Emofilia e malattie emorragiche. Per una

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Emofilia e malattie emorragiche. Per una
MEDICINA & STORIA – RECENSIONI E SCHEDE
Emofilia e malattie emorragiche.
Per una determinazione ontologica
ROBERTO BRIGATI
Riassunto
L’emofilia e le malattie emorragiche hanno un forte impatto nell’immaginario
comune, ma non hanno attirato finora l’attenzione dei filosofi, eccetto qualche
pagina, non sempre ben informata, di Georges Canguilhem. L’articolo tenta
una prima messa a punto dello statuto filosofico di questo gruppo di patologie,
considerando il problema di come definirla, in rapporto al dibattito novecentesco sulla nozione di malattia, e di come descriverla in termini ontologici.
Incrociando le categorie nosografiche coi dati che risultano dall’esperienza di
malattia, ne emerge un’ontologia “stratificata” che include aspetti idiografici
inaggirabili e una evoluzione temporale ricominciare solo in parte analoga a
quella di altre malattie croniche.
1. Premesse a un’interpretazione filosofica
1.1. I dibattiti intorno alle nozioni di salute e malattia con quelle collegate di normalità e anomalia, di fisiologico e patologico hanno attraversato
buona parte del XX secolo. Schematizzando, si potrebbe cogliere il profilarsi
di due movimenti filosofici maggiori, spesso incomunicanti: uno, approssimativamente riferibile all’area franco-tedesca, ispirato alla storia della scienza, alla
fenomenologia del corpo vissuto e alla sociologia della salute; e un altro d’area
anglosassone, legato alla filosofia analitica e d’impostazione logico-linguistica e
ontologico-formale. Una delle ambizioni di questo lavoro è quella di far emergere l’insufficienza di gran parte delle soluzioni prospettate, a fronte dei problemi
concettuali e fenomenologici posti dalle malattie croniche e in particolare da
una malattia emorragica cronica congenita quale l’emofilia1. L’altra ambizione,
Per brevità e consuetudine, nel testo useremo il termine generico “emofilia” per un insieme di
malattie congenite che comprende i deficit dei fattori di coagulazione VIII (emofilia A) e IX (emo-
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più esplicita, è quella di avviare il superamento di una singolare omissione,
relativa appunto all’emofilia, nelle riflessioni di filosofia della medicina2. Non
è stata infatti tentata, a mia conoscenza, un’interpretazione filosofica di questa
né di altre malattie emorragiche, viste nella loro specificità e differenza rispetto
a patologie più comuni o alla malattia cronica in genere.
Ciò contrasta singolarmente, a prima vista, col posto di relativo spicco
che queste malattie e forse complessivamente le malattie ematiche e ciò ch’è
connesso al sangue occupano nell’immaginario popolare, ove si mescolano a tal
proposito invenzioni, tradizioni e informazioni scientifiche più o meno esatte.
Non occorrerà rammentare, al riguardo, la fantasiosa immagine dell’emofilia
come “malattia regale”, dovuta alla presenza del gene nelle famiglie reali inglese,
russa e spagnola. È possibile che l’ereditarietà di questa malattia monofattoriale e quindi facilmente riconoscibile, anche in un’era pre-mendeliana, in
famiglie il cui albero genealogico restava scolpito ben al di là dell’usuale caduta
in oblio nell’arco di 2-3 generazioni e la sua associazione con una misteriosa
e distintiva qualità del sangue abbiano contribuito a garantirle una risonanza
culturale e simbolica assai superiore al rilievo numerico della sua incidenza. E
probabilmente era presente anche tra la compassione e il compiacimento l’idea
di una sorta di nemesi: come se l’emofilia, con la sua incurabilità e fatalità,
rappresentasse, se non la punizione divina per una presunta degenerazione o
corruzione dei costumi, almeno un’ironia della sorte che veniva a sottolineare
la fragilità creaturale anche delle famiglie più potenti del mondo.
La rappresentazione del sangue come “sugo della vita”3 può probabilmente
contribuire a spiegare il carattere perturbante assunto, nell’immaginazione, da
un insieme di manifestazioni sintomatiche che vede al proprio centro il fenomeno dell’emorragia (tipicamente quella da ferita, viceversa evento clinicamente
non di massima frequenza, specie nell’età adulta), metaforizzata come una
fuoruscita del fluido vitale dal corpo, e fantasticata come inarrestabile: quasi
un dissolversi, un disperdersi della soggettività stessa nel mondo esterno. È
significativo che a questo apparato metaforico non si sottragga nemmeno un
filosofo della medicina raffinato e anticipatore come Georges Canguilhem.
filia B), la malattia di von Willebrand, e altre insufficienze emostatiche rare. Ma occorre avvertire
che si tratta di un universo di manifestazioni e di esperienze che possono essere diverse tra loro.
2
L’unico filosofo affetto da emofilia di cui ho notizia, almeno in Italia, è stato Eugenio Randi
(1957-1990), medievalista dell’Università di Milano. Idealmente, vorrei dedicare queste pagine
alla sua memoria.
3
Dal titolo del fortunato studio di Camporesi (1988) sull’immaginario connesso al sangue. Più
recentemente si veda Lombardi Satriani (2005), per il ruolo del sangue nell’orizzonte folklorico.
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Nella sua opera maggiore Canguilhem dedica alcune brevi note all’emofilia
(1966, pp. 109-110), non senza intuito filosofico, ma viziate probabilmente
da un’imperfetta conoscenza della sindrome in tutte le sue manifestazioni (le
pagine in questione risalgono al 1943). Una tale sommaria conoscenza continua peraltro a caratterizzare non solo l’immagine popolare dell’emofilia, ma
talvolta anche la formazione medica non specialistica.
Lo stesso nome assegnato all’emofilia, a partire dall’Ottocento, suona
vagamente incongruo, stante che nell’uso comune profano il suffisso -filia, in
coppia col suo gemello e opposto -fobia, connota per lo più comportamenti
iscrivibili a vario titolo nell’orizzonte psicopatologico4. Così, oltre a suggerire
un inquietante “bisogno di sangue”, il termine potrebbe forse, più sottilmente, evocare la rappresentazione di un eccesso, di un abbandono del “giusto
mezzo” tra due estremi, trasformando così la concettualizzazione patologica in
un inconsapevole giudizio morale. Ma l’attributo metaforico prevalente nella
rappresentazione del paziente emorragico è probabilmente quello della fragilità,
cedevolezza, assenza di resistenza alle lesioni, facilità a “rompersi”: una metafora
che giunge a contrassegnare anche l’informazione medica generica5. Così, il
corpo del soggetto e persino il suo carattere sono letti socialmente alla luce
di una qualità di “delicatezza”, talvolta assunta come una femminilizzazione.
Nella letteratura medica ottocentesca esaminata da Carricaburu (2000, p. 2021), si alludeva infatti esplicitamente a una sorta di carattere “femmineo” degli
emofilici, fosse esso innato o intenzionalmente risultante dall’educazione; e
ancora Henry (1992) racconta come negli anni’60 i suoi genitori lo iscrivessero
inizialmente a una scuola femminile, giudicata meno rischiosa.
Un’indagine sull’antropologia e la storia culturale delle rappresentazioni,
scientifiche o popolari che siano, relative alla malattia emorragica, non è peraltro negli intenti di questo contributo. Qui preme solo rilevare, per contrasto,
quanto la riflessione filosofica su questi temi sia lacunosa, tanto in termini di
L’incongruità è notata per es. da Henry (1992, p. 46). Evidentemente il suffisso è qui impiegato
nel significato, meno noto, di “tendenza (scil. emorragica)”, “disposizione”, anziché “amore di”,
“appetizione”. Il termine risulta usato per la prima volta da Friedrich Hopff, dell’Università di
Zurigo, in uno scritto del 1828 dal titolo Über die haemophilie oder die erbliche Anlage zu tödlichen
Blutungen (Giangrande, 2004; Freedman, 2007, p.15). In italiano, il lemma “emofilia” è registrato
dal Dizionario del Marchi nel 1841 (Cortelazzo, Zolli, 1980).
5
Un genitore intervistato da Emiliani et alii (2005) ricordava: “ci avevano detto ‘non lo tenete
in braccio’ poi che cos’altro ci hanno detto? Ehm… che comunque non si poteva giocare fisicamente con lui: dovevi tenerlo lì, in un angolo, tutto tappato [...]”. Ancora nel 2000, testimonia
un altro genitore in Marchello (2003, p. 40), pubblicazioni “informative” destinate ai genitori
diffondevano l’idea che il bambino emofilico “non dovrà giocare come fanno gli altri bambini”,
addirittura “dovrà seguire un’alimentazione particolare”.
4
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ricostruzione ontologico-formale, quanto di comprensione e di narrazionedescrizione qualitativa dell’esperienza di malattia emorragica. Riguardo alla
malattia cronica in generale esiste, certo, una letteratura anche di taglio filosofico, lungo due assi principali: (1) studi d’impostazione fenomenologica
sull’esperienza e il significato attribuito alla malattia cronica6; e (2) lavori che
ne esplorano i profili bioetici o etico-sociali (di cui non ci occuperemo qui).
Ma molto raramente queste ricerche vengono a investire le specificità emergenti delle malattie emorragiche7. D’altronde anche la letteratura sociologica,
psicologica, antropologica sulla malattia cronica, benché in forte espansione
negli ultimi decenni (com’è comprensibile alla luce delle tendenze demografiche), non sembra dedicare maggiore attenzione a tali specificità. Solo
sporadicamente, in alcuni di questi studi, vengono ricordate anche le malattie
emorragiche, per lo più in funzione di esemplificazioni, quasi sempre senza
approfondimenti ulteriori.
I diversi filoni della letteratura saranno tenuti presenti in questo studio;
tuttavia una componente fondamentale del lavoro si fonda sulla mia esperienza
personale di emofilico. Se è vero che questa esperienza include in parte anche i
racconti e le testimonianze che ho ricavato da innumerevoli incontri e scambi
d’idee con altre persone nella medesima condizione (che in questa sede posso
solo ringraziare collettivamente), va però subito precisato che propriamente
non c’è una “medesima” condizione per tutti, proprio per i motivi che spero
di chiarire nel corso dell’esposizione. La ricerca su un tema come questo ha,
in altre parole, una componente idiografica ineliminabile.
La maggior parte degli studi fenomenologici classici in questo campo sono però dedicati alla
malattia mentale, tema centrale della Daseinsanalyse ispirata da Ludwig Binswanger. Sulla malattia
in generale, oltre alle fondamentali pagine dedicate al tema da Sartre (1943, pp. 371-78, 395-98), è
di riferimento l’opera di V. von Weizsäcker (1990); più di recente cfr. i contributi di Zaner (1981).
Nella letteratura fenomenologica più recente si è prestata maggior attenzione al tema della cronicità; in tale prospettiva sono da segnalare in particolare le ricerche di Kay Toombs (1992; 1995a,
b), particolarmente influenzata da Sartre, e di F. Svenaeus (2000a, b), il cui punto di riferimento
è soprattutto Heidegger. Dalla fine degli anni ’80 hanno assunto sempre maggior rilievo le narrazioni personali di malati e altri attori della situazione medica (familiari, dottori, infermieri). Il
testo pionieristico in questo campo è Kleinman (1988). Per quanto riguarda l’esperienza emofilica,
inestimabile sotto questo riguardo è il resoconto autobiografico di Edmond-Luc Henry (1992).
7
Una rassegna della letteratura (o meglio dei silenzi sull’emofilia) in campo bioetico è stata fatta
da Lelli (in preparazione). Anche un’analisi degli indici 1998-2008 della rivista Haemophilia,
edita dalla World Federation of Haemophilia, restituisce meno di 10 articoli dedicati a questioni
propriamente etiche, principalmente inerenti all’etica della ricerca e alle disuguaglianze nell’accesso
ai trattamenti. Cfr. comunque ad es. Berntorp (2002), Skinner et al. (2004).
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1.2. Così pure, e conseguentemente, è opportuno precisare che l’intento
della ricerca non può essere che quello di descrivere e interpretare la condizione
delle persone affette da malattie emorragiche qui e ora, cioè nel tempo presente
e alle nostre latitudini. Quanto alla limitazione geografica, non si può tacere
il fatto che a tutt’oggi almeno il 75% dei circa 400.000 emofilici del mondo
non riceve alcun trattamento medico specifico8; e comunque, la condizione
psicologico-sociale e la gestione individuale-familiare di malattie la cui terapia
ha costi così alti non possono non essere estremamente diversificate in ragione
del tipo di sistema sanitario vigente nei paesi di riferimento. L’esperienza di una
persona affetta da malattia emorragica in Europa e nei paesi che hanno un’assistenza sanitaria pubblica gratuita o a basso costo è dunque inevitabilmente
diversa non solo da quella dei malati di paesi in via di sviluppo, ma anche da
quella di residenti negli Usa o in paesi in cui l’assistenza è affidata al mercato privato. Peraltro, la coscienza della crescente scarsità di risorse pubbliche
stanziate per la sanità è fonte d’inquietudini anche in Italia9. Nella misura in
cui questa situazione storico-politica si profila come occasione d’ansia (presumibilmente destinata a crescere), il tema della giustizia sanitaria diviene anche
un elemento costituente dell’esperienza vissuta.
1.3. Per una comprensione storica del fenomeno, potrebbe essere utile
rovesciare la prospettiva partendo dal presente. Se ovviamente la malattia
emorragica come quadro patologico se non come categoria nosografica o entità
“trascendente” esiste da sempre (e occasionalmente è stata anche rilevata)10, la
possibilità di “avere una storia” in quanto “persona affetta da emofilia” è piuttosto recente. Qualche cenno sul trattamento attuale può chiarire questo punto.
In primo luogo, la terapia delle malattie emorragiche è risultata minimamente
efficace solo a partire dall’introduzione delle trasfusioni di sangue, e ha registrato cospicui e rapidi progressi negli ultimi 40 anni circa. Oggi il trattamento
d’elezione per i fenomeni emorragici nell’emofilia è la terapia sostitutiva a base
di concentrati liofilizzati dei fattori coagulativi carenti, fino a qualche tempo fa
ricavati da plasma umano e oggi ottenuti mediante tecnologia ricombinante.
World Federation of Hemophilia (2005, p. 7). Skinner et al. (2004) forniscono una stima oltre
l’80%.
9
La paura di una stretta nelle politiche sanitarie è sottolineata più volte, per esempio, nelle testimonianze di genitori raccolte in Marchello (2003, ad es. p. 131 e passim).
10
Tutte le introduzioni all’emofilia non mancano di ricordare, almeno en passant, una sentenza
talmudica da cui si evince la consapevolezza del problema già nel II secolo (in casi in cui la circoncisione avesse già causato la morte di tre fratelli, si dispensava dal circoncidere il quarto). Un
articolo dell’ebraista Hirsch Loeb Gordon (1934) fornisce maggiori dettagli; cfr. Pazzini (1968).
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La somministrazione avviene per infusione endovenosa, al bisogno o in forma
profilattica. In molti paesi, tra cui l’Italia, un training mirato e una legislazione
apposita consentono ai pazienti o ai familiari di effettuare la somministrazione
da sé a domicilio11. I prodotti, di costo ingente, sono oggi spesso distribuiti
presso gli ospedali e possono essere facilmente trasportati e conservati.
È facile comprendere che l’introduzione della terapia sostitutiva alla fine
degli anni ’60 e la sua diffusione all’inizio dei ’70 hanno rappresentato una vera
e propria rottura qualitativa non solo nella prognosi ma anche nelle biografie
dei malati. Né si può ignorare che questi progressi hanno portato con sé una
successione di pesanti danni collaterali iatrogeni segnatamente le infezioni
Hcv- e Hiv-relate negli anni ’80-primi ’90, poi superate con l’introduzione
dei prodotti di sintesi che hanno modificato ulteriormente l’approccio alla
malattia nel tempo. Infine, le risposte individuali alla terapia sostitutiva non
sono identiche e l’eventuale sviluppo di inibitori che abbassano l’efficacia del
trattamento rappresenta un crinale importante di differenziazione nell’esperienza dei soggetti.
Tutto ciò implica che la storia, biografica e clinica, di ciascun individuo
risulta diversa a seconda della fascia d’età in cui l’individuo si colloca, oltre che
radicalmente diversa da quella di un malato d’altre epoche. Inoltre la rapidità
dei cambiamenti fa sì che molte biografie individuali abbiano attraversato
quasi l’intero tragitto dell’evoluzione terapeutica: emofilici oggi sessantenni o
più sono passati nel corso della loro esistenza da terapie rudimentali basate su
ghiaccio e immobilizzazione, con qualche occasionale trasfusione in condizioni
d’urgenza, a trattamenti di profilassi secondaria a base di prodotti d’alta tecnologia sierofarmaceutica, che li mettono in grado nella maggior parte dei casi
di prevenire quasi completamente gli episodi emorragici. Mai come in questo
caso, insomma, la storia della medicina segna in profondità le storie individuali.
Ma naturalmente non è possibile limitare i cambiamenti storici al livello
strettamente clinico e farmacologico. A trasformarsi è stata anche la coscienza
sociale della malattia, la “cultura” che vi è connessa; e con essa è mutata anche la
coscienza individuale. Si pensi a tal proposito che storicamente questa patologia
è emersa da uno stato in cui evidentemente era a malapena distinguibile da
una morbilità e mortalità (specie infantile) “di fondo”, fatale e indecifrabile, o
comunque non ulteriormente interrogata. L’emersione di un profilo nosografico
La materia è regolata in Italia da leggi regionali, in qualche caso precedenti alla riforma della sanità
del 1978. La prima regione a dotarsi di uno strumento legislativo apposito è stata la Lombardia
(L.R. n. 88/12.6.1975); l’hanno seguita Puglia (1976), Emilia-Romagna (L.R. n.17/20.4.1977)
e altre ancora. Su ciò e su altre questioni giuridico-sociali cfr. Randi (1983).
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ha condotto non solo a una medicalizzazione del problema, ma anche in primo
luogo all’acquisizione simbolica di un’identità lessicale: il nome “emofilia”,
appunto, con la successiva specificazione di forme distinte. Questo riconoscimento d’identità tuttavia portava e continua a portare con sé il rischio di
un’identificazione, di un’etichetta, fonte reale o potenziale di esclusione, lungo
linee ben note agli studi sulla stigmatizzazione sociale; rischio che ha avuto
un’inattesa e enorme amplificazione durante la stagione delle epidemie virali
che hanno decimato la popolazione dei pazienti politrasfusi. Particolarmente
in un caso come quello dell’emofilia, l’autorappresentazione della propria condizione patologica risulta quindi mediata da costruzioni sociali e da stereotipi
culturali, di fronte ai quali il comportamento dei soggetti (persone affette, ma
anche portatrici del gene) è scisso: da un lato li adottano e ne dipendono per
la propria autocomprensione, dall’altro cercano di sfuggirvi e di aggirarli con
strategie individuali non di rado centrate sull’occultamento, sul silenzio, sulla
dissimulazione. Val la pena di notare fin d’ora che questa scissione, in termini
fenomenologici, non è né casuale né cancellabile in quanto tale. Per usare le
categorie di Sartre (1943), la malattia, in quanto distinta dalla coscienza del
“corpo sofferto”, è conoscibile solamente attraverso gli altri, in particolare i titolari di un’expertise: tutto quel che so della mia malattia, dunque in un certo
senso di me, “proviene o dalle conoscenze che ho acquisito dagli altri, o dalle
conoscenze che gli altri hanno di me. [...] gli altri me l’hanno insegnata, gli
altri possono diagnosticarla; essa è presente per gli altri, anche quando io non
ne ho alcuna coscienza” (Sartre, 1943, p. 396-97). Una tale scissione non può
essere eliminata, ma piuttosto sfidata assumendo il punto di vista oggettivante
dell’esterno e appropriandosi della categorizzazione della propria condizione.
In altre parole, soltanto nel momento in cui l’identificazione avviene
attivamente, con la rivendicazione di un’identità culturale specifica, diventa
possibile un’autonarrazione non stigmatizzante. Nel nostro caso, questo processo è cominciato con la fondazione, negli anni ’50, delle prime associazioni
di pazienti12. Così, proprio l’attività e la presenza pubblica dei pazienti emorragici da inquadrare, non a caso, nel generale movimento di rinnovamento
del rapporto cittadinanza/sanità, che si è sviluppato a partire dagli anni ’60
è un ulteriore elemento che ha contribuito a cambiare l’esperienza concreta
Sul piano internazionale l’organismo di riferimento è la World Federation of Hemophilia,
fondata nel 1963 a Montreal attraverso l’unificazione di sei società locali (cfr. www.wfh.org e la
rivista Haemophilia). In Italia fin dal 1969 si costituì la Fondazione dell’Emofilia; nel 1996 la
sua eredità è stata raccolta dalla Federazione delle Associazioni Emofilici (www.fedemo.it), a cui
aderiscono numerose associazioni locali sparse sul territorio nazionale.
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della malattia e della sua gestione, incidendo almeno in parte sulle modalità
della presa in carico e dell’assistenza. Osservare la situazione esperienziale di
oggi, dunque, vuol dire osservare un quadro che si è evoluto storicamente anche in ragione di un’intenzionalità attiva: “36 anni fa alcune persone si sono
battute e hanno lavorato per ottenere quello che oggi ci sembra scontato e a
volte, paradossalmente, addirittura insufficiente”, ricordava il segretario della
Fedemo Alessandro Marchello (2003, p. 7). Se oggi si registra sempre più
una “normalizzazione” nell’autorappresentazione dei malati più giovani, ciò è
quindi dovuto non solo all’efficacia, rapidità e accessibilità dei trattamenti, ma
anche a cambiamenti di medio periodo nella coscienza sociale13. In sostanza,
per una persona emofilica è possibile oggi narrarsi in modo personale piuttosto che “di gruppo” cioè scegliere un’appropriazione individuale della propria
identità, scegliere di non autoidentificarsi come emofilico proprio in forza
dell’appropriazione collettiva che l’ha preceduta.
Di questa normalizzazione è spia significativa la mancanza di differenze di
rilievo esibita dalla popolazione emofilica nella propria condotta procreativa,
rispetto alla media generale: lo studio di Emiliani et alii (2005) riferisce infatti
che nemmeno la diffusione della diagnosi prenatale sembra comportare una
maggior incidenza d’interruzioni volontarie di gravidanza nelle famiglie con
una presenza accertata del gene. Nondimeno, la storia sociale dell’emofilia non
si può dire conclusa. Significativamente, lo stesso studio ha messo in luce una
sistematica impreparazione delle famiglie alla prima diagnosi di emofilia di un
figlio, addirittura in famiglie con una storia patologica precedente14: chiaro
segno che, perfino all’interno di una stessa famiglia, vige sempre la scissione tra
il vissuto personale e la storia raccontata attraverso gli occhi della società. La
“normalizzazione” non è dunque priva di rischi. Su un piano filosofico e etico,
tuttavia, la scelta di non identificarsi come emofilici (o come famiglia segnata
dall’emofilia) non può che essere rispettata in quanto scelta: vale a dire nella
consapevolezza e non nel silenzio. In molti casi e contesti, l’emofilia rimane
qualcosa di cui non si parla.
Il fenomeno della normalizzazione nelle ultime generazioni è messo in luce da Carricaburu
(2000), la cui prima parte è tra i pochi studi specifici sulla storia sociale dell’esperienza emofilica.
Al riguardo è interessante inoltre il volume di Peter Jones (2002), a metà tra la divulgazione scientifica e la guida di auto-aiuto: la sua prima edizione, del 1974, a suo tempo tradotta in italiano,
raffigura efficacemente la situazione come si presentava precedentemente o appena dopo l’avvento
della terapia sostitutiva e prima dell’ondata dei contagi trasfusionali.
14
Va ricordato che il 70% dei casi ha una storia familiare nota, il restante 30% appare dovuto a
mutazioni casuali (Jones, 2002).
13
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2. Il problema di una definizione
2.1. Che cos’è l’emofilia? La risposta di un dizionario medico o di un manuale restituisce solo una parte, forse piccola, della realtà. Certo, è un deficit
geneticamente determinato della coagulazione sanguigna; ma già il fatto che
la coagulazione sia una risposta difensiva dell’organismo, anziché l’esercizio di
un’abituale funzione vitale, mostra che la situazione è più complessa. L’emofilia
è in primo luogo una potenzialità di ammalare: una disposizione che non si
costituisce come male come illness, nel senso specificato più avanti se non in
presenza di un problema ulteriore per l’organismo. È dunque dall’ambiente
biosociale nella sua interazione con l’individuo, nei compiti che gli impone che
provengono in gran parte i fattori rilevanti per l’attivazione di tale condizione
disposizionale. La tendenza a minimizzare il dato genetico di fondo è presente
da tempo nell’approccio alla gestione psicologica dell’emofilia e in particolare
nella comunicazione rivolta alle famiglie di bambini neo-diagnosticati, nei
confronti delle quali già alla fine degli anni ’70 si promuoveva l’idea in qualche
modo ingenua ma efficace che “l’emofilico nasce sano”, come recitava il titolo
di una pubblicazione divulgativa italiana15.
I “problemi” sorgono dopo, quindi: li si vuole, come dicevamo, problemi
“ulteriori” per definizione. Ma la situazione è subito complicata dalla constatazione che tali “problemi ulteriori” sono a loro volta, in un certo senso, “normali”, in quanto strutturalmente connessi al funzionamento dell’organismo
in un ambiente senza il quale esso non può vivere. In questo senso si potrebbe
dire che l’emofilia è un modo più difficile di risolvere gli stessi problemi e di
difendersi dagli stessi rischi che incontra qualunque organismo nella sua attività
di base. Nessuno degli eventi patologici tipici dell’emofilia emartri, ematomi
e altri eventi emorragici è tale che non possa incorrervi anche una persona
non-emofilica; ciò che caratterizza l’emofilia è la ricorrenza degli episodi, la loro
gravità rapportata alla causa traumatica, la lentezza del recupero e l’esito locale.
Ne segue che una delle finalità principali della cura dell’emofilia, pur nelle
molteplici forme che può assumere, è quella di consentire e facilitare processi
Mori et al. (1981). Nel frontespizio l’opuscolo (curato da due pediatri e uno psicologo dell’Istituto
Gaslini di Genova) completava in qualche modo il titolo dando seguito ai puntini di sospensione:
“...sano, cioè senza artropatie e altre conseguenze che inducano limitazioni alla sua vita normale”.
E la prefazione esplicitava la problematica deontologica e professionale da cui prendeva le mosse
la pubblicazione: “Dire a due genitori che il loro figlio è affetto da emofilia grave è un compito
difficile [...]”. A giudicare dai risultati dello studio di Emiliani et al. (2005) e dalle esperienze raccolte durante il programma P.U.E.R. della Federazione delle Associazioni Emofilici (Marchello,
2003), la difficoltà permane intatta anche oggi.
15
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d’autodifesa che sono quelli fisiologici dell’organismo; non a caso parlando
di terapia “sostitutiva” si sottolinea anche semanticamente un carattere quasi
di “rifornimento”. Ma la presa in carico sociomedicale dell’emofilia non può
limitarsi a questo, già in quanto nella persona emofilica la “normalità fisiologica”
ideale peraltro del tutto teorico non può essere perseguita se non intervenendo
sull’incontro tra l’ambiente e l’organismo, cioè partendo e tenendo sempre
presente il processo di adattamento reciproco tra la forma di vita individuale
e l’ambiente (sociale, familiare, scolare, professionale).
Reciprocamente, nessuna esperienza o attività “normale” è per principio
preclusa alla persona emofilica, eventualmente supportata da adeguati sussidi
profilattici o tecnologici. La menomazione inerente alla malattia, se c’è, non
consiste nell’esclusione a priori di un qualsivoglia ambito esperienziale (eccetto
forse alcuni degli sport più violenti)16. L’”essenza” della malattia, eventualmente,
deve dunque essere cercata altrove.
2.2. Una definizione: ma di che cosa? È oggi usuale distinguere due sensi almeno della parola “malattia”: da un lato, malattia come stato del corpo
oggettivato (soma, Körper, il corpo che io ho), la quale sarebbe una categoria
del discorso medicale che viene a inquadrare una porzione del mondo naturale al pari d’ogni altra; e, dall’altro lato, malattia in quanto “sofferta”, cioè
come esperienza vissuta nel e attraverso il corpo proprio (Leib, il corpo che io
sono), che non si lascia ridurre a nessuna categoria universale e induce propri
percorsi individuali di adattamento/trasformazione. Molti autori si servono a
tal riguardo della distinzione disease/illness presente nella lingua inglese17, ove
illness indicherebbe una condizione vissuta che può sussistere in assenza di
stati patologici nosograficamente riconosciuti (diseases appunto), mentre reciprocamente può esservi disease senza illness. In tal senso, come traduzione di
illness si potrebbe suggerire “infermità”, dal momento che questa attribuzione
appare inseparabile da un’esperienza soggettiva di malessere, da cui è investita
la persona nel suo complesso18.
Ma è noto (e propagandato nell’ambito di pubblicazioni divulgative volte a informare/rassicurare pazienti e famiglie) il caso di un emofilico lieve americano che ha giocato nel campionato di
football USA. Uno studio recente (Engelbert et al., 2008) evidenzierebbe addirittura una maggiore
capacità aerobica, rispetto al gruppo di controllo, in soggetti emofilici impegnati in attività sportive.
17
Per la distinzione cfr. i saggi raccolti in Quaranta (2006) e l’introduzione del curatore. Cfr.
anche i capp. 2 e 3 di Toombs (1992). Peraltro la distinzione risulta già perfettamente chiara in
Sartre (1943) (si noti che la traduzione inglese del libro rendeva con illness ciò che Sartre chiamava
semplicemente le mal).
18
È la traduzione adottata nella versione italiana di Nordenfelt (1995). Lessici autorevoli mettono
in luce che inferme sono appunto le persone e solo per estensione i loro corpi oggettivati: “In partic.,
qualsiasi tipo di malattia o di affezione morbosa, per lo più grave e di carattere permanente, che
16
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ROBERTO BRIGATI - EMOFILIA E MALATTIE EMORRAGICHE
Questa differenziazione, pur necessaria, tra una condizione vissuta e una
presunta condizione oggettivabile non dissolve tuttavia la complessità di cui s’è
detto. In entrambi i sensi sussiste infatti un’ambiguità, o, come vorremmo dire,
una stratificazione. Dal punto di vista della sua “forma” ontologica, l’emofilia,
come vedremo, si può infatti descrivere come una malattia pluristratificata.
Qui s’impone, in altre parole, un interrogativo: è poi davvero una malattia?
Non s’intende qui solo il fatto, ovvio dopo quanto s’è detto, che non è una
malattia/disease, in quanto raggruppa patologie diverse con diversa eziologia;
ma altresì il fatto, meno scontato, che non è facile identificarla in modo univoco neppure come illness, a uno sguardo appena un poco approfondito. In
che cosa consiste infatti l’illness emofilica, in che cosa s’identifica l’esperienza
vissuta di cui l’emofilia è insieme il veicolo e la causa? Nelle manifestazioni
emorragiche, nel dolore fisico ad esse connesso, nelle conseguenze invalidanti
che esse possono avere? Nello sviluppo di resistenze ai farmaci e di inibitori
che limitano la possibilità di curarsi? Nell’esperienza relazionale di isolamento
e di stigma? O addirittura nella consapevolezza di una peculiarità genetica, in
cui oggi qualcuno ravvisa l’inizio di un elemento d’identificazione, destinato
a rafforzarsi col diffondersi delle diagnosi genetiche19? E perché dimenticare,
in questo contesto, la particolare condizione psicologica di una persona (nella
maggior parte dei casi una donna) che è consapevolmente portatrice del gene,
pur senza sintomi o con sintomi molto lievi? E ciascuna di queste cose è categorizzabile senz’altro come “malattia”? La risposta a queste domande non
è chiara né immediata. Se quindi continueremo, per inevitabile comodità, a
parlarne come di “una malattia”, con la metafora stratigrafica si vuole segnalare
fin dall’inizio che la condizione della persona emofilica risulta dalla somma,
o forse più esattamente da una composizione vettoriale complessa, di diverse
“malattie”, diversi sintomi, disposizioni, stati e interazioni.
Non è questa la sede per enunciare o discutere teorie definizionali della malattia
in generale; è bene rilevare però in anticipo che non tutti gli approcci teorici sembrano in grado di analizzare altrettanto bene la struttura ontologica stratificata che
metteremo in luce. Un sommario sguardo alle teorie più diffuse induce a dubitare
che una simile struttura possa essere facilmente accostabile a partire da approcci
definizionali biostatistici (il campo aperto dai lavori di Christopher Boorse), tali
da identificare una malattia come pura riduzione di un’abilità funzionale frequencolpisce una persona, e, per estens., il corpo, un suo membro, una sua parte” (Battaglia, 1972, s.v.
“infermità”, cors. miei).
19
Hacking (2006, p. 91) definisce le “identità biosociali” (locuzione dovuta a Paul Rabinow) come
“societies formed around a biological condition”.
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MEDICINA & STORIA - SAGGI
zialmente normale; mentre più adeguato apparirebbe un idioma teorico semanticamente più ricco e dai contenuti più dinamici, quale quello, risalente a Georges
Canguilhem, centrato sulla normatività, da intendersi come la capacità biologica
di determinare quadri d’equilibrio stabili ma non rigidi nell’interazione con
l’esterno, ossia, in altri termini, la capacità che l’organismo ha di “valutare”
l’ambiente sulla base della propria polarità buono/cattivo, e conseguentemente
di adattare reciprocamente sé stesso e l’ambiente20.
3. Un’ontologia stratificata
3.1. Il dato fondamentale lo strato più elementare tanto in senso ontologico quanto eziologico è un elemento che, almeno da un certo punto di
vista, non costituisce propriamente neppure una malattia, bensì un carattere
geneticamente determinato. È in questo senso che Canguilhem osserva appunto che l’emofilia non è malattia ma anomalia21. Questo modo di esprimersi
giustificato da un certo punto di vista e probabilmente utile per depotenziare
il carattere stigmatizzante del termine “emofilia” è un buon esempio di come
un approccio che tiene conto solo di uno degli “strati” non restituisca un
quadro fruibile per una narrazione della condizione emofilica. Se infatti tale
anomalia fosse asintomatica e addirittura inapparente (come può accadere in
effetti solo per emofilie molto lievi), non vi sarebbe illness né vissuto di infermità, né tantomeno senso d’inferiorità o d’esclusione; e d’altra parte, quando
diventa sintomatica, essa dà luogo a una pluralità di manifestazioni che prima
facie sono infermità, e non anomalie pure e semplici. Il puro dato genetico ci
interessa dunque solo in quanto si riflette in complessità patologica e psicosociale: non è perciò un errore concettuale se il nostro discorso, sfidando una
inevitabile circolarità definitoria, identifica l’emofilia come differenza genetica
ma la considera solo nella misura in cui essa si fa avvertire come differenza di
condizione organica, esistenziale, sociale. In breve, l’emofilia è malattia solo
quando diviene tale, o ancora lo “è” solo quando è “vissuta come” tale, quan-
“Vivere significa, anche per un’ameba, preferire ed escludere” (Canguilhem, 1966, p. 105);
probabilmente, a uno sguardo più approfondito, che in questa sede non possiamo permetterci,
sullo sfondo della riflessione canguilhemiana circa la polarità buono/cattivo e la vita come attività
valutante si riconoscerebbe la “Prima Dissertazione” della Genealogia della morale di Nietzsche. A
Canguilhem si richiama poi, più di recente, l’approccio di Nordenfelt (1995).
21
E tale termine, ricorda Canguilhem, non deriva dalla negazione di nomos ma di homalos, “simile”, “liscio” (1966, p. 101 sgg.): anomalos è dunque il dissimile, ciò che presenta differenze e
asperità, non ciò che non esprime o non sottostà a una norma o un ideale di perfezione. Cfr.
anche Dagognet (2007).
20
168
ROBERTO BRIGATI - EMOFILIA E MALATTIE EMORRAGICHE
do ha degli effetti anti-vitali, dis-valoriali o quantomeno indesiderabili, e non
importa ora se oggettivamente o soggettivamente tali.
Si vede dunque come un discorso compiutamente ontologico, pur partendo da un dato quantomai “descrittivo” e naturale per non dire da quello che
s’impone nell’immaginario odierno come il paradigma della naturalità hard e
irriducibile, il codice genetico non possa far a meno, già a questo livello, di
rinviare a un orizzonte di valori, siano essi condivisi e socialmente determinati
o segnati da una qualche misura persistente di individualità. L’”anomalia”,
insomma, entra nel discorso solo in quanto non è più puramente tale, non è
più puro dato genetico differenziale.
3.1.1. Un aspetto dell’”anomalia” in questione, già sfiorato nel discorso
precedente, ci costringe a fermarci ulteriormente in quanto costituisce già di
per sé una dimensione della complessità ontologica dell’emofilia: l’aspetto
della sua variabilità intensiva. Il deficit di base nella funzionalità emostatica
presenta infatti una variazione di natura continua, che determina appunto
un continuum di gradi di severità della patologia, solo approssimativamente
catturato dalla tradizionale classificazione in emofilie gravi, moderate, lievi. In
realtà le manifestazioni emorragiche di ciascun paziente sono constatabilmente
diverse, e non solo per livello di gravità ma anche secondo patterns individuali
difficilmente analizzabili: ogni persona emofilica sa, comunque, quali sono i suoi
“punti deboli” e le sedi maggiormente a rischio. Ciò vuol dire che nessun caso
di emofilia è esemplare, o forse tutti lo sono, né vi è un caso identico all’altro,
non solo in ragione della differenza dei vissuti individuali, della socializzazione
e delle interazioni con l’esterno, ma già a partire da un dato quantitativo e
misurabile come l’attività del fattore deficitario22.
3.2. Situato su un livello progressivamente più “di superficie” c’è un
insieme di eventi che sono fortemente caratterizzanti dell’emofilia, anche
nell’immaginario comune, come s’è accennato, vale a dire gli episodi emorragici. Questi però a loro volta non sono definibili senz’altra specificazione come
malattie in senso stretto, ma sono piuttosto qualitativamente simili in qualche
modo ai sintomi da lesioni e da traumi (pur potendo verificarsi in assenza di
traumi) che possono riscontrarsi in una persona non-emofilica: in particolare
ciò vale per i sintomi più comuni nell’emofilia, emartri ed ematomi. Come
non diremmo che una persona che abbia riportato una frattura è “malata”, così
una persona emofilica, in occasione di uno di questi episodi, non descriverà il
Ulteriori complicazioni sono legate all’insorgenza di risposte immunitarie individuali alle terapie,
sotto forma di anticorpi (inibitori).
22
169
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proprio stato dicendo “sono malato”, ma piuttosto, tipicamente, “mi fa male
un ginocchio” o “ho un gomito gonfio”. Scrive Henry:
Je m’etais bien aperçu que j’avais un problème, mais je ne me sentais pas malade
en dehors des poussées hémorragiques. C’est peut-être difficile à comprendre,
mais, dans mon esprit, je ne me suis jamais considéré comme malade. J’entrais
et sortais de la crise. Une fois sorti, je l’oubliais complètement23.
Val la pena di notare che ciascun emofilico e/o genitore apprende, e talvolta molto presto, a descrivere gli episodi e le crisi con terminologie mediche
più precise (“ho un emartro al gomito”, “ho una macroematuria”, “ho un
sospetto di ematoma dell’ileo-psoas”). Questo apprendimento non è casuale
né dovuto a velleità di competere coi medici nella capacità diagnostica, ma è
legato piuttosto alla necessità, che ognuno prima o poi sperimenta, di comunicare efficacemente con medici diversi (per es. in viaggio o in emergenza)
e di farsi intendere rapidamente dal personale paramedico (ad es. nelle sale
d’accettazione degli ospedali o nei reparti d’urgenza). Ciò segnala una caratteristica posizione assunta dal paziente emofilico (come da altri pazienti cronici)
nel sistema complessivo della cura: quella cioè di “utente esperto” (Colombo,
2003), centro d’apprendimento e deposito di saperi utilizzabili anche nelle
strutture di presa in carico.
Tornando a un punto di vista ontologico sulla natura degli episodi emorragici, è immediato osservare che, anche volendo assimilare tali eventi a patologie
da trauma o da lesione, si tratterebbe comunque di traumi sui generis. Se il
trauma si definisce in quanto fatto singolare, inatteso, e per così dire forzato
dall’esterno sul corpo del soggetto, le manifestazioni emorragiche dell’emofilia
si caratterizzano invece per:
i. una costanza di distribuzione lungo il ciclo di vita,
ii. una periodicità semi-regolare o comunque una prevedibilità media nell’unità di tempo,
iii. una inevitabilità di fatto.
Fattori, questi, che avvertono della necessaria connessione del c.d. “trauma”
con la natura stessa della vita individuale intesa come interazione attiva/passiva
con l’ambiente sociale e naturale. Nel caso più frequente, infatti, si tratta di eventi
non riconducibili a casi fortuiti né legati a prestazioni o attività eccezionali, ma
alla comune esistenza organica in un mondo-ambiente (Canguilhem, 1966, p.
23
Henry, 1992, p. 59-60
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109-110): non, dunque, condizioni insorte come risposte del corpo a interazioni violente o a richieste straordinarie, ma come “complemento” inevitabile alle
attività che competono alla normale sussistenza di un organismo e al suo naturale invecchiamento. Di più, nelle emofilie tecnicamente definibili come gravi
o severe, e occasionalmente anche in quelle moderate, l’apparenza fenomenica
di molti fatti emorragici non rinvia ad alcun agente eziologico esterno, così che
emartri ed altre sindromi emorragiche si presentano s’intende nella loro evidenza percepita come avvenimenti “spontanei” o eventualmente costituiti sulla
base di microeventi interni inapparenti. La possibilità di emorragie spontanee,
probabilmente uno degli aspetti meno conosciuti della condizione emofilica
nella rappresentazione popolare, indica che l’idea di una prevenzione totale delle
crisi, anche illudendosi di poter controllare perfettamente ogni interazione con
l’ambiente, deve essere messa da parte. Ho segnalato ciò parlando, poco sopra, di
“inevitabilità di fatto”; questo non implica che il controllo dell’interazione con
l’ambiente non sia cruciale, ma serve a concentrare l’attenzione sulle variabili che
sono effettivamente e proficuamente controllabili (la riduzione delle occasioni di
trauma ma anche il fondamentale aspetto della tempestività del trattamento), e
ad evitare il miraggio di una protezione totale, che può tipicamente farsi strada
soprattutto nei genitori di bambini nella prima infanzia24.
Si potrebbe riassumere, allora, dicendo che nell’emofilia la vita stessa, nella
sua normalità, determina e coincide con una condizione di malattia cronica: il
“patologico” sorge così dal “normale”, attraverso un complesso di manifestazioni che da microeventi subpercepibili varia fino a sintomi evidenti e dolorosi,
circoscritti nel tempo o stabilizzati in stati di dolore cronico.
3.3. Uno strato ulteriore è quello costituito da patologie secondarie e da
esito post-emorragico, tra cui in primo luogo l’artropatia emofilica, o anche,
ad esempio, patologie causate dalla compressione di nervi in seguito a ematomi
non precocemente trattati (e si potrebbero forse menzionare in questo contesto
anche fatti meno frequenti, come possibili esiti di interventi chirurgici, artroprotesi ecc.). Le articolazioni colpite da emartri acuti, o anche microemartri
ripetuti, subiscono infatti danni ossei permanenti, con riduzione di mobilità,
e restano costantemente dolenti. Si può dire che, sebbene la variabilità individuale sia alta quanto alla gravità e alla distribuzione temporale dell’insorgenza
24
Si racconta un aneddoto significativo a proposito di uno dei più famosi emofilici della storia:
“The young hemophiliac son of Czar Nicholas of Russia had two servants to hover constantly
over him and catch him if he began to fall. Sometimes he wore padded suits, and even the trees
in the area where he played were padded in the event that he might brush against them” (Robert
Massie, Nicholas and Alexandra, Dell, New York, 1967, cit. in Strauss et al., 1984, p. 28).
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di queste sindromi nell’arco del ciclo di vita, è soprattutto qui che si concentra
l’aspetto invalidante continuo di questa patologia. Mentre infatti emartri ed
ematomi rendono inabili secondo lo schema intermittente di cui s’è detto, gli
esiti artropatici “si hanno” in permanenza e richiedono terapie riabilitative o
esercizio costante per non progredire ulteriormente. Nei casi più gravi oggi in
gran parte evitabili grazie al trattamento precoce, almeno in assenza di inibitori
la condizione che ne segue è assimilabile, per un verso, a quella di pazienti
con handicap motori permanenti e, per altro verso, a quella di pazienti con
patologie articolari di tipo degenerativo.
Tuttavia anche a questo livello è problematico categorizzare questi disturbi come “malattie”. Non è scontato che una persona emofilica si consideri
“ammalata” in relazione per esempio ai suoi problemi di artropatia; e occorre
tener conto che vi è una generale tendenza in letteratura come nei movimenti
di attivismo sociale dei pazienti a separare la nozione di malattia da quella
di disabilità o limitazione funzionale25. In ogni caso, se queste sono malattie,
non “sono” l’emofilia, o non sono percepite come nucleo essenziale di essa. In
breve, difficilmente le artropatie fungono da elemento di autoidentificazione
e autonarrazione; pur essendo spesso e qui si registra una discrepanza tra il
vissuto soggettivo e la percezione dall’esterno quelle che più contribuiscono
a modellare il corpo del soggetto e il suo profilo motorio apparente, nonché a
segnalarlo agli altri come persona “con problemi”. Se infatti gli episodi emorragici si vivono per lo più in casa, e risultano quindi “invisibili” agli estranei,
se non per l’assenza della persona dalle situazioni d’interazione, l’eventuale
limitazione dovuta all’artropatia dev’essere portata con sé anche nei contesti
scolastici, lavorativi e sociali in genere. Il fatto appunto che il soggetto non
s’identifichi con questi problemi implica poi una certa difficoltà a categorizzarli in modo netto. Da ciò risultano talvolta situazioni imbarazzanti, come
quando si tratta di rispondere a richieste di spiegazioni da parte di conoscenti
superficiali. Per quanto premurose, infatti, queste richieste sono strutturate per
ricevere risposte “facili”, concise e riconoscibili, e non lunghe storie più o meno
tortuose ed espresse in termini biomedici ovvi per il soggetto ma sconosciuti
all’interlocutore; sicché talvolta risposte sincere e precise possono essere invece
percepite come frutto di reticenza o riserbo.
3.4. Infine vanno considerate le patologie iatrogene, insorgenti come conseguenza di terapie, in primo luogo trasfusionali. È pur vero che queste sono
altre malattie o condizioni, ma evidentemente dipendono ontologicamente
25
Fornisce un quadro critico di tali tendenze Wendell (2001).
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dall’emofilia, che in questo senso funziona come catalizzatore di condizioni
patologiche ulteriori. Queste ultime possono assumere forme diverse. Per
un verso, può essere l’organismo stesso a opporre resistenza, come nel caso
dello sviluppo di inibitori (anticorpi diretti contro i fattori della coagulazione
somministrati nel trattamento). Poiché questo rischio è a sua volta legato a
predisposizioni ereditarie, abbiamo qui un ulteriore elemento di complessità
ontologica della patologia complessiva.
Per altro verso, le complicanze sono connesse all’introduzione di agenti
virali veicolati dalle stesse terapie a base di emoderivati; tra queste complicanze
le più drammatiche sono state in particolare le patologie Hiv- e Hcv-relate. Si
è già accennato all’impatto devastante che queste infezioni hanno avuto sulla
popolazione degli emofilici di tutto il mondo. Tale impatto è stato certamente
diverso da paese a paese, a seconda delle politiche trasfusionali adottate nei
contesti nazionali, che in taluni casi hanno assunto un profilo addirittura
delittuoso26. Ma in tutto il mondo la gravità e il violento potere simbolico
dell’Aids e, in misura minore, dell’epatite C hanno comunque modificato in
parte anche l’ontologia della malattia emorragica, specialmente nella percezione
pubblica. Gli emofilici, almeno per qualche tempo, sono stati ricategorizzati
come “soggetti a rischio”, e l’emofilia è diventata “quella malattia che fa venire
l’Aids”. Nella fase iniziale, prima dell’attuale processo di parziale banalizzazione
dell’Aids nell’opinione pubblica, l’emofilia è tornata così per un po’ alla ribalta
in associazione con una nuova micidiale minaccia, per di più oscuramente
legata a devianze morali:
N’étaient visées que les personnes ayant un comportement marginal, une
origine ethnique particulière27, ou, dans le cas des hémophiles, une « tare »28.
Ciò permetteva, evidentemente, di rassicurare il pubblico circa la nuova
Particolarmente grave anche in termini numerici fu il caso francese, su cui cfr. il drammatico
resoconto di Henry (1992), deceduto poco dopo aver ultimato il suo libro-denuncia. Negli Usa,
nel 1999 si stimava “that 50% of persons with hemophilia are currently infected with HIV [...].
Also, [...] more than 90% of all persons with hemophilia are infected with hepatitis C” (Dubin,
1999, p. 90). In Italia, secondo dati forniti nel 2006 dalla Fedemo, “[n]egli anni ’80 circa 3500
emofilici vennero infettati dai farmaci emoderivati [...]. Negli anni successivi oltre 250 sono
morti per complicanze legate all’AIDS e all’epatite C” (www.fedemo.it/files/doc/transazione/
memorandum0606.pdf ). Sulle responsabilità dell’industria farmaceutica cfr. Pignatta, Bertone
(2004). Al riguardo è tuttora (marzo 2009) in corso un processo per omicidio colposo plurimo a
carico dell’ex direttore del servizio farmaceutico del ministero della Sanità Duilio Poggiolini e di
dirigenti del gruppo farmaceutico Marcucci.
27
Si riferisce qui agli haitiani, inizialmente indicati tra i gruppi a rischio.
28
Henry, 1992, p. 92
26
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paura, e gli emofilici ne fecero le spese. Appena sotto la superficie, covava dunque
ancora il carattere perturbante dell’emofilia per la coscienza collettiva.
In secondo luogo, preme però rilevare come le infezioni da emoderivati, al
di là dell’alto prezzo in termini di decessi, abbiano modificato la percezione della
propria condizione nei soggetti emofilici, anche se non contagiati. Ciò è dovuto
anche e soprattutto al particolare momento storico in cui si sono manifestate: vale
a dire proprio in seguito all’introduzione delle prime terapie veramente efficaci
dopo secoli d’impotenza medica. Proprio queste terapie miracolose diventavano
ora veicoli di una minaccia mortale. Oltre a rimettere parzialmente in questione
il rapporto di forte solidarietà che lega gli emofilici ai propri medici e al sistema
sanitario, ciò ha generato in molte biografie individuali (specie di pazienti che
avevano vissuto la stagione precedente) la sensazione di dover “ricominciare tutto”. Solo con l’introduzione (per quanto tardiva: e ciò è materia di procedimenti
giudiziari ancora in corso) degli emoderivati termotrattati per l’inattivazione virale,
e poi dei prodotti ricombinanti, lo strappo ha potuto essere sanato, tanto che nella
comunità emofilica appare oggi diffusa la sensazione d’aver chiuso una parentesi.
L’attuale enorme spettacolarizzazione delle biotecnologie, poi, sta producendo
nuove aspettative nei confronti della terapia genica, che viceversa deve, come ogni
conquista scientifica, essere consolidata29. L’attesa del miracolo, nonostante tutto,
esiste ancora30.
Cfr. High, 2007, p. 466.
La ricerca per questo lavoro è stata svolta nell’ambito del Progetto Strategico d’Ateneo “Definizione di linee guida d’intervento su pazienti pediatrici affetti da malattie emorragiche congenite:
aspetti medici, psicosociali, educativi ed etici”, coord. F. Emiliani, Università di Bologna, a.a.
2007-08. Ringrazio Fabio Lelli, Raffaella Sarti per i loro commenti.
29
30
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ROBERTO BRIGATI - EMOFILIA E MALATTIE EMORRAGICHE
Summary
Although haemophilia and other haemorrhagic diseases have had a comparatively strong impact on popular imagination, they hardly attracted any
philosophical attention. A few lines by Georges Canguilhem, out-of-date
though not unperceptive, are virtually the only exception. The article presents a
tentative outline of the philosophical status of this group of diseases, venturing
an ontological characterization by way of comparing clinical categories to the
patient’s knowledge that emerges from the illness experience. As a result, a
multi-layered ontology comes to the fore, including inescapably idiographic
features together with a temporal evolution which tends to restart periodically,
in partial contrast to other chronic ilnesses.
Keywords: Haemophilia, blood diseases, hereditary diseases, chronic illness, ontology,
phenomenology, Canguilhem
Running head: Emofilia e malattie emorragiche
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