Seminar - "Pubblica ammministrazione e gli scrittori dell`800"

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Seminar - "Pubblica ammministrazione e gli scrittori dell`800"
Formez- Research and Development – News Programs
Convention Formez & Campania Region
Seminars Cycle
“The frontier innovation on Public Administration”
Lello Esposito, important contemporary artist from Naples, kindly donated this picture, enriched with the colours of the
Mediterranean:blue, green and yellow
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Guido Melis – Seminar of 04th October 2004
The views expressed do not imply the expression of any opinion whatsoever on the part of the
United Nations and of Italian Department for Public Administration, and Formez
INTRODUZIONE
Monsù Travet: s’avanza uno strano impiegato
Il 4 aprile 1863, a Torino, nel Teatro Alfieri, viene messa in scena per la prima volta una commedia
in dialetto piemontese del commediografo Vittorio Bersenzio. E’ un testo che farà parlare di sé. Si
intitola Le miserie di Monsù Travet. Racconta per la prima volta con crudo realismo e non senza un
tocco di sociologismo, l’avventura borghese, anzi piccolo borghese, dell’impiegato dello Stato,
quello d’ora innanzi si chiamerà, con malcelata commiserazione, il travetto. Monsù Travet è
impiegato in un ministero della Torino risorgimentale. Monsù ha una moglie pretenziosa, una figlia
nobile da sposare, una casa al centro di Torino della quale deve mantenere il decoro. Tutta la sua
vita si svolge nella contraddizione tra l’essere e l’apparire. L’essere è rappresentato dallo stipendio
dello statale, sempre più insufficiente, sempre meno bastevole ad assicurare il pane; l’apparire sono
le necessità della rappresentazione sociale, per cui il servitore dello Stato, in virtù della funzione
privilegiata che gli è assegnata, non può mescolarsi neanche per un attimo con i ceti inferiori, specie
con quei ceti illetterati che invadono in quegli anni la platea della città borghese: gli artigiani, gli
impiegati privati, specialmente i bottegai. E’ proprio un bottegaio il padre del pretendente della
figlia di Travet. A quel matrimonio, che lo imparenterebbe con una famiglia agiata ma priva di
prestigio sociale, Travet si oppone con tutte le sue forze.
Monsù alla fine cede e in una specie di catarsi finale, si licenzia egli stesso dall’impiego dello Stato
per seguire il suocero nella nuova attività degli affari commerciali. Sullo sfondo Bersenzio mette
magistralmente in scena la realtà umiliante degli uffici ottocenteschi: i regolamenti autoritari, i
superiori arroganti, i colleghi invidiosi e ostili, la vita alienante del copista. Nel film che Mario
Soldati trarrà nel 1945 dal testo di Bersenzio, un indimenticabile Carlo Campagnini calzerà “le
mezze maniche”, il simbolo della burocrazia e darà vita magistralmente al personaggio dello
sconfitto , ( del deracinè) del dolente e rassegnato esponente di un universo di vinti.
Esordisce così, sulle scene letterarie oltrechè teatrali, l’impiegato pubblico italiano. La sua epopea,
se così si può dire, è già sin dall’inizio quella di un alienato, la sua figura è, quasi proverbialmente,
quella di un vinto. Eppure siamo ancora nel 1863, e in Piemonte. Siamo cioè nei tempi e nel luogo
dove la burocrazia dell’Ottocento conosce la sua espressione migliore e ottiene il riconoscimento
sociale più visibile. Quella burocrazia tuttavia, pur costituendo il nerbo del nuovo Stato, è
realisticamente simile a Travet. Il regolamento Cavour del 1853 è la prima carta dei doveri assai
meno dei diritti degli impiegati statali: orari d’ufficio indefettibili, mattina e pomeriggio con
l’interruzione del pranzo talvolta da consumarsi nel chiuso dell’ufficio; obblighi di presenza
domenicale, obbligo di pulire a turno i locali; disciplina ferrea, sanzionata da un vero e proprio
catalogo di punizioni; obbedienza assoluta; sottomissione ai superiori senza remissione; doveri
d’ufficio che si estendono alla vita privata, nella quale occorre tenere condotta irreprensibile,
esemplare, abbigliamento canonico; frequentazioni extra lavoro vigilantissime. Insomma, un
universo autoritario che forgia l’impiegato, ne fa davvero il braccio esecutivo dello stato, la sua
personificazione sociale.
Di questo paradosso (un uomo in carne ed ossa ridotto a simbolo dell’istituzione) la letteratura
coglieva dunque precocemente tutta la portata. Bersenzio metteva alla berlina il suo travet in pagine
di buon effetto comico; ma alla fine indulgeva alla tragedia, alla commiserazione: ne faceva un
personaggio patetico, il piccolo ingranaggio schiacciato dalla possanza del meccanismo di cui
veniva a far parte. La contraddizione tra l’essere e l’apparire, ma anche tra l’essere e il dovere
essere dell’impiegato, dominava la rappresentazione.
Il paradosso dell’impiegato inattuale: Policarpo
Proseguiamo il nostro viaggio nella letteratura ottocentesca:in un racconto del 1859, L’impiegato e
la sua famiglia, uno scrittore minore, Paolo Bettoni, trascrive il bilancio mensile della famiglia
burocratica:
“Al fornaio, lire 20; legna e carbone, lire 8; alla lavandaia, lire 5; fitto di casa, lire 20; colazione e
pranzo, lire 60; olio e candele, lire 8; alla serva, lire 6; nolo del pianoforte, lire 8; oggetti di vestiario
e scarpe, lire 20; altre piccole spese, lire 6. Totale, lire 161”1
Se prestiamo attenzione a questo piccolo elenco, colpiscono quelle che potremmo chiamare “spese
di status”: la serva, perché chi lavora per lo Stato non può costringere la moglie a sobbarcarsi i
lavori del mènage domestico; il nolo del pianoforte, perché è fine educare i figli alla musica; il
vestiario e le scarpe, perché in ufficio, dove si indosseranno le mezze maniche per preservare la
giacca, si deve andare vestiti in modo irreprensibile; il fitto, perché si deve vivere in luoghi adatti,
nei quartieri borghesi e non in quelli popolari, possibilmente attorno alle sedi delle amministrazioni
nelle quali ogni mattina ci si reca a lavorare.
Gli studi sulle abitazioni degli impiegati ottocenteschi, infatti, consentono di tracciare, grazie ai
fascicoli personali dei dipendenti, la mappa dei loro domicili: una rete dislocata intorno alle sedi dei
ministeri, a Torino come a Firenze, ma soprattutto a Roma, dove dopo il trasferimento della capitale
i quartieri burocratici sorgeranno secondo una logica di accorpamento che prima d’essere
urbanistica è sociale e politica. Per dirla con Maggiorino Ferraris, un esponente non secondario
della classe politica liberale di fine ottocento, gli operai in periferia concentrati nei quartieri1
Paolo Bettoni, Un impiegato e la sua famiglia, Racconto contemporaneo
banlieu, come nella Parigi dei grandi riassetti urbani di Napoleone III; gli impiegati nel centro
urbano a far da cintura protettiva, con la loro fedeltà alle istituzioni, nei confronti delle classi
potenzialmente sovversive.
L’impiegato dell’Ottocento, coi suoi tic e le sue palesi contraddizioni, è al centro di una
rappresentazione letteraria coeva molto efficace; sebbene non si possa non osservare subito, quasi
preliminarmente, come questa messa in scena dell’impiegato on Italia differisca alquanto dalla
grande tradizione della satira anti burocratica francese e russa alla quale, forse, direttamente voleva
ispirarsi. C’era stato, Flaubert, e prima ancora Balzac, in Francia.
C’era Gogol, e le sue anime morte in Russia. In Italia niente di simile alla messa sotto processo
balzacchiana della società borghese della Restaurazione; nulla che somigli alla potente critica della
Russia zarista da parte dei Russi. Piuttosto quadretti, vignette scritte, deliziose messe in ridicolo
macchiettistiche a un passo dal giornalismo di genere.
Così nel capolavoro di Gandolin, famoso umorista d’inizio Novecento, al secolo Luigi A. Vassallo:
La famiglia dè Tappetti /1903). Policarpo, il protagonista del libro, “incauto padre e scrivano presso
il fondo del culto”, vive in prima persona la stessa scissione di Travet tra ruolo pubblico e
condizione privata. Pretenzioso il primo, infima la seconda. Da una parte c’è l’etica del rispetto
gerarchico appresa nell’ufficio e dall’altra la contestazione del suo stesso prestigio di genitore che
lo tormenta nella vita familiare; da una parte c’è il decoroso ordine imposto dalla funzione pubblica
e dall’altra il disordine proverbiale della sua vita domestica.
Una casa con due camere e cucina in un palazzo fatiscente, umido, al centro della Roma fin de
siecle ( il rapporto stipendio- costo della vita, in quegli anni, è ancora meno favorevole di quanto
non fosse nel 1860 per Travet: del resto Giolitti inaugurerà di lì a poco “la politica degli umili”, cioè
un tentativo - solo in parte riuscito di difendere i bassi stipendi burocratici); l’arredamento
pretenzioso e squallido insieme, specchio delle ambizioni di ascesa sociale, ma anche dei limiti
culturali e di gusto dei padroni di casa; lo stipendio di 95 lire al mese del quale ben 45 se ne vanno
per la pigione ( è degli anni Settanta una celebre inchiesta ministeriale sulle pigioni degli impiegati:
dagli esiti sconvolgenti) un’esistenza quotidiana angustiata dai debiti col fornaio e col salumiere e
dall’ansia di dover tuttavia mantenere, per lo meno nell’esteriorità, l’immagine consona alla
condizione di dipendente dello Stato. E poi i valori della piccola borghesia burocratica: le sue
abitudini, il culto dei suoi doveri civici, ad esempio. Le reminescenze di una improbabile cultura
classica che riemerge di continuo nell’ampollosa retorica di Policarpo, impegnato ad educare il
figlio adolescente secondo i dettami d una pedagogia che mima comicamente quella ufficiale
dell’Italia umbertina), l’ammirazione per l’esercito e per il patriottismo delle sfilate militari nella
Roma domenicale, il senso geloso della propria posizione nella scala sociale ( che vuol dire rispetto
sino all’umiltà verso i superiori ma anche arroganza e senso di superiorità verso gli inferiori “
“Rappresento - dirà Policarpo in un momento di solenne rivendicazione del proprio status - l’amore
della famiglia, l’ordine, il progresso, la moralità”.
Anche Policarpo, come Travet, ha una sua trasposizione cinematografica, in un non dimenticato
Policarpo “ufficiale di scrittura”girato nel 1959, sempre da Mario Soldati, con Renato Rascel nella
parte principale. Solo che la vitalità un po’ stralunata di Rascel traduce Policarpo in una specie di
impiegato modello ( o presunto tale) che si fa odiare dai colleghi perché pretende di lavorare di più
e più intensamente, affligge i superiori riluttanti con continue proposte di miglioramento del
servizio, gioca al primo della classe senza esserlo, si esibisce in esilaranti sfide con la tecnologia
avanzata dell’epoca, la macchina da scrivere. Mentre Policarpo è nel libro, piuttosto l’incarnazione
della retorica ottocentesca dell’impiegato di Stato : satira di valori che la cultura del primo
Novecento sentiva già come superati, rappresentazione comica dell’inadeguatezza di modelli
psicologici e codici di comportamento ricalcati su clichès ormai inattuali.
Il punto focale è, sia in Travet che in Policarpo, nella inattualità dell’impiegato vecchio stile, nella
sua incapacità di stare al mondo, nel mondo moderno, grande e terribile, come forse avrebbe detto
Gramsci, mettendo in pratica il catalogo di virtù canoniche apprese sui regolamenti d’ufficio.
L’amministrazione, sin dall’inizio, è un passo indietro rispetto ai suoi tempi. Forma e mette in
circolo uomini nutriti di valori che la società attorno sente come superati. Propone una visione del
mondo che è sentita come risibile.
Pochi anni prima un grande scrittore italiano, certo più importante di Gandolin, aveva ambientato
nel grigiore degli uffici, piuttosto uffici privati ma qui il punto non rileva, l’avventura umana del
suo dolente protagonista.
Emilio De Marchi e il suo Demetrio Pianelli (1890) Siamo questa volta nella Milano di fine secolo,
quella delle prime banche miste, dei primi uffici al centro, dell’industria allo stato nascente,
dell’edificazione della città borghese. Il dramma, perché questa volta di dramma si tratta e non più
di messa alla berlina, è quello di un oscuro, piccolo copista, Demetrio Pianelli, sovrastato ad un
tratto senza sua colpa ( lui che proverbialmente ama stare al riparo dalle intemperie del mondo,
nella nicchia protettiva del suo mondo piccino) sovrastato dicevo da una tragedia.
Il fratello scapestrato, impiegato a sua volta ( c’è anzi nel libro un flash vivacissimo del mondo
burocratico, colto nell’istante della ricreazione attraverso il ballo al circolo degli impiegati) si
suicida, dopo aver contratto ingenti debiti di gioco. All’improvviso il povero Demetrio si trova,
oltre a dover fronteggiare l’onta sociale che ne deriva, a dover fare da padre ai nipoti ancora
bambini e da tutore alla bella, eccessivamente bella, cognata.
Questa, insidiata proprio dal capo ufficio di Demetrio, pone subito il nostro protagonista nella
angosciosa alternativa di dover scegliere tra due codici: il primo, pubblico, gli suggerirebbe di stare
al suo posto, di rispettare comunque il superiore, di accettare e tacere; il secondo, privato, gli
impone viceversa di proteggere - lui che è adesso l’uomo di casa - la virtù della cognata e l’onore
del fratello morto.
Sceglierà naturalmente la seconda strada, ma a prezzo di una vera e propria tragedia personale, nella
quale sacrificherà, in nome della sua dignità di uomo, tutti i vantaggi della carriera e della posizione
sociale allorchè inevitabilmente sarà trasferito in Sardegna. Questa tragedia non è distante dalla
dicotomia di fondo che abbiamo già rilevato in Travet e Policarpo: il dentro e il fuori, l’ufficio e il
mondo esterno, i doveri dell’impiegato e quelli dell’uomo.
Si intuisce qui il peso della contraddizione che già i regolamenti dei ministeri hanno codificato in
una serie coerente di norme separate e che fra breve, nel primo stato giuridico degli impiegati del
1908, Giolitti tradurrà in un'unica legge generale: la contraddizione tra l’impiegato e il cittadino, tra
i doveri speciali del servitore dello Stato ( che in nome di questa sua appartenenza rinuncia ad
alcuni diritti fondamentali) e l’essere e il sentire del cittadino comune. Una forbice terribile di cui si
occuperanno i primi sindacati di impiegati.
Ma in De Marchi c’è anche dell’altro, e vale la pena di annotarlo. C’è, se si legge con attenzione,
una vivida rappresentazione dell’alienazione dell’impiegato. Demetrio di quell’alienazione è, sin
dal suo apparire nel libro, quasi la raffigurazione emblematica . Si legga questo brano, davvero
illuminante, nelle prime pagine:
“Arrivato al suo posto, che era un tavolo accanto a una finestra, difeso contro i colpi d’aria da un
vecchio e logoro paravento, tolse prima di tutto il sigaro di tasca, lo guardò alla luce se c’era tutto e
lo collocò come una preziosa reliquia sopra lo sporto della finestra. Aprì il cassetto e controllò i due
panini nel cartoccio. Fece una rapida ispezione al suo cappello rotondo, vi picchiò su con un
buffetto per ispazzare via un filo di polvere, lo tuffò delicatamente in una custodia di carta fatta
apposta e lo collocò nella sua vestina sull’ometto. Poi aprì un altro cassetto e trasse fuori le due
manichette di tela lucida ch’egli metteva per scrivere. Se le infilò: diede una nervosa e rapida
fregatine alle mani, chiudendo gli occhi, accartocciando tutte le rughe della faccia. Poi cominciò la
diligente pulizia degli occhiali”.
Si badi: è quasi una sequenza cinematografica. I gesti consumati di una routine che si ripete ogni
giorno uguale, obbedendo agli automatismi inconsci di una vita che è essa stessa, persino nelle ore
del tempo libero, modellata dalla frammentazione del tempo, dalla successione dei movimenti e dei
pensieri stessi secondo codici procedurali inesorabili. Una vita quasi protocollata, pronta ad essere
archiviata alla fine come una qualsiasi pratica.
La prevedibilità della vita d’ufficio, in questo contesto, rappresenta il riparo contro i pericoli del
mondo esterno; l’ordine maniacale del lavoro si contrappone al disordine e alla sregolatezza di una
società che (siamo nel pieno della crisi di fine secolo) il personaggio sente come ostile e dalla quale
vuole fuggire. Nel mondo chiuso nel quale Demetrio vive sereno persino la disposizione degli spazi,
il posto occupato dai mobili, le differenti distanze tra le scrivanie, la comodità o scomodità delle
sedie concorrono a stabilire in partenza, quasi per automatismo, i rapporti gerarchici: Pianelli in “un
tavolo accanto alla finestra, difeso dai colpi d’aria da un vecchio e logoro paravento”, “il tavolone
del cavaliere, pieno di carte e di allegati, (…..) posto nel mezzo della parete, sotto un bel ritratto del
re, tra due campanelli elettrici, poco lontano dalla bocca del calorifero”.
Tutto, insomma, è già dato, prestabilito. Nel grande ingranaggio dell’amministrazione ( non era
stato Cavour a parlare nel 1853 di “rotismi amministrativi”?) la rotella umana si colloca senza
nessuna frizione: va al suo posto e ci resta per sempre.
Fondamentale, nel quadro, la puntualità. Dirà De Marchi del suo Demetrio che, incontrandolo al
Cordusio, puntuale come un orologio tutte le mattine alle 8, le sartine affrettavano il passo . La vita
regolata della città borghese fa da cornice alla vita regolata dei suoi nuovi travet: il nuovo mondo
urbano e industriale pulsa all’unisono, senza scarti o ritardi di sorta. La sicurezza del copista
sperimentato ( “quell’abilità automatica che acquista la mano di chi scrive molto, che sa andare da
sé e quasi ragionare da sé, anche quando il cervello è assente” ) contrasta però con la timidezza
interiore di Demetrio, con la sua insicurezza di uomo fragile. Qui sta il punto debole, e qui sta la
grandezza letteraria di De Marchi: qualcosa, nell’intimo, non è a punto; nonostante tutto i
sentimenti confliggono con il mondo che li sovrasta e li comprime.
De Marchi non è il solo a cogliere questo dato cruciale. C’è in Pianelli quello stesso senso di
estraniazione dal mondo che, più o meno negli stessi anni, ritroviamo in una celebre novella di
Luigi Pirandello, Il treno ha fischiato…..Qui il protagonista, l’impiegato Belluca, è descritto con
queste parole:
“Uomo più mansueto e sottomesso, più metodico e paziente di Belluca non si sarebbe potuto
immaginare. Circoscritto….., si, chi l’aveva definito così?Circoscritto, povero Belluca, entro i limiti
angusti della sua arida mansione di computista, senz’altra memoria che non fosse di partite aperte,
di partite semplici o doppie o di storno, e di defalchi e prelevamenti e impostazioni: note, librimastri, partitarii, stracciafogli e via dicendo. Casellario ambulante; o piuttosto vecchio somaro, che
tirava zitto zitto sempre d’un passo, sempre per la stessa strada la carretta, con tanto di paraocchi”
4. Gino Bianchi e la standardizzazione della vita.
Ancora un passo avanti, ancora un grande scrittore italiano alle prese con il “mondo gnomo” della
burocrazia. Nel 1915 Piero Jahier pubblica nei “Quaderni della voce”il suo Resultanze in merito
alla vita e al carattere di Gino Bianchi, stralunato racconto, scritto quasi a mò di verbale o di
relazione ufficiale, di una vita concreta che viene vissuta e quasi protocollata alla stregua di una
pratica burocratica. La giornata del burocrate, nella graffiante ricostruzione che ne fa Jahier, si
modella pedissequamente sui ritmi e sui modi dell’ufficio. Persino nelle funzioni più intime e
private: “a Gino Bianchi – annota Jahier – il dovere coniugale cominciava a fare la stessa
impressione che sfogliare la corrispondenza d’ufficio” .La sua settimana privata è condensata in un
prospetto simile a quelli dei moduli ufficiali, nel quale ogni atto o funzione si colloca in un orario
prestabilito e prevede tempi di espletamento precisi. Per esempio:
“Lunedì, ore 8 si alza; ore 8,30, doppia il portone dell’Ufficio; ore 9 evacua (anche per la
domenica); ore 9,30, legge in Ufficio il giornale; ore 10,15 conferisce col superiore; ore 11 evade
pratiche; ore 11,45, si spolvera, si liscia, minge; ore 14,20, doppia il portone dell’Ufficio; ore 14,3016,30 silenzio assoluto, respirazione regolare, occupazione ignota; ore 17, evade pratiche; ore
17,45, si spolvera, si liscia, minge; ore 18-19 guarnisce il centro della città, inventaria le vetrine.
Calcola approssimativamente il calore sessuale delle donne che incontra per strada; ore 19-20, cena;
ore 21 si corica ( il sabato a questa voce si aggiunge “compie il dovere coniugale”)”.
Anche Jahier insiste su quelle che – ormai lo sappiamo - sono le tipologie ambientali. “ Solo un
profano – scrive – potrebbe credere che gli impiegati di una stanza son uguali e ripartiti a caso.
Come mai, allora, si deve chiedere a questo profano, come mai entrando in una stanza dove sono in
parecchi, se ne vede uno solo, ci si rivolge naturalmente a uno solo? E’ perché tutto è ripartito
scrupolosamente in una stanza, a seconda del grado e dell’anzianità: la luce, l’aria, come il minimo
mobile. E’ superiore chi ha la luce da sinistra, in modo da non farsi ombra col braccio, scrivendo; è
superiore chi ha autorità di aprire o chiudere la finestra, chi ha almeno due ètageres e qualche volta
un armadio; chi ha una sputacchiera, ma soprattutto chi ha una scrivania orientata bene, il cui
seggiolone a braccioli abbia figliato lateralmente una sedia di Vienna, per far accomodare i
visitatori.E’ orientata bene la scrivania in faccia alla porta d’accesso, la scrivania che esclude la
familiarità della posizione leggitutto, la scrivania che pone al visitatore il riguardoso “di fronte”.
Non meravigliamoci troppo di questa descrizione . Del resto decreti anche recenti ripropongono lo
stesso nesso tra arredo e posizione gerarchica. Ha scritto Angelo Mari, nel recente volume Impiegati
(e parliamo di oggi): “ L’organizzazione riserva al dirigente alcuni privilegi, che lo distinguono dal
resto degli impiegati. Con minuziosi decreti del Ministro del tesoro si stabiliscono le caratteristiche
degli “ambienti” dirigenziali: avere una stanza singola con mobili in legno, compresi una libreria e
un piccolo divano per i dirigenti meno importanti; a questi arredi si aggiunge un tavolo riunioni,
qualche pianta d’arredamento e qualche quadro più pregiato per i direttori generali, ma soprattutto
questi ultimi sono “visibili” e si distinguono per avere a disposizione la “macchina di servizio”, che
li preleva da casa la mattina e li accompagna per tutti gli spostamenti della giornata”.
Piuttosto conviene insistere sul nesso tra la stralunata descrizione che Jahier fa dell’impiegato Gino
Bianchi e gli eventi che, nel 1915, incombevano sull’amministrazione. Alludo soprattutto alla
circolazione, dietro la suggestione esercitata dalla organizzazione industriale moderna ( in America
sono gli anni del fordismo ) del mito tayloristico del taglio dei tempi, della nuova tecnica del
calcolo della produttività. Anche gli uffici (stavo per dire, persino gli uffici), per i quali in Italia un
gruppo di pionieri capeggiati dal dirigente delle Poste Torquato Carlo Giannini propone l’adozione
del “taylorismo amministrativo”. Sicchè la rappresentazione grottesca di Jahier, che razionalizza
tayloristicamente il nulla della vita di Gino Bianchi, assume anche il significato di una satira feroce
ai miti della modernità e del controllo del tempo sociale.
Ma Jahier non è il solo, né il primo, a cogliere il punto nuovo dei ritmi burocratici, a mettere in
risalto la distanza che divide lavoro delle mezze maniche e razionalizzazione tayloristica. Prima di
lui un’autrice famosa, Matilde Serao, ha felicemente descritto, senza intenti sarcastici però, la vita
affannata e il lavoro alienante di un gruppo di telegrafiste napoletane, negli ultimi decenni
dell’Ottocento. Telegrafi di
Stato. Romanzo per le Signore (così il suo sottotitolo), non è
propriamente una lettura svagata, per quanto metta in scena, secondo il gusto dell’epoca e
dell’autrice, amori, disinganni sentimentali, miserie umane. Nel caso di questo gruppo di ausiliarie
di Palazzo Gravina, a Napoli, c’è soprattutto la realistica rappresentazione dell’alienazione
industriale. Sì, industriale, perché i telegrafi sono, alla fine del secolo, un grande apparato
industriale, attraversato da forti spinte al dinamismo e all’innovazione, nel quale gli addetti (e le
addette: sono uno dei pochi settori, coi telefoni di Stato, dove le donne siano ammesse agli impieghi
pubblici) sono sottoposte a stressanti ritmi di lavoro:
“Cominciavano la loro giornata di lavoro, senza ridere, tutte occupate meccanicamente in quei
primi apparecchi: curve sulle macchine, chi svitava il coltellino d’acciaio che imprimeva i segni, chi
metteva un rotolo nuovo di carta, chi bagnava d’inchiostro, con il pennello il cuscinetto girante, chi
provava l’elasticità del nastro”,
Non vi sfuggirà che qui, per la prima volta, fa irruzione un protagonista inedito: la macchina. Per
Caterina Borrelli , Maria Vitale, Annina Caracciolo e le altre giovani protagoniste del racconto il
lavoro dell’apparato è già alienazione, con l’ossessiva ripetitività dei movimenti, col taglio dei
tempi, con le tabelle di produttività da rispettare, i sorveglianti, la competitività tra impiegate:
“Tutte le macchine, Morse, Siemens, Hughes, doppia Hughes, erano in movimento, i due capoturno
erano presenti, andando e venendo, come sonnambuli, col sigaro spento, un fascio di telegrammi in
mano. La porta di comunicazione con la sezione femminile era semiaperta, caso nuovissimo, ma
nessuno si voltava. Nella sezione femminile erano presenti tutte le ausiliarie, ognuna a una
macchina; la direttrice andava e veniva. La vice-direttrice (….) correva da una macchina all’altra,
riordinando dispacci, regolando i sistemi di orologeria, dando l’inchiostro, lesta come uno
scoiattolo, le mani pronte, l’occhio vivo, la parola alta e breve. I telegrammi nascevano,
sgorgavano, spuntavano da tutte le linee; su tutte il ritardo era di tre ore, i telegrammi da trasmettere
si ammonticchiavano, formavano fasci, manipoli, cumuli; mentre se ne trasmetteva uno, ne
arrivavano cinque da trasmettere; mentre si finiva di trasmettere una serie di dieci, ne restavano
fermi cinquantadue. Le ausiliarie erano prese dalla febbre, che ogni ora saliva di grado”.
La febbre del lavoro non è un dato comune nell’universo burocratico. Qui siamo infatti alle streme
propaggini di quel mondo, nel pieno del settore più nuovo dell’amministrazione italiana.
Anche Nyta Jasmar, pseudonimo di un’impiegata telegrafica di Budrio, Clotilde Scanabissi
Samaritani, descrive nei suoi Ricordi di una Telegrafista (1913) la realtà dei telegrafi. Ma qui
prevale, sulla descrizione del lavoro ( che pure c’è, sebbene di sfondo ), la doppia vita di una
giovane donna, telegrafista di giorno e sofisticata figlia del secolo di notte, raccontata secondo i
modi del dannunzianesimo allora di moda come un personaggio insofferente alle regole sociali,
dedita nella sua seconda vita segreta al lusso e all’erotismo, improbabile incarnazione di una
duplicità inesistente nella realtà. La donna, sembra dirci la Jasmar, non è compatibile con l’ufficio:
troppo libera è la sua fantasia, troppo anticonformista la sua vocazione alla vita, per iscriversi
pedissequamente come Travet o Demetrio Pianelli nel modello di esistenza tutto ufficio e dovere.
Tesi che nel romanzo sembra riecheggiare antesignane suggestioni femministe ( forse anche
futuriste ), ma che collima anche con il senso comune dell’epoca: “Il perfetto vademecum della
signorina impiegata – dirà alla Camera nel 1921 il deputato Bertolino, criticando le troppe donne
che tolgono il posto agli uomini negli uffici pubblici – è quello di assentarsi saltuariamente, di tanto
in tanto, per alcuni giorni nessuno dei quali, beninteso, cade di domenica; e durante le ore di ufficio
le operose attendono alla fabbricazione di fiori, e quelle a tendenza sentimentale a lettura intensiva
dei romanzi di Guido da Verona od altri simili, con gite collettive per i corridoi a chiacchierare con
speciale considerazione per i fattacci del giorno”.
Gli anni del dopoguerra sono segnati da due romanzi che riprendono e descrivono in modo
analitico l’amministrazione pubblica: il primo di Carlo Montella con Incendio al Catasto e il
secondo di Emanuele Bettini Lo Scatto.
Incendio e Catasto descrive l’ufficio di un catasto in una Città di Provincia. L’impiegato che è
protagonista del libro è un personaggio lento e flemmatico che lavoro in un luogo come un qhe
rappresenta un quadro desolante della realtà burocratica in Italia.
Infatti, gli anni del dopoguerra sono quelli più desolanti per la pubblica amministrazione, perché
mentre era in atto la seconda rivoluzione economica, (si pensi all’espansione del mercato
automobilistico) la pubblica amministrazione appariva vecchia e desolante che i grandi giornalisti
definirono in quegli anni la “palla al piede” della società italiana.
Questo divario che in parte era retaggio dell’età giollittiana dove l’amministrazione diventa
l’ospedale dove riparare coloro che non entrano nel sistema industriale. Sono proprio questi gli anni
che inizia quel fenomeno che ancora oggi è il vero dramma dello Stato Italiano: quello di essere
l’unico paese che vive una divarificazione così forte tra i due sistemi: economici ed amministrativo.
Infatti, il nostro paese parla due diversi linguaggi uno al mondo economico/industriale con accento
del nord e un altro al mondo amministrativo/burocratico con l’accento del sud.
Lo Scatto di Bettini si svolge alle poste tra gli ultimi anni del fascismo e i primi anni della
Repubblica. Descrive in che modo la burocrazia si adatti al mutamento dei regimi. Questo romanzo
analizza i rapporti personali tra impiegati dove prevale la figura negativa di un tipico arrivista che si
appoggia alle diverse strutture politiche (fascismo, democristiani) per fare carriere.
Cito altri due romanzi che hanno caratterizzato la letteratura del dopoguerra e sono:
l’Ultima Provincia di Luisa Adorno dove al centro del romanzo c’è un prefetto grasso ed immobile
con il suo disagio di vivere in una società minacciosa;
Un Borghese Piccolo Piccolo di Vincenzo Cerami, diventato poi un film con protagonista Alberto
Sordi e diretto da Mario Monicelli . La figura centrale è di un impiagato dello Stato con tutte le
sue frustrazioni. Elemento interessante di questo romanzo è l’eredità dell’impiego da padre in
figlio,tipico dell’Italia del dopoguerra che sottolinea una matrice familistica lontana da una
amministrazione moderna.
Ora mi vorrei soffermare su due romanzi che trattano delle figure amministrative degli ultimi anni:
la Concessione del telefono e i Buorosauri
La Concessione del Telefono di Andrea Camilleri dove c’è un tentativo di ricostruzione del
linguaggio che in parte si potrebbe accostare alla grande operazione linguistica condotta da Gadda.
Il romanzo descrizione di un'Italia di fine Ottocento, la cui unità risale ad una trentina d'anni
appena, e di una classe dirigente che deve governare in un paese imprevedibile ed eterogeneo in cui
le varie gerarchie del potere risentono ancora di una burocrazia farraginosa e giudicano per antichi
preconcetti. Chi viene preso nelle maglie dell'amministrazione rischia di non venirne più a capo è il
di una pratica di una concessione telefonica oggetto del romanzo
I Burosauri una commedia in due tempi di Silvano Ambrogi degli anni 60. la commedia apre con
questa descrizione “ Lo spaccato di un ufficio di un ministero romano: a destra lo stanzone degli
impiegati piuttosto squallido con due piccole scrivanie da un lato e due da un lato opposto ed in
mezzo il tavolino della dattilografa quasi attaccato ad una parete gremita di fascicoli accatastati in
impalcature rudimentali , basta muovere uno di essi che subito si leva una fitta polvere”
Nello specifico la commedia, scritta nel clima di centro-sinistra, racconta una particolare giornata in
un generico ufficio di un qualsiasi ministero statale. In questo contesto agiscono personaggi di
indubbio realismo, ma resi grotteschi dal loro gergo e dall’osservanza di rituali futili ed ossessivi,
da società segreta. Esseri della mitologia burocratica, paralizzati dalla paura della più insignificante
responsabilità ed iniziativa, afflitti dalla cronica incapacità a riconoscere i veri problemi, abili solo a
dilazionare.
I Burosauri invenzione linguistica straordinaria ripresa nel gergo giornalistico, indica il potere di
questi pachidermici ,direttori generali che si erano formati nell’età fascista e quindi in una società
autoritaria.
Concludo citandovi alcuni film del primo dopoguerra.
Giovanni Episcopo di Alberto Lattuada tratto dall’omonimo romanzo di Gabriele d’Annunzio.
Giovanni Episcopo è un modesto impiegato che vive tranquillo e felice tra l'ufficio e la sua
cameretta
affittata in casa d'amici, fino a quando non fa la conoscenza di Giulio Wanzer un
avventuriera lo coinvolgerà in una storia di corruzione ai danni della pubblica amministrazione.
Monsù Travet del 1945 di Mario Soldato con Carlo Campanili tratto dal romanzo che ho sopra
citato di Vittorio Bersenzio.
Il Cappotto del 1952 di Alberto Lattuada con Renato Rescel tratto da un classico della letteratura
russa.
Policarpo ufficiale di scrittura con Renato Rescel e di Mario Soldato del 1959.
Policarpo, impiegatino ministeriale prima della classe che vuole rendere più efficiente la pubblica
amministrazione inemicandosi in questo modo tutti i colleghi di ufficio. C’è in questo film una
scena memorabile dove Rescel
è alle prese con le prime macchine da scrivere che furono
introdotte nell’amministrazione italiana nel primo decennio del 1900. Importante perchè
segnarono un passaggio ed un innovazione amministrativa pari a quella che noi oggi viviamo con le
nuove tecnologie. L’introduzione della macchina da scrivere fu importante perché mando in
pensione i copisti, ovvero quella categoria di impiegati che copiavano
in bella galigrafia le
pratiche.
Totò cerca casa un film del 1949 diretto da Steno e Monicelli dove in modo ironico Totò si
impadronisce delle funzione di un impiegato che si ritrova a timbrare tutto, rappresentando in modo
ironico la burocrazia .
L’impiegato di Gianni Puccini del 1959 dove prevale un impiegato, interpretato da Nino Manfredi,
disaffezionato al proprio posto di lavoro.
Il posto di Eramanno Olmi del 1961 che è il viaggio di un giovane provinciale che si reca a
Milano per un posto in una grande azienda milanese. In questo film si mette in evidenza il
passaggio da una città provinciale ad una città industriale ed l’adattamento di un giovane alla
cultura della pubblica amministrazione.
Infine, vorrei citare due film degli ultimi anni: la serie del Ragioniere Fantozzi e l’Impiegati di
Pupi Avati dove più che la figura dell’impiegato prevale la a ferocia e la concorrenzialità dei
rapporti interpersonali