CORSO GREGORIANO CREMONA Seconda lezione 20 febbraio
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CORSO GREGORIANO CREMONA Seconda lezione 20 febbraio
SCUOLA DI CANTO GREGORIANO CREMONA Seconda Lezione – 20 Febbraio 2016 Angelo Corno La prima lezione abbiamo cercato di abbozzare una definizione del canto gregoriano inteso come il testo sacro che si fa suono nella liturgia. Abbiamo anche detto che questi tre elementi (testo, che comunque ha la primazia sugli altri due, suono e liturgia) sono intimamente connessi tra loro, quasi in una forma sorprendente di identificazione. Nel canto gregoriano non esiste un testo sacro che rimane solo sulla carta, così come non esiste un suono della Parola sganciato dal rito liturgico, e ugualmente non esiste una liturgia senza il canto della Parola. Abbiamo anche intuito, visitando alcune antifone del tempo di Natale, che, per un dono provvidenziale, quel testo è corredato da una notazione preziosissima che ci ha consegnato non soltanto degli schemi melodici, ma un suono della Parola che dà senso al testo, anzi rappresenta il pensiero della Chiesa su quel testo. Quei segni che abbiamo visto collocati sopra il testo non sono stati tracciati per ragioni musicali, anche perché quasi nulla ci dicono del procedimento melodico e comunque ci danno una informazione molto relativa dell’altezza dei suoni. Dunque, lo scopo ultimo della notazione non è quello di tramandare dei puri suoni, ma un testo cantato, meglio di rendere percepibile all’ascolto l’esito sonoro del testo sacro nella liturgia. 1. Allora c’è un primo passaggio da chiarire: l’origine della notazione. Nei primi decenni del secolo X compare, quasi per incanto, la scrittura neumatica, cioè un sistema di grafia costituito da segni in “campo aperto”, senza alcun riferimento lineare per determinare gli intervalli (non c’erano ancora linee tracciate a secco sul foglio di pergamena), che si sovrappone al testo nei primi manoscritti liturgici (è il passaggio appena successivo ai manoscritti letterari a cui abbiamo fatto riferimento la prima lezione). Tra le varie famiglie di notazione musicale che compaiono in quel periodo, noi, almeno inizialmente, faremo riferimento alla notazione sangallese, quella trascritta con inchiostro rosso nel Graduale Triplex. La notazione sangallese ha un’origine oratoria. Infatti già gli antichi retori e grammatici latini (Cicerone, Quintiliano, Varrone) sostenevano che nel linguaggio, nella declamazione di un discorso si ritrova una incipiente melodia, che è il risultato dell’alternanza di sillabe dotate di accento acuto e sillabe dotate di accento grave. Tale alternanza costituisce nel linguaggio una vera e propria modulazione melodica. Nel tentativo di trascrivere sulla pergamena questo linguaggio modulato, noi riconosciamo negli accenti grammaticali i segni primitivi e naturali di una notazione oratoria. Allora la virga ( / ) è segno dell’elevazione della voce, e il tractulus ( - ) il segno dell’abbassamento. Quindi, questi segni sono figure originate dal gesto dell’oratore che traccia nell’aria i movimenti ascendenti e discendenti della melodia e che il copista riporta sulla pergamena nelle dimensioni proprie che la scrittura esige. Questo è il motivo dell’origine oratoria della notazione sangallese. ESEMPIO 1: Salutare vultus mei Deus meus. Questi segni elementari servivano per fissare sulla pergamena melodie semplici, di tipo sillabico, melodie che assecondavano la naturale accentuazione della parola latina. Erano melodie embrionali, calcate sugli accenti grammaticali del testo, senza enfatizzare parole che la notazione non voleva mettere in evidenza. Nel repertorio dell’Ufficio sono numerose queste brevi antifone (es. Miserere mei Deus, Adjuva me et salvus ero Domine, ecc.), la cui semplicità melodica è da ricercare nella loro collocazione liturgica: sono antifone del Tempo Ordinario, o meglio, sono antifone dell’Ufficio ‘feriale’ del Tempo Ordinario che accompagnano la salmodia, della quale assumono la forma sillabica e la tipica recitazione salmodica. [A confronto, vedremo nel corso della lezione alcuni esempi di antifone più strutturate sia per l’ornamentazione melodica che per la connotazione ritmico-espressiva: sono le antifone che precedono il Benedictus e il Magnificat, i due cantici più solenni dell’Ufficio Divino]. Pur in questo contesto sillabico, la nostra antifona, corrispondente al versetto conclusivo del salmo 42, presenta due neumi plurisonici, il pes rotundus su vultus e la clivis corsiva su mei, che corrispondono semplicemente ai rispettivi accenti verbali: la salvezza di Dio (Salutare) si manifesta come luce che illumina il volto di ogni uomo. Quanto è stato detto sin qui è sufficiente per un primo approccio a una buona declamazione, nella quale si ricerca una corretta pronuncia, il rispetto di una esatta accentuazione, l’indeterminatezza del ritmo sillabico. Ma, nella virga e nel tractulus vi è anche una prima indicazione dell’orientamento del ritmo verbale: la virga è il segno della tensione che anima la parola latina e la ‘spinge’ verso la sua meta accentuativa; il tractulus segnala il momento della distensione del ritmo verbale, il punto in cui si spegne la forza ritmica della parola. Possiamo dunque affermare che ritmo e melodia non sono elementi totalmente estranei tra loro, il ritmo è già all’interno della melodia, la quale è in grado in questa prima fase declamatoria di modellare un incipiente fraseggio, anche se non possiamo attribuire, per esempio, al tractulus di mei una vera e propria articolazione se non è espressa chiaramente dal notatore, come si dirà nel passaggio successivo. 2. I neumi fondamentali della notazione sangallese sono contornati da segni aggiuntivi, da lettere significative, arricciamenti del tratto grafico. Sono questi gli elementi che definiscono il valore della notazione: episema su virga e tractulus, t (tenete) x (exspectate) … (ESEMPIO 2) . A prima vista sembrano elementi accessori, in realtà sono la parte sostanziale della notazione, sono veri e propri strumenti retorici in grado di organizzare la frase in entità verbali distinte (come la nostra punteggiatura), individuare le mete accentuative, segnalare la presenza di parole significative, rallentare il flusso della declamazione, orientare la tensione dell’intera frase verso il suo nucleo espressivo. I neumi sono soltanto lo scheletro, il quale viene innervato da tali aggiunte che a loro volta rivelano, illuminano, danno vita e significato non a suoni ma a sillabe, a parole, insomma a un testo sacro. Questo significato, dunque, emerge quando il ritmo viene chiarito dai segni aggiuntivi dell’antica notazione. Negli antichi codici il testo era scritto tutto di seguito, non presentava alcun segno di punteggiatura: i segni aggiuntivi avevano primariamente lo scopo di segnalare i momenti di articolazione della frase per rendere il testo perfettamente comprensibile. Gli episemi, in questa prima fase, sono gli elementi ordinatori del ritmo verbale secondo una logica già prefissata dal notatore che non sempre corrisponde alla nostra. ESEMPIO 3 Da nobis Domine. Da un punto di vista sintattico questa breve antifona potrebbe segnare l’articolazione dopo la parola auxilium, inglobando in un’unica entità predicato verbale e complemento oggetto: Da nobis Domine auxilium / de tribulatione. Invece non è così: l’episema su tractulus di Domine è molto esplicito e corrisponde alla chiusura di un arco melodico; inoltre la virga su sillaba finale di auxilium suggerisce continuità di fraseggio con de tribulatione. Ad ampliamento di questa semplice osservazione possiamo dire che le regole generali per l’utilizzo della virga e del tractulus si possono sintetizzare in due schemi: l’uso del tractulus è limitato alle note più gravi della melodia, la virga in tutti gli altri casi, nei contesti ascendenti e discendenti oppure in contesti unisonici per avvisare che la nota successiva è più grave (come nell’esempio appena analizzato). Nell’antifona Benigne fac (ESEMPIO 4) la regola vorrebbe che il monosillabo fac, che ancora non ha raggiunto il punto più grave della melodia, sia contrassegnato da una virga. Invece riceve il segno di un tractulus, che in quel punto serve a segnalare la chiusura dell’ arco melodico che delinea, conferendo autonomia e consistenza, l’entità verbale Benigne fac (Rendi grazia [a Sion]): è un’indicazione di fraseggio che impedisce che il monosillabo fac sia, per così dire, ‘risucchiato’ dal flusso della declamazione. 3. Un’altra funzione dei segni aggiuntivi è quella di segnalare un forte accento, in genere sulla sillaba tonica della parola interessata, della quale si intende sottolineare un particolarissimo significato testuale. Facciamo riferimento a un classico esempio che, per semplicità e chiarezza, viene riportato in molti manuali di canto gregoriano, buon ultimo il nostro Manuale al fondamentale capitolo di Fulvio Rampi sul ritmo gregoriano. ESEMPIO 5 Lumen Rispetto a Salutare vultus mei (Esempio 1), dove la tendenza della sillaba d’accento è quella di porsi in naturale evidenza melodica nel rispetto di una declamazione subordinata al semplice ritmo verbale, in questa antifona c’è una novità: la prima sillaba di Lumen è una virga corredata da un segno aggiuntivo, un episema. Questo segno cambia tutto: conferisce a quella sillaba un peso, un valore, una durata superiore rispetto alle altre sillabe “ordinarie”. Quella sillaba, e quindi tutta la parola, diventa un polo di attrazione ritmico ed espressivo del contesto in cui è inserita. Rispetto alla grafia semplice del contesto seguente (ad revelationem gentium), Lumen riceve una particolare densità di accentuazione. Come cambia concretamente il valore o la durata di quella sillaba? La risposta non sta nel definire una misura concreta di durata, ma di comprendere che quell’episema è essenzialmente una manifestazione esplicita di significato. La virga episemata di Lumen è icona, immagine del testo, contemplazione della parola, quindi molto più di una semplice questione di durata, rimanda al gesto retorico dell’oratore, il quale in quel gesto impegna tutta la sua persona, l’espressione del volto, l’intonazione, la gestualità, i suoi affetti, la sua fede. Anche la scelta del grado melodico è frutto di una strategia comunicativa ben precisa. Insomma, la combinazione dei due fattori, cioè del tono acuto di voce e della rilevanza ritmica assegnata alla prima parola del brano rimandano immediatamente al senso e al significato. In una forma diversa la stessa osservazione si può attribuire alla parola gloriam: non c’è episema sulla sillaba tonica ma un segno liquescente su sillaba finale, che ‘trattiene’ la declamazione affinché gloriam non si perda nel contesto verbale successivo senza lasciare una traccia espressiva evidente. Dunque, anche gloriam assume un rilievo particolare nel contesto della seconda semifrase, collegandosi strettamente a Lumen e stabilendo con essa un evidente parallelismo melodico ed espressivo: luce e gloria sono le due prerogative della salvezza riconosciute dall’anziano Simeone. Si ritorna sempre alla portata simbolica di quei segni: dentro la virga episemata di Lumen e alla liquescenza di gloriam c’è il desiderio mai sopito di Simeone, il giusto anziano israelita che ha atteso giorno dopo giorno per una intera vita la salvezza annunciata dai profeti, e quando alla fine, mosso dallo Spirito, la scorge in quel bambino portato al tempio da Maria e Giuseppe, può esclamare: “Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace”. Simeone ha vissuto tutta la vita nell’attesa di quel giorno. Quel giorno è arrivato, e lui ha raggiunto il traguardo, il fine (télos) della sua vita, ha incontrato la salvezza che riempie di luce e di gloria la vita e la morte di ciascuno. 4. Prima di accostarci ai brani del Triplex del periodo di Quaresima, a beneficio di coloro che sono da poco introdotti al gregoriano facciamo ancora riferimento a qualche esempio tratto dall’Antifonario di Hartker, di area sangallese, che alcuni di voi hanno conosciuto al corso di Ostiglia (luglio 2015). Ho scelto altri due brani dell’Ufficio divino, sempre in stile sillabico, ma con qualche elemento neumatico più complesso che può aiutarci a capire ulteriori aspetti legati all’importanza della notazione a servizio della migliore comprensione del testo. Sono dunque propedeutici al repertorio della Messa che affronteremo tra poco. Vadam ad patrem meum (AM 360) ESEMPIO 6. Siamo nella seconda settimana di Quaresima. Il testo è preso dal Vangelo di Luca (Lc 15, 11-32) che racconta la storia del padre misericordioso. Come sapete, uno dei cardini del Vangelo di Luca è il tema della misericordia (li ho scelti perché siamo nell’anno giubilare della misericordia). Ebbene, il figlio minore reclama l’eredità. Non si dicono i motivi della richiesta, ma, appena entra in scena dice: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed esce di casa per organizzarsi una vita indipendente: probabilmente la presenza del padre è vista come un giogo che soffoca la sua libertà personale, e l’allontanamento da lui è percepito come una liberazione. Ma da quel momento per il ragazzo iniziano i guai: vita dissoluta, carestia, fame, servizio sotto padrone pagano, costretto a pascolare i porci (considerati animali impuri), umiliazione e perdita dell’identità religiosa. A quel punto ritorna in sé. Ora, questa non è la sede per indagare se il ritorno del giovane sia dettato da pentimento o dal bisogno di assicurarsi il pane quotidiano. Probabilmente quest’ultimo. Sta di fatto che dice: “Mi alzerò e andrò…” . Da qui inizia l’antifona: Vadam ad patrem meum. La scelta dell’incipit di questa breve antifona tiene conto di tutta la storia che precede questa decisione di ritornare alla casa del padre. Il figlio era diventato schiavo, aveva raggiunto il punto più basso e più umiliante della sua esistenza. L’intervallo di quinta nella modalità del protus autentico, scelto per la prima parola del brano, Vadam, non è casuale: dice tutto lo sforzo di sollevarsi da una situazione di grande prostrazione per ritornare almeno alla normalità della vita dei servi che vivono nella casa del padre. Per di più, il pes di attacco è angoloso, quindi dal punto di vista ritmico deve essere eseguito ben appoggiato, allargato rispetto al valore sillabico di un pes corsivo. Va detto che, nel caso di neumi plurisonici (Vadam), il passaggio dalla grafia corsiva a quella non corsiva è equivalente dal punto di vista ritmico all’aggiunta di episema nel caso di neumi monosonici (Es. Lumen). Per quanto riguarda il significato, la scelta del pes angoloso da parte del notatore non fa che ribadire con forza la decisione del figlio di ritornare dal padre. Il seguito di questo primo inciso, pur mantenendosi sulle corde acute del protus non presenta nessuna altra particolare accentuazione: solo il rispetto dell’accentuazione verbale di patrem meum, entrambi contrassegnati da virga (segno dell’elevazione) e tractulus (segno del deposizione della voce). Ma, l’arco melodico ed espressivo della prima semifrase non è ancora concluso, viene ripreso e alimentato dalla liquescenza su et che orienta il flusso della declamazione su dicam ei. Quasi formando una inclusione i due verbi vadam e dicam si richiamano, il primo aprendo con una spinta agogica vigorosa verso l’apice dell’arco melodico e il secondo, pur nella fase della distensione, mantenendo una equivalente intensità ritmico-espressiva. La notazione su dicam (salicus con articolazione iniziale su sillaba tonica e liquescenza su sillaba finale) ci avverte che questa parola è la stessa che l’evangelista ha usato all’inizio del racconto, ma l’esito è completamente diverso: “il più giovane dei due (figli) disse al padre: Padre, dammi l’eredità che mi spetta”. Il tono è perentorio, freddo, distaccato. Qui invece, il figlio, rientrato in sé, pensa di rivolgersi al padre con una supplica: “Pater, fac me…”. Ecco come il notatore, intervenendo sulla notazione, ne modifica la struttura ritmica per rendere manifesto il significato del testo: modificando ritmicamente i segni sul verbo dicam (da neumi corsivi a neumi non corsivi), introduce la modalità ‘nuova’ della supplica. Ecco dunque l’accentuazione di grande intensità sulla sillaba di accento Pater: bivirga sormontata da episemi. Sulla sillaba post-tonica, dopo un appoggio al grado di Re che favorisce la risalita al Fa, c’è un ripiegamento al punto più grave della melodia: è un segno di riverenza, di rispetto, forse di sottomissione nei confronti del padre visto che il figlio è disposto ad essere annoverato tra i suoi servi. Segue subito fac me: è una richiesta accorata di grande densità melodica e slancio ritmico che si chiude con episema sul monosillabo me, e che lascia intendere che il figlio vuole abbandonare in modo definitivo il suo stato miserevole, disponendosi persino a rinunciare alla propria dignità filiale e ad essere trattato come uno dei mercenari del padre. Dixit autem pater AM 361 ESEMPIO 7 Questa antifona è il seguito del racconto di Luca che contiene la risposta del padre alla supplica del figlio. Il verbo dixit del padre si collega a dicam del figlio, anche se qui la modalità espressiva è diversa: è uno scandicus che presenta un intervallo di quarta, più raro del comune scandicus con intervallo di terza, e che il quilisma contribuisce a dare all’incipit un particolare slancio ritmico, introducendo la sorpresa che è tutta nella risposta del padre. Non solo non tiene conto della richiesta del figlio, ma dice a servi: Cito, proferte stolam primam, anulum et calceamenta (Presto, portate il vestito più bello, l’anello e i calzari: sono i tre segni simbolici della ritrovata dignità filiale). Anche qui la notazione ci guida: dopo il primo inciso dixit autem pater ad servos suos, dove l’escursione melodica ridotta è il risultato di una declamazione oratoria semplicemente rispettosa dell’accentuazione delle parole, su Cito (Presto) c’è la scelta del grado melodico acuto che segnala anche un cambio di registro espressivo. Dallo stile declamatorio semplice si passa a quello solenne. La sillaba d’accento di Cito è corredata da clivis e pes (quattro suoni in contesto sillabico!), dunque è una parola che ha un certo peso, proferte è sormontato da pes angoloso con liquescenza, stolam pes angoloso, primam chiude con tractulus episemato: è un inciso di grande movimento che, dopo la semplice segnalazione dell’accento di et induite (e rivestitelo), si placa su illum su cui è collocata una liquescenza che definisce l’identità del figlio. Inoltre, primam e illum si richiamano vicendevolmente con una evidente rima musicale: per entrambi un intervallo discendente di quarta. Il testo greco riporta stolén pròten, che significa il vestito più bello, il migliore ma anche il primo, cioè quello che aveva al principio, prima di allontanarsi dal padre: l’abbigliamento rivela la dignità della persona, quella dignità filiale che il figlio non ha mai perduto. Il secondo simbolo è l’anello, cioè il sigillo, l’emblema del potere, il cui significato è melodicamente reso dalla insistente permanenza sui gradi acuti della scala di tetrardus. Il terzo simbolo sono i calzari: a differenza degli ospiti, che toglievano i sandali al momento di entrare in casa, e degli schiavi che camminavano scalzi, il figlio li riceve perché gode del diritto di proprietà. Questo aspetto viene sottolineato con forza sia con una bivirga su sillaba di accento di calceamenta su un grado melodico acuto, sia con due clivis episemate su pedes: nonostante avesse già ottenuto la parte di eredità che gli spettava, viene reintegrato pienamente nei suoi diritti di figlio e, in quanto figlio, anche di erede. Sono piccoli esempi che ribadiscono un concetto fondamentale: la funzione primaria della notazione adiastematica non è quella di indicare esattamente un seguito preciso di suoni, che del resto era ben conosciuto dai monaci di quell’epoca, ma quella di richiamare alla memoria il messaggio contenuto nel testo. E’ la notazione antica che ci offre l’immagine, oggi per noi velata, di come quel testo doveva essere inteso: l’azione del notatore, disciplinata dalla pratica costante della lectio divina, si manifesta nella segnalazione di quanto la memoria deve trattenere di significativo nel testo sacro. Chiudo l’analisi dei brani dell’Ufficio con un’ultima osservazione: è sorprendente che nell’antifona Vadam la formula melodica su Pater sia identica a quella contenuta nella grande preghiera sacerdotale, così viene definita, che Gesù rivolge al Padre poche ore prima del suo sacrificio in favore dei suoi discepoli e di tutti gli uomini (Gv 17, 6). L’antifona è la seguente: Pater, manifestavi nomen tuum hominibus quos dedisti mihi (AM 507) ESEMPIO 8 . Un’antifona complessa, bellissima che meriterebbe un commento a parte, magari in altra sede. Ci basti ora osservare che al padre terreno della parabola (Ant. Vadam) si sovrappone in quest’altra antifona il Padre celeste al quale il Figlio, l’Unigenito, nell’ora delle tenebre affida se stesso e i suoi discepoli (di allora e di oggi) affinché siano custoditi nel suo nome, nel nome dell’unico Padre di tutti. Rispetto alla formula di invocazione del figlio prodigo, qui lo scandicus quilismatico su Pater riprende il grado iniziale: è certamente neuma di apertura a ciò che segue; è anche il mistero dell’uguaglianza del Figlio al Padre? È possibile. Anche perché in un altro passo del vangelo di Giovanni (10, 27-30), che si richiama al testo della nostra antifona, si dice che nessuno può togliere di mano al Figlio le pecore consegnategli dal Padre, perché nessuna potenza può essere uguale a quella del Figlio, Lui che è Dio come il Padre. 5. Pertanto appare in tutto il suo valore la scelta intelligente di affiancare alla notazione quadrata la notazione neumatica antica operata dal Graduale Triplex, pubblicato nel 1979, nel quale si trova in pienezza la sintesi del canto gregoriano: testo, melodia, ritmo. Dal punto di vista melodico il Graduale Triplex non è cambiato rispetto al prototipo, cioè il Graduale Romanum del 1908: la versione melodica è identica. Il Graduale Romanum è il primo frutto concreto di quel movimento di restauro che è noto sotto il nome di Restaurazione Gregoriana (avremo modo di parlarne diffusamente in un’altra occasione), che ha consentito il recupero dei testi nella loro integrità formale e delle melodie originarie connesse al testo che nei secoli erano state manipolate e semplificate perdendo la loro connotazione primitiva e autentica. A tale traguardo si poté giungere grazie allo studio e alla tenacia di un gruppo di studiosi (la maggior parte monaci benedettini) che, superando difficoltà di ogni genere, nell’arco di settant’anni portarono a termine la delicata e colossale opera di restauro del canto gregoriano. Tuttavia, il Graduale Romanum presenta un limite evidente: la notazione quadrata da sola non è in grado di suggerire il ritmo appropriato della frase gregoriana, è perfettamente leggibile per quanto riguarda l’altezza dei suoni, ma insufficiente a definire un valore, una direzione, un ritmo, un fraseggio. A dire il vero, tra il Graduale Romanum e il Triplex vi è stato un passaggio intermedio ad opera di Eugène Cardine, altro grande studioso e monaco benedettino, il quale seppe intuire e scoprire il significato ritmico dei neumi delle notazioni in campo aperto. Cardine prese sul serio le affermazioni che Mocquereau scrisse nella Prefazione al I volume della sua monumentale opera (La Paléographie Musicale pubblicata nel 1889): “ in questi manoscritti è racchiuso tutto ciò che vogliamo sapere sulla versione melodica, la modalità, il ritmo e la notazione delle melodie ecclesiastiche”. E Cardine inventò una nuova scienza: la Semiologia gregoriana. Così prese la sua copia personale del Graduale Romanum del 1908 e trascrisse sulla linea melodica del canto la notazione sangallese, nella convinzione che solo attraverso quei segni quelle melodie recuperate avrebbero potuto sprigionare e riconsegnare il senso pieno del testo sottostante. Nacque il Graduel néumé pubblicato nel 1966, cioè il Graduale di Cardine corredato dalla notazione sangallese, da annotazioni personali, confronto tra diversi manoscritti, rimandi formulari. Non possiamo definirla un’opera critica, ma molto utile sul piano didattico. Sull’onda degli studi di Cardine alcuni allievi del maestro, diventati a loro volta insigni studiosi, progettarono una nuova edizione del Graduale che contenesse la testimonianza delle due scuole di notazione più significative: Marie-Claire Billecocq trascrisse sopra la notazione quadrata in inchiostro nero i neumi della notazione metense (Metz, centro monastico al nord della Francia; il codice è denominato Laon 239), Rupert Fischer trascrisse in inchiostro rosso sotto la notazione quadrata i neumi sangallesi (Cantatorium 359 e Einsiedeln 121). Ed ecco il Graduale Triplex (GT). La presenza delle notazioni antiche in questa pubblicazione sono una specie di ‘ritorno alle origini’ e fa assomigliare il GT a un manoscritto antico che propone il testo e, attraverso i neumi, la sua spiegazione sonora. In genere, chi si accosta per la prima volta al canto gregoriano attraverso il GT, si riferisce in primis alla notazione quadrata (Vaticana) e in un secondo momento giustappone il ritmo suggerito dai neumi. E questo è comprensibile, ma il percorso dovrebbe essere rovesciato. Il cantore medievale aveva memorizzato un testo e una melodia già ordinata ritmicamente al testo a cui si accompagnava: egli conservava nella memoria un testo che aveva letto, ruminato, meditato, nonché assimilato in tutti i suoi aspetti fonetici, grammaticali, sintattici, melodici e retorici. Anche noi, attraverso quei segni scritti sopra il testo, siamo chiamati a ritrovare la modalità con la quale quel testo doveva essere cantato. A pag. 95 del GT troviamo il seguito del racconto del Padre misericordioso: Oportet te. É il communio del sabato della seconda settimana di Quaresima, ma ci siamo trasferiti dal repertorio dell’Ufficio al repertorio della Messa. Il testo di Oportet è la conclusione della parabola del Padre misericordioso. Conosciamo il racconto: nell’antifona il Padre spiega al figlio maggiore le ragioni del suo gesto di misericordia nei confronti del figlio minore. In questo brano appare chiaro come la composizione gregoriana, attraverso la notazione sangallese in particolare, attinga a piene mani all’arte retorica antica, passando attraverso la mediazione di Sant’Agostino, il quale, superando le finalità della retorica classica, ha posto le basi di una originale retorica cristiana. Questo aspetto è stato illustrato al corso di Ostiglia osservando il repertorio dell’Ufficio, e lo vedremo realizzato anche nel repertorio della Messa. La retorica è l’arte di dire bene un discorso; il fine della retorica è la persuasione. Ciò resta valido per l’oratore cristiano come per l’oratore pagano. Agostino, pur partendo dagli schemi fissi dell’inventio, dispositio, elocutio, memoria e actio ( le cinque fasi per costruire un discorso), li riveste dei contenuti della cultura cristiana. In sostanza pone una condizione fondamentale: l’oratore cristiano deve sempre servire la verità, promuoverla e difenderla contro l’errore, insegnarla così che risplenda, piaccia, spinga all’azione, cioè al bene. L’arte retorica si manifesta, soprattutto nella fase finale dell’actio, attraverso il tono della voce, grave o acuto, solenne o sommesso, l’alternanza di tensione e distensione dovuta ad accelerazioni o sospensioni del flusso declamatorio, le dilatazioni prolungate su parole significative, tutto ciò, insomma, che costituisce un fraseggio variegato e incisivo per persuadere l’ascoltatore. Ma, questa fase è preceduta da una preparazione minuziosa che riguarda la ricerca dei temi, la disposizione degli argomenti, la scelta delle parole, l‘utilizzo di figure retoriche, formule, simmetrie in grado di potenziare l’effetto della parola pronunciata. Vediamo come in questo brano gli strumenti retorici svolgono un ruolo decisivo. Innanzitutto dal punto di vista formale può essere accomunata al repertorio delle antifone dell’Ufficio, è un’antifona in stile sillabico, cioè ad ogni sillaba corrisponde un neuma monosonico. La melodia è modellata dalla naturale accentuazione delle parole con l’alternanza di virga e tractulus e la declamazione è ritmicamente definita dal semplice valore sillabico. Ma, già nel primo inciso su gaudere ci imbattiamo in un neuma che riconosciamo (cephalicus) e che ci mette in allerta: Oportet te fili gaudere (è necessario, o figlio, che tu ti rallegri). Il figlio maggiore è invitato a passare dallo sdegno alla gioia, e anche noi siamo invitati a rallentare il flusso della declamazione: ecco il motivo della liquescenza su gaudere. E il padre ne spiega pure le ragioni: mortuus fuerat et revixit, perierat et inventus est (era morto ed è ritornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato). Ebbene, in questo ultimo breve inciso sono sfruttati al massimo grado alcuni strumenti dell’arte retorica. Emerge innanzitutto nella composizione testuale quell’elemento caratteristico della poetica ebraica che viene chiamato parallelismo, molto frequente nel linguaggio biblico, che consiste essenzialmente nella ripetizione di un concetto con termini analoghi, di sviluppo o antitetici. É quest’ultima la forma che meglio si presta allo scopo, perché il contrasto tra i termini impiegati in un’alternanza stringente dà infatti rilievo all’idea che si vuole rafforzare: l’accostamento di una duplice coppia di verbi antitetici (mortuus e revixit, perierat e inventus est) ha lo scopo di scuotere l’ascoltatore a riflettere sulla concreta possibilità che si verifichi un evento che sfugge alla logica umana: abbiamo assistito ad una vera risurrezione e, dunque, al ritrovamento del figlio, eventi prodigiosi prodotti dalla misericordia. Il contrasto tra i termini viene reso da una declamazione corsiva della prima coppia di verbi (mortuus fuerat e perierat) a fronte di una dilatazione prolungata della seconda coppia (revixit e inventus est). Del resto, le antinomie sono una prerogativa costante della Sacra Scrittura e fondano i contenuti della fede cristiana. Non è forse contraddizione l’incarnazione di un Dio? É carne eppure trascendenza, è svuotamento eppure pienezza, è umiliazione eppure gloria. Segnalo che il codice di Einsiedeln riserva soltanto a due casi in tutto il repertorio della Messa l’utilizzo di due virgae consecutive su due sillabe monosoniche: su revixit, appunto, e veni foras del communio Videns Dominus (GT 124). L’eccezionalità dell’intervento del notatore si spiega per il fatto che entrambi i brani parlano di risurrezione, evento centrale del mistero di salvezza! Oltre al parallelismo testuale, l’esempio mostra anche una “simmetria compositiva”; l’applicazione simmetrica di due schemi melodici identici raggiunge l’obiettivo finale di questa strategia comunicativa: la persuasione dell’ascoltatore della bontà del contenuto, che si tramuta in adesione convinta alla Parola. Videns Dominus flentes (GT 124) Questo brano è stato commentato la scorsa estate a Ostiglia, perciò non mi ripeto, ma desidero dire due brevissime considerazioni in aggiunta. La prima è una riflessione di carattere liturgico: la morte e la risurrezione di Lazzaro anticipa e preannuncia la morte e risurrezione di Cristo. Per questo la Chiesa colloca il vangelo a cui il communio si riferisce alla quinta domenica di Quaresima, che precede la Settimana Santa: come la malattia di Lazzaro non è per la morte, così la passione e morte di Gesù contiene una promessa di vita eterna per tutti. La seconda considerazione riguarda la comparazione tra le due notazioni riportate nel Triplex mettendo a confronto gli ultimi due brani commentati. Nella notazione sangallese, lo ripetiamo, il valore sillabico può essere modificato attraverso un sistema ‘binario’ (come dice Fulvio con un’espressione incisiva): la presenza o l’assenza dell’episema decide rispettivamente per la sottolineatura o l’ordinarietà di quella sillaba. Questo vale sia nel caso di aggiunta di episema sia nel caso di passaggio dalla grafia corsiva alla grafia non corsiva (es. dal pes corsivo al pes non corsivo). Il notatore metense, invece, ha la possibilità di intervenire sulla grafia del neuma monosonico, modificandone la dimensione in rapporto al valore che intende comunicare. Ora, in Videns Dominus mette a frutto tale possibilità per differenziare il peso ritmico delle due semifrasi: nella prima semifrase il semplice pianto delle sorelle è descritto con una successione di piccoli uncini (graficamente ridotti tanto da sembrare dei punti), interrotti solo dall’uncino con tenete sull’accento di flentes, il pianto delle sorelle. Nella seconda semifrase la scelta del notatore di Laon di sormontare il testo con una successione di uncini, quindi a valori larghi, dice l’importanza del pianto di Gesù (lacrimatus est) che tuttavia non è inteso nella sua autonoma entità verbale (come sembra suggerire il codice sangallese di Bamberg) ma strettamente connesso con coram Iudaeis: è l’unica volta che Gesù scoppia in pianto davanti a tutti. Ma, arrivati all’apice melodico ed espressivo del brano (Lazare, veni foras), è la notazione sangallese che con il suo linguaggio netto e distinto ci restituisce la potenza del gesto di Cristo che in Laon non appare con la stessa chiarezza. Una riflessione analoga è possibile nell’antifona precedente, Oportet te. Laon sceglie per questo testo una successione di uncini suggerendo una declamazione dotata di ritmo sillabico di un certo peso ma sostanzialmente uniforme. In questo modo appare attenuata la forza del messaggio contenuto nell’ultimo inciso che solo la notazione sangallese, sostenuta dalle raffinate e convincenti tecniche dell’arte retorica, è in grado di esprimere vividamente. Nemo te condemnavit (GT 124 ) è il communio alternativo a Videns Dominus che si canta alla quinta Domenica di Quaresima quando viene proclamato il Vangelo della donna adultera. Anche questo splendido racconto ci porta al cuore del messaggio evangelico: l’atteggiamento di Dio nei confronti dei peccatori è sempre accompagnato dal perdono e dalla misericordia. Viene trascinata una donna sorpresa in flagrante adulterio e quindi, secondo la legge di Mosè, deve essere lapidata. Il vero imputato non è la donna, ma Gesù stesso: l’adultera è solo l’esca per trovare un motivo di condanna contro di lui. Gli scribi e farisei vogliono dimostrare che Gesù è contro la legge e quindi contro Dio: loro sono i custodi e gli osservanti della legge, mentre il rabbì che viene dalla Galilea è un bestemmiatore perché perdona i peccati, non osserva il sabato e va in casa dei pubblicani e peccatori. Ma Gesù, come sempre, capovolge la situazione e mostra che tutti gli uomini sono peccatori davanti a Dio, soprattutto coloro che si ritengono senza peccato. Gesù, l’unico senza peccato, non se ne va. Rimane con la peccatrice: è il Figlio, misericordioso come il Padre. E così, come dice Agostino, relicti sunt duo: misera et misericordia (rimangono soltanto in due: la misera e la misericordia). Alla fine ciò che costituisce la dimensione più vera e profonda della nostra umanità è l’incontro della nostra miseria con la misericordia di Dio. Gli accusatori se ne sono andati e allora si instaura un breve dialogo tra la donna e Gesù che le chiede: Nemo te condemnavit, mulier (Nessuno ti ha condannato, donna?) La costruzione ad arco del primo inciso, sorvolando sul monosillabo te, a cui non viene assegnata alcuna accentuazione poiché il giudizio di Dio non è mai condanna per il peccatore, e rallentando sulla sillaba finale di condemnavit, si adagia con cura su mulier, lo stesso termine con cui Gesù chiama sua madre Maria, la samaritana e Maddalena: è il nome della sposa che lo Sposo desidera sempre incontrare. La risposta della donna è molto ferma: Nemo, Domine, (nessuno, Signore). La grande accentuazione su Domine (cfr. Ant. Hosanna filio David: Rex Israel GT 137) è il riconoscimento da parte della donna che quell’uomo è il Signore. La risposta di Gesù è di grande interesse retorico: dopo la rilevanza accentuativa di nec ego (il pes su ego) che raggiunge l’apice melodico e l’assenza ripetuta di accentuazione sul monosillabo te per la ragione spiegata in precedenza, la tensione del flusso verbale non si placa su condemnabo. Se così fosse, troveremmo la grafia del torculus cadenzale sulla sillaba d’accento di condemnabo. Il torculus, invece, è posto sulla sillaba finale e porta l’arco sonoro colmo di tensione verso l’acuto creando apertura alla frase conclusiva che costituisce il punto focale del brano e il nucleo della risposta di Gesù: iam amplius noli peccare (ora non peccare più!). É vero che il pentimento e la conversione sono spesso una conseguenza della misericordia, ma quest’ultima non rimanda a un cristianesimo a buon mercato: la misericordia non abolisce, non trascura i comandamenti. L’adultera ha conosciuto il perdono e l’amore che Dio le ha rivolto, ora è pronta ad iniziare un cammino di conversione che la porterà lontano dal suo passato peccaminoso per aprirsi alla gioia di un amore più grande. Iam amplius noli peccare è un’aggiunta decisiva che ha il sapore della speranza, la speranza che la bellezza dell’attrattiva di Gesù sia più avvincente dell’attrattiva del peccato, e corrisponda in pienezza alle attese del cuore della donna. Lutum fecit Dominus GT 111 Il testo originale del Vangelo di Giovanni (9, 1-41) da cui è tratto il communio della quarta domenica di Quaresima, è molto lungo: qui è sintetizzato secondo la consueta modalità della centonizzazione che predispone il testo selezionando le espressioni più significative per ricucirle insieme in modo che possano incidere efficacemente nella coscienza dell’ascoltatore. E’ un brano strutturato in due sezioni e in entrambe prevalgono numerosi verbi che significano azione: è l’agire di Gesù a favore del cieco e l’agire del cieco che lo conduce all’incontro con Gesù. Rispetto a Videns Dominus flentes, la cui declamazione insiste su unico grado melodico per descrivere l’atto di Gesù che osserva il pianto composto delle sorelle di Lazzaro in una scena sostanzialmente statica, la costruzione melodica della prima frase di Lutum fecit è più animata quasi a richiamare l’azione di Gesù che compie il gesto primordiale (di una nuova creazione) di impastare il fango e di spalmarlo sugli occhi del cieco. Perciò la declamazione, rispetto alla fissità di Videns Dominus, procede nel rispetto della naturale accentuazione delle parole. Soltanto alla conclusione della frase, esattamente su meos (climacus con episema sul primo suono), assistiamo a una evidente sottolineatura: l’accentuazione su meos rappresenta la sorpresa del cieco nato: proprio sui “miei” occhi Gesù ha spalmato il fango, sembra dire il cieco. Ma rappresenta anche la sorpresa del lettore: non solo il cieco ma tutti noi siamo ciechi dalla nascita. La cecità è la condizione ordinaria dell’uomo in quanto creatura, non deriva da un preciso peccato commesso dal cieco o dai suoi genitori. Consapevole di questa condizione, il cieco non si rivolge a Gesù in cerca di aiuto, è Gesù stesso che vede l’uomo e lo sceglie dalla folla dei sofferenti per rivelarsi luce del mondo. Ma, Gesù non guarisce immediatamente, vuole l’adesione libera del cuore: la vita del cieco dipende dalla sua libertà di ascoltare o meno la parola del Messia. La seconda frase descrive in prima persona l’abbandono dell’uomo all’azione di Dio: et abii ( e andai), et lavi (mi lavai nella piscina di Siloe, che significa inviato: il cieco ‘si immerge nel Figlio’, l’Inviato dal Padre), et vidi (riacquistai la vista: per l’evangelista Giovanni vedere è la forma piena del conoscere; vedere è credere nel Figlio), et credidi Deo (e credetti in Dio). La frase è strutturata secondo un climax, un crescendo progressivo dove ogni singola azione compiuta dal cieco presenta una densità ritmica sempre maggiore e la cui meta espressiva è la solenne confessione di fede del cieco che riconosce in Gesù il Figlio dell’uomo (et credidi Deo). Ognuno dei quattro verbi dell’inciso finale è introdotto dalla congiunzione et, il cui valore ritmico è proporzionale al crescendo progressivo del climax: et abii corsivo, et lavi una liquescenza di valore ‘medio’, et vidi una liquescenza di grande intensità che, da un lato, prepara il grande accento su vidi (clivis con episema e tenete), dall’altro, orienta il flusso della declamazione verso il suo apice espressivo: et credidi Deo. Quest’ultimo inciso, a sua volta, presenta due particolarità: l’assenza di liquescenza su et evita il ritardo dell’accentuazione di credidi (pes su sillaba tonica), anzi sottolinea in modo immediato e impulsivo la centralità e l’importanza della parola che rimanda al dono della fede; infine l’oriscus sulla sillaba conclusiva di credidi crea, in qualità di neuma di conduzione, un’entità inseparabile tra i due termini, quasi una saldatura sintattica e di senso tra credidi e Deo: decisivo e fondamentale non è il recupero della vista (et vidi), ma la luce vera che illumina ogni uomo (cfr. Prologo di Giovanni) attraverso la quale ciascuno riconosce in Gesù il Messia, il Figlio di Dio e professa la sua fede in lui.