L`infanzia preclusa. Madri e figli in carcere nel III millennio

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L`infanzia preclusa. Madri e figli in carcere nel III millennio
L’infanzia preclusa.
Madri e figli in carcere nel III millennio
Childhood precluded.
Mothers and children in prison in the third millennium
Roberta Sardella1, Annateresa Inglese2, Matteo Pio Ferrara3, Alfredo De Risio4
Riassunto
Esiste una realtà nota ma non adeguatamente affrontata: la presenza dei bambini in
carcere. Si tratta di piccoli numeri, circa 60 bambini, ma è un numero abbastanza cospicuo che fa riflettere, non solo sulla eticità della questione, ma anche sulle comuni
domande che portano a chiedersi: che bambino sarà? Che adulto diventerà? Nel presente lavoro gli autori portano in evidenza le possibili implicazioni tra lo sviluppo delle tappe evolutive e l’ostile penitenziario, ove tutto ruota intorno “a chi controlla” e a
“chi viene controllato”.
Parole chiave
Relazione madre-figlio, carcere, sviluppo bambino.
Abstract
There is a known reality but one not adequately confronted: the presence of children in
prison. It is an issue related to small number, about 60 children, but it is a number
great enough that makes us reflect, not just on the ethical aspects of the matter, but also
on the common questions that lead us wonder: which kind of child is he going to be?
Which kind of adult is he going to be?
In the present work, authors stress possible implications between development of the
child and the hostile jail environment , where everything is about “who controls” and
“who is controlled”.
Keywords
Mother-child relationship, prison, child development.
Introduzione
In Italia la normativa (legge 21 aprile 2011, n. 62) prevede, la possibilità per le donne
detenute, che hanno figli minori di sei anni, di tenerli con sé in cella, qualora non ci siano i prerequisiti adatti per avvalersi della possibilità data, dalla stesse legge, di scontare
la pena in istituti ICAM (istituti a custodia attenuata per madri detenute). Secondo i dati
statistici, pubblicati dal Ministero della Gustizia (serie storica semestrale degli anni
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1993-2012), erano 57 le detenute madri nelle carceri italiane al 30 giugno 2012 (ultimo
dato disponibile) e 60 i bambini di età inferiore a tre anni presenti negli Istituti e alla
stessa data risultavano funzionanti 16 asili nido. I bambini residenti negli Istituti Penitenziari, oltre a vivere in un ambiente non adeguato alla necessità di un regolare sviluppo psicofisico, al compimento del sesto anno di età non possono più vivere in carcere e
quindi vengono allontanati dalla madre, a meno che essa non abbia i requisiti di legge
per usufruire della detenzione domiciliare prevista.
Gli studi condotti fino ad oggi ci dicono che tra i zero e i tre anni si vivono “ i mille
giorni” più importanti della vita, durante i quali si pongono le basi per la formazione
della futura personalità. Cosa cambia nello sviluppo del bambino se i “gli anni più preziosi” vengono vissuti con la madre, ma dentro un carcere?. E’ noto ormai da tempo,
che il primo legame che si instaura nella diade madre-bambino è di fondamentale importanza (Bowlby, 1973), con la convergenza di diversi fattori psicologici, ambientali,
sociali e biologici. I possibili rischi nello sviluppo del bambino, connessi al fatto di vivere in carcere con la madre detenuta, possono essere rintracciati nella deprivazione della figura paterna, da una parte e dall’influenza dell’ambiente carcerario, dall’altra, condizionando lo sviluppo fisico e cognitivo del bambino (Quagliata, 2010).
Deprivazione della figura paterna
Per i figli che vivono in carcere, la madre risulta essere l’unico punto di riferimento e
non disponendo di altre relazioni affettive, diverse da quella materna, si trovano a subire
delle deprivazioni, sia dei rapporti sociali che degli affetti primari. Tali privazioni possono avere pesanti ripercussioni sul loro sviluppo e lasciare dolorosi postumi nella loro
vita. La deprivazione più grave che purtroppo subiscono questi bambini dentro il carcere è quella paterna (Costanzo, 2013). L’attaccamento al padre, come quello alla madre,
ha un’importanza fondamentale per lo sviluppo del bambino contribuendo, nei primissimi anni di vita, al consolidamento della sua personalità, ed inoltre, la presenza paterna
incoraggia lo sviluppo psicosociale in aree quali, l’autostima, il successo scolastico e riduce significativamente i rischi collegati a comportamenti problematici. Non a caso la
deprivazione paterna rappresenta un considerevole fattore di rischio nell’insorgere di
problemi psicologici e sociali, in modo particolare nell’assunzione del ruolo sessuale
del bambino, insieme alla percezione di un’inadeguatezza emozionale, cognitiva e interpersonale. Non sono nuove le teorie che affermano, come la figura paterna, svolga un
ruolo di “terzo” rispetto alla diade madre–bambino, in grado di facilitare un contenimento prima, e una separazione poi, alla diade stessa. Il padre, rispetto all’unione fusionale del rapporto madre–bambino, con la sua “alterità” offre quel confine necessario che
conduce verso nuove relazioni, perciò un bambino che cresce e trascorre i suoi primi
anni di vita in una cella, solo con la madre, risentirà della mancanza e del supporto che
ne deriva dall’avere anche “un terzo”, nonché il padre (Quagliata, 2010).
L’influenza dell’ambiente carcerario
Come già espresso nei paragrafi precedenti, i bambini che vivono in carcere con le madri detenute subiscono una deprivazione affettiva, relazionale e sensoriale. E’ necessario
pertanto considerare sia il bambino con i suoi bisogni, sia la madre, con la sua esperienza passata e il suo stile relazionale e sia l’ambiente, all’interno del quale si crea il rapporto, per poter comprendere a pieno come può avvenire lo sviluppo del bambino che
vive i suoi primi anni di vita nell’ambiente-carcere. Se la relazione si sviluppa
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all’interno di un ambiente sereno che offre alla madre la possibilità di rispondere alle
sue esigenze e di fare esperienze positive, il suo sviluppo sarà sicuramente diverso rispetto alle possibilità che potrebbero essere offerte a bambini “chiusi”, che vengono obbligati al rispetto di rigide regole e a cui non sono offerti gli stimoli necessari, che lo
spingono a fare nuove esperienze di apprendimento.
Rispetto ad un contesto “normale”, in cui un bambino sarebbe libero di giocare, di uscire con i genitori, di conoscere e frequentare altri bambini, di dormire senza che nulla
possa disturbare il suo sonno, in carcere il bambino è costretto a sottostare a diverse regole e limitazioni: si può uscire solo per qualche ora con i volontari e solo nei giorni e
negli orari prestabiliti e la possibilità di contatto con i coetanei, seppur talvolta presente,
è comunque condizionata e obbligata dalle circostanze e non risulta affatto spontanea e
libera. Inoltre in carcere le luci sono sempre accese e sono continui i rumori, le voci e la
vigilanza, tutti elementi disturbanti che compromettono la tranquillità del bambino, influendo pesantemente sulla qualità della sua vita (Costanzo, 2013).
Molte teorie che riguardano lo sviluppo umano tendono a sottostimare, purtroppo, il
ruolo delle condizioni ambientali sullo sviluppo del bambino e quanto queste possono
contribuire a determinare una differente qualità della vita con conseguenti effetti sulla
futura personalità dell’individuo. Se è vero, infatti, che il bambino è in grado di superare
prove emotivamente ed affettivamente complesse, è anche vero che il prezzo da pagare,
per tentare di far fronte a tali condizioni, risulta essere spesso molto alto, ed a volte, può
condizionare certi atteggiamenti che si osserveranno anche una volta divenuto adulto.
Pertanto è importante considerare l’andamento dello sviluppo in un processo non più
unidirezionale, che va dall’ambiente al bambino e dal bambino verso l’ambiente, bensì,
bidirezionale, in cui il bambino e l’ambiente si influenzano reciprocamente, in modo
continuo nel tempo. E’ possibile, infatti, assicurare uno “sviluppo ottimale” soltanto se
si realizza una buona comunicazione tra le crescenti competenze infantili e le opportunità di esperienza e di apprendimento che l’ambiente può offrire al bambino (Schaffer,
2005). L’insorgenza di difficoltà nel processo di sviluppo, non può quindi addebitarsi
solo ad una responsabilità del bambino (ritardo, difficoltà nelle risposte cognitive, affettive, relazionali) o dell’ambiente presi singolarmente, ma va spiegato, piuttosto, in termini di una cattiva regolazione dello scambio tra queste variabili, ovvero di non corrispondenza tra le occasioni offerte al bambino e le capacità da lui possedute in un dato
momento. Talvolta non si tiene conto di alcune variabili ambientali ed affettive che, in
un contesto di cambiamento improvviso e traumatico, mutano il rapporto madre-figlio.
In particolare ci si riferisce alle modalità con le quali la mamma è stata arrestata, se di
notte o di giorno, se i figli erano presenti o meno, se vi sono state situazioni di tensione
e/o violenza (Margara, 2005). Di solito il bambino raggiunge la madre dopo un certo
periodo che questa è detenuta, con buone possibilità che abbia assistito al suo arresto, e
alla condizione di abbandono e di separazione, si aggiunge quella della frustrazione. Per
un bambino di età inferiore ai trentasei mesi, tale condizione non è comprensibile, ma
avverte comunque lo stato di cambiamento, di isolamento, di socializzazione forzata
con le altre detenute, la tensione e la conflittualità. Il carcere, in quanto ambiente monotono, agisce comunque sullo sviluppo del bambino in una situazione dove la famiglia,
come nucleo, non è presente se non saltuariamente o con incontri molto distanziati nel
tempo e il mondo degli affetti risulta così, molto parcellizzato e sovente ripetitivo nelle
stimolazioni. Lo sviluppo del bambino si viene a trovare tra due grandi complessi relazionali ed affettivi: da un lato quello rappresentato dal nucleo familiare, dall’eventuale
inserimento nell’asilo nido e/o dal rapporto affettivo con altre figure per lui significative, come adulti e coetanei. Dall’altra parte, il “nuovo e speciale” ambiente, qual è il carcere, che assume non minore importanza per i bambini con le sue relazioni, con le sue
modalità comunicazionali, la sua cultura, le sue norme e le sue trasgressioni. Il mondo
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carcerario può agire paradossalmente, sia come rinforzo e sia come elemento di rallentamento di processi di sviluppo. Indubbiamente, lo stato di cambiamento al quale il
bambino è costretto ad adattarsi, in concomitanza di situazioni che affettivamente si
presentano carenti e solo parzialmente rispondenti ai suoi bisogni (assenza della figura
paterna, inserimento a seconda della fascia d’età nel carcere, il ritorno con la madre o da
solo a casa propria, o a quella dei parenti a cui è stato affidato), appaiono elementi importanti per un disagio, una paura a crescere, una difficoltà a progettare un futuro che è
denso di insicurezza, tensione, frasi spesso sussurrate, dove generalmente la figura paterna e/o materna vengono considerate poco valide dagli stessi parenti affidatari, favorendo nel bambino una conflittualità interiore di cui egli sente gli effetti, li patisce ma
non è in grado di comprenderli. Se non sufficientemente rassicurato, il bambino, tende a
instaurare comportamenti verificati in passato come rassicuranti per lui, anche se non
sono segno di crescita. Così la regressione e la permanenza in un comportamento retrocesso, possono essere un segnale di una difficoltà a superare uno o più ostacoli affettivi
e/o ambientali per i quali il bambino non si sente in grado di far fronte (Costanzo,
2013).
Lo sviluppo psicofisico dei bambini con madri detenute
Ci sono tappe di vita di un bambino che possono essere compromesse e che risultano
essere rischiose e/o protettive per il suo sviluppo, considerando le diverse variabili che
le determinano. L’alimentazione, il ciclo sonno-veglia e ancora, il modo di giocare, di
socializzare, di emozionarsi, sono step fondamentali al consolidamento del “sistema
Uomo”.
Alimentazione
L’alimentazione riveste un’importanza rilevante negli stadi di crescita del bambino, non
a caso da una condizione di piena dipendenza dalla madre, si passa ad un graduale distacco verso un’autonomia alimentare che rappresenta processi molto più complessi, tesi al raggiungimento di una sempre maggiore autonomia del bambino. Nell’unico studio
di follow-up condotto in Italia (Biondi G, 1994) vengono osservati sei bambini in cui si
evidenzia, nel modo di alimentarsi, un andamento tendenzialmente regressivo. Sebbene
appaia evidente l’esiguo numero del campione preso in esame, dall’osservazione svolta,
emerge subito come vi sia una difficoltà a raggiungere un’autonomia nel mangiare, giustificata in parte per l’età, solo in un caso. La condizione che si osserva in una bambina
nata in carcere mostra come, pur avendo raggiunto un’autonomia, man mano che ci si
avvicina alla separazione, la bambina ha avuto bisogno di rassicurarsi attraverso dinamiche che, seppure parziali, le confermassero una maggiore presenza ed attenzione da
parte della madre. In due casi, invece, ai disturbi di alimentazione, si sono associate difficoltà rilevanti nel ritmo sonno/veglia. Infine, soltanto un bambino è stato sottoposto ad
una dieta specifica. In seguito, dal controllo a distanza di sei mesi, è emerso che per tre
bambini, tutti nati in carcere, l’alimentazione era “quantitativamente nella norma”. Il
numero limitato di bambini osservati non permette generalizzazioni, ma può far riflettere sia sulla molteplicità e complessità dei segnali che possono indicare un eventuale difficoltà dei bambini nell’ adattamento alla situazione particolare. Non meno interessante
è apparso quanto è stato rilevato dagli esperti, che riferiscono che nelle fasce d’età inferiori a 24 e 36 mesi sono stati segnalati alcuni casi d’inappetenza continua nel tempo, in
particolare tale situazione è stata presente per diverso tempo in tre di essi (ibidem).
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Ritmo sonno/veglia
Le situazioni di cambiamento ambientale che si sovrappongono allo stato di tensione
sofferto delle detenute sembrano essere tra le condizioni che con più frequenza si osservano, e spesso si correlano, con le difficoltà lamentate dai bambini ad avere un regolare
ritmo sonno/veglia. E’ stato riferito che tali difficoltà sono spesso legate anche alle diverse modalità di alloggio della madre e dei bambini nell’Istituto Penitenziario ed alle
opportunità di potersi avvalere di una situazione stabile nel tempo, sia come ambientecella che come compagne di cella. Il ritmo sonno/veglia nei più piccoli e il sonno nei
bambini più grandi, va considerato un valido indicatore di un possibile disagio. Ciò potrebbe infatti permettere l’attuazione di interventi di sostegno per la madre detenuta ed
una valutazione della situazione più approfondita per il bambino tale da permettere
l’ipotesi di interventi più vicini ai suoi bisogni. Dalle ricerche si riscontra inoltre che un
maggiore o minore coinvolgimento dell’asilo nido e l’affidamento temporaneo ai parenti, possono risultare delle variabili importanti tali da influire in modo rilevante sulla
qualità del sonno (ibidem).
Il linguaggio
Lo sviluppo del linguaggio nel bambino appare strettamente correlato all’ambiente e
veicolato attraverso la figura materna. Una delle carenze maggiormente segnalate dalle
detenute e dagli operatori penitenziari, riguarda lo scarso utilizzo del linguaggio da parte del bambino nella condizione di detenzione. La ritualità delle giornate, una certa ripetitività dei gesti e dei comportamenti, sembrerebbe privilegiare una comunicazione più
gestuale che verbale. Tale dato è estremamente significativo in quanto rappresenta un
aspetto importante non solo legato allo sviluppo in sé, ma anche per la maggiore o minore possibilità di espressione dei rapporti affettivi e relazionali. Ciò appare ancora più
rilevante, specie se si considera il dopo, quando il bambino lascerà il carcere per essere
inserito in un ambiente che spesso gli potrà risultare nuovo, a volte addirittura sconosciuto, comunque privo della presenza della figura materna e con modalità comunicazionali spesso nettamente diverse. L’inserimento nell’asilo nido, sembra essere una modalità che, seppure parzialmente, può permettere al bambino di essere maggiormente
stimolato da un ambiente diverso che non sia il carcere, consentendogli un più ricco utilizzo del linguaggio, comunicando con più figure, sia di adulti che di coetanei, avvalendosi di una simbologia e gestualità che si modificano ed evolvono nel tempo anche se
condizionati da ciò che l’ambiente può offrire.
E’ stato rilevato che di fronte a situazioni di difficoltà di adattamento sociale ed affettivo, si nota spesso nei bambini un ritardo nell’acquisizione del linguaggio, con la tendenza a raggiungere in tempi più lunghi alcune fasi di sviluppo linguistico, quali la frase, la ricchezza di un vocabolario, la comprensibilità del linguaggio. Non di rado i disturbi del linguaggio che si osservano nella pratica clinica sono più legati a problemi
psicologici che funzionali. E’ come se il bambino tramite la sua difficoltà ad esprimersi,
comunicasse la sua difficoltà a farsi capire, il suo bisogno di una maggiore attenzione da
parte dell’adulto, la sua difficoltà a gestire un’emotività che non è facile controllare e
dove la stessa comunicazione può avere significati più profondi e complessi. Nella fascia d’età tra i 25 e 36 mesi è possibile rilevare maggiori difficoltà nel linguaggio. E’
bene annotare che fino ai due anni lo sviluppo del linguaggio avviene in modo relativamente indipendente rispetto ad altre aree come la socializzazione e la motricità e anche
se, la funzione del desiderio di comunicare è presente già da molto tempo, la parola utilizzata per riferire esperienze, idee, desideri è il più delle volte accompagnata dall’atto
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espressivo che indica o completa l’azione messa in atto per comunicare. Rispetto al linguaggio mimico-gestuale la problematicità appare molto più evidente e sempre nella fascia d’età 25–36 mesi, i bambini presentano un linguaggio mimico-gestuale povero
(ibidem).
Il gioco
Il gioco, in accordo con la letteratura scientifica presa in esame, appare uno degli aspetti
che maggiormente può concorrere nel formare uno sviluppo armonico nel bambino. Già
l’essere a conoscenza di quali tipi di gioco il bambino preferisca e come egli gli utilizzi,
permette non solo di individuare la presenza di eventuali difficoltà ma anche di relazionarsi con lui in un modo più semplice e diretto. Il gioco è anche un mezzo per dominare
e controllare le situazioni che possono essere vissute dal bambino come frustranti o come emotivamente pesanti. Il poter ripetere una situazione vissuta come negativa o il poterla modificare, arricchendola o impoverendola a proprio piacimento, conduce il bambino verso una graduale soddisfazione o, comunque, verso un ridimensionamento di uno
stato di tensione che in alcune circostanze può divenire causa di possibili sofferenze
inespresse. L’occasione gioco, la ricchezza dei suoi contenuti, le possibilità di una eventuale “animazione” appaiono infatti molto importanti nella visione globale della permanenza del bambino in carcere. A seconda infatti della qualità e quantità delle occasioni
di gioco, si può tentare di ridurre i possibili effetti negativi della carcerazione sullo sviluppo del bambino. In questo contesto appare importante prevedere quindi, una certa
preparazione e competenza “ludica” e di animazione del personale che opera accanto
alla madre detenuta ed al suo bambino.
Gli “oggetti” a cui il bambino, dal terzo mese di vita in poi, si rapporta hanno
un’importanza rilevante per la sua crescita, in quanto rappresentano per lui una possibilità di relazionarsi con qualcosa che è in grado di rassicurarlo rispetto agli elementi di
insicurezza e di paura con i quali è comunque costretto a convivere. Comportamenti sia
delle madri che del personale, tesi a togliere l’oggetto al quale il bambino è così strettamente legato, riducono ancora di più quegli elementi transitori ma estremamente rassicurativi che si realizzano attraverso un suo tentativo di gestione delle difficoltà derivate
anche dallo stato di carcerazione. Un’altra funzione del gioco, certamente non meno
importante, appare quella rappresentata dalla possibilità di poter esercitare una forza
equilibratrice tra le richieste del mondo degli adulti con loro aspettative, paure e frustrazioni trasmesse consapevolmente o inconsapevolmente e la possibilità per ogni bambino, di apprendere a controllare e gestire situazioni sconosciute, non sempre comprensibili, dove a volte i messaggi contradditori diventano per lui, meno rassicuranti delle
stesse frustrazioni. Può essere piuttosto frequente che la madre detenuta si trovi in condizioni psicologiche tali da non essere in grado di agire direttamente ed attivamente nel
gioco del figlio, più spesso lo stato di preoccupazione sia in relazione alle detenzione sia
in relazione al mondo lasciato all’esterno (famiglia da cui si è lontani, preoccupazione
per gli altri eventuali figli e per il partner), fanno si che la sua presenza sia, specie per il
gioco, poco attiva e stimolante ma soprattutto poco propensa alla pazienza. Dal gioco
solitario dei primi mesi di vita al gioco svolto, negli anni successivi, in gruppo ed in un
modo sempre più elaborato e ricco di significati per la sua maturazione, il bambino acquisisce delle tecniche che lo aiutano a raggiungere un livello di maturità comportamentale. Tali tecniche fanno riferimento all’organizzazione dell’utilizzo del linguaggio, del
pensiero, di reazioni verso gli altri, il tutto all’interno di sistemi complessi e vincolanti
che fanno riferimento alla varietà dei ruoli sociali che agiscono intorno a lui. Nel contesto carcerario tale varietà, sia nei ruoli che negli stimoli offerti, appaiono notevolmente
ridotti ed è pertanto necessario dare più possibilità per realizzare occasioni di contatto e
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di stimolo. Ad esempio organizzare momenti di socializzazione all’interno della famiglia di origine, ove possibile, attraverso le occasioni presenti all’interno delle strutture
sociali pubbliche e private che possono e dovrebbero essere coinvolte. Un altro aspetto
non meno importante riguarda la facilità con la quale si possono alternare più bambini,
che escono dopo un breve soggiorno nel carcere, rispetto a colui che resta per lungo
tempo, costretto a modificare di volta in volta la sua relazione, sia con i bambini che con
gli adulti.
Non si può dimenticare che seppur ci sia la presenza di modalità comportamentali e di
crescita tipiche dei bambini fino ai tre anni, un timore profondo di essere abbandonato è
sempre presente, specialmente in quei casi in cui il bambino è testimone della scadenza
dei tre anni e del distacco dalla madre, dello stato psicologico della stessa, in “un dopo”,
dove di fronte all’assenza del bambino, segue spesso uno stato di depressione, di tensione, di rabbia da parte del mondo degli adulti che è intorno a lui e con i quali la madre si
relaziona.(ibidem).
Da quanto emerso è chiaro che il gioco rappresenti di per sé un bisogno del bambino, il
problema risiede nel discutere non “sul se” nel carcere il bambino gioca, quanto “sul
come, quando, quanto e con chi”.
La socializzazione
Il processo di socializzazione inizia nella primissima infanzia, praticamente dopo la nascita, e per alcuni, tale processo sembra già condizionato nelle relazioni che la mamma
instaura con l’ambiente e che il feto percepisce già nel grembo materno. Nelle prime ore
di vita si instaura un rapporto madre–bambino, che tenta di confermare e rassicurare il
figlio, rispetto al nuovo stato di distacco dalla madre e con la quale egli apprende ben
presto a relazionarsi ed a richiedere rassicurazione e soddisfazione per i suoi bisogni
primari. Il bambino sembra in grado, fin dai primi giorni di vita, di fornire una serie di
risposte sempre più evolute e affettivamente consistenti tali da realizzare un’ interazione
sempre più ricca tra lui e l’adulto, dove il rinforzo, la conferma affettiva, riproposte nel
tempo, vengono ad avere un significato importante per l’apprendimento delle prime
condotte sociali. E’ stato riscontrato da diverse ricerche che già dai primi mesi di vita, il
bambino, se posto accanto ad un coetaneo, lo guarda, lo tocca, vocalizza o sorride con
lui. Nel secondo anno si verificano interazioni più complesse, mediate soprattutto dal
comune interesse per i giocattoli o altri oggetti, compaiono i primi giochi a due, ed entro
la fine del secondo anno, inizia a comparire in modo chiaro l’amicizia. Tale sentimento
in realtà è possibile che si manifesti anche in età precedenti, ma si è riscontrato che alla
fine del secondo anno di vita, tale emozione compare più facilmente, specie se i bambini
hanno la possibilità di frequentarsi con una certa continuità, infatti “più sono costanti le
occasioni di incontro tra i bambini e maggiore è la qualità e la quantità degli scambi che
essi sono in grado di produrre”. Nella maggior parte dei casi, il bambino in carcere ha
scarse possibilità di contatti con i coetanei, salvo per coloro che possono usufruire
dell’asilo nido esterno all’Istituto Penitenziario. Nel carcere viene inevitabilmente privilegiato il rapporto con la madre e, se è vero che il ruolo della madre appare prioritario
rispetto ad un sereno sviluppo del bambino, è anche vero che “il comportamento ottimale della madre verso il figlio dipende anche dai suoi rapporti positivi con le altre persone” (Sgarro, 1988). Se si intende il processo di socializzazione, come un “processo reciproco”, dipendente dalle aspettative e dalle reazioni degli altri, nel carcere madre e
bambino vivono una situazione in cui la socializzazione, in quanto tale, è forzatamente
circoscritta in un ambito, che tende a privilegiare generalmente i rapporti individuali,
piuttosto che di gruppo e dove il bambino ha poche possibilità di avvalersi di stimoli se
non filtrati dalla madre. Anche in libertà, in una situazione di norma, tale processo è
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molto frequente e nella realtà il bambino fino ai tre anni si trova a sviluppare la sua socializzazione interagendo prevalentemente con la madre e, se vi sono, con i fratelli.
Questo rapporto in carcere viene a cambiare o per meglio dire viene ri-disegnato anche
in virtù di evidenti trasformazioni sociali. La considerevole crescita dei flussi di immigrati verso il nostro paese e le inevitabili ripercussioni di questo fenomeno –termine improprio, dal sapore vagamente straordinario, con cui viene spesso indicata
l’immigrazione – rappresenta oggi un ineludibile stato di fatto, organico
all’organizzazione odierna e futura del nostro corpo sociale, testimoniante a suo modo
di quell’infittirsi delle relazioni tra i popoli che chiamiamo globalizzazione (De Risio,
Gliatta, 2010).
Osservato da questa angolazione, ci si rende conto che è importante sostenere la figura
materna fornendole degli itinerari educativi ai quali può adattarsi per cultura, carattere,
educazione e che le consentano dei cambiamenti che sono il “prodotto di una sua individuale elaborazione”. La situazione di rischio nasce, piuttosto, da proposte di possibili
soluzioni offerte dall’esterno, da agenzie pubbliche e/o private, distaccate dal contesto
carcerario e dall’ambiente di provenienza della detenuta e che possono risultare, per la
madre e per il suo bambino, fonte di ulteriore confusione e solitudine. Esse, infatti, non
sono in grado di garantire una continuità negli interventi di sostegno ed, a volte, possono rinforzare, per contro, la sensazione di essere stati posti al centro di progetti sociali
ed educativi teoricamente affascinanti ma realisticamente non percorribili. Tali progetti
aumentano inizialmente le “aspettative fantastiche” per poi rigettare madre e bambino
verso “un’ennesima delusione” che li respinge verso sentimenti di isolamento e di abbandono tali da ridurre il senso, la motivazione, verso una propria progettualità che rischia di restare una progettualità “reclusa”.
Se è vero che nei primi anni di vita la relazione vede interagire prevalentemente madre e
bambino, è anche vero che in “libertà”, tale rapporto si può avvalere di una serie di contatti, che sono determinati dal rapporto della madre e dell’intero nucleo familiare con i
parenti, con gli amici, con una moltitudine di agenti sociali con cui si è costretti ad interagire nella quotidianità. Questa ricchezza di rapporti, rinforza la madre da un lato a stare accanto al figlio, nell’interazione con l’esterno, e dall’altro consentendo al bambino
stesso di indirizzarsi, in un delicato, ma continuo, processo di rassicurazione, verso
un’interazione con l’esterno. Più il processo di rassicurazione è presente, più la madre, a
sua volta, si sente rassicurata nel suo ruolo di persona in quanto donna e in quanto madre. Per contro, più si sente fragile e in difficoltà rispetto al suo ruolo, più avrà difficoltà a interagire in modo rassicurante rispetto all’osservazione continua ed attenta che il
figlio compie su di lui e sul suo comportamento. In carcere, il bisogno della madre di
ricerca e di conferma, negli altri, di una sua identità, la porta a trasmettere al figlio,
spesso inconsapevolmente, un certo timore nell’interagire a causa della necessità di difendere, comunque, anche lui, rispetto a un pericolo che nasce da un ambiente che viene
vissuto ostile, negativo, a volte inutilmente repressivo, come può esserlo il carcere.
Riflessioni conclusive
Di fianco all’ambito delle sviluppo evolutivo dal quale siamo partiti, giacché il ragionamento espresso nella presente trattazione impatta fortemente sulla dialettica tra legalità e illegalità, tra reciproci bisogni e ostacoli alla convivenza, nel giungere alle conclusioni si vuole proporre, in un incontro dialettico, le riflessioni di due autorevoli studiosi
che, nelle citazioni riportate, ben restituiscono e sintetizzano la complessa e composita
tematica dell’infanzia nei luoghi di pena.
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Condividendo, infatti, il pensiero di Goffman (2001), il carcere possiamo allora concepirlo come “l’istituzione totale” per eccellenza. Secondo le parole dell’autore,
“un’istituzione totale può essere definita come il luogo di residenza e di lavoro di gruppi di persone che, tagliate fuori dalla società per un considerevole periodo di tempo, si
trovano a dividere una situazione comune, trascorrendo parte della loro vita in un regime chiuso e formalmente amministrato”. Ed ancora: “Uno degli assetti sociali fondamentali nella società moderna è che l’uomo tende a dormire, a divertirsi e a lavorare in
luoghi diversi, con compagni diversi, sotto diverse autorità [...] Caratteristica principale delle istituzioni totali può essere appunto ritenuta la rottura delle barriere che abitualmente separano queste tre sfere di vita. Primo, tutti gli aspetti della vita si svolgono
nello stesso luogo e sotto la stessa, unica autorità. Secondo, ogni fase delle attività
giornaliere si svolge a stretto contatto di un enorme gruppo di persone, trattate tutte allo stesso modo e tutte obbligate a fare le medesime cose. Terzo, le diverse fasi delle attività giornaliere sono rigorosamente schedate secondo un ritmo prestabilito. Per ultimo, le varie attività forzate sono organizzate secondo un unico piano razionale, appositamente designato al fine di adempiere allo scopo ufficiale dell’istituzione”… il controllo.
“Non ci sono altre esperienze che possano avere grandi effetti sullo sviluppo della personalità di un individuo quanto l’esperienza infantile all’interno della famiglia. Iniziando dal suo primo mese di relazione con i suoi genitori, l’infante si costruisce dei modelli di come le figure affettive si comportano nei suoi confronti in qualsiasi varietà di situazioni e, su questi modelli sono basate tutte le sue aspettative e perciò tutti i suoi piani per il resto della sua vita” (Bowlby, 1973). E’ ormai noto che il rapporto madrefiglio sia di estrema importanza per la crescita del piccolo, come risultano basilari anche
gli atri tipi di relazione che il piccolo sperimenta durante la sua infanzia. Tuttavia non
sempre è scontato sapere che in carcere ci sono bambini che pagano una pena per reati
non commessi e che si trovano ad essere deprivati non solo della libertà, come veri e
propri criminali, ma sono costretti a rinunciare a tutto ciò che è necessario per un sereno
sviluppo. I parchi, le giostre, sono chiuse nella fantasia, suscitata magari solo dai libri di
fiabe, ma l’immaginazione fa fatica a nascere perché gli stimoli ambientali sono celle,
sbarre e tutto ciò che rappresenta il carcere.
Ad oggi i provvedimenti legislativi che sono stati attuati prevedono una manovra di
scarcerazione dei bambini, ma le buone intenzioni prescritte dalle leggi difficilmente
trovano applicazione, quando le risorse sono poche o comunque non sono sfruttate a
pieno. Ci si riferisce in particolare all’esiguo numero di istituti che sono stati pensati per
ospitare madri detenute coi propri figli, i cosiddetti ICAM, istituti a custodia attenuata
per madri, che utopicamente potrebbero estinguere il problema, poiché sono luoghi colorati ed adatti ad accogliere bimbi, ma di fatto non esistono, precisamente sono solo
due, in tutta Italia. Se solo ci fosse l’interesse concreto, sono molteplici gli interventi
che si potrebbero realizzare e, oltre al sostegno economico e finanziario da parte dello
Stato è fondamentale l’impegno di psicologi, educatori, volontari che con la loro professionalità e dedizione, possono contribuire a far valere il diritto del genitore di mantenere
un ruolo fondamentale nella vita del figlio ed il diritto del bambino di crescere, mantenendo un legame anche con il genitore detenuto.
Ci sono bambini reclusi perché figli di madri detenute, ma questo non vuol dire che ci
debbano essere bambini a cui sia pre-clusa l’opportunità di crescere come tutti i bambini, innocenti. In particolare ci si è concentrati sullo sviluppo del bambino che cresce in
carcere, ma da psicologi clinici, ci sembra doveroso almeno far cenno a tutti quei bambini che, seppur liberi di vivere fuori dal carcere, restano comunque figli di detenuti e
quindi costretti a fare la fila per effettuare i colloqui, essere perquisiti come se fossero
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anche loro portatori di criminalità e ritrovarsi in luoghi tetri e scuri, dove la luce del sole
riflessa sul pavimento è a sbarre.
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Psicologo clinico, specializzando ISP, Istituto per lo Studio delle Psicoterapie, Roma
Psicologo clinico, specializzando ISP, Istituto per lo Studio delle Psicoterapie, Roma.
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Psicologo Clinico, specializzando ISP, Istituto per lo Studio delle Psicoterapie, Roma.
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Psicoterapeuta specialista in Psicologia Clinica di formazione analitica adleriana
Responsabile UOS di Psicologia Penitenziaria DSM Azienda USL ROMA H.
Socio fondatore S.I.M.S.Pe Onlus Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria 2
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