, avrebbero
voluto ugualmente il contratto se avessero avuto conoscenza della nullità.
Dunque, al fine di ritenere ammissibile o meno la conversione del contratto nullo, la norma richiede
espressamente una sorta di duplice indagine. Per un verso, va effettuata una valutazione che sia
indirizzata ad accertare l’oggettiva ricorrenza di un rapporto di continenza tra negozio nullo e
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Profilo sul quale varie tesi, sia dottrinarie che giurisprudenziali, si sono interrogate involge il campo di applicabilità
della conversione. È opinione comune che essa si rivolge ai soli atti nulli, con efficacia “ex tunc” (rectius : retroattiva),
con la conseguenza che, sotto il profilo finalistico, presenti una indubbia valenza di natura conservativa.
Linea interpretativa che, ad onor del vero, non è rimasta esente da critiche, seppur minoritarie ed in ogni caso rimaste
prive di conseguenze applicative. Più precisamente, dottrina autorevole (CASETTA) ha abbracciato una difforme linea
di pensiero e, dunque, una posizione maggiormente estensiva, in quanto tesa ad ammettere ipotesi di conversione anche
in merito ad atti annullabili. Si tratterebbe, in sostanza, di un annullamento operabile “ab origine”
dell’atto/provvedimento e della sua sostituzione con uno nuovo, dotato di tutti i requisiti e i crismi richiesti, con
efficacia operabile in via retroattiva.
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negozio che dovrebbe sostituirlo; per altro, invece, va eseguito un apprezzamento in merito
all’intento negoziale dei contraenti, finalizzato a stabilire se la volontà che ha indotto le parti a
stipulare il contratto nullo possa ritenersi orientata verso gli effetti del contratto diverso6. Si tratta di
condizioni che devono necessariamente coesistere affinchè possa dirsi pienamente ammissibile la
conversione del contratto nullo ex art. 1424 c.c..
Sulla necessaria compresenza di essi si è espressa anche la giurisprudenza di legittimità, a detta
della quale l’identità dei requisiti, sotto il profilo sostanziale e formale, tra negozio nullo e quello
nel quale lo si intenda convertire, non esaurisce i requisiti in presenza dei quali la conversione può
essere attuata, ritenendosi altresì necessario che risulti la manifestazione di volontà delle parti
propria del negozio diverso. Occorre, in altri termini, la considerazione dell’intento pratico
perseguito e non anche l’accertamento della volontà concreta delle parti di accettare il contratto
trasformato in conseguenza della conversione, dal momento che in quest’ultimo caso emergerebbe
la consapevolezza della nullità dell’atto compiuto, esclusa per definizione dall’art. 1424 c.c. 7.
Sotto il versante ontologico – interpretativo, ne consegue che la conversione del negozio giuridico
nullo non può trovare applicazione nei casi in cui la nullità sia dipesa da illiceità per contrasto con
norme imperative. Ipotesi, quest’ultima, che rimanda a quanto normativamente previsto dall’art.
1343 c.c.8. La motivazione è la seguente : il negozio giuridico che mira a perseguire uno scopo
vietato dall’ordinamento o in conflitto con i principi etici che rappresentano la morale sociale non
può considerarsi oggetto di conversione, laddove la nullità investe l’intento pratico preso di mira
dalle parti e non anche lo strumento prescelto dalle medesime9.
Uniformità di pensiero sussiste, poi, circa l’applicabilità dell’art. 1424 c.c. in merito alla
conversione dei contratti unilaterali. Nello specifico, tanto orientamenti di stampo tradizionale10
quanto ricostruzioni più recenti11, sono concordi nel sostenere che la previsione normativa in
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Cfr. Cass., sez. II, 5 marzo 2008, n. 6004. Nel caso in oggetto, la S.C. nel giudicare una questione avente ad oggetto la
cessione in uso perpetuo di posti auto all’interno di un condominio, convenuta tra due società di capitali, ha ritenuto che
la sentenza di appello difettasse nella motivazione per avere sostenuto che la durata del diritto d’uso andava ricondotta a
quella massima di trent’anni dell’usufrutto a favore di persona giuridica, senza porsi il problema se le parti avessero
voluto o meno tale diverso contratto.
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Cfr. Cass., sez. III, 27 febbraio 2002, n. 2912; Cass., 27 ottobre 2006, n. 23145, ove, nella specie, è stata esclusa la
applicabilità dell’art. 1424 c.c., laddove le parti, avendo raggiunto verbalmente l’accordo per la costituzione della
servitù di passaggio, non avevano inteso creare un diritto di natura personale a favore dei soli stipulanti.
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Art. 1343 c.c. : “La causa è illecita quando è contraria a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume”.
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Cfr. Cass. n. 1036/1953.
10
Cfr. Cass., 22 luglio 2004, n. 13641.
11
Cfr. Cass. , sez. III, 7 gennaio 2011, n. 263. Nel caso di specie, la Cassazione ha sostenuto che il diniego di
rinnovazione della locazione ex art. 29 Legge n. 392 del 1978, nullo in relazione alla prima scadenza, ben può
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oggetto possa estendersi anche ai negozi conclusi unilateralmente, in considerazione anche del
richiamo operato dal disposto di cui all’art. 132412 c.c.. Anche in tal caso, occorre la coesistenza di
entrambi i presupposti richiesti dall’art. 1424, ovvero che l’atto contenga i requisiti di sostanza e di
forma dell’atto diverso e che l’atto convertito risponda allo scopo perseguito con quello nullo.
Non sono mancati tentativi, seppur isolati, della giurisprudenza di legittimità di circoscrivere il
campo di applicabilità del suindicato dato normativo ai negozi unilaterali. Tentativi rimasti privi di
conseguenze applicative ma che, ai fini di una maggiore completezza espositiva, meritano
ugualmente un accenno.
Si tratta, nel dettaglio, di un orientamento assai risalente nel tempo e, precisamente, afferente agli
anni ottanta, periodo storico in cui gli Ermellini, giunsero a ritenere che la norma di cui all’art. 1424
c.c. prevedeva la sola ipotesi della conversione di un contratto nullo in un altro contratto e non già
la conversione di un contratto nullo in un negozio unilaterale13. La ratio, a detta dei giudici, andava
ricercata nella funzione caratterizzante l’istituto della conversione, da doversi intendere quale
strumento operante sul piano delle trasformazioni giuridiche e, come tale, non incline a comportare
la frammentazione del contratto in atti unilaterali con l’attribuzione di nuovi e diversi effetti.
Ma, come è stato già sottolineato, si è trattato di una tendenza minoritaria, in quanto sovvertita dagli
orientamenti successivi, come dimostrano i recenti arresti giurisprudenziali sopra menzionati.
In ogni caso, nonostante le sue origini civilistiche, la conversione trova vasta applicabilità anche
nella branca del diritto pubblico, seppur non normativamente cristallizzata in alcuna disposizione ad
hoc. Ciò ha indotto gli studiosi ad intervenire. In particolare, la dottrina è giunta a sostenere che si
tratti di un procedimento di riesame dell’atto affetto da illegittimità (rectius : vizio di legittimità).
Va, tuttavia, fatta una duplice considerazione : per un verso, ha ad oggetto precedenti provvedimenti
amministrativi; per altro, invece, risulta chiaramente essere l’espressione di poteri esercitati in via di
autotutela dall’amministrazione pubblica (CASETTA).
La constatazione maggioritaria circa la qualificazione della conversione ha, invero, investito
ulteriori istituti giuridici, al punto che, sulla scorta della dottrina dominante, è stato possibile
operare un distinzione in due macroaree; più specificatamente, accanto ai procedimenti di riesame,
sussistono i procedimenti di revisione. Questi ultimi, andando a condizionare il profilo
convertirsi in una disdetta cosiddetta semplice o a regime libero, valida per la seconda scadenza contrattuale, recando il
contenuto della manifestazione di volontà contraria alla prosecuzione e alla rinnovazione del rapporto.
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Art. 1324 c.c. : “Salvo diverse disposizioni di legge, le norme che regolano i contratti si osservano, in quanto
compatibili, per gli atti unilaterali tra vivi aventi contenuto patrimoniale”.
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Si vedano Cass., sez. III, 29 novembre 1986, n. 7064, ove i giudici hanno ritenuto che una donazione nulla per difetto
di forma non può essere oggetto di conversione in una promessa unilaterale di pagamento; Cass., sez. II, 14 luglio 1983,
n. 4827.
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dell’efficacia, si collocano in un’ottica diametralmente opposta, laddove l’adozione di
provvedimenti al termine di procedimenti di revisione può influenzare l’efficacia14 durevole o
prolungata di un determinato atto/provvedimento amministrativo.
Si pensi, a titolo esemplificativo, alla revoca, quale provvedimento conclusivo di un procedimento
di secondo grado di revisione, appositamente previsto nell’ambito della Legge n. 241/1990 e, nel
dettaglio, dall’art. 21-quinquies. Previsione, quest’ultima, che non si limita a regolamentare
l’istituto de quo bensì, seppur in maniera velata, va a catalogarlo sotto una duplice veste, ovvero in
revoca per sopravvenienza e revoca basata sul c.d. “ius poenitendi”.
Il verificarsi della prima tipologia si ha in conseguenza di un mutamento non prevedibile delle
circostanze esistenti al momento dell’adozione del provvedimento; diversamente, la determinazione
della seconda categoria va funzionalmente riconnessa ad una nuova valutazione dell’interesse
pubblico originario (cfr. primo comma, art. 21quinquies).
Nonostante i profili di differenziazione, un fil rouge lega le due ipotesi : garantire la certezza delle
situazioni giuridiche coinvolte e, consequenzialmente, evitare il pericolo di condotte abusive. Ciò
spiega il motivo per cui il legislatore ha inteso ricollegare la legittimità dell’esercizio del potere di
revoca al ricorrere di specifici presupposti appositamente disciplinanti dalla norma. Si tratta, in altri
termini, di presupposti che abilitano l’organo pubblico a tornare sui suoi passi e, dunque, a
rimodulare l’esercizio dei pubblici poteri
Il fine è semplice : evitare sbilanciamenti rendendo possibile un equo contemperamento tra
l’interesse pubblicistico e quello di matrice privatistico, laddove i privati, il più delle volte, godono
di un limitato spazio operativo differentemente dalle amministrazioni pubbliche che, invece,
versano in una posizione di maggior vantaggio.
Su un piano diametralmente opposto si collocano, come già detto, i procedimenti di riesame. In
proposito, accanto alla conversione, meritano attenzione ulteriori figure giuridiche tipiche, quali la
conferma, la convalida, l’annullamento d’ufficio, la riforma, l’acquiescenza, la ratifica,
l’inoppugnabilità e la rettifica.
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Si veda, in proposito, la norma di cui all’art. 21quater, a mente della quale i provvedimenti amministrativi efficaci
sono immediatamente eseguiti, salvo che sia diversamente stabilito dalla legge o dallo stesso provvedimento. E, dunque,
l’esecuzione di un provvedimento è direttamente proporzionale alla sua efficacia, come dimostra chiaramente la norma
in commento. Non mancano, tuttavia, ipotesi in cui l’efficacia o l’esecuzione del provvedimento possano essere oggetto
di sospensione. Al riguardo, entra in gioco il disposto di cui al secondo comma dell’articolo, il quale ricollega
espressamente la sospensione alla sussistenza di “gravi ragioni”. Ancor più, sancisce che essa può operare per i tempi
ritenuti necessari e può essere disposta dallo stesso organo che ha emanato l’atto o da altro organo previsto ex lege. In
ogni caso, la sospensione non può essere disposta o perdurare oltre specifici termini, dovendosi guardare ai termini per
l’esercizio del potere di annullamento di cui all’art. 21-nonies. Passaggio, quest’ultimo, introdotto solo in tempi
recentissimi, grazie alla Legge 7 agosto 2015, n. 124, recante “Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle
amministrazioni pubbliche”.
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Ognuna di esse risponde ad una precisa finalità, potendosi, altresì, catalogare in procedimenti di
riesame aventi esito eliminatorio oppure esito conservativo.
È certo che la conversione vada ad inserirsi nell’ambito degli istituti operanti per scopi di natura
conservativa, presentando, per tale ragione, molteplici analogie ed assonanze con l’acquiescenza, la
convalida e la conferma.
Nello specifico, l’acquiescenza si sostanzia in una accettazione spontanea che ha luogo in
conseguenza della decorrenza dei termini previsti dalla legge ai fini dell’impugnazione. Con essa, il
soggetto determina l’impossibilità ad attaccare il provvedimento emesso dalla P.A. (melius :
decadenza dell’impugnazione), dimostrando così di condividerne l’operato. Deve trattarsi, in ogni
caso, di una condotta chiara ed univoca, laddove può trovare spazio solo nell’ipotesi in cui ci si
trovi dinanzi a comportamenti spontaneamente messi in atto dal soggetto, quale destinatario
dell’atto. Sul punto, merita sicuramente attenzione un recentissimo orientamento del Consiglio di
Stato, il quale, in accordo con orientamenti pregressi e nell’intento di decidere su una questione
afferente all’operabilità dell’acquiescenza, è giunto a delimitare, con chiarezza e puntualità, i
confini di applicabilità della stessa. Più precisamente, i giudici hanno evidenziato che
l’acquiescenza ad un provvedimento amministrativo opera solo nel caso in cui si sia in presenza di
atti, condotte o dichiarazioni univoche, poste liberamente in essere dal privato, dalle quali sia
possibile evincere la chiara ed incondizionata volontà dello stesso di accettarne gli effetti. Volontà
che, a detta del Consiglio, va ricostruita con particolare rigore siccome comportante una sostanziale
rinuncia al diritto di agire in giudizio15. Di guisa, non può trovare fondamento nella mera
presunzione16.
Passando alla convalida, va detto che si tratta di una manifestazione della voluntas proveniente dalla
medesima autorità amministrativa, la quale decide con provvedimento nuovo ed autonomo al fine di
eliminare il vizio che ha inficiato l’atto/provvedimento originariamente predisposto.
I vizi sui quali va ad incidere sono individuati a livello normativo17, fungendo da guida per le parti
interessate e per i giudici nella valutazione dei casi dinanzi ad essi attivati.
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Cfr. in proposito Cons. Stato, Sez. IV, 10.03.2014. Ex plurimus Cons. Stato, Sez. IV, 6 agosto 2013, n. 4140; Cons.
Stato, sez. V, 27 novembre 2012, n. 5966.
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Si veda Cons. Stato, Sez. IV, n. 1614/2002; Cons. Stato, Sez. VI, n. 1990/2003.
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Cfr. sul punto, art. 21-nonies, comma secondo, Legge n. 241/1990. Tuttavia, la possibilità di convalidare un atto è
prevista anche nel diritto civile ed, in particolar modo, agli artt. 1423 c.c. e 1444 c.c. . nello specifico, l’articolo 1423
sancisce che la convalida è indirizzata, sotto il profilo finalistico, a sanare i vizi che rendono il contratto annullabile e
non anche quelli che ne determinano la nullità. In aggiunta, l’art. 1444 prevede che il contratto annullabile viene
convalidato dal contraente al quale spetta l’azione di annullamento attraverso un atto che deve contenere la menzione
del contratto, il motivo di annullabilità nonché la dichiarazione con cui la parte dimostra la propria intenzione alla
convalida.
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È possibile, difatti, sottoporre a convalida i soli atti annullabili per vizi di legittimità, intendendosi
con essi i vizi di incompetenza ovvero il difetto di forma18. Chiarissima è anche la posizione assunta
dalla giurisprudenza amministrativa.
In particolare, recenti orientamenti sostengono che il vizio di competenza, eliminato dell’atto di
convalida, sia un vizio di forma. In altre parole, muta la forma ma la sostanza dell’atto rimane
invariata. Dunque, la particolarità risiede nel fatto che tale istituto consente di conservare le
decisioni della P.A. attraverso una eliminazione in autotutela dei vizi di competenza soggettiva
senza che si renda necessario un ricorso all’istituto dell’annullamento19.
Infine, vi è la conferma. Tradizionalmente si suol scindere in conferma propria e conferma
impropria. La prima, più comunemente nota quale conferma in senso proprio, ricorre quando la P.A.
entra nel merito della nuova istanza dando il via ad un vero e proprio procedimento istruttorio volto
ad una rivalutazione della situazione di fatto e di diritto nonché dei motivi avanzati dall’istante.
Diversamente, nel caso della conferma impropria (rectius: atto meramente confermativo) l’autorità
pubblica, dinanzi ad una richiesta di riesame, si limita a constatare l’esistenza di un pregresso
provvedimento senza compiere alcuna nuova istruttoria e senza una nuova motivazione.
Distinzione che trova le proprie origini nella dottrina e alla quale, nel tempo, è andata allineandosi
anche la giurisprudenza. Il Consiglio di Stato, a più riprese, ha inteso sottolineare il punctum da cui
prende avvio il distinguo tra atto adottato alla stregua di una vera e propria conferma e atto
meramente confermativo. In un’ottica di continuità, ha anch’esso precisato che la conferma strictu
sensu richiede una valutazione globale della fattispecie al contrario della conferma impropria, la
quale, non trovando fondamento in una nuova valutazione, si limita a dichiarare l’esistenza di un
precedente provvedimento. Pertanto, è con riferimento a quest’ultimo caso che si ritiene valido il
riferimento ad un atto già predisposto dall’amministrazione, non accorrendo l’apertura di una nuova
istruttoria e dunque un nuovo esame degli elementi di giudizio siano essi fattuali che giuridici20.
III. Sulla conversione del permesso di soggiorno rilasciato per attività di lavoro in permesso
per motivi di studio : la risposta negativa dei Giudici di Palazzo Spada.
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Secondo giurisprudenza costante, la convalida non è estensibile ai vizi diversi dall’incompetenza. La ratio su cui si
regge tale conclusione sembra poggiare su due pilastri. Da un lato, a detta dei giudici, ammettere la convalida anche in
ordine ai vizi diversi dalla competenza significa eludere le garanzie poste a tutela del cittadino leso dal provvedimento;
dall’altro, verrebbe ad essere svilito l’interesse del privato cittadino, quale ricorrente. Svilimento derivante da una
sentenza di annullamento del provvedimento viziato. (Ad. Pl. Con Stato, n.6/1991; Tar Lombardia-Milano, Sez. III, n.
5521/2004).
19
Cons. Stato, Sez. IV, n. 4460 del 2010.
20
Cfr. Cons. Stato, Sez. IV n. 1080/2004, Sez. V, n. 1645/2005.
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In proposito, risulta interessante un recentissimo caso discusso dapprima dinanzi al Tribunale
Regionale e deciso poi dalla Terza Sezione del Consiglio di Stato con sentenza depositata il 12
luglio 2016, n. 3089.
La quaestio prende avvio dalla proposizione di un ricorso avverso il rigetto della domanda di
rinnovo del permesso di soggiorno. Di seguito i fatti.
Il ricorrente nel 2013 otteneva un rinnovo del permesso per attesa occupazione, di durata annuale.
Decorso il periodo previsto, faceva nuovamente richiesta, alla Questura, di un ulteriore rinnovo,
sempre allo stesso titolo.
La competente autorità, tenuto conto che la parte aveva superato il periodo massimo consentito per
tale tipologia di permesso e che non risultava avere reddito ed un lavoro regolare dal giugno 2009,
dava avvio alla procedura per il rigetto della domanda, con consegna a mani del relativo preavviso
di diniego nel gennaio 2015.
Seguiva, a cura della parte, la produzione di un certificato dell’università attestante sia l’iscrizione
all’università, con relativo superamento del numero minimo di esami, sia la corresponsione di una
borsa di studio nell’anno accademico 2014/2015.
Tentativo, quest’ultimo, rimasto privo di esito positivo. Difatti, il Questore respingeva la richiesta di
rinnovo per un triplice ordine di motivi.
In primo luogo, affermava l’impossibilità di un ulteriore permesso di soggiorno per attesa
occupazione in considerazione della decorrenza del termine massimo previsto.
In secondo luogo, confermava la inidoneità della borsa di studio quale forma di sostentamento, non
potendo ad essa attribuirsi valenza reddituale.
Infine, ricorreva la mancanza di un rapporto di lavoro per poter richiedere un permesso di soggiorno
per motivi di lavoro subordinato ex art. 13, comma 12bis, DPR 394/1999.
La parte presentava ricorso dinanzi al Tribunale regionale avverso il diniego di rinnovo del
permesso di soggiorno.
Il giudice di prime cure respingeva il ricorso sull’assunto che l’iscrizione ad un corso universitario,
seppur con risultati brillanti, nonché la percezione di una borsa di studio non costituiscono requisiti
legittimanti il rinnovo del permesso di soggiorno.
Ancor più, procedeva ad una accurata ricostruzione normativa dei presupposti richiesti ai fini del
rilascio dello stesso attraverso un’analisi degli artt. 44bis e 46 del D.P.R. n. 394/1999 rispettivamente disciplinanti i visti di ingresso per motivi di studio e l’accesso degli stranieri alle
università - nonché dell’art. 39 della Legge n. 286/1998.
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In particolare, in rapporto a quest’ultima norma precisava il contenuto del terzo comma poiché
ritenuto centrale per la soluzione al problema.
Difatti, l’art. 39, III comma, del T.U. Immigrazione affida al regolamento di attuazione di cui al
DPR 394/1999 il compito di definire gli adempimenti richiesti agli stranieri per il conseguimento
del visto di ingresso e del permesso di soggiorno per motivi di studio anche con riferimento alle
modalità di prestazione di garanzia di copertura economica da parte di enti o cittadini italiani o
stranieri regolarmente soggiornanti nel territorio dello stato in luogo della dimostrazione di
disponibilità di mezzi sufficienti di sostentamento da parte dello studente straniero.
E, a detta del giudice amministrativo, il ricorrente non aveva seguito tale iter procedurale né poteva
qualificarsi la borsa di studio come garanzia di copertura economica, visto il suo modesto importo.
In aggiunta, non aveva ritenuto ammissibile la conversione del permesso di soggiorno da attesa
occupazione in permesso per motivi di studio laddove gli artt. 14, sesto comma, e 6, primo comma,
della Legge 286 ammettono l’ipotesi contraria. Ovvero la sola conversione del permesso di
soggiorno dai motivi di studio ai motivi di lavoro.
Avverso tale decisione, la parte proponeva appello deducendo : - la mancata verificazione, da parte
della Questura, dei presupposti richiesti per il rilascio di un permesso di soggiorno per proseguire
gli studi. Con richiamo, per via analogica, dell’art. 5, comma 9, della Legge 289; - la valenza
reddituale della borsa di studio. Nello specifico, evidenziava che l’importo della stessa era
sufficiente per vivere, non potendosi così ritenere indefettibile il rispetto del parametro dell’assegno
sociale.
L’amministrazione, dal canto suo, resisteva in giudizio, chiedendo la reiezione dell’appello.
La soluzione non tardò ad arrivare. Il Consiglio di Stato respingeva l’appello, conformandosi
appieno al giudizio espresso in prima facie. Con una precisazione. E cioè che l’appellante avrebbe
potuto chiedere il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi di studio secondo quando previsto
dagli artt. 44bis e 46 del D.P.R. 31 agosto 1999. n. 394 e dall’art. 39 della Legge 286/1998.
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