Libertà - Centro Italiano Femminile

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Libertà - Centro Italiano Femminile
ZOOM
“Icaro, ovvero del risveglio”
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Incontro Nazionale Giovani
Castelsardo (SS) - Domus Mariae
30 agosto / 2 settembre 2012
Tutte le opere che
illustrano lo Zoom
sono della scultrice
CRISTINA BARBON,
esposte alla mostra
personale (aprilemaggio 2012) al
Museo civico della
Ceramica
a Nove (VI)
Liber tà vo’cercando...
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Marco Ivaldo Università di Napoli “Federico II”
Libertà: ricerca e rischio
t Sono ricerca e rischio due atteggiamenti esistenziali connes-
si con il principio della libertà? E se sì, in che modo essi contribuiscono a connotare l’esercizio della libertà? Ora, caratterizzare la libertà è
impresa assai ardua, la storia della filosofia e delle idee offre ampio
documento di questa complessità, e non posso certamente qui offrire
una caratterizzazione esaustiva. La filosofia moderna ha messo in evidenza, da profili diversi, che la libertà non è soltanto una caratteristica psicologica, ma è un principio metafisico radicale, tanto da poter
dire che essa connota l’essenza stessa dell’uomo. Certamente la libertà umana ha un aspetto specificante essenziale: essa esiste in relazione a qualche cosa d’altro, che è una legge della libertà (la legge morale), e si esprime dentro un certo contesto di condizioni, che ne limitano l’esercizio. La libertà umana è una libertà appellata a rispondere
all’imperativo del bene, è cioè una capacità di rispondere di sé (= libertà responsabile), ed è un principio che interagisce con una molteplicità di condizioni, a partire da quella condizione basilare che è la finitezza dell’uomo, per arrivare alle condizioni ambientali, culturali,
economiche, politiche ecc. (= libertà sotto condizione).
Ora, sia la modalità della relazione con la legge morale, o la
tendenza del bene, che è la relazione fondante della libertà, sia anche
l’intervento della libertà umana nell’insieme delle condizioni che ci
limitano (ma che ci offrono anche chance di azione) non sono già
predeterminate da ciò che è accaduto e non sono già pre-contenute in
ciò che esiste di fatto. Dobbiamo ‘inventare’ via via la modalità concreta di rispondere alla tendenza al bene che ci costituisce nel profondo; dobbiamo rinvenire in noi stessi la risposta alla domanda concreta: che cosa devo fare, che cosa è bene che sia, che cosa è giusto qui
e ora. D’altro lato, anche le condizioni in cui ci troviamo gettati, e che
limitano l’esercizio della libertà, cioè la nostra situazione, sono qualcosa che è suscettibile di una interpretazione, contengono cioè impedimenti, ma aprono anche possibilità.
Il fatto ad esempio di avere un corpo mi vincola a uno spazio
via via determinato, ma mi consente insieme di declinare in questo
spazio programmi di azione e modi di essere che possono andare nella direzione della vita.
La libertà umana non è perciò uno stato di fatto, ma è qualcosa che esiste in quanto si esercita, e si esercita sia nella dimensione
della responsabilità verso altro e altri, sia nella continua elaborazione
e rielaborazione delle sue condizioni fattuali, che non sono (soltanto)
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un dato, da non ignorare, ma possono
contenere anche appelli e suggerimenti da
cogliere e da interpretare. Si capisce allora che la libertà umana implica nel suo
esercizio una attività di ricerca, anzi è una
certa ricerca. È ricerca perché come libertà responsabile deve prestare attenzione all’imperativo del bene e deve interrogarsi sulla modalità concreta per corrispondere a/e per attuare l’imperativo.
Anche se i costumi, a certe condizioni,
possono sostenere la nostra scelta, la scelta morale deve nascere da noi, nessuno
può sostituirci in questa responsabilità, e
noi stessi dobbiamo cercare il modo della
risposta.
La libertà è ricerca poi perché, come dicevo, la situazione in cui dobbiamo
agire non è univoca, è suscettibile di interpretazione, offre sempre, assieme a determinati confini, anche possibilità, e queste
ultime devono essere ricercate con intelligenza partecipe e creativa. Attenzione,
giudizio, interpretazione, fantasia intellettuale sono allora altrettante modalità attraverso le quali potrebbe e dovrebbe caratterizzarsi la libertà nel suo aspetto di ricerca. Anzi la libertà è ricerca della risposta
più adeguata, anche se sempre migliorabile e integrabile, a quella attrazione del bene che si presenta a noi come una certa
tendenza, o un imperativo morale, e che
noi dobbiamo assumere attraverso giudizi
e deliberazioni concrete, che tengano nel
dovuto conto la complessità e le opportunità della situazione storica (che ha sempre anche una valenza ontologica). Inoltre
la libertà, proprio perché non è uno stato
di fatto, ma un essere in esercizio, è stret-
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tamente connessa al rischio, tanto che si
potrebbe dire che esercitare la libertà significa sempre correre un rischio. In primo luogo l’esperienza storica ci informa
che la lotta per la libertà incontra nei difensori dello stato di fatto potenti resistenze e tenaci opposizioni, sicché coloro che
si impegnano nel difficile cammino della
libertà – come libertà-da e libertà-per, cioè
come liberazione e come realizzazione di
contenuti etici e politici - devono sempre
mettere in conto una reazione da parte di
chi guarda al passato e ai privilegi che gli
consente lo status quo. Inoltre la libertà
nel suo esercitarsi è un rischio per ragioni
che hanno a che fare con il nostro stesso
statuto ontologico.
La nostra possibilità di acquisire
una conoscenza adeguata della realtà dentro la quale siamo chiamati a formulare
un giudizio ed effettuare una scelta è limitata. Possiamo procurarci la conoscenza
solo di un numero limitato dei fattori in
gioco; anche le conseguenze delle azioni
possibili possono venire computate solo
fino a un certo punto. Possiamo giudicare
che cosa dobbiamo fare in concreto solo
in condizioni di relativa incertezza conoscitiva. Tuttavia dobbiamo giudicare e
scegliere. Ma spesso dobbiamo giudicare
e scegliere in condizioni in cui si presentano valori fra loro in conflitto. Si intende
perciò che l’esercizio del giudizio e della
scelta non è mai esente da rischio.
È vero che la coscienza morale,
ovvero la attrazione del bene, parla in
ognuno, e parla anche se la sua voce può
essere coperta dalle molteplici forme di
stordimento che la società contemporanea escogita con larghezza. L’educazione
morale dovrebbe in primo luogo rendere
gli individui sensibili a questa voce. Ma
la sequela della coscienza morale richiede
una attività del giudizio che, come dicevo, avviene sempre in condizioni di relativa incertezza conoscitiva.
La libertà morale richiede perciò di accettare a ragion veduta
il rischio del giudicare e dello scegliere, e ciò non per semplice gusto
di rischiare, ma perché questa pratica del rischio è strettamente connessa alla condizione umana. Bisogna perciò cercare e scegliere di
volta in volta il “meglio nel possibile”, restando però aperti a ulteriori valutazioni e decisioni, che possano incarnare via via al meglio il
fatto della coscienza morale. s
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Ignazia Bartholini Università di Palermo
Dalla “libertà da”
alla “libertà di”
Il pensiero contemporaneo al femminile
nella ridefinizione dei confini
dell’empatizzare, del pensare,
del disgusto e della vergogna
Arte gotica: pittura su vetro. Chiesa Inferiore di San Francesco d’Assisi
t Descrivere che cosa si intenda per libertà in questo scor-
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cio di secolo che lascia alle spalle l’eredità possente di studiose come Edith Stein, Simone Weil, Hannah Arendt, Maria Zambrano e
si volge, agli albori del nuovo millennio, accompagnato dal pensiero in fieri di studiose come Luce Irigaray, Martha Nussbaum,
Julia Kristeva, Judith Butlher, Luisa Muraro e tante altre ancora,
significa fare i conti con un pensiero di “genere” che accoglie il
passaggio dalla “libertà da” come libertà negativa, attraverso una
lunga sequela di battaglie e di traversie affrontate dalle donne, alla “libertà di” come la possibilità/capacità positiva e affermativa
della donna di realizzare quella discontinuità con il passato che ha
reso possibile la “libertà di” esserci, qui ed ora, consapevolmente,
interpretando e orientando il presente attraverso le proprie peculiarità psicologiche e culturali. È possibile quindi affermare che la
“libertà dalle intrusioni altrui nell’agire si sia finalmente realizzata in quella autodeterminazione della donna che è anche libertà di
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empatizzare, di giudicare e volere autonomamente, di porre, a fondamento del
suo stesso essere persona plurale, la capacità di provare disgusto e vergogna al
di fuori di ogni pensiero dominante.
Libertà di empatizzare
Edith Stein aveva dovuto lasciare
l’università, oppressa da un pensiero
maschile che rifiutava la possibilità
stessa dell’empatia come forma del conoscere. Ma nel modo proprio del conoscere al femminile, e in quella particolare forza intuitiva che consente la percezione non solo concreta ma emotiva
dell’Altro, la Stein aveva già rintracciato quella “libertà dalle cose” che consente la conoscenza diretta - e “smascherata” - dell’Altro. L’animo (Gemut)
rimanda alla potenza che conosce l’oggetto nella sua particolarità e unicità. Il
vissuto empatico consiste nell’avere un
«proprio» vissuto (Erlebnis) del vissuto
dell’Altro. Così, la donna conosce quella libertà di sentire l’Altro nella unicità
di una percezione che non l’assimila
all’Altro, non la confonde con l’Altro,
ma le consente una percezione empatica
che costituisce quello scarto, quella differenza nella relazione per cui potremmo dire che la donna assume quella “libertà di” sentire che restituisce qualità
alle relazioni. Ciò che scaturisce, dunque, nel momento in cui empatizzo il
dolore o la gioia dell’Altro, è l’atto creativo con cui liberamente dò spazio al
mio personale «sentire». Ed è sicuramente – questa – la prima forma concreta di “libertà da” in favore di una “libertà di” sentire attraverso l’empatia
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che la donna ha imparato ad accettare
affrancandosi dalla valutazione maschile, riduttivistica e svilente, delle proprie
emozioni.
La libertà come autonomia
del pensiero e della volontà
“La libertà di” è poi, nell’esperienza di Hannah Arendt, la capacità di
pensare e volere a dispetto della volontà
della maggioranza, e di cogliere, nell’incapacità di esercitare autonomamente le proprie capacità critiche, tutta la
mostruosa banalità del male. La libertà
quindi non si pone esclusivamente come
libertà di scelta fra edificazione e distruzione, riconoscimento e disprezzo della
persona altrui, ma come «dono supremo
(…) che peraltro si sviluppa appieno solo quando l’azione riesce a crearsi uno
spazio dove la libertà può “apparire”,
uscendo dal proprio nascondiglio»1,
perché «il rifiuto di unirsi alla maggioranza di coloro che pensano diviene perciò stesso appariscente»2.
La filosofa ebrea restituisce al
femminile la dignità dell’essere minoranza, di trovarsi contro corrente, di accettare consapevolmente un elemento
storicamente costitutivo dell’essere
donna. Il che implica un rapporto diverso con il potere, perché, con la Arendt,
abbiamo ben presente la distinzione fra
“il potere come esercizio di dominio del
parvenù” rappresentato in Eichmann –
grigio esecutore di ordini di morte e
martirio – e il “potere del paria come
autonoma consapevolezza della propria
diversità dell’agire e del sentire”, che
rende capaci le donne di fare oggi scelte contro corrente per il semplice fatto
di non uniformarsi alla maggioranza. In
questi frangenti, «il loro rifiuto di unirsi
alla maggioranza è appariscente, e si
converte per ciò stesso in una sorta di
azione. In simili situazioni di emergen-
za la componente catartica del pensare (...) si rivela, implicitamente, politica»3. Perciò, scriveva: «Quello che io propongo è molto
semplice: niente di più che pensare a ciò che facciamo».
Libertà dell’essere persone al di fuori di ogni logica di dominio
Le donne sono intrinsecamente democratiche, per il fatto
semplice e costitutivo della loro ontologicità potenzialmente plurima. Ogni donna è potenzialmente plurima in quanto potenzialmente madre, e questo le impedisce di esercitare il dominio come tratto costitutivo del suo essere donna che dominerebbe costitutivamente quell’Altro che è anche una parte di sé.
A partire dalla libertà con cui il suo essere è singolare ma
anche plurale, la donna si è affrancata da quelle logiche di dominio che impediscono il disgusto e la vergogna come “libertà di”
esercitare il proprio diritto ad esserci nella sfera pubblica senza
omologarsi al pensiero dominante. E nella pietà di Antigone, che
seppellisce il fratello a dispetto delle Leggi della città e di Creonte,
Martha Nussbaum riconosce la pienezza costitutiva dell’essere
persona: quella persona che è in grado di provare il disgusto e la
vergogna per le azioni altrui ricomponendo l’ordine infranto fra “il
fuori del mondo” e il “dentro della propria coscienza”.
Antigone che ha «cuore ardente per le cose che raggelano»
“seppellisce i morti”; le donne di Plaza de Majo “ballano con i propri morti”; le donne delle nostre piazze gridano e sussurrano “Se
non ora, quando?” riappropriandosi pubblicamente della capacità
di provare la propria vergogna e il proprio disgusto.
Da questo angolo prospettico, la libertà da parte delle donne di provare il disgusto e la vergogna sono da intendersi come
sentimenti pubblici attraverso cui è possibile cominciare a intravedere quantomeno i contorni di alcune capacità che una società liberale dovrebbe avere care e continuare a sviluppare nella “libertà
di”: «la capacità di intrattenere ed apprezzare relazioni di interdipendenza con gli altri, invece che rapporti di dominio; la capacità
di riconoscere l’imperfezione, l’animalità e la mortalità in sé stessi e negli altri»4, come libertà riportate a quella stessa dignità del
nostro essere persone, nel tentativo di creare una società di cittadini che ammettano di essere - tutti - vulnerabili ed esposti al bisogno e, in quanto tali, persone “libere di” essere tali. s
1. H. Arendt, Tra passato e futuro, trad it. Garzanti, Milano 1991, p. 29.
2. H. Arendt, La vita della mente, trad it. Il Mulino, Bologna, 2009, p. 288
3. H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, trad it. Bompiani, Milano,
1999.
4. M.C. Nussbaum, Nascondere l’umanità. Il disgusto, la vergogna, la legge,
trad. it. Carocci, Roma, 2007, p. 402.
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don Armando Matteo Assistente nazionale AIMC - Associazione Italiana Maestri Cattolici
Giovani e fede
t Al temine di una ricerca sulla religiosità degli italiani,
promossa dalla rivista Il Regno e pubblicata sulla medesima rivista nel giugno del 2010, Paolo Segatti e Gianfranco Brunelli affermano: «La tendenza comune a ogni aspetto dell’identità religiosa
è che i giovani, in particolare quelli nati dopo il 1981, sono tra gli
italiani quelli più estranei a un’esperienza religiosa. Vanno decisamente meno in Chiesa, credono di meno in Dio, pregano di meno,
hanno meno fiducia nella Chiesa, si definiscono meno come cattolici e ritengono che essere italiani non equivalga a essere cattolici
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[...]. Lo scarto tra la generazione del
1981 [...] e la precedente nella propria
adesione alla religione, segnatamente
alla confessione cattolica, è così forte da
non consentire di rubricarlo in una sorta
di dimensione piana, in un processo dolce e lineare di secolarizzazione».
Queste parole “dure” circa il rapporto dei giovani italiani con la fede ci
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restituiscono sostanzialmente lo scollamento della trasmissione della fede cristiana tra le generazioni. La maggior
parte dei nostri ventenni e trentenni, infatti, non vive contro Dio e contro la
Chiesa di Gesù, ma senza Dio e senza la
Chiesa di Gesù e vive addirittura anche
la propria ricerca di spiritualità - che
non viene mai esplicitamente negata senza questo Dio e senza questa Chiesa.
Le sono estranei. E non perché non
l’abbia conosciuta, la Chiesa, ma perché
a questa generazione non è stata trasmessa, da parte della famiglia d’origine e dell’ambiente di vita circostante, la
testimonianza del legame tra vangelo e
vita buona.
Figli di genitori, dunque, che
non hanno dato più spazio alla cura
della loro fede: hanno continuato a
chiedere i sacramenti della fede, ma
senza fede nei sacramenti, hanno portato i figli in Chiesa e a Gesù, ma non
hanno portato la Chiesa e Gesù ai loro
figli, hanno favorito l’ora di religione,
ma hanno ridotto la religione alla semplice questione di un’ora. Hanno chiesto ai loro piccoli di pregare e di andare a Messa, ma di loro neppure l’ombra, in Chiesa. I genitori insomma hanno fatto passare l’idea che Dio è un
problema dei preti, dei vescovi, della
Chiesa. E non è un caso che Papa
Benedetto XVI, nella prefazione a
Youcat1, raccomandi ai giovani di «essere ben più profondamente radicati
nella fede della generazione dei [loro]
genitori».
Non c’è solo questo ovviamente.
Si deve in verità mettere pure in luce il
grave ritardo con cui si sta procedendo
ad un aggiornamento della “civiltà parrocchiale“ in direzione del suo diventare “luogo del primo annuncio”, del quale già da tempo si è stabilita la necessità.
Inoltre, soprattutto negli anni recenti,
grazie al diffondersi di nuove realtà ecclesiali (movimenti, associazioni, comunità di base), oggi essere cristiani si dice in troppi
modi. Se la cosa costituisce di per sé un elemento positivo, dal
punto di vista di chi deve decidersi circa l’identità religiosa da assegnare alla propria anima, può diventare un ostacolo.
Un ultimo elemento di criticità che pesa nel rapporto con i
giovani è dato poi da un’immagine pubblica e istituzionale della
Chiesa che potremmo definire “obesa”. Ci riferiamo ai suoi legami con l’apparato statale, a tante alleanze strategiche, alla richiesta di finanziamenti pubblici e del riconoscimento di alcune sue
strutture. Su questo, come è noto, la pubblicistica non va sul leggero, montando ad arte l’immagine di una Chiesa che non si accontenta mai, che vuole dominare le coscienze, limitare la libertà,
punire la sessualità, eliminare i gay, ritornare allo “status quo ante” dell’Illuminismo, ecc.
Come far ripartire allora il dialogo tra la Chiesa e i giovani?
Se i giovani sono estranei alla dimensione religiosa cristiana, si devono unire le risorse e le idee, immaginando una forma nuova di
introduzione all’affascinante mistero di un Dio che si fa compagno
di viaggio dell‘umanità, recuperando spazi di dialogo, di incontro,
di libera discussione, di autentica festa, curando maggiormente la
celebrazione liturgica e la recita delle preghiere tradizionali, trovando qualche nuova forma di invocazione e di adorazione, più
semplice, più adatta al senso di ricerca e alla ricerca di senso che
abita i cuori dei giovani. Si deve soprattutto insegnare a pregare.
Si deve e si può ancora imparare da Giovani Paolo II e da
Benedetto XVI uno stile di annuncio e di predicazione più immediato e coinvolgente, semplicemente più biblico, che possa provare a rompere l’incantesimo contemporaneo circa l’accessorietà di
Dio per una vita buona e bella.
La Chiesa deve poi osare mettersi a dieta: si occupa di tante cose e le sue forze iniziano a non reggere più. Preti affannati e
sempre di corsa, preti tristi e oberati di impegni, appesantiti nel
corpo e nello spirito: quale vita bella e buona testimoniano?
Bisogna compiere delle scelte, decidersi per alcune priorità, allentare alcuni interessi, razionalizzare gli investimenti. Urge ancora
accelerare l’ora dei laici, l’ora delle donne.
È questo, soprattutto, il tempo di rompere con una “fede di
tradizione”, fatta di precetti e di riconoscimento sociale, e passare
più decisamente alla tradizione della fede, che accade per prima
cosa grazie alla testimonianza di credenti felici di essere tali.
Cioè: adulti e credenti! s
1. Acronimo di Youth Catechism, uno strumento di 300 pagine, di Autori Vari,
sussidio al Catechismo della Chiesa Cattolica per i giovani, edito da Città
Nuova.
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p. Antonio Lombardi Consulente ecclesiastico Cif nazionale
Libertà
come possesso di sé
t La definizione evoca una analoga e antica locuzione latina:
“Alterius non sit qui suo esse potest” che tradotta, significa: “Non deve essere di altri chi può essere padrone di sé” nella quale gli altri sono, ovviamente, gli altri uomini, ma la padronanza di sé include anche la libertà da tutte le cose.
Dire che l’uomo è stato creato libero equivale a dire che la condizione nativa del soggetto uomo è l’essere signore di se stesso e che,
mai, in nessun caso, può essere schiavo di altri, e, come detto, delle
cose. E peggio ancora che egli stesso, sia pure inconsapevolmente, e
saltuariamente, si faccia trattare come una “cosa”.
Questo significa che la sua naturale signoria lo colloca nella categoria della soggettività e non della oggettività. Sarà sempre un soggetto mai un oggetto. In questo l’interrogativo che lui stesso o altri
pongono sulla sua vera identità, non dovrebbe essere “che cosa è l’uomo”, ma al contrario “chi è l’uomo?” E quando ciò avviene non si intende negare la soggettività dell’essere umano. L’uomo resta sempre
un io anche quando le esigenze sintattiche del discorso lo rendono un
me. Si tratta sempre di un essere personale e non di un oggetto. In questo contesto il discorso della libertà dell’uomo si coniuga strettamente con quello della sua dignità. L’autentica libertà dell’uomo si misura e si valuta sulla natura della sua dignità personale. La libertà è una
via per giungere a possedere sempre più perfettamente e a portare a
pienezza la propria persona e la sua assoluta dignità davanti a Dio nella comunità con le altre persone.
La libertà, dunque, data da Dio, è un dono all’uomo, e diviene
per lui un compito, un impegno per difenderla, custodirla e educarla,
ma anche per farla crescere e perfino liberarla dai vincoli di tutto ciò
che storicamente è umano, troppo umano. E che, in sintesi, si chiama
egoismo in tutte le sue forme. Parte proprio dalla coscienza di queste
possibilità di salvezza o di perdizione che Dostoeveskij diceva a
Cristo: “Perché ci hai dato la libertà? Perché hai messo nelle nostre
mani la salvezza o la perdizione?”. Il grido tradisce la coscienza che,
nelle possibilità di scelta, egli è esposto alla capacità di farsi, cioè di
realizzarsi, e al rischio di rovinarsi.
Nel suo dono Dio ha compiuto un atto d’amore e di fiducia nell’uomo. Ha manifestato la sua paternità. Potremmo dire che Dio ci è
Padre perché ci ha creati liberi. Liberi di farci e disfarci. Di salvarci o
perderci. Un possesso che lo rende disponibile a Dio e agli altri, libero di mettersi contro di Lui. Inaudito! Parole che hanno un senso teo-
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logico. Esse ripropongono il primato di
Dio su tutte le creature. Il referente principale della libertà e dignità dell’uomo.
L’unico da adorare, di fronte al quale
l’uomo, nella adorazione, si riconosce
creatura. Perciò, servirai Lui solo. Che
equivale a dire: “Dopo di me, o uomo, tu
sei il più grande. Tu non servirai né adorerai nessuna creatura, neppure gli altri
uomini come te. A questa tua dignità ispirerai la tua libertà. Non ti farai schiavo di
idoli, di cose, di tutto ciò che ti può rendere schiavo. Sarai libero non solo di realizzarti, ma anche libero da tutto ciò che ti
può possedere. Perciò userai saggiamente
le cose, ma non ti farai usare da esse”.
Non ne sarai schiavo.
È a questa libertà che Cristo ci ha
chiamati. (Efes. 5, 13). Solo in essa l’uomo trova il possesso di sé. Un possesso
che lo rende disponibile a Dio e agli altri.
Possesso che, come dice ancora San
Paolo: “È dominio di sé”, non inibizione
o altro di simile, ma un frutto dello
Spirito. E dove c’è lo Spirito del Signore,
dice ancora Paolo, lì c’è la Libertà. s
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Andrea Favaro Università “S. Pio X” di Venezia
Libertà e democrazia
t Nel dibattito attuale torna
spesso il concetto di “democrazia liberale” per descrivere un regime democratico che rispetti alcuni principi
fondamentali, e ultimamente viene
sempre più affiancato da quello di “libera democrazia”, che evidenzia come vi possa essere una “democrazia
non libera”.
Inoltre, nell’immaginario collettivo, lo strumento democratico rimane
il migliore tra i vari per assicurare la
libertà a ciascun membro dell’ordinamento giuridico in cui vige.
Tale orizzonte richiama alla
mente la riflessione di Rousseau e di
molti altri pensatori che hanno tentato
di ridurre il più possibile la (consapevolezza di ciascuno di noi di essere in)
schiavitù, e quindi di non essere realmente liberi quando partecipiamo in
contesti comunitari più o meno estesi,
dove la volontà di tutti non sempre
corrisponde ad una volontà univoca.
In sintesi, tutto ciò che viene
imposto da altri e non è conseguenza
di una scelta personale costituisce una
elementare negazione della libertà del
soggetto.
Come è noto, dunque, il rapporto tra “democrazia” e “libertà” è di
fondamentale importanza per comprendere quanto questa sia tutelata
dalla prima.
Dando per conosciuti gli elementi positivi che molti pensatori, più
o meno giustificatamente, attribuiscono alla democrazia, pare utile puntare
lo sguardo sul confronto tra “libertà” e
“democrazia” nel loro aspetto più debole, ossia quello che ciascuno di noi sperimenta nel vedere violata la propria autonomia
per decisione “altrui”.
La democrazia fonda la decisioni che impone alla comunità sulla regola di maggioranza che è la legge del numero.
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Dalla costruzione diremmo “aritmetica” del principio democratico della maggioranza, pare non sia possibile nemmeno oggi
uscire alla ricerca di un criterio di decisione che abbia maggior
rispetto della coscienza del singolo membro della comunità.
D’altronde, anche di recente giuristi del calibro di Francesco
Galgano «Alla domanda, che cosa renda legittimo il potere, non
[si] esita a rispondere che è il sostegno della maggioranza a legittimarlo (…). Il sostegno della maggioranza è quanto occorre,
ed è, al tempo stesso, quanto basta: non c’è potere legittimo
senza il consenso del maggior numero; ma nient’altro è necessario perché il potere sia legittimo, se non il voto dei più. Il
maggior numero è, per dirla con una parola, la misura della legittimità del potere».
L’efficacia e la giustificazione etica della democrazia è
fondata quindi sulla seguente tesi: in democrazia tutti gli individui (votanti) hanno uguale peso e la soluzione migliore è quella
che ‘sacrificherebbe’ le scelte del minor numero di persone.
Ci rendiamo conto ogni giorno come tale ragionamento
non regga proprio se messo alla prova del rispetto della “libertà”
di ciascuna persona.
Ipotizziamo un ordine sociale “a due individui”, A e B. Il
loro voto ha uguale peso, ma i loro fini sono incompatibili. Che
fare? Sia nel caso che prevalga la volontà di A che in quello opposto, non potremo mai dire che l’uno e l’altro elettore hanno
avuto uguale peso nella decisione. Il prevalere di A su B, in definitiva, si configura come un’aggressione (spesso violenta come quella, per esempio, del rapinatore).
A questo punto, ipotizziamo un sistema sociale “a tre soggetti”: A, B e C. Due di loro, A e C, hanno la stessa opinione, la
quale così prevale (democraticamente). Va sottolineato, però,
che B finisce per trovarsi esattamente nella medesima situazione in cui si trovava nell’ipotesi a due soli attori. E se prima l’avevamo definito vittima di un’aggressione, perché mai dovremmo esprimere un giudizio diverso ora che A si impone grazie al
sostegno di C? L’attore denominato A continua ad imporsi su B
ed il fatto che ora possa godere della ‘complicità’ elettorale di C
non dovrebbe modificare – dal punto di vista etico – la natura
della sua azione (aggressiva).
Per giunta, appare evidente che i tre attori (A, B e C) non
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hanno affatto un ugual peso e non sono ugualmente in grado di raggiungere
i loro obiettivi. Il peso congiuntamente esercitato da A e C è infinitamente
superiore rispetto a quello di B, che
subisce la volontà altrui. Difatti, ciò
che nel gioco democratico (dei numeri) appare chiaro è che i 51 vincenti (o
anche la somma di A e C nel caso sopra ipotizzato) ottengono 100 e quindi
l’intera posta in gioco, mentre i 49 perdenti (nel caso precedente B) non ricevono nulla (o comunque molto meno
degli altri, pur essendo, in teoria, di
egual peso e importanza).
Come conciliare dunque la “libertà” (di essere ciascuno) con la “democrazia”? Il dilemma è quello, davvero impossibile, della quadratura di
un cerchio, perchè rientra nella inconciliabilità di una reale autonomia umana con il potere (esercitato da altri sulla stessa autonomia).
Una soluzione onesta potrebbe
volgere lo sguardo alla considerazione
responsabile che ciascuno può avere
della libertà che gli è stata affidata.
Tale sguardo pare maggiormente realizzabile in contesti territoriali il meno
estesi possibili (città, comunità locali,
etc.). In altre parole, in un ordinamento realmente rispettoso della dignità di
una persona, c’è bisogno di una diminuzione costante e prudente dei vincoli che vengono imposti da soggetti diversi da quelli che devono svolgere
una determinata condotta, a prescindere anche dalla loro coscienza, responsabilità, intelligenza e ...libertà! s
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Sabrina Lorrai Psicologa-psicoterapeuta, aderente Cif Nuoro
Essere
e apparire
t Ovvero: «Perché apparire sen-
za che dietro ci sia un essere che pensa,
sente e agisce secondo bisogni condivisi e condivisibili?!».
“Non si vede bene che col cuore.
L’essenziale è invisibile agli occhi”
scrive De Saint-Exupéry nel suo Piccolo
Principe, opera incantevole e profonda
che ha accompagnato generazioni di
adulti, nel passaggio delicato e incredibilmente creativo, dall’infanzia all’età
adulta.
Fermiamoci un istante, blocchiamo un fotogramma della nostra vita,
scegliamo con precisione chirurgica, e
ceselliamo con cura, quello in cui abbiamo coltivato un pensiero tenero e benevolo su noi stessi e ci siamo sentiti armoniosamente in diritto di essere parte
del Creato e ascoltiamo…
Abbiamo bloccato il tempo dell’apparenza, folle corsa verso chissà
quale traguardo, per arrivare a sentire
l’essenza di quel momento.
Ci siamo ritrovati immersi nel silenzio, forse abbiamo avvertito una sensazione di smarrimento, o chissà anche
di paura ma da quanto tempo non ci ritrovavamo ad avere a che fare con noi
stessi, con l’essere che ogni mattina
combatte col trillo della sveglia, si rigira dall’altra pare del letto per poi fare un
balzo e ritrovarsi già in auto in mezzo al
traffico?
E allora si aprono le danze del
tempo che avvolge l’essere e lo svolge
nell’apparire, bisogna: correre fare disfare osservare gli altri carpirne gli
sguardi decifrare le possibilità mostrare
produrre stupire andare oltre andare avanti recuperare vedere sentire credere intuire… (nota: da leggersi così, senza virgole, perché
deve mancare il fiato e tutte le parole possono precedere ed essere precedute).
C’è già troppo chiasso intorno e abbiamo già messo a tacere il nostro personale Piccolo Principe.
E allora riavvolgiamo il nastro e torniamo al trillo della sveglia: oggi che cosa voglio realizzare per il mio essere che si distingua dal semplice/complicato apparire della mia straordinaria “ordinarietà” quotidiana? Ovvero di che cosa voglio essere grato al
Creato, attraverso le mie capacità, stasera quando mi abbandonerò
al sonno?
Essere o apparire?
Libertà di scelta! s
Cronache e Opinioni - luglio/agosto 2012
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Emi Arwen Sfregola Aderente Cif Trieste
Denaro e libertà
t“Denaro e libertà”, titolo di questo mio intervento, è per
me un’occasione di ascesi su come sto amministrando, nell’ultimo
periodo, i miei beni materiali. Circa una ventina di giorni fa vidi la
mail della Redazione di “Cronache e Opinioni” e mi venne da sorridere … Lessi in tale accaduto una risposta alle mie preghiere.
Sempre più mi trovo in una situazione tale di precarietà che
mi sprona a cercare ciò che è più essenziale nel mio vivere quotidiano. Bisogni materiali sollecitano la mia coscienza di persona in
costante cammino nel mondo dell’etica umana alla luce della fede.
La sfida dunque è vivere una vita buona ove i mezzi, come
il denaro, siano necessari ma non sufficienti.
Ecco un’immagine… Penso agli occhi sorridenti di Adem
nel dirmi che è diventato nonno in Kosovo, mentre lui qui in Italia
da senza tetto, oggi ha potuto incassare da un lavoro saltuario dei
soldini pagati con i vaucher. Lui tira un respiro di sollievo ed io annuisco: “Almeno ho qualcosa. Sai, quando non si hanno soldi in
qualche modo si vive - qualcuno magari ti aiuta - ma ti senti come
vuoto dentro”. Ritorno indietro nel tempo e mi ricordo di lui in
quei giorni, senza soldi, che mi si avvicina con mitezza e tanta speranza… Il vuoto dentro, ma una forza che lo spinge ad allungare
la mano verso di me: gliela stringo e tutto cambia… C’è una speranza che ci fa incontrare, è la premessa per sentirsi persone.
Adem ha visto la guerra, i suoi genitori sono stati dati per
dispersi, qui in Italia è stato vittima della malavita che cresce vicino alle stazioni… Ma è salvo. Dentro di sé vive la libertà di sapere che qualcuno o qualcosa gli vuole bene.
Sentirsi persona, donna o uomo, bambino… Che bella libertà! Credo sia ciò che dobbiamo assolutamente difendere anche dove mancano i mezzi, il denaro e le condizioni sembrano
difficili.
Il mio sguardo si poggia sul primo quotidiano, catturo con
il cuore un articolo: “Esodati, individuati altri 55.000 lavoratori”.
Qualcosa dentro di me si rompe, principi etici forti come solidarietà, giustizia e pace non trovano casa. Chi sono questi 55.000,
che volto hanno? A tavola durante il pranzo non sono serena.
Fuori dalla finestra il caldo rende immobile il paesaggio del
Carso, oltre i tetti delle case guardo le montagne e penso che la mia
libertà ha molto a che fare con quella degli altri. Poi ritorno lì alla
mia scrivania, prima di andare al lavoro, leggo “La carità nella ve-
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Cronache e Opinioni - luglio/agosto 2012
rità pone l’uomo davanti alla stupefacente esperienza del dono. La gratuità è
presente nella sua vita in molteplici forme, spesso non riconosciute a causa di
una visione solo produttivistica e utilitaristica dell’esistenza… Talvolta l’uomo moderno è erroneamente convinto
di essere il solo autore di se stesso, della sua vita e della società… A lungo andare queste convinzioni hanno portato a
sistemi economici, sociali e politici che
hanno conculcato la libertà della persona e dei corpi sociali e che, proprio per
questo, non sono stati in grado di assicurare la giustizia che promettevano…
La speranza incoraggia la ragione e le
dà forza di orientare la volontà. È già
presente nella fede, da cui anzi è suscitata”1.
Penso alla storia dell’amico del
Kosovo, la speranza dentro me rinasce:
continuerò a costruire, nei limiti del
possibile, un mondo più giusto attraverso scelte responsabili nelle pratiche
quotidiane di cittadina.
Mi renderò un’amministratrice
responsabile del denaro guadagnato, attraverso il consumo consapevole e il lavoro riconosciuto nella consapevolezza
che ogni esperienza che viviamo e ogni
cosa che abbiamo è un dono da vivere
nelle relazioni. s
1 Benedetto XVI, Caritas in Veritate, Edizioni
Cantagalli, Siena 2009 p.97-98
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Alessandra Augelli Università Cattolica di Piacenza
Libertà di sapere,
sapere di libertà
“E se si distruggono i preconcetti
che imprigionano la vita come inferriate,
allora si libera la vera vita
e la vera forza che sono in noi,
e allora si avrà anche la forza
di sopportare il dolore reale,
nella nostra vita e in quella dell’umanità”
Etty Hillesum
Jean Michel Folon, Sì alla libertà, 1998
t La gabbia e l’uccello, le sbarre
e le ali: la contrapposizione tra libertà e
chiusura, tra costrizione e possibilità, tra
legame e indipendenza viene in parte riportata nel dipinto di Folon, Sì alla libertà.
In realtà l’immagine suggerisce ulteriori riflessioni e apre a diversi interrogativi. L’uomo potrebbe, infatti, pensare
di avere sul palmo della sua mano una
gabbia con un uccello, non accorgendosi
che l’animale sia, in realtà, libero e, lui
stesso, invece, imprigionato: molto spesso si proiettano all’esterno ostacoli e difficoltà interiori, si accentuano i limiti della realtà, distogliendo lo sguardo dalle
possibilità insite nella persona e dai vincoli che essa stessa, inconsapevolmente,
si pone.
In un’epoca in cui si sono estese a
dismisura le facoltà e le possibilità umane, in cui ci sembra di poter essere liberi
di conoscere e di sapere, in realtà assistiamo a forme di condizionamento implicite
e a costanti minacce al senso autentico
della libertà, che, in quanto non dichiarate, diventano più subdole.
Accanto a proclami ed esasperazioni di auto-determinismo coesistono forme di schiavitù mascherate, invisibili ai nostri occhi, che perpetuano assoggettamenti ignari e dipendenze nocive.
La cultura odierna rischia di perpetuare, inoltre, l’idea che la
libertà sia fondamentalmente riferita all’azione e che essa debba essere orientata dal sentire; in tal senso l’immagine di Folon è ancora
particolarmente suggestiva: l’uccello, emblema di libertà, è all’altezza del cuore, mentre la gabbia è attorno alla testa, sede del pensiero
razionale. La mente ingabbia, il cuore libera. Il pensiero pone dei vincoli, le emozioni li sciolgono. L’invito ad andare là “dove porta il
cuore” se da un lato può aiutare a riconoscere il valore della vita emotiva nella crescita della persona, dall’altro rischia di riproporre l’antica antinomia tra mente e cuore, ragione e sentimento, impedendo di
comprendere l’esistenza e il valore di un pensiero emozionato e di
una emozione pensata1.
In molti giovani si consolida la convinzione che quanto più si
sappia, si abbia conoscenza, si sia consapevoli di alcune dimensioni
e vissuti, tanto più viene minata la spontaneità e la “libertà” nelle
esperienze e nelle relazioni. Ne scaturisce un atteggiamento libertino
– liquido, come direbbe Bauman2 - in cui il pensiero non ha modo di
svolgere la sua funzione chiarificatrice dell’esperienza3 e di porsi
nell’intreccio virtuoso di sentimento e scelta.
Per promuovere ricadute pratiche nei diversi contesti di vita e
orientare la progettualità educativa può essere utile, dunque, chiederCronache e Opinioni - luglio/agosto 2012
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si: “Qual è il sapere che rende realmente liberi? Qual è il senso di libertà da conquistare per formare persone sapienti?”
Un sapere liberante include, innanzitutto, la conoscenza e la
comprensione del limite: esso è protezione e frontiera non soltanto
ciò che confina e de-finisce, ma ciò che permette il passaggio e crea
aperture. Soggetta a morte, errore, precarietà, l’essenza di ogni creatura è limitata: innaturale e irrealizzabile è, quindi, la libertà intesa
come annullamento di confini. Svariate sono le testimonianze di
persone – da santa Teresa di Lisieux a Dietrich Bonheffer – che negli spazi angusti di una cella, hanno vissuto da persone libere, grazie ad una conoscenza capace di contemplare il limite, onorarlo, arrivando a non far nulla per poterlo superare.
Sapere del limite è l’unica strada per sapere della possibilità.
Una tale forma di conoscenza, peraltro, mette la persona in
contatto con se stessa: “la pratica del partire da sé è la scommessa di
risalire allo scambio simbolico da cui mi trovo a dipendere originariamente, per radicare qui la mia libertà”4. Un sapere liberante non
può non chiamare in causa il soggetto in prima persona, nel suo essere così e non altrimenti. L’acquisizione di contenuti e informazioni si lega indissolubilmente alla ricerca di ciò che essi significano: in
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Cronache e Opinioni - luglio/agosto 2012
questo senso il sapere formalizzato consegnato dalla tradizione diviene prezioso
nella misura in cui crea stimoli e connessioni e si riconosce in grado di attecchire
sul desiderio, mai tramontato, di dare senso alla realtà.
Quando la persona vede, viene a
conoscenza non può più trarsi fuori, è
chiamata a rispondere, a tradurre in atto il
pensiero, a fare della propria esistenza un
ulteriore testo di conoscenza per l’altro5:
il sapere liberante fa scaturire scelte responsabili. Vi è un’efficacia incontrovertibile di azioni che nascono proprio da un
sapere contestualizzato, da una conoscenza profonda delle situazioni, che è capace
di orientare non solo la pratica stessa ma
anche il sapere ulteriore: “il soggetto che
pensa si sente libero, si sente al suo posto.
E solamente da questo suo luogo, libero,
l’uomo può iniziare a scoprire ciò che gli
importa della realtà e ciò che ha bisogno
di sapere di essa; scoprire ciò che la costituisce, e trarre da questo luogo un poco di
certezza”6.
Lì dove non si intenda la libertà
come fine, quanto piuttosto come strada
che conduce alla pienezza di vita, il sapere è faro che orienta, bisaccia da riempire
e svuotare, sassolino nella scarpa che induce a fermarsi e a discernere il vero. s
1 Cfr. V. Iori (a cura di), Il sapere dei sentimenti.
Fenomenologia e senso dell’esperienza, Franco
Angeli, Milano, 2009.
2 Z. Bauman, Amore liquido. Sulla fragilità dei
legami affettivi, Laterza, Roma-Bari, 2006.
3 Cfr. L. Mortari, Apprendere dall’esperienza,
Carocci, Roma, 2003, pp. 9-13.
4 L. Muraro, “Partire da sé e non farsi trovare”
in Diotima, La sapienza a partire da sé, Liguori,
Napoli, 1996.
5 Cfr. P. Ricoeur, Dal testo all’azione. Saggi di
ermeneutica, Jaca Book, Milano, 1989.
6 M. Zambrano, L’innata speranza. Scritti dall’esilio, Palomar, Bari, 2006, p. 21.
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Mario Pireddu Ricercatore Università Roma Tre - Docente Università IULM di Milano
Libertà
nell’era tecnologica
t #SaveRichard, #SaveUsAll.
Jimmy Wales, il fondatore di Wikipedia,
ha lanciato pochi giorni fa una petizione
sul sito Change.org per richiamare l’attenzione pubblica sul caso di Richard
O’Dwyer, studente della Sheffield
Hallam University. Richard è un ragazzo inglese di ventiquattro anni che cinque anni fa ha aperto un sito in cui venivano elencati siti e portali per la visione
gratuita di film, serie tv e documentari.
Il sito - TvShack.net, ora chiuso
dall’Homeland Security Department
americano (Immigration and Customs
Enforcement) - era di fatto un semplice
aggregatore di link e non includeva alcun contenuto illegale, ma ciò non appare rilevante per le autorità U.S.A che
hanno chiesto l’estradizione del ragazzo. Jimmy Wales crede che il caso di
Richard sia emblematico per comprendere la limitazione delle libertà in rete e
più in generale l’atteggiamento di molti
governi in materia di libera circolazione
dell’informazione: O’Dwyer, infatti, nel
Regno Unito non ha commesso alcun
reato e non ha violato alcuna legge, ma
se fosse estradato negli Stati Uniti rischierebbe pene fino a dieci anni.
Condividere link non è illegale,
sottolinea il fondatore di Wikipedia nella sua petizione: quel che è illegale è
condividere materiale protetto da copyright, e Richard non lo ha fatto, perché
il suo sito funzionava come un motore
di ricerca e non come archivio di contenuti video. O’Dwyer è riuscito a convogliare sul suo sito molti utenti (pochi dei
quali statunitensi, ricorda Wales), e gua-
dagnava dalla vendita di spazi pubblicitari.
Insomma, secondo Wales Richard O’Dwyer è “il volto umano della lotta tra l’industria dei contenuti e l’interesse generale”, e
per questo motivo ha indirizzato a Theresa May (Home Secretary
del governo britannico), a David Cameron (Prime Minister) e a
Nick Clegg (Deputy Prime Minister) la petizione pubblica. Il governo inglese ha già concesso il nullaosta per l’estradizione, e ora
il destino di Richard sarà deciso in sede di Corte d’Appello. Wales
invita tutti gli utenti di Internet a difendere i propri diritti di cittadini, richiamando alla memoria i casi di SOPA (Stop Online Piracy
Cronache e Opinioni - luglio/agosto 2012
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Act) e PIPA (Preventing Real Online Threats to Economic
Creativity and Theft of Intellectual Property Act), recenti tentativi
legislativi di controllo dell’informazione e degli user generated
content ritirati in seguito alle proteste di cittadini e associazioni di
tutto il mondo.
Negli ultimi anni non sono stati pochi i tentativi di controllo e censura del web da parte di governi di paesi occidentali, gli
stessi governi che spesso sono in prima linea nella denuncia delle
politiche censorie di stati come Cina o Iran. Il governo americano,
è notizia di questa primavera, ha messo a punto un sistema di controllo delle conversazioni online per certi versi simile a quelli utilizzati dal governo cinese per monitorare l’attività dei propri cittadini in rete. Si tratta di una lista di circa cinquecento parole che il
Department of Homeland Security ritiene ricollegabili ad argomenti definiti “di interesse” come immigrazione, sicurezza interna
e informatica. Tra i termini sospetti, insieme a parole come ‘terrorismo’, ‘infezioni’, ‘ebola’, ‘batteri’, ‘infezioni’, vi sono parole
d’uso quotidiano come ‘onda’, ‘ritardi’, ‘San Diego’, ‘maiale’. La
National Security, sulla base di apposite segnalazioni, può far scattare indagini su chiunque rientri tra i sorvegliati speciali.
Nonostante diversi avvocati e attivisti per la difesa dei diritti civili abbiano fatto notare come sia remota la possibilità che dei veri
terroristi scrivano su Facebook quel che hanno intenzione di fare,
il governo americano continua sulla sua strada.
Quel che appare chiaro è che con l’utilizzo di massa della
rete - sempre più medium popolare e non più riservato a una élite
– anche i governi dei paesi democratici sentono l’esigenza da un
lato di rispondere alle pressioni delle big corporation e dall’altro di
controllare la produzione di informazione da parte degli stessi cittadini. Se è vero che gli utenti di Internet, infatti, da ormai più di
dieci anni hanno a disposizione piattaforme per l’autopubblicazione e la condivisione di contenuti, è vero anche che la politica ha
saputo raramente rispondere a cambiamenti di tale portata con soluzioni legislative coerenti con il mutamento in atto. Basti pensare, per esempio, ai ripetuti tentativi del legislatore italiano di introdurre norme per l’equiparazione di blog personali e testate giornalistiche, o anche alla proposta S.978 di alcuni parlamentari statunitensi, che arriva a equiparare le cover di canzoni autopubblicate
in rete al download illegale di musica protetta dal diritto d’autore.
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Cronache e Opinioni - luglio/agosto 2012
In Francia è stato l’ex presidente
Sarkozy a volere la legge Hadopi per tagliare la connessione a Internet agli
utenti scoperti a scaricare contenuti coperti da diritto d’autore attraverso filesharing e reti peer-to-peer. In Spagna è
stata la legge Sinde a far discutere, perché attribuiva a una commissione di nomina governativa la facoltà di ordinare
la chiusura di siti considerati illegali, e
dopo una sola diffida (con l’intervento
della giustizia ordinaria limitato ai casi
di eventuale ostacolo alla libertà di
espressione).
Come scrive Jimmy Wales nella
sua lettera al governo inglese: “il copyright è un’istituzione importante, ma
questo non significa che il copyright
può o dovrebbe essere illimitato. Ciò
non significa che dovremmo abbandonare consolidati principi morali e legali
per consentire abusi infiniti sulle nostre
libertà civili”. s
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Enzo Natta Critico cinematografico
Lo sguardo del cinema
sulla libertà
t I più quotati festival internazionali già se lo
contendono. Si tratta di ReGeneration, documentarioinchiesta sulla condizione giovanile prodotto dal Ryan
Gosling (attore sulla cresta dell’onda dopo Le Idi di
marzo e Driver). 80 minuti in cui si parla di conflitti
armati, scempi ambientali, indebitamento globale,
sfruttamento delle risorse, disimpegno delle nuove generazioni scoraggiate da precarietà e mancanza di prospettive. Ma soprattutto di un inappagato desiderio di
libertà che ci riporta esattamente a cinquant’anni fa, al
“Manifesto di Port Horn” del 16 giugno 1962, indicato come premessa del ‘68 da James Stiller in
Democracy is in the street.
“Siamo figli della nostra stessa generazione,
cresciuti nel benessere, parcheggiati nelle università,
e guardiamo al mondo che ereditiamo con sconforto”.
Così inizia il “Manifesto”, con parole non molto dissimili da quelle che si possono leggere nei documenti
affissi sui muri della facoltà di Sociologia
all’Università di Trento nello stesso anno.
Sono le prime inavvertite scintille di una rabbia
giovanile che da noi troverà il suo corrispettivo di celluloide nei Pugni in tasca (1965) di Marco
Bellocchio, esempio lampante di come il cinema sappia essere profetico nell’agitare un fantasma della libertà raffigurato nella rivolta contro i padri, riflesso di
un inconscio collettivo che nello stesso periodo prende corpo nell’Uomo a una dimensione di Herbert
Marcuse, testo incendiario, indice accusatore contro
l’autorità a tutti i livelli (dalla famiglia alle istituzioni
statali, dalla scuola alla Chiesa) che avrebbe scosso la
classe studentesca americana scatenando un’ondata di
protesta in tutte le università. Una ribellione che il cinema non tarda a cavalcare manifestando un’ansia
spasmodica di libertà, di evasione e di fuga che trova
in Easy Rider (1968) di Dennis Hopper la piattaforma
più significativa. La protesta contro la guerra del
Vietnam, le cartoline-precetto bruciate in piazza, le diserzioni e gli espatri in Canada faranno il resto, acCronache e Opinioni - luglio/agosto 2012
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compagnati dalle note di Hair, il musical portato poi sullo schermo da Milos Forman nel 1979.
Ovunque si invoca libertà a gran voce. Non a caso il film
più visto al Festival di Cannes nel 1969, replicato neppure un mese dopo a San Sebastian, è Mr. Freedom di William Kleist, favola
fantapolitica in cui un supereroe americano libera la Francia da un
golpe militare. Ma di quale libertà si parla? Innanzitutto di libertà
sessuale, di cui Il laureato (1967) di Mike Nichols diventa una
bandiera. Una conquista? Lo sguardo preoccupato di Dustin
Hoffman dopo che ha appena rapito la sposa sull’altare lo esclude.
E anche le rivolte universitarie non vanno meglio. Basti vedere il
tragico finale di Fragole e sangue (1970) di Stuart Hagmann, improntato al pessimismo e alla delusione per una primavera mai
sbocciata.
Diversa la piega in Europa. Anche perché non c’è la guerra
del Vietnam a far da contrappeso. In Inghilterra Lindsay Anderson
nel 1968 firma “Se..” .(il resto del titolo è implicito: “...i giovani potessero, sparerebbero”) e Marco Bellocchio concede il bis dei Pugni
in tasca con Nel nome del padre nel 1972. Un complesso edipico
che si protrae per 25 anni, fino al Principe di Homburg (1997),
quando Bellocchio si inginocchia davanti alla figura del padre per
chiedergli perdono. Atto di contrizione ripetuto nel 2003 con Buon
giorno, notte, allorché Bellocchio indicherà in Aldo Moro il padre
collettivo di un’intera generazione riconciliata immaginando la sua
liberazione dal covo-prigione delle Brigate Rosse.
La caduta delle ideologie, i cambiamenti sociali, le crisi
economiche, il disimpegno giovanile sembrano diversificare i tempi oltre misura. Dopo la contestazione spunta la generazione X (secondo la definizione del romanziere Douglas Coupland), esercito
di inattivi convinti, giovani che fanno fatica a crescere, raffigurati
in film come Metropolitan (1990) di Whit Stillman e Giovani carini e disoccupati (1994) di Ben Stiller.
Anche il cinema italiano vuol dire la sua, ma finisce per incartarsi su se stesso vivendo la contraddizione di un sistema produttivo senza coraggio che non sa osare oltre i canoni garantiti di una
commedia giovanilistica sfiatata e priva di idee. Ne è l’effimero aedo Federico Moccia, capostipite di un incontro fra letteratura dozzinale e cinema con accompagnamento di pop-corn che annovera
fra i suoi prodotti da supermercato Tre metri sopra il cielo, La notte prima degli esami, Classe mista 3A, Scusa ma ti chiamo amore.
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I suoi eroi godono di libertà pressoché illimitate, ma rivelano personalità immature, refrattarie all’osservanza di regole
elementari, estranee a tutto ciò che accade, che bivaccano in un deserto di relazioni dove uniche oasi sono fugaci innamoramenti che per sentirsi garantiti non
trovano niente di meglio che un simulacro di promessa sancita da un lucchetto a
Ponte Milvio (Roma). Un frullato mediatico popolato da apolidi della coscienza, incapaci di usare la propria libertà perché inetti nel discernere e valutare, esistenze sprecate nel vuoto pneumatico della responsabilità.
Chi dimostra invece di saper individuare gli ambigui rapporti fra modelli sociali sempre più liberi e una nuova realtà fatta di disgregazioni familiari,
disaffezioni scolastiche, devianti suggestioni massmediatiche, prevalenza del
mondo virtuale su quello reale è Paolo
Virzì con Caterina va in città (2003) e
Tutta la vita davanti (2008).
Di recente, sulla linea di Virzì nel
tracciare un profilo del rapporto giovani-libertà-responsabilità si è ben inserito
anche Francesco Bruni con Scialla,
mentre un efficace ritratto, a metà strada
tra la finzione e il documentario, è Venti
Anni di Giovanna Gagliardo, esame del
periodo compreso fra la caduta del
Muro di Berlino e la crisi di Wall Street
del 2008 visto attraverso l’esperienza di
una coppia che nel 1989 aveva vent’anni. Ma la miglior sorpresa è appena arrivata con Il cammino di Santiago di
Emilio Estevez, picaresco e mistico, dove la crisi spirituale di un giovane morto sulla strada del Santuario di Santiago
di Compostela è rivissuta dal padre
(l’attore Martin Sheen, nella vita è padre di Emilio Estevez) ripercorrendo la
stessa esperienza del figlio.
Che gli svela l’autentico senso
della parola libertà. s
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Francesca Conte Responsabile Coordinamento Giovani Cif Nazionale
Libertà, secondo me...
t Ho fatto una breve indagine fra
le giovani sul concetto di libertà, proponendo loro questa semplice domanda: cosa significa per voi essere libere?
Mentre discutiamo insieme, la prima cosa che ci viene in mente è la libertà
di pensiero. Pensare liberamente, presuppone la capacità di giudizio, che noi tutti
acquisiamo negli anni attraverso un percorso di maturazione sia psicologica che
culturale. La cultura, quindi è, non un
inutile orpello, ma fonte primaria di libertà. Da sempre, i regimi dittatoriali
hanno cercato di limitare le espressioni
culturali, sottoponendole a più o meno rigide forme di controllo e censura.
Questa esigenza è particolarmente evidente nell’arte che di sua natura risulta anarchica, intendendo per ciò non
disordine ma indipendenza dal potere costituito.
A questo proposito, si sottolinea una forma di dittatura subdola ampiamente praticata oggigiorno, la dittatura del mercato. È
opinione oramai diffusa in molti che l’espressione artistica valga
in relazione al suo successo commerciale e non in base al suo valore intrinseco.
Questa opinione pecca sia di superficialità che di scarsa conoscenza dei meccanismi dell’industria culturale. Spesso infatti il
successo commerciale, apparentemente così democratico, viene
abilmente orchestrato attraverso meccanismi di marketing che non
tengono in conto tanto il gusto popolare (ma finiscono poi per
crearlo) ma dei costi di produzione, in una logica che assicura alti
guadagni all’industria dell’intrattenimento culturale, e prodotti di
qualità infima all’ utente.
Una produzione culturale esclusivamente legata al successo
commerciale è inoltre enormemente omologata, poiché dove si
cerca un ampio consenso si tende ad operare una censura non dichiarata che riguarda sia le tematiche che i linguaggi. L’odierna
produzione televisiva è lo specchio più inquietante di questi mecCronache e Opinioni - luglio/agosto 2012
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canismi fintamente democratici e dei loro pesanti effetti collaterali sulla libertà di pensiero ed informazione: programmi tutti uguali, in cui si dibattono fino alla nausea un numero molto limitato di
argomenti, e su cui spesso grava il pregiudizio tanto caro agli autori televisivi che popolare e cretino siano sinonimi.
L’invasione di reality show risponde a un criterio commerciale: costo relativamente contenuto che grazie alla presenza del
televoto assicura lauti guadagni. Spesso il “è quello che vuole la
gente” tanto sbandierato non è nient’altro che quello che conviene
all’industria culturale. Proporre alle masse una cultura così omologata finisce per privarle della facoltà di esercitare la loro libertà di
pensiero. Pensiamo anche in base alla varietà di stimoli a cui siamo esposti.
Il finanziamento pubblico alla cultura, dovrebbe perciò
provvedere uno spazio di liberà dalle feroci leggi di mercato, consentendo la produzione e la diffusione di idee più libere e meno
omologate, di linguaggi artistici meno standardizzati la cui possibilità di esistenza non è solo fonte di ricchezza e di crescita culturale ma garanzia di democrazia.
La libertà di pensiero resta lettera morta se non è accompagnata dalla possibilità di esprimere autenticamente il pensiero.
ROBERTA aggiunge che un ulteriore danno alla libertà di
pensiero e alla democrazia sono i tagli alla scuola e all’istruzione.
Limitare l’accesso all’istruzione è stato fin dai tempi più antichi
forse il principale strumento di asservimento delle masse agli interessi della minoranza che poteva permettersi di studiare. Una popolazione ignorante diventa più facilmente preda di demagoghi di
ogni tipo e non è in grado di giudicare l’operato di chi la governa
e di difendersi dagli abusi o rivendicare i propri diritti legittimi.
GIULIA sottolinea che l’attuale classe politica, oltre ad
ostacolare un democratico accesso alla cultura e all’istruzione,
ci priva del diritto democratico di scegliere liberamente anche
attraverso il ricorso sistematico alla menzogna, oramai quasi
“sdoganato” soprattutto in fase di campagna elettorale. La menzogna, sia nella vita civile che privata costituisce un serio ostacolo all’esercizio della libertà sia di pensiero che di azione dell’individuo, poiché non ci permette di renderci conto della situa-
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Cronache e Opinioni - luglio/agosto 2012
zione in cui ci troviamo e di fare libere scelte. Chi ci mente, ci rende schiavi inconsapevoli, quindi doppiamente
schiavi.
SABRINA ricorda la libertà di
poter intervenire sulla realtà per modificarla. Questo è strettamente collegato
alla libertà di associazione, in particolar
modo se i cambiamenti che vorremmo
operare sono di carattere sociale e politico. Come diceva Giorgio Gaber nella
famosa canzone omonima “Libertà non
è stare sopra un albero, libertà è partecipazione”.
LORETTA, infine pone l’accento sui limiti dell’esercizio delle nostre
libertà.
A molti sembra contraddittorio
associare il concetto di libertà a quello
di limite. Ma non è così perché l’esercizio indiscriminato delle proprie libertà,
che non contiene in sé un adeguato senso di responsabilità, finisce per sfociare
in una forma di sopraffazione dell’altro.
Invece è intrinsecamente contraddittorio rivendicare la propria libertà
privando gli altri della loro.
Una citazione di Jim Morrison mi
ha colpito: “I dubbi te li crea la libertà”.
La discussione serve anche
per cercare una risposta a questi
dubbi, qualche volta, per farsene venire altri... s