Alberto Maffi (Università Milano

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Alberto Maffi (Università Milano
Alberto Maffi
(Università Milano-Bicocca)
IDENTIFICARE GLI SCHIAVI NEI DOCUMENTI GRECI
1. Il mio tema specifico è l’identità dello schiavo, in particolare nel mondo greco
classico. Il mio interesse non è di tipo onomastico (rinvio alla relazione Faraguna)
bensì si colloca nell’ambito del riconoscimento dello statuto legale. Da questo punto
di vista si possono indicare alcuni temi di rilievo (di cui qui non mi occuperò):
a) la qualifica dello schiavo, che dovrebbe designare, se giuridicamente rilevante, uno
statuto peculiare. L’esempio più noto è la duplice denominazione degli schiavi nel
Codice di Gortina: douloi e oikeis. E’ tuttora aperto il dibattito in materia;
b) il nome assunto all’ingresso nella casa del padrone, se comprato, e di conseguenza
il nome con cui viene designato all’atto della manomissione (riacquista il nome
originario da libero/a?).
2. Per identità intendo dunque la rilevanza della condizione di schiavo dal punto di
vista giuridico. Qui mi occuperò solo dei rapporti di diritto privato. Naturalmente una
trattazione approfondita del tema dell’identità legale implicherebbe un riesame di
tutta la condizione giuridica dello schiavo nel mondo greco e in particolare della
disciplina dei rapporti esterni (schiavo/terzo) e interni (schiavo/padrone). Mi riferisco
a questioni ben note e molto dibattute negli ultimi trenta anni. Nei confronti dei terzi:
se lo schiavo abbia una autonoma capacità negoziale (quindi un proprio patrimonio di
fatto separato da quello del padrone) e processuale (quindi possa stare in giudizio sia
come attore che come convenuto senza l’intervento del padrone); nei confronti del
padrone: come si ripartisca fra schiavo e padrone la responsabilità per i debiti assunti
dallo schiavo. Ma qui, dato il tema del nostro colloquio, invece di riprendere le
questioni teoriche a cui ho accennato, preferisco esaminare il problema dell’identità e
dello statuto giuridico degli schiavi a partire dalla lettura di testi in certo qual modo
marginali rispetto al nucleo del dibattito, che si incentra sui dati ricavabili dagli
oratori attici. Mi scuso se riprenderò il testo di alcune lettere che sono già state molto
acutamente esaminate da Ed Harris nel colloquio di Roma.
1 I testi di cui mi occuperò sono: a) la lettera di Berezan (Bravo 1980 e 1999) ;
Wilson 1997-8; Lintott, ClQ 54.2, 2004); b) la lettera di Olbia (Dana 2004 + Harris
2010 pp. 18-19; c) La c.d. Krämerinschrift di Samos (Thür 1978); d) la lettera
contenente una richiesta di soccorso di un apprendista (Harris 2004, p. 157-170;
Harvey ZPE 163, 2007, 49 s.); e) P. Lille 29
a) La lettera di Berezan.
Scritta da Achillodoro e indirizzata ad Anassagora tramite Protagora, figlio di
Achillodoro: quest’ultimo lamenta di essere stato oggetto di riduzione in schiavitù da
parte di Matasys, che si è anche impadronito del carico che Achillodoro trasportava.
Achillodoro sostiene non solo di non avere alcuna relazione con Matasys ma anche di
ignorare se fra Matasys e Anassagora vi siano relazioni. Matasys sostiene invece che
Achillodoro è uno schiavo di Anassagora e che se ne è impadronito come rivalsa per
il fatto che Anassagora detiene (secondo Matasys illegalmente) beni di Matasys,
specificati in schiavi, schiave e case (oikiai). Per quanto riguarda la questione della
identificazione di Achillodoro come schiavo, che è il punto che ci interessa qui,
occorrerebbe prima di tutto identificare lo statuto delle tre parti interessate e la natura
dei loro rapporti; poi comprendere quale sia il torto che Matasys dichiara di aver
subito per opera di Anassagora. Bravo (Sulan p. 882) afferma: “Il est probable que
Matasys vivait autrefois dans la m me cité où vit Anaxagorés, et que c’est là qu’il
possédait des esclaves et des maisons. A présent il vit certainement ailleurs,
probablement dans une autre cité grecque ». Ricostruzione certamente attendibile
dell’antefatto. Ma, se in quella città vigevano le regole di diritto panelleniche, per
essere proprietario di case Matasys doveva essere cittadino (o almeno un meteco con
enktesis, data l’origine probabilmente non greca del nome). E lo stesso vale per
Anassagora, visto che si è impadronito di quelle stesse case. Ma allora dobbiamo
chiederci: perché Matasys non ha agito in giudizio contro Anassagora rivendicando il
suo diritto su schiavi e case? Il sospetto è che in realtà la presa di possesso da parte di
Anassagora sia fondata proprio su una sentenza che ha riconosciuto i suoi diritti e
che, quindi, la procedura esecutiva posta in atto da Matasys, nel frattempo trasferitosi
in altra città (o forse ritornato in quella d’origine) non sia affatto giustificata nel
merito, oltre a non essere stata autorizzata o convalidata da una sentenza giudiziaria.
E’ semplicemente un atto di rivalsa (in questo senso non è nemmeno qualificabile
come syle, che presuppone una pretesa potenzialmente fondata). Che cosa si aspetta
dunque Achillodoro da Anassagora? Poiché Achillodoro dichiara di non essere in
alcun modo coinvolto nella controversia fra Matasys e Anassagora, egli si aspetta che
quest’ultimo intervenga presso le autorità del luogo dove Matasys si è impadronito di
2 lui, dimostrando in seguito ad aphairesis eis eleutherian (se facciamo riferimento al
sistema ateniese) oppure attraverso un’azione giudiziaria diretta (se pensiamo che
viga in quel luogo un sistema analogo a quello illustrato nella I col. del Codice di
Gortina) lo status di libero di Achillodoro (che evidentemente non era conosciuto
nella località; altrimenti qualcuno sarebbe intervenuto per evitare la sua riduzione in
schiavitù). Achillodoro afferma infatti di non essere direttamente debitore di Matasys
e di essere estraneo a qualunque rapporto litigioso che sussista tuttora fra Matasys e
Achillodoro. Se ci siano rapporti fra Achillodoro e Anassagora, cioè in particolare se
il primo sia un agente commerciale del secondo, non è chiaro, ma è ininfluente dal
punto di vista sostenuto da Achillodoro, che è semplicemente quello di recuperare la
sua libertà. Dal fatto che il carico (o la nave, a seconda di come si interpreta
fortegesion: v. Wilson 36 n. 37) non viene più menzionato, sembra di capire che esso
appartenga effettivamente ad Anassagora, non ad Achillodoro, e che il suo destino
dipenda quindi dal modo in cui evolverà la lite fra lui e Matasys. Qualunque sia il
rapporto fra Anassagora e Achillodoro, quest’ultimo non può essere chiamato in
causa da Matasys (anche se non è da escludere che Matasys ritenesse in buona fede
che Achillodoro fosse schiavo di Anassagora). Quando dunque Anassagora si
presenterà, rivendicazione in libertà di Achillodoro e richiesta di restituzione del
carico sequestrato da Matasys saranno oggetto di due procedure distinte nella
prospettiva di Achillodoro stesso.
b) Lettera di Olbia.
Qui non sono presenti dati certi in base a cui si possa attribuire a qualcuno dei
personaggi coinvolti la qualifica di schiavo. Secondo Wilson Apaturio era debitore di
Eraclide e Tataie, e per questo subisce la syle dei beni che trasporta. Tuttavia i
creditori procedenti appaiono disposti a restituire i beni qualora si dimostri che essi
appartengono a Leanax. A questo scopo non sarebbe sufficiente la testimonianza di
Menone, ma decisivi dovrebbero rivelarsi i documenti, che Apaturio chiede a Leanax
di inviare a Eraclide e Tataie, nei quali sarebbe contenuta la prova che i beni sono
stati acquistati da Leanax e perciò appartengono a quest’ultimo e non ad Apaturio.
L’interpretazione di Wilson è sostanzialmente seguita da Dana 2004, che ha
presentato un’edizione accurata della lettera. Infine abbiamo il contributo di Ed
Harris 2010 (?), che propone un’interpretazione diversa. Apatorio circola con beni
appartenenti a Leanax. La “saisie”, da lui subita, va intesa nel senso che Eraclide
doveva vantare qualche pretesa nei confronti di persone che avevano una qualche
3 relazione con Apatorio (in questo Harris sembra aderire alla tesi di Bravo, secondo
cui le sylai private non sono mai rivolte contro un semplice concittadino del
debitore): potrebbe trattarsi di quel Timoleonte padrone degli schiavi menzionati alla
fine della lettera. Per questo Apatorio spera di recuperare i beni di Leanax, ed è meno
ottimista riguardo agli schiavi di Timoleonte. Harris nega che Apatorio fosse un
agente di Leanax e che quindi fosse incaricato di vendere i beni che trasportava per
conto di Leanax. Harris esclude anche che Apatorio e/o Menone fossero schiavi di
Leanax, perché in questo caso, come Achillodoro, sarebbero stati vittime della syle.
La vicenda viene invece ricostruita da Harris sulla base del confronto con i §§ 60-61
dell’orazione demostenica contro Timoteo (or. 49). Su incarico di Timoteo, Filonda
trasporta ad Atene il legname donato dal re di Macedonia e Pasione paga il trasporto
a Filonda. Nel caso della lettera Leanax avrebbe affidato a Menone il trasporto di
beni (non destinati ad essere venduti), che sarebbero stati caricati sulla nave di
Apatorio. Dopo che il carico è stato oggetto di syle da parte di Eraclide, Menone
dichiara che la syle è illegittima perché i beni appartengono a Leanax, e Apatorio
scrive a quest’ultimo di inviare i documenti che provano la propria titolarità e
consentiranno così a loro di recuperarli.
Mi pare che nessuna di queste letture risulti pienamente soddisfacente. Intanto
bisognerebbe chiedersi se le dichiarazioni di Apatorio e di Menone siano state rese
nel corso di un procedimento giudiziario, che potremmo definire di convalida della
syle. Wilson (39-40) allude alla possibilità che un procedimento possa aver luogo in
futuro (a p. 40 parla con una certa approssimazione di un “formal system of
arbitration”) e che nel corso di esso si faccia valere appunto il titolo di proprietà a
favore di Leanax. Tuttavia si tratta a mio parere di un’ipotesi piuttosto arrischiata.
Alle sylai si ricorreva per definizione proprio là dove non era previsto il ricorso a
istanze giudiziarie in caso di controversie che opponessero i locali a stranieri. In
secondo luogo, anche ammesso che una simile possibilità fosse astrattamente prevista
nel luogo e nel tempo a cui si riferisce la lettera, sorgerebbero problemi di carattere
prettamente procedurale, come per esempio quello della rappresentanza processuale
di Leanax. Bisognerebbe supporre che Apatorio o Menone, in quanto agenti di
Leanax, potessero rappresentarlo in un eventuale processo contro Eraclide e Tataie
(sempre che dietro questo nome non si nasconda la moglie di Eraclide, che è la
congettura, direi alquanto improbabile, avanzata da Dana p. 9, probabilmente per
influsso della moglie di Anassagora nella lettera di Berezan). Perciò credo che le
vicende passate e future a cui la lettera si riferisce sono al di fuori dell’ambito
processuale.
4 Un secondo punto, che mi sembra suscettibile di un’interpretazione diversa da quelle
finora avanzate, riguarda la figura di Menone. Se Menone fosse, come ritiene Harris,
l’affidatario dei beni trasportati sulla nave di Apatorio, ci si aspetterebbe che fosse
Menone stesso a scrivere la lettera a Leanax. Sarebbe infatti Menone colui che ha
subito la syle, non Apatorio, che sarebbe semplicemente il vettore. Si potrebbe allora
in alternativa avanzare l’ipotesi che Menone sia il rappresentante permanente di
Leanax nel porto dove si svolgono i fatti riferiti nella lettera (sul modello di Dem.
34.8, dove troviamo uno schiavo che passa l’inverno nel Bosforo cimmerio quale
agente di un commerciante ateniese, di cui ci si potrebbe chiedere come fosse
riconosciuta la residenza; un indizio a conferma di questa ipotesi potrebbe essere
l’uso del verbo epitithemi, con cui nell’orazione (34.28) si indicano le istruzioni
inviate per lettera allo schiavo). Menone direbbe in sostanza che Leanax gli ha
segnalato (probabilmente per lettera) l’arrivo del carico trasportato da Apatorio. Se
quindi, come credo, tutte le dichiarazioni riportate nella lettera sono rese non nel
corso di un processo, bensì di una procedura stragiudiziale conseguente all’attuazione
della syle, non ritengo impossibile che in Menone si possa vedere uno schiavo di
Leanax. In questo senso le sue dichiarazioni hanno un peso maggiore, in quanto deve
trattarsi di persona nota nel luogo.
Un ultimo punto riguarda i famosi diphtheria di cui viene richiesto l’invio a Eraclide
e Tataie. Se si trattasse davvero di documenti che provano il diritto di proprietà di
Leanax, sarebbe ben strano che ne fosse richiesto l’invio a coloro che hanno attuato la
syle. Se quei documenti devono servire a costituire una prova in un eventuale futuro
processo (così Wilson e Harris), sarebbe molto più logico che fossero inviati a chi
intende farli valere in quella sede, cioè ad Apatorio (ed eventualmente a Menone). Mi
sembra molto più probabile che lo scritto che si richiede a Leanax di inviare a
Eraclide e a Tataie (socio del primo?) debba contenere un invito, se non un ordine, a
rilasciare i beni oggetto della syle. Il che probabilmente implica che Leanax
conoscesse Eraclide e Tataie.
Infine mi sembra che, alla luce di quanto abbiamo detto, il contenuto della lettera si
presterebbe a un’interpretazione parecchio più maliziosa di quelle finora avanzate. E
cioè che i beni oggetto della syle siano effettivamente di Apatorio (il quale potrebbe
essere un mercante imbarcato su una nave di cui non conosciamo il capitano) e che
egli sia effettivamente debitore di Eraclide; poiché tanto Apatorio che il suo creditore
conoscono Leanax e sono in qualche modo in un rapporto di soggezione nei suoi
confronti, Apatorio tenta il colpo di far passare il suo carico, oggetto della syle, come
proprietà di Leanax, contando sul fatto che, grazie all’intervento del rappresentante
5 ‘permanente’ di Leanax in loco, (lo schiavo?) Menone, e addirittura un pressante
invito di Leanax stesso, i beni vengano restituiti ad Apatorio in quanto ritenuti beni di
Leanax.
c) L’iscrizione dei dettaglianti di Samo (“Krämerinschrift”: Thür – Taeuber 1978 +
IG XII 169).
Come è noto in questa iscrizione, databile alla II metà del III sec. a.C. e concernente
la concessione all’interno dell’Heraion di 4 botteghe o rivendite alimentari (kapeleia),
gli schiavi appaiono più volte sotto denominazioni diverse. Al § 2 (mi riferisco alla
numerazione adottata nell’edizione Thür – Taeuber), è fatto divieto di parakapeleuein
a qualunque doulos, soldato (stratiotes), apergos (= disoccupato?) o supplice (iketes):
la violazione del divieto è sanzionata con una multa da pagare al commerciante
concessionario (che abbia probabilmente sporto denuncia). Il § 3, che contiene il
divieto di paradidonai a un apergos o a un iketes a carico dei concessionari, può
essere interpretato in tre modi: può trattarsi o del divieto di subaffitto (della bottega)
o dell’impiego di un gestore appartenente a una categoria esclusa o infine della
vendita (“consegna”) di beni. Al § 4 si stabilisce che i concessionari non devono
accettare (hypodechesthai = comprare?) niente dalle quattro categorie di persone
escluse (che sono qui menzionate in un ordine diverso rispetto al § 2): si noti che
questa clausola non prevede una esplicita sanzione a carico dei concessionari
contravventori. Il § 5 riguarda esclusivamente una particolare categoria di schiavi: i
concessionari non devono accogliere (hypodechesthai) nelle botteghe tous
kathizontas oiketas eis to hieron (ossia gli schiavi che cercano rifugio nel tempio),
non devono fornire loro né cibo né lavoro: in caso di violazione del divieto saranno
deferiti ai magistrati competenti. Infine al § 9 (l. 38) si vieta di kapeleuein agli hieroi
paides (da intendersi come gli schiavi del tempio). Molti interrogativi sorgono in
relazione al nostro tema: ne enumero alcuni. Prima di tutto si tratta di capire in che
cosa consistano realmente i comportamenti vietati e puniti dal provvedimento (per es.
non è chiaro se tutte le attività commerciali all’interno dell’Heraion siano concentrate
nell’attività delle quattro botteghe date in concessione). In secondo luogo chi siano i
douloi nei confronti dei quali vengono poste le restrizioni che abbiamo visto. In terzo
luogo perché si trovano accomunati con le altre tre categorie di persone a cui il testo
sembra fare costante riferimento. Per quanto riguarda l’identificazione degli schiavi,
resta da capire come potessero essere riconosciuti dal concessionario a cui era fatto
divieto di ricevere da loro (e forse di vendere a loro) qualcosa. Colpisce inoltre il
fatto che essi sembrano considerati non solo capaci di commerciare autonomamente
6 all’interno dell’Heraion, ma anche di essere chiamati a rispondere di eventuali
violazioni delle norme contenute nel provvedimento.
d) Lettera di Lesis.
Harris 2004 (con l’adesione di Harvey) critica Jordan su un punto essenziale:
l’interpretazione di tos despotas alla l. 2. Secondo Jordan si tratta del padrone della
fonderia, a cui la madre di Lesis lo avrebbe affidato per apprendere l’arte del fabbro o
comunque per prestare il proprio lavoro. Quindi, secondo Jordan, despotes non
andrebbe inteso nel senso di padrone ma in un “looser sense”. Cioè sarebbe non il
padrone ma il responsabile della formazione del giovane. Secondo Harris, invece,
despotes non può significare altro che padrone. Quindi Lesis è uno schiavo e
saremmo di fronte per la Grecia al primo documento autentico proveniente da uno
schiavo. Quanto ai suoi padroni (plur. despotai), essi non coincidono con il padrone
della fonderia (Harris p. 161: “There is also no need to identify the owner of the forge
(a single individual) with the masters of Lesis (two or more people)”). La lettura
dell’utile lista di occorrenze del termine despotes negli oratori, che Harris ha posto in
appendice al suo articolo, consente però di formulare forse un’altra interpretazione.
Ci sono due passi in Isocrate (Nicocl. 50: despotai pleiston agathon e Antid. 124:
despotai ton chrematon), in cui despotes significa padrone di beni, di un patrimonio.
Mi sembra allora possibile intendere le parole tos despotas auto nel senso di “padroni
del chalkeion”. L’anthropos poneros non sarebbe allora il padrone della fonderia ma
colui che la dirige tecnicamente, il capo fabbro (forse uno schiavo, come il termine
anthropos indurrebbe a pensare). In questo modo Lesis ritorna a essere un (giovane)
uomo libero, che si rivolge alla madre (ovviamente anch’essa libera) e probabilmente
al secondo marito della madre (se no, come nota giustamente Harris p. 163 n. 14, gli
si rivolgerebbe chiamandolo “padre”; ma potrebbe essere un altro parente, come uno
zio o addirittura il nonno?), affinché trasmettano la sua supplica ai padroni della
fonderia, che Lesis evidentemente non sa o non osa interpellare. Interpretata in questo
modo, la lettera conserverebbe comunque tutto il suo interesse dal punto di vista
sociale ed economico.
e) P. Lille 29
Di questo celebre testo prendo in considerazione, ai fini che qui ci interessano,
l’inizio della I col. (ll. 1-12). Secondo la dottrina che appare tuttora dominante, si
tratta qui del processo intentato contro uno schiavo che ha commesso un illecito
7 “come se si trattasse di un libero” (l. 3). Qualora l’attore vinca la causa, al padrone
dello schiavo sarà consentita la “Wiederaufnahme des Verfahrens” (p. 8, ma nella
traduzione si parla di “Revision”) entro un termine di 5 giorni. Scholl cita prima di
tutto le opinioni di Perdrizet e Taubenschlag: questi studiosi richiamano il diritto
ateniese che avrebbe riconosciuto una limitata capacità processuale agli schiavi, ma
affermano che sarebbe qui all’opera una sorta di fictio libertatis che consentirebbe di
chiamare in giudizio lo schiavo. Secondo Haussoullier si tratterebbe di un rimedio
straordinario qualora il padrone dello schiavo sia assente e la vittima dell’illecito
ritenga urgente dar luogo al giudizio. Scholl trova convincente quest’ultima tesi,
perché il padrone in fin dei conti è colui che risponde per lo schiavo. Scholl si chiede
a questo punto perché per lo schiavo stesso non sia prevista la possibilità di chiedere
una revisione della prima sentenza; e conclude che probabilmente era dato per
scontato che “die im Prozess unterlegene Partei das Recht auf Widerspruch und
Revision hatte”. Ora a me pare che questi ragionamenti siano poco persuasivi. Prima
di tutto nel testo greco troviamo il verbo anadikesai (l. 4), che rinvia a un istituto non
molto conosciuto e tuttavia sicuramente attestato nel diritto greco classico, appunto
l’anadikos dike (su cui resta fondamentale Behrend Symp. 1971). Da quel che
sappiamo non si tratta né di una ripresa né di una revisione del processo e nemmeno
di un appello nei confronti di una sentenza di primo grado. Si tratta di una ripetizione
del processo. Ora perché il primo processo, quello condotto nei confronti dello
schiavo, dovrebbe essere rifatto? Se si ricorresse a una fictio libertatis (ipotesi che
mostra anche troppo bene l’influsso del diritto romano su coloro che l’hanno
formulata), questa dovrebbe consentire di giungere a una sentenza definitiva; né
convince di più l’idea di una procedura straordinaria in caso di assenza del padrone (a
cui il testo del papiro non fa alcun riferimento); infine, come si è già detto, niente fa
pensare che in questo periodo (III s. a C.) sia in vigore il principio dell’appello o della
revisione del processo. Mi chiedo allora più semplicemente se lo schiavo non si sia
semplicemente spacciato per un uomo libero, che mi sembra corrispondere alla
lettura più piana del testo: nessuno, nemmeno la vittima, sa che l’autore dell’illecito è
uno schiavo; quindi la condanna viene pronunciata contro un convenuto che si è
presentato in giudizio come libero. Ma il padrone può avere interesse a far sì che la
vera identità del suo schiavo sia riconosciuta; per questo la norma gli consente di far
ripetere il processo, comparendo egli stesso, conformemente alle regole, in qualità di
convenuto (il che implica, naturalmente, che l’attore acconsenta a ricominciare l’iter
processuale).
8 I testi che ho sottoposto alla vostra attenzione presentano molti punti oscuri; hanno
tuttavia il pregio di presentarci gli schiavi (o i presunti schiavi) per così dire in presa
diretta costringendoci a misurare la validità delle ricostruzioni teoriche alla luce della
prassi.
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Stolfi, LA SOGGETTIVITÀ COMMERCIALE DELLO SCHIAVO NEL MONDO ANTICO: SOLUZIONI
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