scheda artistica

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COMPAGNIA Franceschini performingarts
IL RACCONTO DEL LUPO
Affabulazione di e con Gianni Franceschini
Scene di Gianni Volpe - Proiezioni video a cura di Giancarlo Dalla Chiara
Durata: 70 min.
Linguaggi utilizzati: teatro d’attore, narrazione, pittura dal vivo e proiezioni video
Lo spettacolo
Il LUPO è un “luogo” dell’immaginario popolare, un insieme di simboli e significati talmente ampio da
toccare civiltà e culture diverse. Il LUPO è cacciatore, accompagnatore nell’aldilà, abitatore delle tenebre,
indice di coraggio e forza, ma anche di fertilità e vita. E’ un animale da uccidere e da salvare, un animale
che si trasforma, l’uomo può diventare lupo, le persone ai margini del mondo vivono come dei lupi. Il
LUPO divora, non si stanca mai, è misterioso e magico. Al LUPO si parla, al LUPO si scrivono lettere, col
LUPO si può perfino ballare, il LUPO mangia, ma può anche salvare e allevare bambini.
Cosa può significare oggi per i bambini/ragazzi il LUPO?
Oggi non si incontrano più i lupi nei boschi, ma resta pur nella non-realtà un fascino indescrivibile, forse
perchè profondo, infantile e primitivo, verso questa bestia che permette e stimola fantasticherie e
immaginazioni straordinarie. Il LUPO è lo sconosciuto, il pauroso e quindi l’affascinante, è forse la parte
nascosta, marginale di ognuno di noi. Il LUPO porta con sè una contraddizione irrisolvibile, ha in sè due
aspetti opposti: quello feroce e violento della sua natura selvaggia e quello benefico del suo potere di
illuminare le tenebre e quindi di guidare i passaggi, viaggi verso scoperte, percorsi verso la crescita e la
maturazione. Il LUPO accompagna tra inquietudini e luminosità, lungo il sentiero della vita.
Un uomo arriva nella sua casa, in un paese, dopo tanto tempo; la famiglia e i vecchi amici lo stanno
aspettando. Lui è scomparso tanti anni prima. Comincia a raccontare…in realtà non era sparito, ma si era
trasformato in lupo, ora ha avuto un permesso speciale dal re dei lupi per poter ritornare per un solo
giorno uomo. Ecco che racconta come si vive da lupi, qual’è la sua storia, quali i suoi incontri , le sue
vicende, la sua meravigliosa esperienza. Ritornano sensazioni di vita passata, della sua infanzia, delle sue
paure ed aspirazioni, i rapporti con l’ambiente e i motivi della sua antica trasformazione, quasi una fuga
da un mondo che non riusciva a conoscere, a fare suo. Cresce una denuncia del malessere del ragazzo,
dei suoi sogni, del suo voler essere capito, della sua scelta di cambiare il mondo. Quasi un disperato
desiderio di qualcosa di migliore, che simbolicamente diviene la vita coi lupi, ma che è metafora di
qualsiasi scelta di un valore anche irrazionale ed inspiegabile. L’uomo ritorna alla sua vita selvaggia di
lupo, lasciando ai suoi cari umani l’esempio e forse la voglia di scoprire una dimensione di vita comune
più vera, fondata sulle relazioni e sui sentimenti piuttosto che sulle apparenze e i ruoli dati da un contesto
sociale.
L’emozione, la comicità, il dramma si alternano con commenti musicali e un estemporaneo intermezzo
con la partecipazione del pubblico. Come nelle narrazioni dei contastorie irrompono anche il colore, il
segno e la figura in immagini pittoriche proiettate e create dal vivo.
Note a cura di Marzia Pieri – docente storia del teatro università di Siena “Questo spettacolo di Gianni Franceschini, ufficialmente destinato ai bambini, è una specie di
raffinato dramma di formazione, denso di simboli e di riferimenti alla sua storia umana e
artistica e cioè al teatro, alla poesia, al senso del precario e avventuroso di questo nostro stare
al mondo. Il racconto del lupo che si anima in scena dai gesti parchi e remoti del
cantastorie/attore è la fiaba eterna della paura, qui rovesciato di segno con provocatoria
efficacia, ma sempre carica di inquietudine.
Costante, il protagonista, torna stanco e affamato al suo luogo d’origine, e lì si racconta,
davanti a una platea muta e variamente ostile o indifferente; i genitori, il sindaco, il maestro, il
prete, i carabinieri ma anche i bambini che reduplicano sul palco i suoi elettrizzati interlocutori
della platea, e, un po’ in disparte, due personaggi-chiave: l’amata Maristella e il poeta
Giuliano, i suoi numi tutelari.
Costante racconta a tutti loro la storia – vera o finta che sia – delle meravigliose avventure che
gli sono capitate dal giorno lontano della sua sparizione che aveva gettato tutti in subbuglio.
Stonato e reietto nel mondo degli uomini, ma, come il principe di Calderon suo omonimo,
sempre fedele con semplicità a se stesso, egli cerca il proprio destino nell’altrove magico del
bosco, portandosi dietro un tesoro che nasconde sottoterra: le insegne principesche (mantello,
cappello, cavallo) e i simboli della creatività (il pennello e il libro di poesie). Inseguendo questo
tesoro sottrattogli da una lupa spaventosa, precipita, come Alice, in un buco nero, da cui
riemerge in un’altra dimensione.
E’ il regno dei lupi, un mondo che sta fra la corte dei miracoli, il paese collodiano delle api
industriose e la città di Utopia, con un re severo e bonario e molti coprotagonisti, reduci da
tutte le fiabe del mondo con i loro acciacchi di vittime obbligate (il lupo bollito dei tre porcellini
e quello ricucito e riempito di sassi di Cappuccetto Rosso) e le loro identità specifiche che, via
via, Costante è in grado di riconoscere oltre l’indistinto terrore di essere mangiato da un
momento all’altro che all’inizio l’attanaglia.
Comincia così per lui una nuova vita, cioè la vita la più normale, finalmente in armonia con se
stesso e con gli altri: si gioca a calcio, si va a scuola, si caccia, si imparano poesie, si fa festa,
si fa all’amore nelle notti di luna, si recita. All’inizio stupito e impacciato dalle nuove regole di
questo mondo dove tutti hanno spazio di esistere, Costante, lentamente, trova se stesso,
finchè il bacio della misteriosa e selvaggia Argento, la lupa che lo ha attirato nell’avventura, lo
guarisce della perdita inconsolabile di Maristella, scomparsa in un’auto blu nell’autostrada che
aveva cancellato i suoi campi di gioco e di tutte le sue perdite e le sue sconfitte.
Così può entrare nella compagnia del Teatro dei Miracoli, guidata da quel fra Lupo Capocomico
che ha imparato, a Gubbio, a conoscere gli uomini recitando la parte conveniente del lupo
buono secondo gli insegnamenti di un uomo un po’ speciale come San Francesco. Lo
spettacolo, che dà corpo ai sogni, restituisce a Costante la sua vera identità di Principe, segna
il compimento di tutta la sua vita, appena un attimo prima che l’irruzione violenta degli uomini
distrugga il mondo dei lupi in una battaglia all’ultimo sangue.
Ma il teatro è in grado appunto di fare i miracoli non importa dove e come: il Principe Costante
si è coperto di gloria anche se gli assassini hanno distrutto l’anima della foresta. Risparmiato
dai predoni per la sua insignificanza, chiede licenza al re e, preannunciato dal poeta Giuliano
che fa da tramite fra i due mondi, torna fra i suoi a raccontare la propria storia, per poi
ripartire verso il bosco con i suoi tesori lasciando alle spalle il segno del lupo dipinto
freneticamente in scena in un’indiavolata performance conclusiva che entusiasma i bambini del
pubblico.
La magia ha funzionato ancora una volta; c’è dentro una miscela di forme spettacolari diverse,
una memoria culturale ricca e complessa che accosta alla narratività epica dei racconti di fiabe,
da cui si genera l’anima stessa del teatro, lo spessore metateatrale della tragedia barocca,
antropologia, psicanalisi e autobiografismo all’ombra luminosa di Scabia, l’amico-maestro che
Gianni Franceschini da anni affianca in una comune testimonianza di fede tranquilla nella
necessità della poesia”. (Marzia Pieri)
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Un commento a “Il Racconto del Lupo”
di Guido Petter – docente psicologia dello sviluppo Università di Padova
Le fiabe, si sa, possono venire utilizzate come “metafore”, ovvero come rappresentazioni tipiche di situazioni
generali e di problemi che i bambini possono vivere con facilità. Pensiamo, per esempio, alla fiaba di Hansel e
Gretel, che simboleggia il timore di molti bambini di perdere i genitori o di venire da essi abbandonati; o alla
fiaba di Cenerentola, che richiama l’esperienza della rivalità fraterna; o a quella dei quattro suonatori di Brema,
il cui motivo fondamentale è quello della collaborazione, che permette di affrontare e superare con successo
situazioni difficili.
Anche “Il Racconto del Lupo”, di Gianni Franceschini, esso pure fiabesco, può essere considerato una metafora.
E i temi che essa illustra sono essenzialmente due. Il primo è quello del distacco della famiglia, per dare inizio a
un’esperienza di vita autonoma, indipendente. A ogni ragazzo, nel periodo in cui sta diventando adolescente,
accade di lasciare temporaneamente il proprio ambiente familiare, per compiere in autonomia certe esperienze
fuori casa, per vedere le cose con i propri occhi, e giudicarle con la propria testa. Può farlo sulla base di quei
principi e di quei valori che gli ha fornito la famiglia, una famiglia nella quale egli ha potuto sviluppare per
tempo le sue “radici” e che costituisce pur sempre un punto di riferimento stabile, un porto in cui egli può in
qualsiasi momento ritornare per ritrovare sicurezza e protezione, per riprendere coraggio prima di ripartire
nuovamente; una famiglia che gli ha fornito anche quelle capacità di autonomia che costituiscono, per così dire,
le sue “ali” e che gli permettono di spiccare il volo verso esperienze e realtà nuove. E sono esperienze e realtà
che egli affronta talvolta da solo, ma molto spesso con un amico fidato, l’”amico del cuore” (e nel “Racconto del
Lupo” un amico di questo tipo Costante ce l’ha: è Giuliano, che non perde mai la speranza di vederlo tornare, e
gli recapita ogni settimana una bigliettino), o con un gruppo di amici, come la banda dei ragazzi o il club delle
ragazze nella preadolescenza, e poi la compagnia (il gruppo misto di ragazzi e ragazze) dell’adolescenza.
Possono tuttavia esservi dei casi (rari, per fortuna) in cui la famiglia non è stata e non è accogliente, non ha
dato né le radici né le ali: i genitori non hanno voluto molto bene al loro figlio, lo hanno psicologicamente
rifiutato fin dal momento del suo arrivo, non hanno creato le condizioni favorevoli perché potesse pienamente
integrarsi nella comunità e nella cultura familiare. E così il distacco da loro acquista il carattere non di un volo di
esplorazione bensì di una fuga, alla ricerca di una vita diversa, del tutto indipendente.
Ecco, al protagonista della fiaba, Costante è toccato proprio questo secondo destino, Perché se ne è andato? E
perché non torna a casa? La ragione di fondo è che egli non è stato valorizzato dai suoi familiari (“Papà, non mi
facevi mai giocare a calcio”, “non mi hai mai detto bravo!”), né dagli insegnanti (“La poesia la sai? Sei muto o
sei scemo?”, “Costante è un pauroso, Costante non ha neanche la voce”; “a scuola mi chiudevano in un
armadietto”), non è stato aiutato a crescere, si è sentito escluso. Lui aspirava ad essere un Principe (ovvero a
sviluppare tutte le sue capacità potenziali), ma nessuno lo ha aiutato a diventare tale (e anche quando avrebbe
potuto esserlo almeno nell’ambito di una rappresentazione teatrale, questo gli è stato negato, e gli è stata
invece affidata la parte di una pecora, che “prende una pedata nel sedere”):
Egli affronta comunque la prova dell’indipendenza, pur se nella forma di una fuga senza ritorno, e lo fa con un
certo slancio: sente il desiderio di viaggiare, si sente un Principe che va a cavallo, incontro draghi, guerrieri,
pericoli imprevisti, avventure emozionanti e arricchenti.
Ed eccoci allora al secondo motivo che il racconto-metafora illustra: nel corso di questa vita indipendente
Costante incontra “gli altri”, “i diversi”. E il nuovo tema è quello della modificabilità dell’immagine degli “altri”, e
in particolare di quelli che sono “diversi da noi”, un’immagine che può anche radicalmente cambiare quando alla
tendenza a evitarli si sostituisce invece il contatto e la conoscenza diretta.
Anche questa è un’esperienza generale che un ragazzo normale prima o poi si trova a vivere. Ciò accade, in
forma molto generale, quando egli si imbatte in una persona sconosciuta, estranea, di cui non è subito in grado
di comprendere il carattere e le intenzioni. Ciò accade anche quand’egli incontra un gruppo diverso da quello al
quale appartiene, con regole, abitudini, forme di comportamento diversi; o quando incontra bambini provenienti
da una diversa cultura. In tali casi possono entrare in gioco dei pregiudizi, che ostacolano la conoscenza
reciproca o addirittura impediscono il contatto (“Non parlare mai con un estraneo!”, “Bisogna sempre diffidare
degli sconosciuti”, “Con quel gruppo non bisogna avere niente a che fare”). E’ questa una situazione in cui
bisognerebbe evitare certi atteggiamenti estremi (soltanto paura ed esitamento, oppure soltanto totale e
acritica fiducia) e sarebbe invece opportuno cercare il contatto, e gestirlo con curiosità e spirito critico,
giungendo a valutazioni obiettive sulla base di una conoscenza diretta che via via si approfondisce. Può allora
accadere che tale conoscenza porti a scoprire negli “altri” dei valori condivisibili, delle abitudini positive, e dei
modi di vedere la realtà nuovi e originali, che ci arricchiscono.
Nella fiaba, questo accade quando Costante incontra esseri (il popolo dei lupi) che sono diversi da quelli che ha
conosciuto fino a quel momento, esseri che gli erano stati presentati in una luce negativa, come pericolosi e
maligni, e che invece, conosciuti da vicino, rivelano molti aspetti positivi. Egli fa il suo ingresso nella “società
dei lupi”, ha la possibilità di conoscerla dall’interno, e scopre così che anche i membri di tale società hanno i loro
giochi, le loro feste, le loro chiese. E non solo nasce in lui un senso di rispetto, ricambiato (proprio come nella
leggenda del lupo di Gubbio un reciproco rispetto e un rapporto di amicizia e concordia erano nati tra San
Francesco, il lupo e gli abitanti della cittadina umbra); ma l’intesa diventa così profonda che, quando il gruppo
dei lupi viene attaccato e minacciato di distruzione, Costante ne prende le difese.
Il messaggio che questa fiaba come metafora trasmette è dunque duplice. Essa mette in luce quanto l’aiuto a
crescere e a affrontare sempre nuove esperienze che un bambino riceve, e la valorizzazione costante di cui si
sente oggetto (il “sentirsi dire bravo!”, il sentirsi dire spesso “hai fatto un gol!”) siano importanti per la
formazione di rapporti positivi con adulti significativi (i genitori, gli insegnanti), e per evitare che in lui nasca il
desiderio di andarsene via per non tornare mai più. Ed essa pone poi anche in evidenza che il contatto e il
confronto con gli altri, con i “diversi”, se affrontato nelle forme più adatte, può costituire esso pure un aiuto a
crescere, nel senso che può rendere possibile la conoscenza di mondi diversi dal proprio, caratterizzati da
aspetti positivi imprevisti, che possono arricchire di nuovi motivi la propria visione della realtà. (Guido Petter)
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