Sviluppo socio-economico dell`Appennino centro

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Sviluppo socio-economico dell`Appennino centro
Francesco Maselli
Sviluppo socioeconomico dell’Appennino centro-meridionale
di Francesco Maselli
1.Introduzione
Saluto i colleghi delle Province di Benevento, Campobasso e Foggia e saluto
i presidenti del Consiglio; saluto soprattutto i consiglieri provinciali delle quattro
Province che avranno potuto capire, direi toccare anche con mano, l’ansia della
sfida difficile che è emersa anche dall’intervento del presidente Pellegrino. È questo
che in qualche modo ci spinge, ci muove e soprattutto ci fa credere con determinazione, in questo progetto, nato oserei dire quasi per caso. Ma è nato e adesso sta
tentando di crescere e di prendere corpo e soprattutto di produrre dei frutti. Si
tratta di produrre frutti per un territorio, le aree interne di questa fetta del Meridione, che è stato storicamente e da sempre caratterizzato da fenomeni di marginalità,
di rarità di servizi e anche di disagio sociale, che sono causa ed effetto allo stesso
tempo di queste condizioni alle quali ho fatto riferimento. È da questa consapevolezza che siamo partiti per tentare una avventura e lanciare una sfida a noi e a quelle
istituzioni che in una nuova logica di sviluppo e amministrativa, in una nuova logica di coalizioni istituzionali, debbono collaborare e coadiuvare perché questo tentativo possa riuscire.
2. Le criticità del territorio meridionale
A me è stato affidato un tema direi indefinibile nello spazio, nel tempo, negli
stessi elementi che dovrei analizzare nel ristrettissimo tempo che mi è stato assegnato; lo farò partendo da quelle che posso definire le criticità di questo territorio
rispetto al quale quattro presidenti di Provincia e quattro Consigli provinciali offrono soluzioni per sciogliere i nodi critici e soprattutto per rafforzare quelli che
possiamo definire i pochi ma interessanti e forse dimenticati punti di forza. Vincoli
sistemici caratterizzano l’arretratezza di questo territorio a partire della infrastrutturazione fisica di cui ha parlato il presidente Pellegrino. Si tratta di uno stock di
dotazione infrastrutturale che è sicuramente inferiore rispetto a quello del Centronord, per non riferirci ai paesi dell’Europa rispetto ai quali probabilmente, complessivamente come Paese, possiamo dirci superiori soltanto alla Spagna, alla Grecia, al Portogallo. La infrastrutturazione fisica del territorio non è soltanto la sua
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cementificazione, perché molto spesso quando si propongono direttrici di sviluppo, cioè canali di diffusione dello sviluppo, ci sentiamo obiettare immediatamente:
“Ecco, arrivano i cementificatori del territorio”. Non è questo.
La infrastrutturazione del territorio, soprattutto nel Centro-sud, è una
precondizione necessaria, forse nemmeno sufficiente. E perché dico che “non è
sufficiente”? Perché rapportandoci ad esempio alle aree del Nord-est, scopriamo
che non sempre la dotazione infrastrutturale produce quegli insediamenti produttivi che necessariamente servono ad innervare il territorio e a far crescere una società. E allora, mentre nel Nord-est sicuramente l’apparato produttivo ha preceduto le
infrastrutturazioni del territorio, e oggi paradossalmente, rischia di essere soffocato da questa sotto-dotazione, nel Centro-sud questo non è avvenuto. Il presidente
Pellegrino ha fatto riferimento a poche, ma significative (e soprattutto strategiche)
“reti corte”, definiamole così, che servono a collegare questi quattro sistemi territoriali a quelle che possiamo definire le “reti lunghe”, cioè quelle che ci portano sui
mercati e ci consentono di penetrare.
Mi riferisco alla infrastrutturazione viaria e ferroviaria di collegamento tra il
Tirreno e l’Adriatico, quel tratto al quale ha fatto riferimento il presidente Pellegrino, che passa per Avellino, arriva a Melfi, e va verso l’Adriatico: e qui aggiungo che
noi stiamo “completando” questo segmento, perché non sia un tratto monco, ma
perché appunto consenta lo sbocco anche verso l’Adriatico con la Avellino-Salerno.
Abbiamo già affidato - c’è l’assessore ai Lavori Pubblici presente - uno Studio di
pre-fattibilità per il potenziamento di questa tratta. E questo che cosa determina?
Determina un ruolo strategico, perché evidentemente è dall’Adriatico che
noi possiamo attirare gli scambi commerciali, anche con quella parte del Medio
Oriente, diciamo quella parte “meridionale” del nostro emisfero, e da questo, poi,
consentire un accesso sulle sponde del Tirreno, ma senza dover fare la lunga
circumnavigazione del Paese: attraverso uno scambio di modalità passare dall’Adriatico al Tirreno, e quindi da Salerno andare verso i paesi del Nord-mediterraneo e,
perché no?, anche di oltre oceano. E quindi, come vedete, è una croce che si interseca, con modalità diverse ma il cui nodo cruciale è rappresentato da questo territorio, che diventa “cerniera - oserei dire - tra il Mezzogiorno ed il Nord del nostro
Paese”, e non voglia apparire anche ambiziosa la mia affermazione, addirittura tra
“i paesi del Mediterraneo ed il resto d’Europa”: guai se non avessimo ambizioni,
guai se non ci ponessimo anche sfide impossibili. Sarebbe troppo comodo per noi
amministratori fermarci all’ordinario e non, invece, tentare il pensiero lungo, quello che dà la prospettiva, quello che ci consente di guardare lontano e di non attardarci
anche sulle meschinità che, a volte purtroppo, la politica comporta e che finiscono
per inibire, perfino, i processi di crescita del nostro territorio.
Se noi vogliamo che queste aree diventino davvero tanti sistemi di sviluppo
locale, non possiamo non tenere conto di ciò che si sviluppa sul territorio complessivamente. Ciò è ancora più vero se siamo convinti che il territorio è la variabile
nuova che è intervenuta nei processi di sviluppo, dopo il capitale ed il lavoro. Mi
riferisco evidentemente non al territorio fisicamente inteso, ma piuttosto al territo162
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rio come palcoscenico, scenario, sul quale si muovono soggetti e istituzioni; sul
quale si costruiscono opere pubbliche; sul quale si creano quelle relazioni necessarie perché il sistema funzioni a rete e soprattutto produca quell’effetto globale che
ciascuno di noi, singolarmente, non potrà mai garantire.
E allora, il “capitale sociale” è un aspetto fondamentale. E nel capitale sociale
non c’è soltanto evidentemente la condizione dei cittadini, ma c’è tutto ciò che
ruota intorno alla vita del cittadino e quindi anche la pubblica amministrazione. Il
suo ammodernamento è una sfida importantissima; è qualcosa che diventa strategico per il Meridione e per le nostre zone. Noi possiamo, infatti, immaginare tutti i
migliori processi di sviluppo di questo mondo, possiamo infrastrutturare il territorio; ma se non c’è una Pubblica amministrazione immediata, efficace, efficiente,
pronta a dare risposte in tempi rapidissimi, avremo anche creato le condizioni necessarie, ma certamente non sufficienti per il completamento del quadro e della
cornice. Il ruolo della Pubblica amministrazione diventa fondamentale.
È impensabile ipotizzare processi di sviluppo se non si accompagnano (direi
addirittura che non sono preceduti) da processi d’innovazione. I capitoli fondamentali, i pilastri sui quali si fonda una crescita economica sono la invenzione e la
innovazione. La invenzione che non è più il frutto di una singola genialità concentrata, ma è piuttosto il lavoro di team, di équipe, di squadre che producono nuovi
saperi, che aiutano anche le imprese a creare “nuovi prodotti”; che, insomma, determinano quella innovazione sia nei processi sia nei prodotti che aiutano anche
l’apparato produttivo (ma non sono l’apparato produttivo) a rendere il territorio
competitivo. Se vogliamo aiutare a creare quell’appeal necessario perché poi, anche
su quel territorio s’incrementino e si aggiungano nuovi insediamenti, nuove attività, non solo sul piano produttivo ma anche su quelli che possiamo definire gli altri
quadranti dello sviluppo.
Quando parliamo, però, d’innovazione nel Mezzogiorno, siamo costretti a
registrare gravi carenze non solo rispetto al Centro-nord, ma anche rispetto ad altri
Paesi industrializzati. Se è vero che per la ricerca nel Mezzogiorno noi spendiamo
qualcosa come un quarto rispetto a quanto si spende in termini percentuali di PIL
nel Centro-nord è anche vero che spendiamo un decimo rispetto a quanto si spende
in Giappone, in Germania. È evidente che questa carenza produce un processo
asfittico. Le università, i centri di ricerca hanno un compito fondamentale in questo
settore, ma devono anche loro capire che devono uscire dalla logica chiusa dell’hortus
conclusus, all’interno del quale c’è la ricerca; ma è una ricerca pura, che non trova
l’applicazione necessaria. E allora un modello del tipo del Massachusetts Istitute of
Technology, dove quattromila imprese sono nate perché i ricercatori, che sono anche studenti, non hanno solo prodotto trasferimento tecnologico per il settore produttivo, ma hanno attivato un processo in cui i ricercatori stessi aiutano a far crescere e a far nascere nuove imprese. Si tratta decisamente di un modello per noi
nuovo - se vogliamo, direi rivoluzionario - rispetto alla logica ancora un po’
borbonica delle nostre università.
È, dunque, inevitabile riflettere sull’aspetto della formazione del capitale
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umano. Noi abbiamo una generazione, purtroppo, ancora ferma sui saperi tradizionali: è la local generation arretrata rispetto a quella che oggi richiede una nuova
società, cioè la generazione globale. È questa nuova generazione che soprattutto
sulla conoscenza delle lingue, sulla capacità di intervenire anche nei processi informatici si misura e scopre anche le nuove sfide della new economy. Occorre, comunque, dire che non possiamo fare della new economy un “nuovo mito”, perché rischiamo di focalizzare la nostra attenzione su qualcosa che inevitabilmente, anche
in questo caso, rappresenta solo una parte. Invece noi abbiamo bisogno di un processo di sviluppo integrato. La new economy è dunque, una delle opportunità; è
uno strumento attraverso il quale nuovi cittadini e nuove iniziative possano crescere. Non deve, però, essere come in passato il “mito”: non è l’unica chiave di volta
dello sviluppo. Altro si può fare.
E sul “capitale umano” voglio qui fare una breve digressione che forse interessa poco, ma che io ritengo sia importantissima. I processi di sviluppo, e soprattutto il sostegno alle attività produttive presuppongono anche una serie di aiuti, di
incentivi, di sostegni che supportino le imprese che decidono d’investire in un contesto complessivamente ancora non favorevole. Ma all’interno di questo contesto
non complessivamente favorevole non possiamo trascurare la fase del “consolidamento” delle imprese, perché altrimenti continueremo a registrare un’alta natalità
di imprese, ma anche una altissima mortalità. C’è bisogno, quindi, nella fase di startup, come si dice, di un sostegno che, però, deve anche sapersi coniugare con la
sicurezza sociale, con le condizioni di vita dei cittadini e dei lavoratori. Allora questa esasperazione del concetto di flessibilità, che soprattutto dagli industriali ci viene ammannita come la panacea di tutti i mali, è qualcosa da prendere con grande
prudenza, perché non vorremmo ripetere le esperienze di altri Paesi. Certo si sono
avuti risultati anche interessanti in Paesi come gli Stati Uniti d’America e la stessa
Inghilterra, per effetto delle politiche thatcheriane o reganiane. Ma è anche vero che
quelle politiche hanno fatto crescere i forti e indebolire ancora di più i deboli; si è,
quindi, allargata la forbice sul piano sociale. Certo, un modello del tipo olandese
potrebbe probabilmente aiutarci: ma non è questo né il momento, né la sede opportuna per parlarne.
Allora io credo che questo Mezzogiorno ha vincoli sistemici: tra questi il
sistema del credito risulta purtroppo ancora attestato su operazioni di sola
intermediazione bancaria. È un sistema che non osa come avviene in altri paesi; non
partecipa al capitale di rischio. Il venture capital è qualcosa che qui non esiste, è un
tabù per il sistema del credito; il project financing, è tema per analisi accademiche.
Ad esempio la Provincia di Avellino ha avviato un’iniziativa coinvolgendo delle
banche per attivare questi nuovi strumenti della “finanza innovativa” che purtroppo sono ancora inattuati, e che possono portare ad altre forme di finanziamento.
Ecco dunque che si integrano sistema del credito, sistema del capitale umano e il
sistema delle infrastrutture. Sono questi i nodi critici sui quali noi dobbiamo assolutamente misurarci. E abbiamo pensato - noi, quattro presidenti di Provincia, d’intesa con tutti i consiglieri provinciali - di avviare questo lavoro costruendo questa
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“catena istituzionale”, che è una catena aperta, alla quale peraltro si aggiungono
altri anelli. Potenza vuole ad esempio aggiungersi; abbiamo in corso una intesa anche con le altre province del Sud-est (ne abbiamo parlato anche ieri a Roma). È
quindi una catena che si allunga.
Non si tratta di fare movimentismo, come qualcuno ha detto. Anzi qui voglio respingere quest’accusa perché la nostra scelta è determinata. Non è
movimentismo ma è la capacità di assumersi una responsabilità, di sapere che oggi
le vie dello sviluppo passano attraverso la valorizzazione di ciò che è locale, perché
questa catena istituzionale, questa coalizione istituzionale, questo contatto tra sistemi territoriali che si avvicinano e si toccano inevitabilmente producono un effetto. Si tratta di far nascere un laboratorio dello sviluppo dal basso. Probabilmente è
il Mezzogiorno e all’interno del Mezzogiorno sono queste quattro province. Non
so se riusciremo nell’intento. Credo, comunque, che abbiamo il dovere e, soprattutto, l’entusiasmo per tentare.
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