leggi, scrivi e condividi le tue 10 righe dai libri

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TIF EXTRA
Jeaniene Frost
I FANTASMI DELLA NOTTE
romanzo
Traduzione dall’inglese
di Donatella Rizzati
FANUCCI EDITORE
Della stessa autrice abbiamo pubblicato:
Ciclo Night Huntress:
La cacciatrice della notte
La regina della notte
L’urlo della notte
L’odore della notte
I sussurri della notte
Ciclo Night Huntress World:
Crepuscolo cremisi
Il bacio eterno dell’oscurità
Prima edizione: gennaio 2013
Titolo originale: One Grave at a Time
© 2011 by Jeaniene Frost
© 2013 by Fanucci Editore
via delle Fornaci, 66 – 00165 Roma
tel. 06.39366384 – fax 06.6382998
Indirizzo di posta elettronica: [email protected]
Indirizzo internet: www.fanucci.it
Published by arrangement with HarperCollins Publishers
Proprietà letteraria e artistica riservata
Stampato in Italia – Printed in Italy
Tutti i diritti riservati
Progetto grafico: Grafica Effe
Jeaniene Frost
I FANTASMI DELLA NOTTE
romanzo
Traduzione dall’inglese
di Donatella Rizzati
FANUCCI EDITORE
A mia nonna Kathleen.
Anche se non sei più con noi,
non per questo sei meno amata.
Prologo
Cimitero dell’eterna pace
Garland, Texas
«Donald Bartholomew Williams, riporta qui il tuo culo, adesso!»
Il mio urlo era ancora sospeso nell’aria, quando un movimento sulla destra attirò il mio sguardo. Proprio dietro una lapide a forma di piccolo angelo piangente c’era mio zio. Don mi
fissò mentre inarcava un sopracciglio in un modo che esprimeva il suo imbarazzo più eloquentemente di una serie di parole.
Con il completo, la cravatta, i capelli grigi pettinati all’indietro
nel solito stile impeccabile, agli occhi di chiunque Don sarebbe
apparso un comune uomo d’affari di mezza età, tranne per un
particolare. Bisognava essere un non-morto o un medium per
riuscire a vederlo.
Don Williams, ex capo di una branca segreta del dipartimento per la Sicurezza nazionale che proteggeva la gente da creature soprannaturali poco raccomandabili, era morto dieci giorni
prima. Eppure, eccolo lì. Un fantasma.
Avevo singhiozzato al suo capezzale quando quel fatale attacco di cuore lo aveva colpito, avevo assistito poco dopo alla
sua cremazione, avevo partecipato alla veglia funebre, come
uno zombie, e mi ero persino portata a casa le sue ceneri per
tenerlo vicino a me. Ero ben lontana da sapere quanto Don mi
fosse stato vicino in realtà, considerando tutte le volte in cui
avevo pensato di averne colto l’immagine con la coda dell’occhio. Avevo preso quelle fugaci visioni di mio zio per semplici
miraggi indotti dal dolore, fino a cinque minuti prima, quan9
do mi ero resa conto che anche Bones, mio marito, riusciva a
vederlo. Sebbene ci trovassimo al centro di un cimitero ancora
disseminato di corpi a causa di una battaglia recente, e io avessi ancora dentro di me dei proiettili d’argento che bruciavano
come piccoli dolorosissimi falò, tutto ciò su cui riuscivo a concentrarmi era che Don non aveva voluto farmi sapere che si
trovava ancora al di qua della tomba.
Mio zio non sembrava affatto contento che avessi scoperto
il suo segreto.
Una parte di me voleva gettargli le braccia al collo, mentre
un’altra voleva scuoterlo fino a fargli battere i denti. Avrebbe
dovuto parlarmi e non restarsene appostato nell’oscurità, giocando a fare il fantasma che fa cucù! Ovviamente, malgrado
i miei impulsi contrastanti, ormai non potevo né scuoterlo né
abbracciarlo. Le mie mani sarebbero scivolate attraversando la
sua nuova forma diafana e, d’altro canto, mio zio non poteva
più toccare niente, o nessuno, che fosse corporeo. Quindi tutto quello che potevo fare era rimanere a fissarlo, combattendo
confusione, gioia e incredulità mescolate con una certa irritazione per il suo inganno.
«Hai intenzione di dire qualcosa?» gli chiesi alla fine.
Il suo sguardo grigio guizzò qualche metro dietro di me.
Non avevo bisogno di girarmi per sapere che Bones era apparso alle mie spalle. Da quando mi aveva trasformata da
mezzosangue a vampiro vero e proprio riuscivo a sentirlo,
come se le nostre aure fossero intrecciate in modo soprannaturale.
E probabilmente lo erano, supponevo. Ancora non conoscevo pienamente la natura del legame tra i vampiri e i loro
creatori. Sapevo soltanto che esisteva e che era potente. A meno che Bones non si proteggesse, potevo percepire i suoi sentimenti, come fossero un flusso ininterrotto che scorreva nella
mia anima.
Ecco perché sapevo che Bones era molto più controllato di
me. Il suo iniziale sconcerto alla scoperta che Don era diventato un fantasma aveva lasciato il posto a una prudente contemplazione. Io, d’altro canto, sentivo ancora le mie emozioni
come un vortice.
«Lei è al sicuro, lo vedi» dichiarò Bones, con un accento inglese che tingeva le sue parole. «Abbiamo fermato Apollyon,
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quindi ghoul e vampiri sono di nuovo in pace. Puoi andare
sereno. Va tutto bene.»
La comprensione arrivò di colpo insieme a un’esplosione
d’emozione lancinante. Era per questo che mio zio non era
ancora ‘trapassato’, come avrebbe dovuto? Forse. Don era un
maniaco del controllo, addirittura più di me e, sebbene a­ves­se
rifiutato le mie ripetute offerte di curare il suo cancro trasformandolo in un vampiro, forse era stato troppo preoccupato
per le continue, ribollenti ostilità per andarsene completamente dopo che era morto. Avevo visto più di un fantasma
restare abbastanza a lungo per assicurarsi della salvezza di
qualcuno che amava. Accertarsi che io fossi sopravvissuta a
questa battaglia e avessi protetto l’umanità, prevenendo un
conflitto tra vampiri e ghoul, era senza alcun dubbio l’àncora
che lo aveva tenuto qui, ma adesso, come diceva Bones, poteva andar via.
Sbattei le palpebre per scacciare l’improvvisa umidità nei
miei occhi. «Ha ragione» dissi, con voce gracchiante. «Ti vorrò sempre bene, e mi mancherai sempre, ma tu sei... Dovresti
essere da qualche altra parte, vero?»
Mio zio ci guardò entrambi, con espressione seria. Sebbene
in realtà non avesse più i polmoni, sembrò che si fosse lasciato
sfuggire un profondo sospiro di sollievo.
«Addio, Cat» disse, le prime parole che aveva pronunciato
dal giorno in cui era morto. Poi l’aria intorno a lui divenne nebbiosa, appannando i suoi tratti e oscurando il suo profilo. Cercai la mano di Bones, e sentii le sue dita forti chiudersi intorno
alle mie, con una stretta confortante. Se non altro Don non stava
soffrendo come l’ultima volta che gli avevo detto addio. Tentai
di sorridere mentre l’immagine di mio zio sbiadiva completamente, ma il dolore mi colpì con una nuova ondata. Sapere che
se ne stava andando nel luogo a cui apparteneva non significava far svanire il dolore di perderlo.
Dopo che Don scomparve, Bones aspettò parecchi istanti
prima di girarsi verso di me.
«Micetta, so che è un pessimo momento, ma abbiamo ancora molte cose da fare. Per esempio toglierti quei proiettili,
sbarazzarci dei corpi...»
«Oh, merda» mormorai.
Mentre Bones stava parlando, Don comparve alle sue spal11
le. Un furibondo cipiglio incupiva i lineamenti di mio zio, agitava le braccia in un’insolita dimostrazione di sconcerto.
«Qualcuno vuole spiegarmi perché diavolo sembra che sia
incapace di andarmene?»
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Accartocciai la fattura che avevo di fronte, senza gettarla
via, soltanto perché non era colpa del sacerdote se seppellire le
ceneri di Don in terra consacrata non ne aveva accelerato la dipartita. Avevamo provato qualsiasi cosa ci avessero suggerito
gli amici, vivi, non-morti, o di altra specie, per far passare lo zio
da questo livello a quello successivo. Nulla aveva funzionato,
come dimostrava il fatto che Don stava camminando accanto a
me, con i piedi che quasi non toccavano il pavimento.
La sua frustrazione era comprensibile. Quando si muore,
a meno che la cosa non sia semplicemente propedeutica alla
trasformazione in ghoul o vampiro, ci si aspetterebbe quantomeno di non rimanere più attaccati alla terra. Sì, avevo già
avuto a che fare con i fantasmi, soprattutto ultimamente, ma
considerando il numero di persone morte, rispetto al numero
di fantasmi esistenti, le probabilità di incontrare il tuo Casper
erano meno dell’uno percento. Eppure sembrava che mio zio
fosse incastrato, volente o nolente, in questa rara immobilità
fra i due mondi. A uno che aveva avuto un’abilità machiavellica nel manipolare le circostanze, l’attuale impotenza doveva
bruciare parecchio.
«Tenteremo qualche altra cosa» proposi, facendo appello a
un sorriso forzato. «Ehi, tu sei un professionista nel superare
ostacoli insormontabili. Sei riuscito a impedire agli americani
di scoprire il mondo soprannaturale malgrado complicazioni
come smartphone, internet e YouTube. Troverai un modo per
passare oltre.»
Il mio tentativo di essere ottimista mi procurò soltanto uno
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sguardo torvo. «Fabian non ha mai trovato un modo per trapassare» borbottò Don, mentre con un gesto della mano indicava il mio evanescente amico, appostato proprio fuori dal
mio ufficio. «Così come nessuno degli innumerevoli altri che
hanno trovato la strada per arrivare a te, da quando sei diventata una calamita per i fantasmi.»
Trasalii, ma aveva ragione. Avevo pensato che essere il frutto dell’unione di un vampiro e di un’umana fosse il colmo
dell’improbabilità, ma questo aveva soltanto messo in luce la
mia mancanza di fede nel contorto senso dell’umorismo del
fato. Diventare un vampiro vero e proprio mi aveva piazzata
saldamente al primo posto nella lista delle Persone più strane
del mondo. Non mi nutrivo di sangue umano, come tutti gli
altri vampiri. No, io avevo bisogno del sangue dei non-morti
per sopravvivere, e da quel sangue assorbivo molto più del solo nutrimento. Per il momento assorbivo anche qualsiasi potere speciale detenesse il possessore di quel sangue. Bere da un
ghoul che, guarda caso, aveva dei vincoli impressionanti con
le tombe, mi aveva reso irresistibile per qualunque fantasma
capitasse nella mia zona. Detto fra noi, temevo che i miei nuovi
poteri potessero essere una delle ragioni che ancora impedivano a Don di trapassare. Sono certa che anche lui avesse pensato
la stessa cosa, dato l’atteggiamento più scontroso del solito che
aveva verso di me.
«Chiedigli di fare piano, micetta» borbottò Bones quando
entrò nella stanza. «Non riesco nemmeno a sentire i miei dannati pensieri.»
Alzai la voce per essere sicura che non arrivasse soltanto in
tutta la casa, ma anche nel portico e nel cortile sul retro.
«Ragazzi, per favore, potete abbassare la voce?»
Dozzine di conversazioni si ammutolirono all’istante, sebbene avessi espresso una richiesta più che un ordine. Mi sentivo ancora a disagio per il fatto che le mie nuove, sgradite capacità implicassero la piena obbedienza dei fantasmi a ogni mio
comando. Non volevo esercitare questo genere di potere su
nessuno, quindi ero molto attenta al modo in cui comunicavo
con i non-morti. Soprattutto con mio zio. Quanto sono cambiate le cose, riflettei. Per anni, quando lavoravo nella squadra
scelta di Don, mi ero infastidita per dover eseguire i suoi ordini. Adesso, lui era costretto a eseguire i miei, se lo avessi deciso,
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una cosa che in passato avrei desiderato con tutta me stessa, e
di cui adesso non vedevo l’ora di sbarazzarmi.
Bones sprofondò nella sedia più vicina a me. Il suo corpo
snello e muscoloso trasudava un miscuglio di sensualità ed
energia repressa, anche se si era seduto in una posa rilassata,
con un piede nudo appoggiato alla mia coscia. I suoi capelli scuri erano umidi per la doccia appena fatta, e aveva corti
riccioli aderenti alla testa. Una perla d’acqua vagabonda, che
scendeva pigramente lungo il suo collo, verso le profonde scanalature del petto, mi fece inumidire le labbra per l’improvviso impulso di seguirne il cammino con la lingua.
Se fossimo stati soli non avrei avuto bisogno di reprimere
quell’istinto. Bones sarebbe stato ben lieto di abbandonarsi a
un pomeriggio piacevole. Il suo desiderio sessuale era leggendario quanto la sua pericolosità ma, con due fantasmi che ci
stavano osservando, le esplorazioni della mia lingua avrebbero dovuto aspettare ancora un po’.
«Se continueranno a spuntare fantasmi rumorosi pianterò
aglio e marijuana intorno a tutta la casa» dichiarò Bones in
tono leggero.
Mio zio lo fulminò con lo sguardo sapendo che sia l’uno
che l’altra, in grandi quantità, avrebbero scacciato la maggior
parte dei fantasmi. «Non finché non sarò dove dovrei essere!»
Tossii, cosa del tutto inutile da quando per me respirare era
diventato facoltativo.
«Per quando saranno cresciuti, non dovrei avere più questo potere. Il periodo più lungo in cui ho mantenuto delle
capacità acquisite è stato di due mesi. È stato più o meno da
quando... Be’.»
Ancora non si sapeva che Marie Laveau, la regina voodoo
di New Orleans, era il motivo per cui adesso ero l’equivalente
di un capo scout fantasma. Era suo il sangue che ero stata costretta a bere. Sì, dopo capii perché me lo aveva fatto fare, ma al
momento mi fece incazzare parecchio.
«Conoscevo un fantasma che una volta impiegò tre settimane per trapassare» Fabian parlò dalla soglia. Al mio sorriso riconoscente, entrò. «Sono certo che Cat penserà a qualcosa che
ti aiuterà a compiere il viaggio» aggiunse con estrema fiducia.
Benedetto Fabian. Gli amici veri arrivano sempre al momento giusto, anche se sono trasparenti.
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Don non era convinto. «Sono morto da più di cinque settimane» rispose seccamente. «Hai conosciuto qualcuno che abbia impiegato così tanto tempo per trapassare?»
Il mio cellulare squillò offrendo a Fabian una scusa per non
replicare mentre io rispondevo. Tempismo perfetto anche per
l’interruzione, perché, a giudicare dall’espressione di Fabian,
Don non avrebbe apprezzato la sua risposta.
«Cat.»
Non ebbi bisogno di dare un’occhiata al numero per riconoscere che era Tate, il mio ex primo ufficiale, mi bastò quell’unica sillaba. Probabilmente chiamava per parlare con Don, ma
dato che la voce dei fantasmi non viaggiava bene attraverso
gli apparecchi tecnologici, avrei dovuto fare da tramite.
«Ehi, che succede?» dissi, facendo un cenno a Don mentre
con le labbra mimavo: «È Tate.»
«Puoi venire al complesso questa sera?» La voce di Tate
sembrava strana. Troppo formale. «Il consulente operativo
della squadra vorrebbe conoscerti.»
Consulente operativo? «Da quando ne abbiamo uno?» domandai, dimenticando che non facevo più parte del ‘noi’, ovvero della squadra, da un po’ di tempo.
«Da adesso» rispose Tate seccamente.
Lanciai un’occhiata a Bones, ma non aspettai la sua alzata di
spalle accondiscendente prima di rispondere. Non avevamo
progetti importanti, e la mia curiosità si era accesa. «Va bene.
Arriverò fra un paio d’ore.»
«Non venire da sola.»
L’ultima parte Tate la sussurrò prima di riattaccare. Le mie
sopracciglia si sollevarono, più per il fatto che avesse reso inudibile la frase per chiunque non fosse dotato di un orecchio
soprannaturale che per le parole in sé.
Era chiaro anche qualcos’altro. Sapevo che Tate non mi stava chiedendo di portare Bones, dato che sapeva che mio marito mi accompagnava sempre nei viaggi al mio vecchio posto di
lavoro. Doveva intendere qualcun altro, e c’era un’unica persona a cui riuscivo a pensare.
Mi rivolsi a Don. «Che ne dici di una gita in campagna?»
Dal cielo, il complesso somigliava a un qualsiasi edificio di
un solo piano, circondato da un mucchio di inutili aree di par16
cheggio. In realtà, era un vecchio rifugio antiatomico militare
che nascondeva quattro vasti sottolivelli con un esterno deliberatamente ordinario. La sicurezza era rigida, qui, come ci si
aspetterebbe da una struttura governativa segreta che vigila
sulle attività dei non-morti. Eppure, rimasi sorpresa di dover
rimanere a volteggiare in aria per dieci minuti prima che il nostro elicottero ricevesse il via libera per l’atterraggio. Non gli
stavamo piombando addosso senza preavviso, per l’amor del
cielo.
Io e Bones uscimmo dall’elicottero ma, quando tentammo
di entrare dalle doppie porte sul tetto, venimmo fermati da tre
guardie con elmetto.
«Documenti» abbaiò la guardia più vicina a noi.
Risi. «Buona questa, Cooper.»
Le visiere delle guardie erano talmente scure che non riuscivo a vedere i loro lineamenti, ma tutti avevano un cuore
che batteva e Cooper era l’unico dei miei vecchi amici umani
tanto strafottente da tentare una prodezza del genere.
«Documenti d’identità» ripeté la guardia, allungando la
parola quel tanto che bastava per farmi capire che la sua voce
non mi era familiare. Okay, non era Cooper e non era nemmeno uno scherzo. Le guardie che lo fiancheggiavano strinsero
appena la presa sulle loro armi automatiche.
«Non mi piace» borbottò Don, mentre arrivava fluttuando
alla mia destra. Nemmeno una delle guardie batté ciglio. Ovviamente, essendo umani non potevano vederlo.
La cosa non piaceva nemmeno a me, ma era evidente che
quelle guardie erano state mandate per verificare le nostre identità prima di lasciarci entrare. Cominciai a rovistare nella
tasca, avendo imparato, a mie spese, a portarmi sempre dietro
un portafogli, anche se pensavo di non averne bisogno, mentre
Bones si limitò a sorridere al terzetto.
«Volete il mio documento di identità?» gli domandò soavemente. «Eccolo qui.» In quel momento i suoi occhi diventarono verde smeraldo mentre i canini gli sporsero dalle labbra,
estendendosi in tutta la loro lunghezza come piccoli pugnali
d’avorio.
«Lasciateci passare, oppure ce ne andremo e voi potrete
spiegare al vostro capo che gli ospiti che aspettava hanno di
meglio da fare che perdere tempo.»
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La guardia che ci aveva chiesto i documenti esitò per un attimo carico di tensione, poi si fece da parte senza dire nulla.
I canini gemelli che scintillavano nella dentatura di Bones si
ritrassero e il colore dei suoi occhi tornò al solito castano scuro.
Mi rimisi il portafogli nei pantaloni. Dopotutto, immaginai,
non avrei avuto bisogno della patente di guida.
«Scelta saggia» commentò Bones. Sfiorai le guardie passando, con Bones subito dietro di me, mentre mio zio borbottava
ancora che quella faccenda non gli piaceva. Ma non mi dire,
pensai, ma non lo dissi, per ragioni più importanti del timore
di apparire come una che parlava da sola. Era la prima volta
che Don tornava nell’edificio che aveva diretto per anni e dove,
alla fine, era morto. Adesso vi stava tornando sotto una forma
soprannaturale che la maggior parte dei suoi colleghi non poteva nemmeno vedere. Doveva essere frustrante più di quanto
potessi immaginare.
Percorremmo il corridoio verso l’ascensore e io catalogai
mentalmente le differenze dall’ultima volta che ero stata qui. In
questa sezione di solito c’erano uffici affollati, ma adesso l’unico segno della presenza di qualcuno erano i nostri passi regolari sul pavimento di linoleum.
Quando entrammo nell’ascensore, premetti il bottone per il
secondo sottolivello, dove erano situati gli uffici del personale.
Una toccante sensazione di déjà-vu mi investì mentre le porte
scintillanti si aprivano.
L’ultima volta che ero scesa con quell’ascensore, stavo correndo al capezzale di Don per dirgli addio. Adesso, lui era ac­
canto a me, mentre la parete opposta dell’ascensore era confusamente visibile attraverso il suo profilo. Di sicuro la vita prende­­va
certe pieghe, nel suo percorso, che non avrei mai potuto prevedere.
«Tanto perché tu lo sappia, se vedo una luce brillante mentre sono qui, ci correrò dentro senza aspettare che tu dica una
sola dannata parola» disse mio zio, rompendo il silenzio.
Il suo tono beffardo mi fece ridere. «Farò il tifo per te fino al
traguardo» gli assicurai, felice che il suo mordace senso dell’umorismo non fosse scomparso, malgrado le difficoltà delle ultime, lunghe settimane.
L’ascensore si fermò e noi uscimmo. Istintivamente volevo
dirigermi verso quello che un tempo era l’ufficio di Don, inve18
ce girai a sinistra. Tate diceva che non si sentiva a suo agio nel
vecchio ufficio di Don, anche se era più ampio e conteneva una
piccola stazione di comando.
Non lo biasimavo. Sarebbe stato come profanare una tomba
rimuovere gli oggetti di Don dal suo ufficio mentre lui tecnicamente era ancora qui, anche se, in tutto l’edificio, soltanto una
manciata di persone ne era al corrente. Mio zio aveva voluto
che nessuno conoscesse il suo nuovo stato di fantasma, ma io
avevo rifiutato di nascondere l’informazione a ogni membro
non-morto della squadra che ancora avrebbe potuto vederlo
e parlargli.
La porta di Tate era socchiusa. Entrai senza bussare, sebbene sapessi che non era solo. Qualcuno con un cuore che batteva era dentro con lui. Un cuore che batteva e troppa colonia per
il naso sensibile di un vampiro.
«Ciao, Tate» dissi, notando quanto fosse rigida la sua postura malgrado il fatto che fosse seduto.
Il motivo della sua tensione doveva essere l’uomo alto e magro che era in piedi a pochi metri dalla sua scrivania. Aveva
i capelli brizzolati con lo stesso taglio militaresco che piaceva
anche a Tate, ma qualcosa nella barba suggeriva che i capelli
fossero l’unica caratteristica militare che possedeva. Aveva un
atteggiamento troppo rilassato e le mani esibivano dei calli che
avrei scommesso provenissero da una penna, piuttosto che da
un’arma.
Il suo sguardo sorpreso rivelò che non si era accorto di noi
finché non avevo parlato, altrimenti, anche se i vampiri erano
furtivi, non avrei fatto alcun tentativo per nascondere il rumore del nostro arrivo.
L’arroganza del suo sguardo, una volta che si fu ripreso dalla
sorpresa, me lo fece riclassificare mentalmente da civile a pedina
governativa. Di solito, soltanto due cose giustificavano un atteggiamento tanto diretto e presuntuoso al primo incontro: la
sfacciataggine da non-morto o la convinzione che le conoscenze che si hanno autorizzino a dettar legge. Dato che il Signor
Arrogante era umano, propendevo per la seconda.
«Lei deve essere il nuovo consulente operativo» dissi sorridendo in un modo che, a chi non mi conosceva, sarebbe apparso amichevole.
«Sì» fu la sua fredda risposta. «Il mio nome è...»
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«Jason Madigan.» Don completò la frase nello stesso momento del brizzolato consulente. La voce di mio zio sembrò
affaticata, quasi scioccata.
«Che cosa ci fa lui qui?»
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Mantenni la mia attenzione su Madigan, senza guardare
Don, sebbene fosse il mio primo impulso. Nessuno doveva
capire che c’era un fantasma nella stanza e la domanda era
stata retorica, visto che Don sapeva che Madigan non poteva
sentirlo.
«Cat Crawfield... Russell» mi presentai. Okay, io e Bones
non eravamo sposati secondo la legge degli umani, ma secondo quella dei vampiri eravamo legati l’uno all’altra più strettamente di quanto un pezzo di carta potesse mai fare con due
persone.
Un’ondata di piacere raggiunse il mio subconscio, trapelata
da Bones nonostante le barriere che aveva eretto intorno a sé
non appena l’elicottero era atterrato. Gli faceva piacere che avessi aggiunto il suo cognome al mio. Questa era tutta l’ufficialità di cui avevo bisogno per decidere che, da questo momento
in poi, sarei stata Catherine Crawfield Russell.
Sebbene non avessi bisogno della reazione di Don per dedurre che Madigan sarebbe stato un rompicoglioni, anni di
rigida educazione contadina mi resero impossibile non porgere la mano. Madigan la guardò per una frazione di secondo di troppo, prima di stringerla. La sua esitazione rivelò che
quell’uomo aveva dei pregiudizi contro le donne o contro i
vampiri, e nessuno dei due me lo rendeva simpatico.
Bones pronunciò il proprio nome senza nessuno dei miei
gesti compulsivi ma, bisogna ricordarlo, aveva avuto un’infanzia difficile, era stato costretto a rubare per sopravvivere in
quanto figlio di una prostituta, nella Londra del XVIII secolo.
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Senza che gli venissero inculcati costantemente le buone maniere e il rispetto per gli adulti, come era successo a me. Fissò
Madigan senza batter ciglio, con le mani nelle tasche dell’impermeabile di pelle e il suo mezzo sorriso, più provocatorio
che cortese.
Madigan colse l’allusione. Sciolse la sua mano dalla mia e
non tentò di porgerla a Bones. E forse un’impercettibile espressione di sollievo gli aveva addirittura attraversato il viso.
Pregiudizi contro i vampiri, dunque. Perfetto.
«Aveva ragione, allora» disse Madigan a Tate, con una giovialità che suonava falsa. «È venuto con lei.»
Per un attimo, il mio sguardo saettò verso Don. In nome di
dio, Madigan poteva vederlo? Lui era umano, ma forse aveva
delle capacità medianiche...
«Tra i vampiri, se si invita una sposa, anche l’altro è automaticamente invitato» replicò Bones in tono leggero. «È una
regola dei tempi antichi, un po’ in disuso perché la conoscono
in pochi.»
Oh, Madigan intendeva Bones. Soffocai una risatina. Mio
marito diceva la verità, ma anche se non fosse stato così, Bones
non sarebbe rimasto a casa. Io non lavoravo più qui, quindi
non potevo subire alcuna punizione se a Madigan non piaceva il mio comportamento. E non gli sarebbe piaciuto, questo
potevo giurarglielo.
«Cos’è questa storia del controllo documenti sul tetto?» domandai per interrompere la battaglia di sguardi tra Madigan
e Bones, che il consulente avrebbe perso. Nessuno poteva sopraffare un vampiro con lo sguardo.
Madigan spostò l’attenzione su di me, mentre il suo odore
naturale diventava leggermente più acido per l’aumento di
alcuni elementi chimici.
«Una delle negligenze che ho notato, quando sono arrivato
due giorni fa, è stata che nessuno ha controllato i miei documenti quando sono atterrato. Questa struttura è troppo importante perché venga compromessa da una cosa banale come
una sicurezza poco rigorosa.»
Tate si inalberò, mentre alcune scintille smeraldine apparivano nell’indaco dei suoi occhi, ma mi limitai a sbuffare.
«Se si arriva via cielo, magari immaginano che, dopo aver
ricontrollato l’identità del velivolo, dell’equipaggio e del piano
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di volo, chiunque si trovi all’interno sia chi dovrebbe essere.
Soprattutto se le persone vengono invitate. Ma se non lo fossero, e le guardie lasciassero comunque perdere tutto il resto,
un documento falso sarebbe la parte più facile. D’altro canto»
altra risatina «se qualcuno non autorizzato arrivasse via cielo,
pensa che sarebbe in grado di filarsela avendo il velivolo sotto
tiro e parecchi vampiri capaci di rintracciarlo solo seguendone
l’odore?»
Invece di mettersi sulla difensiva per la mia esplicita analisi
di quanto fosse inutile un controllo documenti sul tetto, Madigan mi fissò con aria meditabonda.
«Mi hanno detto che lei aveva dei problemi con l’autorità e
nell’eseguire gli ordini. Sembra che non abbiano esagerato.»
«Già, è vero» risposi con un sorriso allegro. «Che altro le
hanno detto?»
Madigan fece un gesto sprezzante con la mano. «Troppe
cose per fare un elenco. La sua ex squadra parlava di lei in
modo talmente entusiastico che mi sono visto costretto semplicemente a incontrarla.»
«Ah sì?» Non me la bevvi come l’unica ragione per cui mi
trovavo lì, ma stetti al gioco. «Be’, qualsiasi cosa lei faccia, ignori quello che deve averle detto mia madre su di me.»
Madigan non fece nemmeno l’ombra di un sorriso. Coglione
ingessato.
«Mi chiedo che cosa faccia un consulente operativo» disse
Bones, come se, dal momento in cui eravamo arrivati, non fosse stato occupato a usare la sua capacità di lettura del pensiero
per spiare la mente di Madigan.
«Si assicura che il passaggio di gestione in un dipartimento
altamente riservato della Sicurezza nazionale sia regolare come deve essere per il bene del Paese» disse Madigan, di nuovo
con quel tono compiaciuto. «Mi occuperò di riesaminare tutti
i rapporti nel corso delle prossime settimane. Missioni, personale, budget, ogni cosa. Questo dipartimento è troppo importante per affidarci alla sola speranza che il sergente Bradley sia
pronto per mandarlo avanti.»
Tate si limitò a contrarre un robusto muscolo, sebbene l’insulto implicito dovesse bruciare. Pur con tutti i problemi che
avevo avuto con lui in passato, la sua competenza, dedizione
ed etica lavorativa non erano mai stati in discussione tra di noi.
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«Non troverà nessuno più qualificato per gestire quest’operazione, ora che Don è morto» dissi con freddezza adamantina.
«Non è per questo che è qui» sibilò Don. Era rimasto in silen­
zio negli ultimi minuti, ma adesso appariva più agitato di quanto lo avessi mai visto. Diventare un fantasma aveva privato il
mio freddo zio del controllo sulle sue emozioni, oppure tra lui
e Madigan era successo qualcosa in passato?
«Sta correndo dietro a qualcosa di più importante che esaminare le prestazioni lavorative di Tate» continuò Don.
«Mi interessa soprattutto essere messo al corrente dei suoi
rapporti» mi disse Madigan, ignaro dell’altra conversazione
nella stanza.
Alzai le spalle. «Si accomodi. Spero che le piacciano le storie
di delinquenti ragazzi o ragazze, che alla fine vengono messi
dentro.»
«Le mie storie preferite» replicò Madigan, con un bagliore
negli occhi di cui non mi curai.
«Dave, Juan, Cooper, Geri e mia madre sono nella sala di ricreazione?» domandai, dando un taglio a quegli stupidi giochi
di parole. Se avessi passato ancora qualche minuto con lui, il
mio carattere avrebbe avuto la meglio sul buonsenso, e non sarebbe stato un bene. La scelta più intelligente sarebbe stata fingermi mansueta e lasciare che Tate scoprisse se davvero Madigan stava ficcando il naso in quest’operazione per altri motivi.
«Perché vuole sapere dove sono?» domandò Madigan, come se io avessi brutte intenzioni da cui li doveva proteggere.
Il mio sorriso nascose il fatto che stavo digrignando i denti.
«Perché dal momento che sono qui, voglio salutare i miei
amici e la mia famiglia» riuscii a rispondere, orgogliosa di me
stessa per non aver terminato la frase con ‘stronzo’.
«Soldati e reclute sono troppo occupati per lasciar perdere
ciò che stanno facendo soltanto perché un visitatore vuole fare due chiacchiere» dichiarò seccamente Madigan.
I miei canini saltarono fuori di propria iniziativa, quasi dolenti per il desiderio di strappare quell’espressione boriosa
dalla faccia leggermente rugosa di Madigan. Probabilmente,
qualcosa trapelò perché l’uomo proseguì dicendo: «Devo avvertirla, qualsiasi azione ostile verso di me verrà presa come
un attacco contro gli Stati Uniti stessi.»
«Razza di coglione pomposo» scattò Don, allungandosi con
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una falcata verso Madigan prima di fermarsi bruscamente, come ricordando che non c’era nemmeno una singola cosa che
potesse fargli, nel suo stato attuale.
La traccia di un ammonimento si insinuò nella furia delle
mie emozioni: il silenzioso promemoria di Bones perché mantenessi il controllo. Lo feci, imponendo ai miei canini di ritrarsi e ai miei occhi di tornare, dal verde incandescente, alla loro
normale tonalità di grigio.
«Cos’è che le ha fatto venire l’idea che volessi attaccarla?»
domandai, rendendo la mia voce quanto più innocente e sorpresa possibile, mentre, mentalmente, lo ripiegavo a forma di
pretzel.
«Magari sono nuovo qui, ma ho studiato approfonditamente i rapporti sulla vostra razza» disse Madigan, lasciando cadere la condiscendente facciata da agente federale, per rivelare la
nuda ostilità che nascondeva al di sotto. «Tutti dicono che gli
occhi dei vampiri cambiano colore appena prima dell’attacco.»
Bones rise, un suono carezzevole in contrasto con la pericolosa energia che cominciava a premere contro le sue mura difensive. «Balle. I nostri occhi diventano verdi per motivi che non
hanno niente a che fare con l’intenzione di uccidere. E ho visto
vampiri squarciare gole senza il minimo cambiamento nel colore delle loro iridi. È questa l’unica esperienza che ha avuto
con i vampiri? Dei rapporti?»
L’ultima parola era carica di educato disprezzo. Madigan
si irrigidì.
«Ho sufficiente esperienza per sapere che alcuni riescono a
leggere la mente.»
«La cosa non dovrebbe preoccuparla. Gli uomini che non
hanno niente da nascondere non hanno niente da temere, giusto, collega?»
Aspettai per vedere se Madigan si sarebbe incazzato e avrebbe accusato Bones di invadere i suoi pensieri durante questa conversazione, ma lui si limitò ad aggiustarsi gli occhiali di
metallo come se la loro posizione sul suo naso fosse di primaria importanza.
«Tua madre e gli altri termineranno l’addestramento fra
un’ora» disse Tate, le prime parole che aveva pronunciato da
quando eravamo entrati nel suo ufficio. «Puoi aspettare qui, se
ti va. Madigan se ne stava giusto andando.»
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«Lei mi sta congedando?» domandò Madigan con tono incredulo.
L’espressione di Tate era distaccata. «Non aveva detto, proprio prima che Cat entrasse, che per oggi ne aveva abbastanza
di me?»
Le guance di Madigan si colorirono lievemente. Non per
imbarazzo, da quello che diceva il suo odore alterato da un accenno di cherosene. Indignazione accuratamente controllata.
«L’ho detto» rispose seccamente. «Mi farà avere quei rapporti domani, in mattinata? Presumo che stare sveglio per il
resto della notte non debba essere difficile per uno come lei.»
Ma che stronzo. I miei canini reagirono di nuovo, ma questa
volta li trattenni nelle gengive mentre impedivo anche al verde
di apparire nei miei occhi.
In quel momento Madigan ci voltò la schiena. «Cat. Bones.»
Pronunciò i nostri nomi come se ce ne dovessimo scusare, ma
io mi limitai a sorridere come se nelle mie fantasie non lo avessi già sventrato più volte.
«Un vero piacere conoscerla» dissi, tendendo ancora una
volta la mano soltanto perché sapevo che non voleva toccarla.
La prese con la stessa lieve esitazione che aveva mostrato
prima. Quando ebbi la sua mano nella mia non strinsi ma, oh,
la tentazione fu forte.
Non appena lo lasciai andare, Madigan si precipitò fuori
dall’ufficio di Tate, lasciando dietro di sé una nube di dopobarba e irritazione.
«Lo seguirò» disse risolutamente mio zio. «E non ho intenzione di tornare indietro con te, Cat.»
Lanciai un’occhiata a Tate, il quale mi indirizzò un quasi
impercettibile cenno d’assenso. In verità, ero sollevata che non
avesse tentato di discutere. Don poteva indagare su Madigan
in modo infinitamente più efficace di chiunque altro. Forse
Madigan era qui perché lo zio Sam stava diventando paranoico sul fatto di avere un vampiro a capo di un’operazione volta
a nascondere le prove dell’esistenza dei non-morti. Se così fosse stato, Madigan avrebbe sprecato un mucchio di soldi dei
contribuenti nell’esaminare scrupolosamente quest’indagine
solo per giungere alla conclusione che Tate era un eccezionale
sostituto di Don. Il suo dossier personale era senza macchia,
per cui non nutrivo alcun timore che il consulente potesse ti26
rar fuori qualche scheletro nell’armadio di Tate, reale o metaforico.
Ma non era questo il motivo per cui ero felice che mio zio
si stesse concentrando più su Madigan che sul modo di trovare la strada per la porta verso l’altro mondo. Se la presenza
di Madigan era dovuta a una ragione più sinistra, Don poteva
avvertirci più in fretta di chiunque altro. Ero più che convinta
che Tate, Dave e Juan fossero in grado di tirarsi fuori da qui
se l’avversione di Madigan per i non-morti avesse preso una
piega più pericolosa; ma mia madre, con tutto il suo coraggio,
non era dura come loro.
E questo non era un normale edificio in cui poteva semplicemente buttare giù una parete per uscire fuori. Il quarto sottolivello era costruito per trattenere i vampiri contro la loro volontà. Dovevo saperlo. Lo avevo progettato io, in passato, quando
catturavo vampiri in modo che gli scienziati di Don potessero
creare una miracolosa droga sintetica chiamata Brams. Questa
droga, derivata da un composto curativo presente nel sangue
dei non-morti, aveva mantenuto in vita parecchi membri della
nostra squadra dopo che avevano subìto delle terribili ferite.
Poi Bones si era unito all’operazione e Don aveva superato la
paura che il sangue di un vampiro, dal potere curativo di gran
lunga più efficace, avrebbe fatto diventare malvagio chiunque
lo bevesse. Bones donò una parte del suo sangue perché Don
lo distribuisse fra i membri feriti della squadra secondo il bisogno e, come risultato, le celle per vampiri del quarto sottolivello erano rimaste vuote per anni.
Ma questo non significava che non potessero tornare di
nuovo in auge, se Don aveva ragione e Madigan si trovava
qui per ragioni diverse da un controllo di routine.
O magari ultimamente mi era caduta addosso talmente tanta sfiga che ormai mi aspettavo il peggio da chiunque, con o
senza un valido motivo. Scossi la testa per schiarirmi le idee.
Malgrado Madigan mi facesse incazzare, non era passato molto tempo da quando Don aveva avuto quello stesso pregiudizio riguardo ai vampiri. Diavolo, soltanto otto anni fa ero
stata io a pensare che l’unico succhiasangue buono fosse un
succhiasangue morto! Sì. L’atteggiamento di Madigan trasudava Sospettoso Burocrate Bastardo da tutti i pori ma, se tutto
andava bene, passare un po’ di tempo con Tate, Juan, Dave e
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mia madre gli avrebbe fatto capire che di soprannaturale ce
n’era molto più di quanto avesse letto nelle pagine dei rapporti
riservati sugli omicidi.
«Allora, che ne pensi di lui?» Tate strascicò le parole, il tono
rigido di prima era scomparso.
«Che io e lui non saremo mai amici del cuore» fu tutto quello che risposi. Non c’era bisogno di dire di più, dal momento
che in questa stanza potevano esserci delle microspie.
Tate grugnì. «Anch’io ho questa sensazione. Forse è un bene che le... circostanze siano quelle che sono.»
Dalla sua cauta allusione alle condizioni di Don, era chiaro
che nemmeno lui voleva correre il rischio che le nostre parole
venissero riascoltate da Madigan in un secondo momento.
Scrollai le spalle, d’accordo con lui. «Presumo che ogni cosa
avvenga per una ragione.»
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3
Quando io e Bones salimmo in macchina per un viaggio
massacrante verso casa, mancava soltanto un’ora all’alba. Avremmo potuto raggiungere Blue Ridge più in fretta, se avessimo fatto tutto il tragitto in volo, ma tenere l’elicottero nell’aeroporto privato di zona era meno di cattivo gusto. Sebbene il
nostro vicino più prossimo si trovasse a quasi un ettaro di distanza, l’andirivieni di un elicottero tendeva ad attrarre molto
più l’attenzione di una macchina. Più mantenevamo un basso
profilo nella nostra area di residenza, meglio era.
Una volta in macchina, però, io e Bones riuscimmo a parlare liberamente. La prima voce sulla mia lista di cose da fare,
dopo aver riposato un po’, era ripulire l’elicottero dalle cimici,
e non mi riferivo a quelle con le ali. Madigan mi sembrava il
tipo da considerare normale piantare nel nostro elicottero dei
dispositivi di ascolto e localizzazione, mentre io e Bones eravamo nell’edificio. Che diavolo, quando avevo cominciato con la
squadra e tutti erano preoccupati che passassi al lato oscuro,
Don aveva messo sotto controllo il mio veicolo e mi aveva fatto
seguire ventiquattr’ore al giorno sette giorni su sette. Ci aveva
messo un anno per darmi abbastanza fiducia da piantarla con
pedinamenti e intercettazioni telefoniche. Qualcosa mi diceva
che a Madigan sarebbe occorso anche più tempo.
«Allora, com’è la sua mente?» domandai.
Bones mi guardò di sottecchi mentre guidava sulle strade
tortuose. «Indistinta. Chiaramente sospetta le mie capacità e si
è costruito una difesa decente per contrastarle.»
«Davvero?» Non mi era sembrato che Madigan avesse l’eccezionale fermezza mentale necessaria per impedire a Bones
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la lettura del pensiero, ma immagino significasse solo che lo
avevo sottovalutato.
«Ripete mentalmente dei versi, senza fermarsi mai, per cui
sono quasi tutto ciò che sento» rispose Bones con risentita ammirazione. «Sono riuscito a cogliere poche cose dietro quelle
parole, per esempio crede che innaffiarsi di colonia annullerà
la capacità di un vampiro di annusare le sue emozioni, e che
disprezza Don. La sola menzione del nome di tuo zio faceva
apparire nei suoi pensieri un profluvio di insulti.»
«Nemmeno Don gli sembrava molto affezionato.»
Avrei dovuto chiedere a mio zio qualcosa sui loro trascorsi, quando lo avessi rivisto. Forse era semplice rivalità per una
donna; che, dopotutto, era stata una causa sufficiente a scatenare la guerra di Troia. Eppure, finché Madigan si comportava correttamente, qualsiasi cosa fosse successa tra lui e Don in
passato non importava. Madigan pensava che mio zio fosse
morto e sepolto. Non sapeva di aver ragione soltanto a metà.
«Oltretutto è profondamente diffidente nei confronti dei
vampiri, come hai intuito tu stessa» aggiunse Bones. «A parte
questo, tutto ciò che ho sentito è stata una ripetizione di ‘sopra
la panca la capra campa, sotto la panca la capra crepa’ sufficiente a farmi venire voglia di ficcarmi un paletto nel cuore.»
Risi. Magari, sotto la boria e il pregiudizio di Madigan si
annidava un certo senso dell’umorismo. La cosa mi diede una
speranza. L’orgoglio non era la pecca peggiore del mondo, e
un pregiudizio verso i vampiri si poteva superare con il tempo. Ma la mancanza di senso dell’umorismo era un difetto
insormontabile, almeno secondo me.
«Mi fa essere grata per il fatto che le mie capacità di lettura
del pensiero fossero fuori uso poco fa.»
Bones grugnì. «Buon per te, cucciola.»
Da quando mi nutrivo regolarmente del sangue di Bones, i
giorni in cui riuscivo a leggere i pensieri degli esseri umani erano più di quelli in cui non lo facevo; ma ogni tanto quell’abilità
faceva i capricci. Mi ricordavo che la lettura del pensiero era un
potere che Bones aveva acquisito solo di recente, quando Mencheres, il suo co-reggente, aveva condiviso con lui alcune delle
sue formidabili capacità con un vincolo di sangue. Peccato che
io non potessi spegnere di tanto in tanto anche il mio cercapersone spettrale interno ma, d’altronde, il liquido occulto nel
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sangue di Marie Laveau aveva avuto a disposizione dei secoli
per fermentare.
Finalmente, girammo sull’ultima strada sterrata che portava a casa. Dato che si trovava in cima a una piccola montagna,
ci vollero ancora alcuni minuti per arrivare al vialetto d’accesso. Parecchi fantasmi ciondolavano nel portico e nei boschi circostanti e la loro energia mi faceva formicolare la pelle come
se fosse coperta di spilli. Tutte le teste si girarono verso di me
quando la macchina si fermò, ma almeno non mi assalirono
quando uscii. Avevo dovuto spiegare loro più volte che, sebbene ne apprezzassi l’entusiasmo, soltanto al mio gatto era
permesso strusciarsi su di me quando tornavo da una scampagnata.
«Ciao a tutti» dissi per salutarli, girando in tondo per comprendere la maggior parte di loro. Poi sollevai le mani, il segnale che chiunque volesse poteva farci una volata sopra. Istantaneamente una sequenza regolare di forme argentee venne
da me, e le mie mani sembrarono incendiarsi per i molteplici
contatti con i fantasmi.
Mi sembrava ancora una versione molto strana di un battere
il cinque di gruppo, ma avevo scoperto che i fantasmi desideravano disperatamente il contatto, anche se passavano attraverso chiunque, e qualunque cosa, toccassero. Se non altro le mie
mani erano la parte del corpo di gran lunga più appropriata
da infestare, rispetto ad altre aree in cui alcuni di loro si erano ‘accidentalmente’ insinuati. Applicare uno sfratto esecutivo
automatico su ogni fantasma che faceva un passaggio radente
sotto la cintura aveva messo fine a quegli incidenti.
Bones fece una risatina sarcastica mentre mi superava a
grandi passi ed entrava in casa. Sapevo di non essere l’unica
a fare il conto alla rovescia dei giorni che mancavano perché i
poteri presi in prestito dalla regina voodoo svanissero dal mio
sangue. Sebbene ne capisse i motivi, Bones apprezzava che un
branco di uomini e donne sfrecciasse attraverso il mio corpo più
o meno quanto io avrei apprezzato correre in mezzo alle sue
innumerevoli ex amanti.
Quando ebbi finito con la mia singolare forma di saluto,
entrai in casa lasciando cadere la giacca sulla sedia più vicina.
La voce di Bones, con il suo accento inglese inasprito per l’irritazione, mi impedì di lasciarmi cadere pesantemente lì vicino.
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«Fabian du Brac, sono certo che tu abbia una buona ragione
per questo.»
Oh-oh. Bones non usava mai il nome completo di Fabian,
a meno che non fosse incazzato, e c’erano soltanto poche regole che avevamo stabilito quando avevamo acconsentito a
far vivere Fabian con noi. Quando entrai in soggiorno, mi resi
conto di quale regola avesse trasgredito Fabian.
«Ehm, ciao» dissi al fantasma femmina che fluttuava accanto
al nostro ospite. Indossava un vestito scuro, piuttosto informe,
che faceva del suo meglio per dissimulare quello che doveva
essere stato un corpo alla Marilyn Monroe quando era ancora
in carne, e aveva un sobrio chignon che serviva solo a esaltare la
bellezza naturale del suo viso.
Bones non appariva impressionato dall’adorabile volto del
fantasma. Continuava a dominare Fabian con lo sguardo, le
sopracciglia scure inarcate in segno di sfida. Fabian sapeva che
soltanto lui e mio zio avevano il permesso di librarsi all’interno
della nostra casa. Avevamo dovuto fissare una serie di regole
basilari per proteggere la nostra privacy, dopotutto. Altrimenti avremmo avuto una scia di fantasmi che ci venivano dietro
da una stanza all’altra, seguendoci perfino nella doccia o commentando le nostre attività coniugali. Tutta quella faccenda
del passare attraverso i muri faceva dimenticare alla maggior
parte dei fantasmi quale fosse un comportamento appropriato
e quale no.
«Posso spiegare» cominciò Fabian, lanciandomi uno sguardo implorante oltre le spalle di Bones.
«Permettetemi» replicò il fantasma femmina con un accento che poteva essere tedesco. «Per prima cosa, lasciate che mi
presenti. Il mio nome è Elisabeth.»
Si chinò in una riverenza, prima rivolta a Bones e poi a me,
mentre parlava con voce ferma malgrado il suo evidente disagio.
Le spalle di Bones persero un po’ di rigidità mentre si inchinava a sua volta, stendendo la gamba in un modo che era
andato fuori moda secoli prima che io nascessi.
«Bones» rispose, raddrizzandosi. «Piacere di fare la sua conoscenza.»
Nascosi un sorriso. Mio marito era stato capace di snobbare
la mano tesa di Madigan senza pensarci due volte, ma aveva
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sempre un debole per le donne. Mi accontentai di rivolgere a
Elisabeth un sorriso e un cenno di benvenuto mentre le dicevo
il mio nome. Ehi, la riverenza era una cosa che non avevo mai
fatto prima, ma l’avrei imparata solo per vedere Bones rifare
ancora quell’inchino elegante. In qualche modo mio marito riusciva a rendere sexy perfino il gesto più formale.
«Fabian pensava che non fosse saggio rivelare agli altri la
mia presenza» continuò Elisabeth, strappando la mia attenzione a quelle riflessioni. «Ecco perché mi ha offerto di aspettare il
vostro ritorno dentro.»
Si rivolse principalmente a me, sebbene il suo sguardo saettasse più di una volta verso Bones, con leggera costernazione.
Immagino che si fosse sparsa la voce che Bones non fosse affatto elettrizzato dalla nuova popolarità di cui godevo fra gli
ipoviventi.
«Perché è così importante se gli altri sanno che sei qui?» mi
chiesi a voce alta. Certo, qualche fantasma avrebbe potuto lamentarsi del fatto che Elisabeth fosse dentro casa, quando a
loro era stato ordinato perentoriamente di non violarne le pareti, ma Fabian non invitava tutti i giorni una tipa mozzafiato
a venire a casa con lui...
«Da molti della mia razza sono considerata un paria.» Le
parole vennero sussurrate talmente sottovoce che mi venne
quasi il dubbio di averla sentita.
«Un paria?» ripetei. Non avevo nemmeno mai saputo che
tra i fantasmi esistessero dei paria. Cavolo, sembrava che nessuna specie riuscisse ad andare totalmente d’accordo, a prescindere dal lato della terra su cui si trovava. «Perché?»
Elisabeth raddrizzò le spalle mentre incontrava il mio sguardo. «Perché sto cercando di uccidere un altro fantasma.»
Entrambe le mie sopracciglia si inarcarono, mentre una
dozzina di domande mi irrompeva nel cervello. Bones si lasciò
sfuggire un fischio sommesso prima di girarsi verso di me con
un leggero sorriso annoiato.
«Potrebbe essere altrettanto opportuno ascoltare il resto
della storia, quindi, perché non ci sediamo?»
Fabian accennò alle finestre coperte dalle tende. «Forse,
prima, potresti fare qualcosa per avere un po’ più di privacy,
Cat?»
Giusto. Magari gli altri fantasmi non potevano vedere la
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nostra nuova, enigmatica visitatrice, ma se fluttuavano troppo vicino alla casa potevano accidentalmente origliare la nostra conversazione con Elisabeth. Sospirai.
«Aspettate qui. Torno subito.»
Dopo aver educatamente insistito che tutte le persone trasparenti sgombrassero il campo durante l’ora successiva, tornai in soggiorno. Bones era seduto sul divano, con in mano un
bicchiere di whisky pieno a metà. I vampiri erano tra i pochi
che potessero affermare onestamente di bere per il gusto di
farlo, visto che, su di noi, l’alcol non aveva alcun effetto.
Fabian ed Elisabeth si libravano in posizione seduta al di
sopra del divano di fronte a Bones. Presi posto accanto a mio
marito, raccogliendo le gambe sotto di me più per il calore che
per comodità. A queste altitudini, le ore antelucane di inizio autunno portavano temperature più fredde. Se non avessi sperato
di andarmene a letto al più presto, avrei acceso un fuoco. Per
mia fortuna il mio gatto, Helsing, prese la mia posizione come
un segnale per saltare accanto a me dal davanzale della finestra
su cui era appollaiato. Il suo corpo impellicciato era come una
fornace in miniatura, mentre si sistemava sulle mie gambe.
«Allora» dissi prolungando la parola mentre facevo qualche grattino a Helsing intorno alle orecchie «come vi conoscete
voi due?»
«Ci siamo incontrati a New Orleans diversi decenni fa» mormorò Elisabeth.
«Giugno 1935» aggiunse Fabian, prima di strofinarsi le basette, imbarazzato. «Me lo ricordo perché quell’anno fu, ehm,
insolitamente caldo.»
Quasi mi morsi le guance per non scoppiare a ridere. Fabian
aveva una cotta per quel delizioso fantasma! La sua spiegazione poco convincente del perché ricordava il mese e l’anno
esatti in cui si erano conosciuti, quando i fantasmi nemmeno
percepivano le temperature, fu superata soltanto dallo sguardo
bovino che le lanciò prima di ricomporre i suoi lineamenti in
un falso distacco.
Eh già, era cotto di brutto, proprio così.
«Okay, siete stati amici per un po’, ma tu non sei qui solo per
una visita di cortesia, allora cos’è che ti porta da noi, Elisabeth?»
Supponevo che avesse qualcosa a che fare con il fantasma
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che voleva uccidere, ma in tal caso avrebbe avuto sfortuna. Primo, perché non ero un sicario, e anche Bones ormai da parecchio tempo si era ritirato da quelle attività. E poi non riuscivo
nemmeno ad aiutare mio zio a trovare volontariamente una
strada per trapassare. Quindi uccidere un fantasma andava
molto oltre le mie capacità, anche se avessi avuto un improvviso desiderio di fare piazza pulita di loro, e non era questo il caso.
Elisabeth si chiuse le mani in grembo, con le dita che si torcevano. «Nel 1489, all’età di ventisette anni, venni bruciata sul
rogo per stregoneria» cominciò a bassa voce.
Sebbene fosse accaduto più di mille anni fa, trasalii. Anch’io
ero stata bruciata, prima, e tutt’e due le volte era stata un’esperienza atroce.
«Mi dispiace» dissi.
Elisabeth annuì, senza distogliere lo sguardo dalle proprie
mani. «Non ero una strega» aggiunse, come se questo facesse
qualche differenza nell’orribile natura della sua esecuzione.
«Ero una levatrice che sfidò il magistrato locale quando lui accusò una madre di aver deliberatamente strangolato il proprio
bimbo con il cordone ombelicale. La gente non sapeva nulla
delle complicazioni che spesso accompagnano il parto, e io glielo dissi. Poco dopo, lui mandò a chiamare Heinrich Kramer.»
«Chi era?»
«Un bastardo assassino» rispose Bones, prima che Elisabeth ne avesse la possibilità. «Scrisse il Malleus Maleficarum, Il
martello delle streghe, un libro che ha il merito di aver provocato
diversi secoli di caccia alle streghe. Secondo Kramer chiunque
indossasse una gonna probabilmente era una strega.»
Quindi Elisabeth era stata uccisa da un fanatico omicida affetto da un serio disturbo di misoginia. Sapevo che cosa significasse essere oggetto dell’attenzione di un fanatico, e la cosa
mi fece empatizzare con lei ancora di più.
«Mi dispiace» dissi, questa volta con una sincerità ancora
maggiore. «In qualsiasi modo Kramer sia stato punito, spero
che sia stato lungo e doloroso.»
«Non lo fu» disse Elisabeth, mentre l’amarezza inaspriva il
suo tono. «Cadde da cavallo e si spezzò il collo morendo all’istante, invece di essere calpestato e lasciato lì a soffrire.»
«Ingiusto» assentii, pensando che almeno Kramer avrebbe
ricevuto un assaggio della sua medicina ardente all’inferno.
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Bones soppesò Elisabeth con una lunga occhiata indagatrice. «Conosci parecchi dettagli riguardo alla sua morte, vero?»
Elisabeth incontrò il suo sguardo. Nel suo stato indistinto,
gli occhi apparivano di un blu scuro, e mi spingevano a chiedermi se, quando era viva, fossero dello stesso indaco scuro
di quelli di Tate.
«Sì, sono io quella che ha spaventato il suo cavallo» replicò,
sulla difensiva. «Volevo vendicarmi per ciò che mi aveva fatto
e porre fine alle morti di altre donne.»
«Buon per te» sbottai. Se si aspettava di essere giudicata,
non lo avrei certo fatto io. O Bones. «Vorrei stringerti la mano.»
«Giustissimo» disse Bones, sollevando il suo whisky per
renderle omaggio.
Elisabeth ci fissò entrambi per diversi secondi. Poi, molto
lentamente, si sollevò e fluttuò verso di me, tendendomi la
mano.
Mi mossi, imbarazzata. Immagino che non sapesse cosa
fosse una metafora. Poi protesi la mano, ricordando a me
stessa che non era niente di diverso da tutte le altre volte in
cui avevo permesso ai fantasmi di passare attraverso il mio
corpo per salutarmi. Ma quando la sua mano si chiuse sulla
mia, non sentii la solita sensazione di formicolio, seguita dalle
mie dita che facevano capolino tra le sue. Incredibilmente, una
stretta fredda come il ghiaccio mi afferrò con la stessa fermezza e concretezza del mio corpo.
«Figlia di puttana!» esclamai, saltando in piedi. Il mio gatto
soffiò e balzò nell’angolo del divano, offeso per essere stato
spodestato.
Improvvisamente, Elisabeth fu di fronte a me come un’immagine dai colori accesi, come se fosse passata dall’essere trasmessa da un canale sfocato a uno ad alta definizione. I suoi
capelli, che prima sembravano di un castano indefinito, sfolgorarono con intensi riflessi color mogano e i suoi occhi erano di un blu talmente profondo da sembrare come l’oceano a
mezzanotte. Anche le guance splendevano di una sfumatura
rosata che esaltava una carnagione che poteva essere paragonata soltanto a pesche e crema.
«Maledizione!» borbottò Bones, alzandosi in piedi. La
sua mano scattò per afferrare il braccio di Elisabeth e la sua
espressione rispecchiò il mio shock quando le dita si chiusero
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intorno a solida carne, invece di passare attraverso una bolla
di energia.
«Ve l’ho detto che alcuni della mia razza sono più forti di
altri» mormorò Fabian da dietro Elisabeth.
Stai scherzando, vero?, pensai freddamente, incapace di
smettere di stringere le dita freddissime e salde di Elisabeth,
per verificare una volta di più che quella donna fosse davvero
solida.
Ma non appena lo feci, udii uno scoppio di energia nell’aria,
come se fosse esploso un palloncino invisibile. Aghi e spilli esplosero sulla mia pelle, mentre la mano che avevo tenuto stretta scompariva. Nello stesso istante, l’immagine di Elisabeth
sbiadì nuovamente in un colore indistinto e le braccia che Bones aveva afferrato si scioglievano sotto la sua stretta, lasciandogli le dita avvolte intorno a niente più di un’eterea sagoma
corporea che non era più lì.
«Riesco ad assumere forma solida al massimo per pochi
minuti, ma è davvero estenuante» disse Elisabeth, come se ciò
che aveva fatto non fosse abbastanza straordinario. «Ma Kramer è più forte di me.»
Avevo la sensazione che il mio cervello stesse ancora cercando di rimettersi in pari con tutto ciò a cui avevo appena
assistito. «Kramer? Hai detto che è morto secoli fa.»
«Infatti» rispose Elisabeth con spaventosa tetraggine. «Però, la vigilia di Ognissanti, ritorna.»
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