vexillum - The Roman Hideout
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vexillum - The Roman Hideout
VEXILLUM Giornale della Società Italiana per gli Studi Militari Antichi Numero 2 – Ottobre 2007 1 Vexillum torna con il suo secondo numero. A consuntivo dell’esperienza scaturita dal numero uno, e a giudicare dal ritorno entusiastico di tanti appassionati, molti dei quali abbiamo avuto l’onore di conoscere proprio nell’occasione, possiamo dire con soddisfazione che gli obiettivi iniziali che ci eravamo prefissati sono stati raggiunti e superati con un successo inaspettato, tanto da poterci permettere il lusso di rinviare ai prossimi numeri, per motivi soprattutto di spazio, una consistente serie di articoli e di contributi di assoluto valore. Il bacino dei collaboratori si amplia progressivamente, e questo, naturalmente, è per noi un risultato fortemente positivo, non solo nell’ottica della crescita di Vexillum, ma anche come testimonianza di quanto lo spirito che anima la Società Italiana per gli Studi Militari Antichi venga recepito, apprezzato e condiviso tra coloro che, in Italia e non solo, vivono un forte interesse per la storia militare antica. Lo stimolo all’approfondimento secondo metodi scientifici e rigorosi e la diffusione di un interesse per la storia non subordinato a fini di lucro o di altro genere sono, evidentemente, obiettivi condivisi da molti appassionati, spesso silenziosi; noi ci auguriamo di poter costituire per loro una voce e un punto di riferimento ove tali scopi possano essere perseguiti con impegno, serietà e continuità. Per collaborare con la Società e con Vexillum non è richiesto alcun titolo: è necessaria solo una condivisione di spirito e di atteggiamento, oltre che di metodo. Non ci stancheremo di ribadire che non intendiamo ambire a invadere l’ambito accademico; il nostro obiettivo è quello di affiancarci ed interagire con esso, iterando e rafforzando una già proficua e promettente collaborazione, anche con contributi di tipo sperimentale. Auguriamo dunque a tutti una piacevole lettura con un arrivederci, sin d’ora, alla terza uscita di Vexillum, al cui embrione già si lavora con energia e passione. La redazione di Vexillum (Carlo Sansilvestri, Davide Dall’Angelo, Giuseppe Cascarino) 2 Sommario Bellum Iustum: alcune considerazioni - Parte I - Stefano Mazzatorta .................................................... 4 Le Guerre Persiane di Costanzo II, 337-361 d.C. - Carlo Sansilvestri................................................ 10 L’elmo frigio in età romana - Emilio Laguardia ............................................................................... 130 Morte e ferite sui campi di battaglia nell’era delle armi bianche - Davide Dall’Angelo ................... 140 Recensione: F.A. Lepper, Trajan’s Parthian War - Roberto dé Sanna ................................................ 201 Bozza di statuto ………………………… 3 BELLUM IUSTUM Alcune considerazioni Stefano Mazzatorta PER INTRODURRE La traduzione delle due parole di apertura è, di per sé, semplice: “guerra giusta”. Le difficoltà sorgono quando si vuole penetrare il valore profondo da attribuire a questo sintagma. Il primo termine, bellum, è quello che, in questa espressione, non presenta difficoltà; esso sta per guerra, scontro, talvolta combattimento. Ma è generalmente impiegato per indicare tutte quelle attività (non solo la battaglia) legate ad uno confronto armato tra due gruppi. È l’aggettivo che, invece, è dotato di un campo semantico decisamente più vasto e complicato; basta infatti consultare la voce iustus, a, um, di un dizionario di latino per imbattersi in accezioni che regalano all’attributo significati profondamente differenti. Ed infatti i suoi significati sono quelli di giusto, corretto, ma anche conforme al diritto, legittimo; è proprio tra queste due coppie di accezioni che dobbiamo scegliere per dare un senso all’espressione bellum iustum. Non si può certo sostenere che in espressioni come matrimonium iustum1, il significato sia quello di matrimonio moralmente giusto, ma che, piuttosto, con la sopraddetta espressione, ci si intende riferire ad un matrimonio che sia stato contratto secondo le richieste regole e norme giuridiche, dal compimento delle quali si fanno discendere certi effetti (giuridici). È in somma un matrimonio conforme al diritto, un matrimonio legittimo. Ed anche incontriamo i dies iusti, cioè i trenta giorni concessi dal diritto per il pagamento di un debito riconosciuto tramite un processo2. Anche in questo caso, il buon senso, prima ancora che una conoscenza strettamente giuridica, ci suggerisce di attribuire a questi “giorni giusti” il valore di giorni normativamente stabiliti per l’adempimento, senza che si debba ritrovare una qualche valenza morale o etica. Ed ancora, iustus exercitus è l’esercito regolarmente levato o al completo degli effettivi; il filius medesimo può essere iustus3. Di converso ci si imbatte anche in espressioni in cui iustus ha chiaramente un valore che si riconnette più direttamente alla sfera “morale” ed “etica”. Così ad esempio quando si legge iustus et bonus vir4, l’accento è messo sulle qualità morali dell’uomo. E qui, una traduzione della frase come “uomo buono e giusto” risulta soddisfacente. La dottrina5 si è affaticata a lungo per sviscerare la vera portata dell’espressione; una parte s’è schierata con l’idea che considera la guerra romana una guerra giusta, combattuta per motivi onorevoli ed eticamente validi, più recentemente alcuni studiosi italiani si sono attestati su posizioni 1 Si legga, indicativamente, cosa scrive Ulpiano: D. V, 1-2: Iustum matrimonium est, si inter eos qui nuptias contrahunt conubium sit, et tam masculus pubes quam femina potens sit, et uterque consentiant, si sui iuris sunt, aut etiam parentes eorum, si in potestate sunt. [Il matrimonio è legittimo, se tra coloro che contraggono le nozze c’è connubio; e se l’uomo è adulto e la donna è atta a procreare; e se entrambi sono consenzienti, se sono indipendenti; o se sono d’accordo i loro genitori, se invece sono sottoposti alla loro potestà.] 2 Aulo Gellio, N. A., XX, 1, 42. 3 “figlio legittimo”. 4 Ad es. in Cicerone, De Off., II, 12, 42. 5 I principali testi relativi al fenomeno saranno riportati nella bibliografia. 4 contrastanti, affermando che il bellum romano era iustum qualora fosse stato posto in essere seguendo precisi rituali che la religione, la consuetudine ed il diritto avevano stabilito. La prospettiva è, come si intuisce, radicalmente diversa e porta con sé valutazioni del fenomeno bellico romano assai differenti. Nel breve spazio di questo intervento non intendo certo analizzare tutte le posizioni che gli studiosi hanno assunto sul tema; vorrei solo offrire una panoramica delle difficoltà che lo studio del fenomeno mostra, e possibilmente tracciarne uno sviluppo cronologico, a partire dall’età più arcaica fino ad arrivare all’età di Cicerone. In questo percorso, però, partiremo dal I secolo a.C. per discendere fino all’età monarchica. In tal modo, credo, potremo avere un affresco, forse schematico e senz’altro incompleto, dell’idea che i Romani stessi avevano del loro modo di fare la guerra. Partiremo dall’età di Cicerone (ed in particolar modo impiegheremo nella nostra indagine i testi del grande oratore) per il motivo che in quest’epoca, travagliata e magmatica, il fenomeno bellico (a motivo delle vicende interne di Roma) fu oggetto se non di una riflessione analitica e “scientifica” di un’attenta considerazione; ripensamento che, non possiamo dimenticare, era sostenuto dalle contingenze delle lotte intestine che sconvolsero l’Urbe negli ultimi decenni dell’era precedente alla nostra. Una volta individuati i caratteri peculiari del concetto di bellum iustum di quest’epoca, ci volteremo indietro e andremo a cercare da quali elementi precedenti essi si siano sviluppati, provando, quindi, a tracciarne l’evoluzione storica; oppure, nel caso ci rendessimo conto che elementi comuni non ce ne sono, e che per questo siamo di fronte ad una rottura, tenteremo di rintracciare i motivi di tale frattura. Prima di procedere analiticamente con i dati che la tradizione ci fornisce, reputo opportuno scorrere, riassuntivamente, alcuni tra i più recenti studi che negli ultimi decenni sono stati proposti per la valutazione del bellum iustum. Ovviamente la dottrina relativa a questa tematica non si esaurisce a quei testi di cui brevemente tra poco parleremo. Essa è stata fatta oggetto di commenti, studi, elaborazioni dal medioevo fino ai nostri giorni e vista sotto tutti i punti di vista: filosofico, religioso, morale, giuridico, storico. Ci si potrebbe chiedere, allora, come mai si senta il bisogno di scrivere ancora sul bellum iustum. Non conosco la risposta; per quel che mi concerne penso che il fenomeno bellico sia un fenomeno che cattura l’attenzione per la complessità della quale è intriso. Esso è ben lontano dall’essere una serie di ammazzamenti, un insieme di omicidi (dando a quest’ultimo termine il significato che usualmente ognuno di noi gli attribuisce quando ne legge sulle cronache giornalistiche); coinvolge, in primo luogo, comunità e non singoli individui –anche se, senza dubbio, le sue conseguenze si riverberano drammaticamente anche sulla vita dei singoli. Comunità che possono essere rappresentate, così ci insegna la sociologia, come entità che hanno un loro comportamento che è diverso da quello della persona individuale e che non è sempre la semplice risultanza della somma dei comportamenti individuali. E poi, le guerre si possono ammantare, molto di più che la legittima difesa che sfocia nella soppressione di una vita umana, di valenze simboliche potentissime, che spaziano e abbracciano campi vastissimi e diversi dell’agire e del pensiero dell’Uomo. Ed è anche la miscela di questi e altri pensieri che mi hanno spinto ad approfondire il discorso sul bellum iustum, assecondando un mio personale interesse per la storia romana. Abbandonando questa digressione, veniamo ora a parlare di alcuni testi, relativi alla questione che stiamo affrontando e che ho scelto di citare solo come esempi e per portare l’attenzione del lettore sullo stato della dottrina, che si presenta percorso da linee di pensiero assai differenti tra loro. 5 Cominciamo con il testo di uno storico inglese. Il libro di Harris6 si occupa della questione del bellum iustum all’interno di un più ampio studio riguardante il fenomeno bellico in un torno di tempo che si apre nel IV secolo a.C. e si conclude nel I a.C. Lo studioso prende le mosse costatando che la nozione di “imperialismo difensivo”7 nasce nelle opere degli storici senza un disegno preciso e questo lo spinge a riflettere sulla mentalità e sui comportamenti tipici del popolo romano nel lungo periodo in cui esso costruì il suo impero. Nelle fonti è possibile rinvenire la convinzione che i Romani abbiano intrapreso le guerre sostanzialmente per motivi difensivi; questa convinzione avrebbe poi preso forma negli scritti politici di Cicerone di cui lo storico riporta alcuni passaggi. Harris passa poi a considerare il legame tra procedura feziale8 e la “guerra giusta”. Questa procedura venne impiegata dai Romani nel corso della loro espansione italica come tipica procedura di dichiarazione di guerra, ma probabilmente, asserisce Harris, non venne più usata a partire dagli inizi del terzo secolo (la data che all’autore sembra la più plausibile è il 281/280), quando essa fu semplificata e trasferita nelle competenze dei legati senatorii dal momento che la sempre maggiore lontananza dei nemici da Roma rendeva complicato ricorrere alla tradizionale forma di dichiarazione. In seguito le dichiarazioni di guerra divennero paragonabili alla procedura feziale solo perché anche quelle compiute degli emissari del Senato erano condizionali: il legato chiedeva il “risarcimento”9 e se questo non era concesso dichiarava guerra ai nemici. Spesso tale richiesta non era negoziabile e, in verità, neppure accettabile da parte di chi la riceveva. Tornando alla procedura più antica, l’autore dice che essa aveva qualcosa a che fare con il diritto (ius); infatti, pur non credendo totalmente alla descrizione che di essa ci hanno lasciato Livio e Dionigi, Harris pensa che sia plausibile che i Feziali usassero le parole ius, iuste e rerum repetitio. Tuttavia la giustizia della norma feziale non va confusa con il concetto astratto di iustitia o con l’aequitas di Cicerone. La “giustizia feziale” aveva un significato tecnico ed era legata alla richiesta di restituzione; nulla aveva a che spartire con un’idea filosofica di equità imparziale. L’attività dei sacerdoti, il loro porre in essere il rituale serviva a garantire ai Romani, davanti ad un immaginato tribunale divino, l’appoggio degli dei: la giustizia della loro decisione di muovere guerra sarebbe stata acclarata grazie alla vittoria sul nemico10. In accordo con la mentalità romana, l’importante era seguire e recitare esattamente la formula per chiedere giustizia agli dei (come il cittadino privato doveva pronunciare le esatte parole previste dalle legis actiones per vedersi riconoscere il suo diritto; così i Romani dovevano seguire scrupolosamente la procedura feziale per aver ragione del nemico). Una volta che questa formalità fosse stata correttamente compiuta, il bellum era iustum. Lo sviluppo storico apportò alcuni cambiamenti. Dal secondo quarto del III sec., una parte almeno della classe dirigente cominciò ad avvertire la necessità di presentare positivamente all’opinione pubblica straniera la politica estera romana. Cominciò così a svilupparsi la visione di una Roma che combatte guerre per difendere sé stessa e 6 W.V. Harris, War and imperialism in Republican Rome, 327-70 B. C., Oxford 1979. La questione del cosiddetto imperialismo romano è antichissima; già Polibio si era interrogato sulla natura della vis espansionistica di questa città affacciata sulle rive del Tevere. La concezione del bellum iustum è solo in parte legata al problema dell’imperialismo e solo in quanto la “guerra giusta” venga posta in relazione con le giustificazioni di volta in volta offerte dalla classe dirigente romana per motivare la propria politica d’espansione e di sfruttamento. 8 Feziali. Collegio sacerdotale che la tradizione fa risalire ai tempi della Monarchia; la dottrina generalmente accetta tale datazione (anche se ultimamente è stata proposta una data molto più recente: l’età di Augusto). Principale compito del sodalizio era la regolazione dei rapporti sovranazionali dei Romani attraverso un complesso di riti, procedure e norme che prendono il nome di ius fetiale. 9 Il res ripetere. 10 La vittoria sostituiva dunque la pronuncia giudiziale. Questo avvicinamento della procedura religiosa alle forme processuali tipiche del diritto privato romano è, direi quasi, un topos della letteratura in materia. Soprattutto la dottrina ottocentesca ha battuto questa strada, arrivando ad integrare i vuoti della nostra conoscenza della procedura feziale tramite la mutuazione dalle formule civili di termini ed espressioni. 7 6 gli alleati. Sotto questa spinta ideologica il concetto della “guerra giusta” subisce una modificazione: dal rispetto delle antiche procedure al rinvenimento d’un pretesto; una volta che questo fosse stato trovato la guerra diveniva “giusta”. Un’ulteriore cambiamento avvenne alla metà del II sec. Sotto l’influsso del pensiero di Posidonio e Panezio, si diffuse, in certi ambienti dell’elite di governo, un’effettiva avversione alle guerre che non fossero viste come difensive. Ai tempi di Cicerone, conclude l’autore, la confusione tra la visione tradizionale e quella moderna era completa. La Albert nella sua ricerca11 (ed è questo un aspetto assai interessante del suo lavoro) dopo aver valutato da un punto di vista teorico il problema, confronta i suoi risultati con l’effettiva pratica romana della guerra (per come può essere ricavata dalle fonti); infatti analizza i conflitti che vanno dalla I guerra Punica fino alla guerra contro i Galli. Secondo questa studiosa il bellum iustum prevederebbe un duplice aspetto: quello formale e quello sostanziale. La compresenza di queste due componenti perfezionerebbe il concetto di “guerra giusta”. Il primo aspetto formale viene rinvenuto dalla studiosa nel rituale che i feziali avevano l’incarico di officiare per dichiarare correttamente una guerra; il secondo elemento sostanziale sarebbe da individuarsi, invece, nella iusta causa; il cui concetto, a parere della storica, è sempre esistito nella mente dei Romani. Al tramonto della Repubblica, saranno l’opera e la riflessione compiuta da Cicerone a permettere la fusione e la rielaborazione di questi due aspetti; i quali uniti in un unico schema permettevano di individuare una giusta causa etico-filosofica e morale, giustificatrice del conflitto bellico. La giustificazione della guerra risiederebbe per l’oratore nella necessità di difendersi da un torto subito. L’analisi così svolta si conclude nella determinazione di quattro “tipologie” di guerra: 1) guerra giusta; 2) guerra sostanzialmente giusta; 3) guerra formalmente giusta e 4) guerra ingiusta. Come s’intuisce, in questa ripartizione, il valore della “giustizia” della guerra va scemando man mano che si passa dalla prima alla quarta tipologia. Nell’ipotesi sub 1, infatti, coesistono sia la condizione formale (quindi l’espletamento del rito feziale) sia la condizione sostanziale (l’esistenza di una iusta causa belli). Le guerre indicate come sostanzialmente giuste (ipotesi 2), invece, sono caratterizzate dalla presenza della “giusta causa” con una non corretta dichiarazione di guerra, o addirittura priva di una qualsivoglia dichiarazione. La terza tipologia, poi, riunisce quelle guerre che sono state poste in essere solamente rispettando le formalità previste dal rito feziale, senza che sia rintracciabile la iusta causa belli. Ed infine sub 4 sono catalogate le guerre che mancano di entrambi i requisiti. Con tale strumento di lavoro la Albert si affatica nella valutazione dei conflitti bellici affrontati dai Romani, giungendo alla conclusione che un bellum era considerato da questi ultimi iustum quando in esso era rintracciable una iusta causa giustificatrice. Impostazione dissimile propone, invece, il lavoro12 della Clavadetscher-Thürlemann dove si studia, come si evince immediatamente anche dal titolo, la nozione di “guerra giusta” nella civiltà greca e in quella romana. Dall’attento studio che compie sui testi ciceroniani, l’autrice ne deduce che il concetto di iusta causa belli viene collegato al bellum iustum proprio dal celebre oratore tardorepubblicano condizionato dalle idee filosofiche greche di cui era conoscitore. In precedenza, l’idea di “guerra giusta”, pur presente anche nella più antica letteratura latina, non prevedeva né contemplava 11 S. Albert ‘Bellum iustum’ (die Teorie des ‘gerechten Krieges’ und ihre praktische Bedeutung für auswärtigen Auseinandersetzungen Roms in republikanischer Zeit), Francoforte, 1980. 12 S. Clavadetscher-Thürlemann, ‘Π∫λεµοω δ⇐καιοω’ und ‘bellum iustum’. Versuch einer Ideengeschichte, Zurigo 1986. 7 l’esistenza di una iusta causa, ma era impiegata per indicare un conflitto che fosse “regolare”, cioè conforme alle regole. Decisamente differente il punto di vista che recentemente parte della dottrina ha sostenuto. Il primo testo da ricordare è di L. Loreto13. Lo studioso si schiera in maniera nettissima e priva di dubbi contro ogni ricostruzione che assegni al sintagma bellum iustum un qualsiasi connotato riconducibile ad un’idea di “giusta causa”, di motivo giustificatore della guerra. Il bellum iustum è un concetto che per i Romani afferiva unicamente alla conduzione “regolare” del conflitto. Dove con “regolare” l’autore intende che il conflitto è posto in essere seguendo delle regole (norme) riconducibili interamente al diritto (pubblico) romano. È, insomma, una faccenda puramente e completamente interna al diritto romano quella di definire se un bellum può rientrare nella categoria di iustum o di iniustum. Anche nell’opera di Cicerone, che dalla dottrina precedente è stato considerato come il primo –o principale- pensatore ad aver dato vita ad una costruzione della “guerra giusta” intesa come guerra che sia anche moralmente giusta, e che da lì in avanti avrebbe poi trovato terreno fertile in tutte le successive epoche storiche e in molti filosofi ed intellettuali; anche nell’opera ciceroniana –scrivevo- secondo Loreto non sarebbe, in verità, rintracciabile alcun collegamento tra la nozione di bellum iustum e quella di iusta causa. Sarebbero, appunto, stati gli “equivoci” degli storici e dei filologi ad avvalorare la visione di un Cicerone “teorico del bellum iustum”. Attraverso una serie di interessanti e puntuali analisi, che non è questo il momento per commentare, lo storico giunge, dunque, a ricondurre il pensiero ciceroniano all’aspetto giuridico-formale della “guerra giusta”. Da ultimo si può riassumere la posizione che Calore ha esposto nella sua ricerca14. Dopo un’esposizione delle principali fonti da cui si possono trarre, a detta dello storico, le migliori informazioni circa la concezione che stiamo cominciando a studiare, l’autore divide la sua monografia in due parti: la prima dedicata allo studio dell’ordinamento feziale relativo al bellum iustum con un’ampia analisi della procedura che le antiche fonti ci tramandano dovesse essere espletata dai sacerdoti prima dell’entrata in guerra di Roma contro un popolo nemico. La seconda parte è invece dedicata a quella che l’autore definisce la “personale e innovativa riflessione sull’idea del bellum iustum” di Cicerone. Dopo un’accurata analisi dei passi rintracciabili nello opere dell’oratore, lo storico conclude che il lavoro del Romano comportò un adeguamento dell’idea di bellum iustum allo sviluppo storico, implicante modificazioni in tutti gli aspetti della vita romana ed dunque anche variazioni sul piano giuridico e polemologico, subito da Roma soprattutto con l’inizio della sua espansione italica e mediterraneo-mondiale. È la rerum repetitio15 che, nello sviluppo cui fu sottoposto anche il concetto di guerra, subisce le 13 L. Loreto, il ‘bellum iustum’ e i suoi equivoci. Cicerone ed una componente della rappresentazione romana del Völkerrecht antico, Napoli, 2001. 14 A. Calore, Forme giuridiche del ‘bellum iustum’, Milano, 2003. 15 Letteralmente rerum repetitio (che è un’espressione che non mi pare si incontri nelle fonti antiche, dove invece fa ampia mostra l’espressione sinonimica res ripetere, ma che è invece molto usata nelle moderna dottrina) significa “richiesta/restituzione delle cose”. Essa è una delle fasi in cui l’antica procedura feziale di inizio della guerra si articolava. In sostanza, ma incidentalmente ricordo che anche in questa suddivisione non vi è univocità da parte della dottrina, le fasi che possono essere individuate nel rituale dei Feziali sono: la rerum repetitio che consiste, appunto, nella richiesta da parte del sacerdote a ciò incaricato di richiedere la restituzione di ciò che il popolo avversario aveva sottratto al popolo dei Romani; la testatio deorum (chiamata a testimoni degli dei) consistente nel dichiarare di fronte agli dei che il popolo nemico non ottemperava alla richiesta di restituzione delle cose e che quindi era da considerare iniustus; e l’indictio belli (dichiarazione di guerra) consistente nella decisione del re e del Senato di fare la guerra al popolo avversario. La suddivisione in fasi qui riportata vuol semplicemente essere di ausilio per il lettore eventualmente non conoscitore di ciò di cui si parla. Le descrizioni più complete di detta procedura si trovano in Livio (I, 32, 6-7) e Dionigi d’Alicarnasso (II, 72, 4-9). 8 modificazioni più importanti e significative. Seguendo lo svolgersi che il res repetere avrebbe compiuto nel corso della storia romana fino al significato che esso assume nel pensiero dell’Arpinate, Calore vede il tentativo di quest’ultimo di armonizzare gli antichi istituti feziali con la nuova realtà dell’Urbe. Costruendo in tal modo la sua ricerca il professore di Brescia, rimane nell’alveo del solco tracciato da Loreto, pur donando un respiro maggiore all’opera ciceroniana: la rerum repetitio costituirebbe la causa del bellum iustum16. Questa digressione mi pare possa servire per mostrare al lettore che abbia avuto la voglia di seguirmi fin qua quanto sia vasto il campo in cui si muovono gli studiosi. È difficile, in generale, trovare completa uniformità nelle ricostruzioni storiche, ancor di più quando queste ricostruzioni si basano su sottili interpretazioni di testi e addirittura di singole parole. Quello che seguirà, dunque, sarà uno studio che non avrà la pretesa di mettere la parola “fine” alla tematica. CONTINUA 16 Ricordo che contrariamente Loreto afferma invece che “Cicerone riteneva un fossile le rerum repetitio.” 9 LE GUERRE PERSIANE DI COSTANZO II 337 – 361 d.C. Carlo Sansilvestri 1. PREMESSE Perché le guerre persiane di Costanzo II? Schiacciato tra due figure imponenti e fortemente ammantate di significati simbolici come quelle di Costantino e Giuliano, Costanzo sembra perdersi nelle retroguardie della storia, come se il suo ruolo si esaurisse nel riempire anonimamente un vuoto tra due periodi estremamente significativi nell’ambito della storia di Roma. In realtà, è sufficiente uno sguardo non superficiale alle vicende del IV secolo d.C. per rendersi conto di quanto errata sia questa sbrigativa, ma purtroppo diffusa, lettura storica. Preceduti da una grande invasione della Persia pianificata ma mai realizzata, e seguiti da una campagna offensiva la cui valenza simbolica tende spesso a coprirne il reale significato strategico, i suoi venticinque anni di conflitti sul fronte persiano, durante i quali non vi furono né eventi di grandissima rilevanza né campagne di conquista degne di risaltare nelle fonti, fanno comunemente di Costanzo l’oggetto di critiche dirette a condannarne la mancanza d’iniziativa e le scarse capacità in ambito militare. Le campagne pianificate e mai realizzate, però, per una naturale tendenza dell’indole umana, assumono spesso, e immotivatamente, un alone di mito quasi che si trattasse per certo di vittorie rubate, di conquiste negate dalla sorte. Così è per la campagna partica di Cesare, e così è per la campagna persiana di Costantino: entrambi rapiti dalla morte proprio sul punto di affrontare la prova che l’inarrestabile spinta all’imitatio Alexandri, insanabile malattia comune a moltissimi grandi generali romani, aveva trasformato nella vera chiave capace di aprire, per un condottiero, le porte del mito. Per molti di loro, però, essa aprì solo le porte dell’inferno, e nulla potrà mai darci la certezza di quale esito avrebbe avuto la campagna di Costantino, né potremo mai sapere se strategicamente la sua scelta si sarebbe rivelata vincente. L’invasione di Giuliano del 363 mostrò, grazie alle diverse vittorie in battaglia e agli ottimi risultati tattici ottenuti, che l’esercito romano tardo-imperiale, se ben condotto sul campo, era ancora qualitativamente di alto livello; inoltre essa testimoniò la capacità di Roma, in presenza di una adeguata situazione interna e di un contesto strategico globalmente favorevole, di riportarsi all’offensiva su grande scala ancora nella seconda metà del IV secolo. L’esercito tardo imperiale non era affatto strutturato per la sola difesa: la sua flessibilità lo rendeva adatto a costruire campagne offensive anche di grande rilevanza. L’evoluzione della gestione a livello operativo-strategico della campagna da parte di Giuliano si rivelò però fondamentalmente fallimentare, e, al netto della propaganda che addebita integralmente a complotti su basi religiose le cause del suo fallimento e che incolpa il successore di Giuliano, Gioviano, dell’umiliante trattato imposto da Shapur (entrambe considerazioni da tenere in conto ma evidentemente insostenibili su basi storiche nei termini estremistici in cui generalmente vengono proposte), non si può non constatare come gli esiti ultimi dell'offensiva siano stati fortemente negativi per l’impero. 10 Nei venticinque anni compresi tra la morte di Costantino e il consolidamento di Giuliano come unico Augusto, la sostanziale tenuta del limes mesopotamico che Costanzo II seppe garantire per un periodo così lungo, di fronte ad un nemico aggressivo come Shapur, con risorse quasi sempre estremamente ridotte rispetto a quelle che aveva avuto a disposizione Costantino e che avrà a disposizione Giuliano (entrambi poterono, nell’ambito dell’organizzazione delle rispettive campagne persiane, gestire la totalità delle risorse imperiali), in un periodo estremamente complesso e tribolato all’interno dell’impero, costellato di guerre civili e usurpazioni, appare come un risultato di valore oggettivamente apprezzabile. Questo articolo si propone di mostrare come, a un’analisi serena e obiettiva, e che riporti al centro dell'attenzione - come è giusto che sia - l'aspetto strategico, la gestione del fronte persiano da parte di Costanzo risulti ampiamente positiva. Una nota: malgrado le vicende storiche abbiano portato Roma a perdere il ruolo di capitale dell’impero e sede degli imperatori nel periodo trattato da questo articolo, pare opportuno continuare ad utilizzare “Roma” ove si ritenga di indicare lo Stato tramite il suo “centro”. 2. LE FONTI Se per gli eventi dopo il 353 Ammiano Marcellino, di cui parleremo diffusamente più avanti, fornisce una buona copertura, prima di questa data, essendo perduti i primi tredici libri della sua opera, le fonti in nostro possesso sono generalmente piuttosto limitate. Gli unici resoconti ad ampio raggio sono scritti apologetici: i panegirici a Costanzo II di Libanio (Or. LIX, scritta nel 348/49) e di Giuliano (soprattutto le Orr. I, scritta nel 355, e II , probabilmente poco dopo). Fortunatamente, in entrambi i casi, tra le inevitabili considerazioni chiaramente apologetiche, si distinguono spesso anche concetti utilissimi per una ricostruzione storica attendibile: sia Giuliano che Libanio, ma soprattutto il primo, realizzano il loro intento panegiristico senza sensibili manipolazioni dei fatti storici, preferendo eccedere nel lodare (nel bene) e giustificare (nel male) il destinatario dei loro scritti, piuttosto che presentare una versione distorta degli eventi. Giuliano stesso manifesta in questo modo le sue intenzioni: [...] cercherò comunque di narrare brevemente questi fatti negativi non adattando la mia narrativa con un occhio a quelli che sono i miei interessi, ma preferendo in ogni caso la verità. Infatti, quando un uomo pecca deliberatamente contro la verità, non può sfuggire al richiamo dell'adulazione e, inoltre, infligge al destinatario del proprio panegirico l'apparenza di non meritare le lodi che riceve in altre circostanze; questo è un errore che io non farò. 1 Questo ragionamento è piuttosto razionale e logico; l'effettiva applicazione di queste “intenzioni” di Giuliano la si riscontra, ad esempio, nel suo racconto della battaglia di Singara del 348, di cui il passo appena citato è l'introduzione: la sua è infatti una onesta descrizione di quella che avrebbe potuto facilmente essere fatta passare per una grandiosa vittoria di Costanzo, e che invece Giuliano ammette (forse persino esagerando in senso opposto) essere stata una importante vittoria dei barbari.2 Nel racconto del terzo assedio di Nisibi del 350, poi, la quasi perfetta concordanza di Giuliano con una fonte del tutto indipendente e di segno diametralmente opposto come può essere San Ephraim, una volta spogliati entrambi della riconoscibilissima retorica di parte (ciascuno la sua), gioca fortemente a favore dell'attendibilità di entrambe le fonti. 1 2 Jul. Or. I,23A Jul. Or. I,23A 11 Anche Libanio mostra di saper fornire, tra le righe, valutazioni storiche di prim'ordine, sebbene egli dichiari non essere quello il suo scopo: il confronto con le altre fonti, in alcune delle rare circostanze in cui è possibile, lo dimostra. Questo per noi è molto importante, poiché, armati dell’attenzione necessaria a sfrondarne opportunamente i passi , possiamo utilizzare i due panegirici come attendibile base per un'analisi storica di un periodo altrimenti quasi scoperto. Sia Libanio che Giuliano, oltretutto, più tardi nella loro vita diventeranno radicali nemici di Costanzo: il primo con la retorica, il secondo con la spada. Il Libanio più tardo, quello che scriverà orazioni in favore di Giuliano (e conseguentemente di dura condanna a Costanzo), tra cui, dopo il 363, l’orazione in morte di Giuliano stesso (Or. XVIII), è purtroppo largamente inattendibile - riprenderà molti degli argomenti trattati nel suo panegirico offrendo giudizi diametralmente opposti, ma lo farà accecato dall’acredine e stravolgendo gli eventi in maniera chiaramente strumentale, sconfinando spesso nell’assurdo, tant’è che pressoché nessuno storico moderno che affronti le vicende di questo periodo utilizza questa parte dell’opera di Libanio come materiale attendibile. Ad ogni modo, quando ritenuto significativo, proporremo per completezza anche passi tratti da queste orazioni. Per il resto, possiamo attingere dal Codex Theodosianus, che in alcune circostanze fornisce, grazie alla datazione di suoi decreti, la posizione di Costanzo durante il verificarsi di eventi di una certa rilevanza; vi sono poi le preziose opere di cronisti (il Chronicon di Gerolamo, fine IV secolo, il Chronicon Paschale del VII secolo, la Chronographia di Teofane, IX secolo, che riprende in parte il Paschale) , le opere di Zonaras, Zosimo, Orosio e diversi racconti parziali e di variabile attendibilità da parte di altre fonti, spesso di natura religiosa, che verranno menzionate e discusse caso per caso quando ciò sarà ritenuto di una qualche rilevanza. 3. ROMA E I SASSANIDI I rapporti tra Roma e l’impero Sassanide sono costellati da vicende politiche, diplomatiche e militari complesse, spesso a noi note in maniera incompleta e non del tutto ricostruibile; pare inutile, oltre che impossibile, tracciarne qui una storia completa, seppure riassuntiva. Dovendo però scegliere un punto di partenza per poi trattare il successivo svilupparsi dei fatti nell’ambito del tema dell’articolo, pare conveniente riferirsi al trattato imposto ai Persiani da Diocleziano e Galerio dopo la vittoriosa guerra persiana che si concluse nel 298 . La scelta deriva dalla buona conoscenza che abbiamo dei termini di questo trattato, pervenutici tramite la testimonianza di Pietro Patrizio3 , che seppure lascino adito a dibattiti e discussioni sulla esatta definizione di alcuni aspetti che li caratterizzano, ci permettono di avere un quadro strategico piuttosto chiaro della situazione. Quadro strategico, oltretutto, che rimarrà di fatto pressoché immutato per 40 anni, fino alle vicende degli anni ’30 del IV secolo con protagonisti Shapur II e Costantino; queste vicende costituiranno poi le più dirette premesse delle guerre persiane di Costanzo II. A partire dal 287, l’Armenia era stata governata da Tiridate il Grande4, regnante filo-romano posto sul trono armeno da Diocleziano, mentre in Persia era sul trono Barham II. 3 Petr. Patric. fragm. 14, FGH IV, p.189 - Pietro Patrizio fu magister officiorum al tempo di Giustiniano I; se la sua opera, di cui non conosciamo la datazione esatta, fosse stata scritta durante lo svolgimento di questo incarico, il suo accesso agli archivi garantirebbe una notevole attendibilità alla sua esposizione; non si può però escludere che si tratti di un’opera più giovanile, e quindi basata, piuttosto, su altre fonti, come, ad esempio, Eunapio; in questo caso, l’attendibiltà sarebbe inferiore. Vedasi Blockley 1992, p.171 n. 8. 4 Tiridate il Grande è alternativamente chiamato, nelle fonti moderne, Tiridate III o Tiridate IV. La scrittura corretta è Tiridate III; il malinteso nasce dal fatto che Tiridate I regnò due volte. Per evitare incomprensioni, continueremo a chiamarlo Tiridate il Grande, titolo che lo identifica univocamente. 12 Non fu un regno propizio alle sorti persiane, quello di Barham II: prima dell’estromissione della guarnigione persiana dall’Armenia da parte di Diocleziano, l’impero sassanide aveva dovuto subire, nel 283, il tentativo di usurpazione da parte del fratello di Barham, Hormizd, e la travolgente invasione da parte dell’imperatore romano Caro, fermato, già oltre Ctesifonte, solo da una morte tanto improvvisa quanto misteriosa5. Non è chiaro quali accordi ( se ve ne furono ) regolarono la gestione ed il controllo dell’Armenia e della Mesopotamia nord-orientale negli anni successivi a questi eventi: un fatto è che nel 287 l’Armenia era governata da un sovrano filo-romano, e la Mesopotamia settentrionale era fondamentalmente sotto il controllo romano, controllo da cui, però, Nisibi pare essere stata esclusa.6 Narsete, succeduto nel 293 a Barham III (che regnò solo 4 mesi dopo Barham II7) e intenzionato a recuperare i terreni da questi perduti, dopo aver immediatamente rinnovato le ostilità nei confronti di Roma8, lanciò nel 296 la sua grande offensiva, travolgendo l’ Armenia (estromettendo così Tiridate il Grande) e la Mesopotamia settentrionale, e attaccando la Siria. Galerio fu inviato da Diocleziano a contrastare l’offensiva persiana, ma i primi scontri ebbero un esito globalmente favorevole ai Persiani. Non è chiaro quante battaglie siano state combattute durante la campagna del 296, ma la più importante e decisiva sembra essersi svolta tra Carrae e Callinico, con una netta vittoria di Narsete. Diocleziano prese molto male la sconfitta quando i due si incontrarono, ma lasciò la questione ancora nelle mani di Galerio; questi, dunque, spese il 297 riorganizzando l’esercito orientale e preparando la propria rivincita.9 Nel 298, infatti, egli intraprese una controffensiva attraverso l’Armenia, ove sconfisse in maniera determinante Narsete in una grande battaglia campale, in seguito alla quale catturò i tesori e l’intera famiglia del re sassanide; proseguendo attraverso Atropatene e Adiabene, Galerio giunse forse sino a Ctesifonte, per poi arretrare lungo l’Eufrate. A Nisibi si riunì a Diocleziano, che questa volta ebbe gesti di stima verso il suo Cesare (nonché genero); dovette anzi frenarne lo spirito bellicoso, convincendolo ad accettare le richieste di pace da parte dei Persiani che Galerio aveva già rifiutato una volta.10 5 Per la campagna persiana di Caro vedansi Epit. de Caes. XXXVIII.3; Fest. Brev. 24; Eutr. IX.18.1; Zonar. XII.30; SHA Vit. Car. VIII.1 6 Blockley 1992, p.171 n. 4 7 Agath. IV, 24,6-8 8 Diverse fonti concordano nel sottolineare gli intenti bellicosi di Narsete, che avrebbe mosso guerra ai Romani appena salito al trono, nel 293; in questo, la datazione di Gerolamo è in anticipo di 3 anni; vedansi Lact. De mort.persec. IX,5; Epit.de Caes. XXXIX,22; Eutr. IX,22,1; Hyeron. Chron. aa. 289-90; Oros. Adv. pagan. VII,25,4; AM XXIII,5,11. Il passo di Ammiano è significativo poiché mentre le altre fonti si riferiscono genericamente all’oriente romano come teatro delle azioni belliche di Narsete, egli parla esplicitamente dell’Armenia, definendola territorio sotto l’amministrazione romana. 9 Barnes 1976, p.185 nota che, contrariamente a quanto generalmente sostenuto nelle ricostruzioni di questi fatti, in realtà la campagna in del 296 fu combattuta insieme da Diocleziano e Galerio, mentre quella del 298 dal solo Galerio, mentre Diocleziano era in Egitto. La pubblica umiliazione a cui Diocleziano costrinse Galerio dopo la campagna del 296 (Eutr. IX,24; Fest. Brev. 25; AM XIV,11,10) sarebbe in questa ipotesi un tentativo di far ricadere la colpa della sconfitta solo su di lui. 10 Non è questa la sede per approfondire gli eventi bellici del periodo 296-299 ; ad ogni modo, pur con qualche difformità su alcuni aspetti particolari e con diverse modalità dettate dalle attitudini individuali di ciascuna fonte, l’andamento generale della campagna pare delineato in maniera univoca. Barnes 1976, pp. 184-5 ricostruisce un percorso attraverso Armenia, Media e Adiabene (attestato, questo, dalle fonti, in particolare Fest. Brev. 25; Epit.de Caes., XXXIX,36; Eutr. IX,25.1; e dai titoli Armenicus, Medicus, Adiabenicus assunti da Galerio), e un’avanzata fino a Ctesifonte (per deduzione da SHA Vit. Car. IX,3; Cost. Or.Sanct.Caet. 16,p.177 1-4), seguito da un arretramento lungo l’Eufrate (rif. AM XXIV,1,10) Vedansi, in generale: Lact., De mort.persec. IX,6-8; Jul., Or. I, 18A-B; Epit. de Caes., XXXIX,33-6; Fest. Brev. 25; Eutr. IX, 24-25.1; Hyeron. Chron. a. 302; AM XIV,11,10; SHA Vit. Car. IX,3; Oros. Adv. pagan. VII,25,9-11; Chron. Pasc., p.512, 1819; p. 513, 19-20; Jord. Getica XXI; Malal. XIII; Theoph. Chronogr. a.m. 5793; Zonar. XII,31. 13 4. 299 D.C.11: IL TRATTATO DI NISIBI Galerio e Diocleziano inviarono a Narsete un loro ambasciatore, Sicorio Probo. Questi, secondo, Pietro Patrizio12, fu ricevuto con onori, ma fu anche oggetto di uno stratagemma: col pretesto di permettere all’ambasceria romana di riprendersi dal viaggio, Narsete fece loro compiere un ampio giro che li condusse fino al fiume Asproudas in Media. Durante questo lasso di tempo, le truppe persiane che erano state disperse e sparse durante i recenti combattimenti furono riunite in fretta e furia in modo da dare a Probo un’impressione di forza ed efficacia ancora rilevanti, sperando così di influenzare a proprio vantaggio le incipienti trattative. Pietro Patrizio, però, tiene a sottolineare che Probo era perfettamente conscio di ciò che stava accadendo. Giunto a Palazzo, Probo fu invitato ad esporre i suoi termini per quanto riguardava il patto da sancire, che si possono elencare come segue: - Ai Romani sarebbero andate Ingilene, Sophene, Arzanene, Corduene e Zabdicene Il fiume Tigri sarebbe stato il confine tra i due stati La fortezza di Zintha, sul confine della Media, avrebbe definito il limite dell’Armenia Il re dell’Iberia avrebbe ceduto a Roma le insegne del suo potere Nisibi sarebbe stato l’unico luogo permesso per il commercio. Narsete, che non aveva scelta, accettò i primi quattro punti, rifiutando però il quinto. Probo, stando a Pietro, rispose che anche il quinto punto deve essere accettato; l’ambasceria romana non ha alcun potere di trattare né ha ricevuto istruzioni in questo senso da parte degli imperatori. Era il modo per mettere in chiaro che si trattava di condizioni non negoziabili. Narsete fu costretto a cedere anche sul quinto punto e solo così riebbe la sua famiglia. I cinque punti elencati da Pietro, estremamente favorevoli ai Romani e imposti senza cedere spazio a trattative, lasciano trasparire quanto netta e definitiva dovesse essere stata la vittoria romana; inoltre, ci permettono di farci un’idea della situazione strategica locale all’alba del IV secolo. Lo stabilire il Tigri come confine tra i due stati equivaleva a dichiarare che la Mesopotamia del nord (inclusa la fortezza-chiave di Nisibi) fosse di diritto territorio romano. Le cinque satrapie di cui si parla al punto primo costituivano una fascia di territorio armeno transtigritano che estendeva, almeno di diritto, la Mesopotamia romana in quell’area, oltre il grande fiume, permettendo apparentemente l’annessione, o quantomeno il controllo diretto, di parte dell’Armenia, e quindi anche una "presa" più salda sul resto della medesima, nonché una minaccia diretta all’Adiabene persiana. I confini armeni venivano spinti ad est fino alla fortezza di Zantha, probabilmente entro l’Atropatene – finora completamente Persiana; l’imposizione di queste modifiche ai confini Armeni sottintendeva e implicava, oltretutto, il diritto di Roma a negoziare su tali questioni in Sulle offerte di pace di Narsete rifiutate da Galerio, vedasi: Petr. Patric. fragm. 13, FGH IV, p.188- 189. 11 La datazione (oscillante nella storiografia moderna tra il 298 e il 299) non è univocamente determinata; Barnes 1976, p.186 conclude che l’evento debba comunque collocarsi tra l’inverno 298/9 e la primavera del 299; in questo articolo indicheremo il trattato caratterizzandolo con la datazione 299 d.C., considerando queste precisazioni sottintese. 12 Petr. Patric. fragm. 14, FGH IV, p.189 14 nome del re d’Armenia, e, quindi, il controllo romano, di fatto, sulla stessa (che rimaneva formalmente affidata a Tiridate il Grande).13 Il quarto punto offriva a Roma il controllo di una regione ad elevato valore strategico nel mezzo delle alture caucasiche. L’ultimo punto, infine, costituiva un capolavoro diplomatico (non stupisce infatti che Narsete abbia cercato di opporvisi). Da un punto di vista pratico, garantiva, nella zona, un controllo più agevole del traffico di merci e del passaggio di mercanti, controllo finalizzato, ancor più, a monitorare e limitare le azioni di intelligence nemiche alla frontiera14. Inoltre, assegnava a Roma, perlomeno localmente, il monopolio doganale dei commerci tra impero romano e regno sassanide, e quindi notevoli introiti che venivano invece tolti a Narsete. L’importanza di questo fattore è evidente e fondamentale. Trattati di questo genere, completamente sbilanciati a favore di una parte, avevano effetti che andavano ben oltre quelli sanciti esplicitamente. L’autorevolezza e il prestigio di un re, fondamentali per il mantenimento di un controllo saldo della situazione interna, venivano fortemente incrinati da dimostrazioni di debolezza così evidenti. Anche la possibilità o meno di gestire afflussi di notevoli capitali, e il mostrare la capacità di imporre, piuttosto che l’accettazione nel subire, le direttive sulle modalità degli scambi commerciali locali, potevano pesare in maniera determinante sull’immagine di un regnante presso le “sue” popolazioni e quelle circostanti. Il trattato di Nisibi fu, senza dubbio, umiliante per Narsete, e probabilmente segnò la sua fine dal punto di vista politico. Fig. 1 : La Mesopotamia settentrionale nel 299. La linea tratto-punto indica il presunto confine in territorio transtigritano definito dal trattato di Nisibi, in base ai termini riportati da Pietro Patrizio. A sud del punto in cui tale linea incontra il Tigri, il confine è costituito dal fiume stesso. (Blockley 1992) 13 14 Blockley 1992, pp.6-7 Dodgeon-Lieu 1991, p.377 15 E’ infatti solo dopo la sua morte, con l’avvento di Hormizd II (302 d.C.) che si sente di nuovo parlare di iniziative militari da parte persiana. Notoriamente, i patti come il trattato 299 erano accordi che vincolavano le persone che li contraevano; alla morte di questi, chi succedeva loro poteva confermarli ma anche denunciarli. A giudicare dalle parole di Ammiano15 , il quale, descrivendo eventi del 363, dichiara che i Persiani stavano devastando l'Oriente da 60 anni, Hormizd scelse la seconda soluzione; un editto contro il Manicheismo da parte di Diocleziano nel medesimo anno appare come un possibile atto ostile verso i Persiani, a ulteriore testimonianza della tensione in crescita. Evidentemente, però, si dovette trattare di attività bellica di rilevanza limitata, in quanto non abbiamo alcuna traccia, nelle fonti, di episodi significativi. Nel 309 Shapur II succedette a Hormizd. Tracce di combattimenti sul fronte orientale si hanno nel 311-312 (campagna di Massimino Daia in Armenia16) e nel 313 o 314 ( le campagne di Licinio17). Anche in questi casi, comunque, non vi è traccia di tangibili conseguenze dal punto di vista politicostrategico, e per i due decenni successivi non si registrano attività di rilevo. 5. SHAPUR E COSTANTINO Nei primi anni ’20 del IV secolo, Shapur cominciò a mostrare segni piuttosto evidenti di malsopportazione del trattato del 299. Nel 324 la fuga dalla prigionia del fratello maggiore e rivale del re, Hormizd, che cercò rifugio in territorio romano e si affidò all’imperatore d’Oriente Licinio, costituì un momento di tensione, acuitosi quando, poco dopo, Costantino prese il posto di Licinio: si stava delineando una situazione adatta per un’offensiva romana in Persia “in supporto” dell’alleato Hormizd. I postumi della guerra civile ed un clima inquieto sul Danubio non costituivano però un contesto ideale per Costantino: egli accettò nel 325 un’ambasceria di Shapur18, tramite cui il re, formalmente, si congratulava col nuovo imperatore; non ci sono noti i contenuti sostanziali dell’ambasceria, ma il fatto che essa andò a buon fine implica comunque una normalizzazione dei rapporti, forse caratterizzata da una ufficiosa e temporanea accettazione dello status quo da parte di Shapur e da una rinuncia a sostenere la causa di Hormizd da parte di Costantino.19 Il clima di tensione ricominciò, però, immediatamente a crescere. Nel 325/26 Shapur condusse un esercito lungo la costa occidentale del golfo Persico fino all’estremità della penisola arabica; lo scopo della spedizione non ci è noto, ma anche se essa non condusse a scontri diretti coi Romani, malgrado il limes fosse stato probabilmente lambito, è presumibile che vi fosse in gioco il controllo di zone di importanza strategica e di rotte commerciali nell’area, forse allo scopo di istituire dazio nei porti in cui venivano scaricate merci provenienti dall’oriente e destinate a Roma20. 15 AM XXII,12,1 Le origini di questa campagna armenica sono poco chiare; gli accenni contenuti in Euseb. Hist Eccl. IX,8,2-4 a contrasti tra l'Armenia a forte caratterizzazione cristiana e l'impero Romano pagano fanno supporre che Roma intervenne a supporto di Tiridate, forse minacciato da una fazione filo-persiana sostenuta anche dai cristiani d'Armenia. Malalas XII descrive un trionfo per Massimino su Persiani ed Egiziani, e menziona brevemente i combattimenti. Vedasi anche Blockley 1992, pp.7 segg. 17 Barnes 1981, pp.39,62,65 18 Euseb. VC IV,8,1 19 Blockley 1992, pp. 9-10 20 Blockley 1992, p.10; in quest’ambito si colloca l’episodio di Metrodoro (citato da AM XXV,4,23 e Cedren. 1.516 ma di dubbia storicità), che di ritorno dall’India con pietre preziose da presentare a Costantino, disse all’imperatore che 16 16 In questo contesto complessivamente ricco di tensioni, fu però l’importanza strategica dell’Armenia a giocare il ruolo principale nell’imporsi di un atteggiamento marcatamente ostile da parte di Shapur. Purtroppo, lo studio della storia armena di questi anni è tormentato da incertezze ed ambiguità di ogni tipo. Filoni storiografici tradizionali e revisionisti differiscono anche radicalmente; ad ogni modo, noi seguiremo le recenti correzioni21 che collocano la morte di Tiridate il Grande nel 330, e implicano che ad essa sia seguito un periodo di lotte interne tra fazioni avverse sfociate nel regno di Arsace, durato dal 337/8 al 367. In seguito all’atteggiamento di Costantino fortemente favorevole al Cristianesimo, l’aspetto politico del fattore religioso assunse un carattere di grande peso in ambito “internazionale”; aderenza al Cristianesimo e vicinanza politica a Roma cominciarono ad essere visti come elementi sovrapponibili e inscindibili alla corte di Ctesifonte, e la propaganda imperiale certamente spingeva in questa direzione; Costantino inviò a Shapur una lettera in cui dichiarava il suo interesse per i cristiani di Persia ed esortava il re a sostenerli. La lettera non ebbe seguito, ma indubbiamente favorì il consolidarsi presso Shapur del timore che le comunità di cristiani interne al suo regno e a quelli, strategicamente fondamentali, nell’area, potessero rivelarsi pericolosi alleati di Costantino. Il fatto che proprio in quegli anni l’Armenia si stesse fortemente cristianizzando (Tiridate fu battezzato nel 314) costituì dunque, presumibilmente, un sonoro campanello d’allarme per Shapur. La tensione, in rapida crescita, esplose dunque proprio alla morte del re filo-romano e cristiano di Armenia Tiridate il Grande nel 330, dopo 47 anni di regno. Le lotte tra fazioni filo-romana e filo-persiana ripresero; ricominciò a svilupparsi attività militare persiana in Armenia, vi furono incursioni nei territori armeni sotto il controllo romano22 e probabilmente le satrapie transtigritane che rientravano nei termini del trattato del 299 furono in parte riguadagnate alla causa sassanide. I Persiani cercarono di imporre un loro re (Narsete) sul trono d’Armenia, Costantino in risposta vi pose nel 335 suo nipote Annibaliano, dotandolo di un esercito e affidandogli il controllo dei regni clienti del Caucaso: in questa disposizione si può intravvedere il tentativo di creare una sorta di lega Pontica sotto diretto controllo romano - o addirittura dinastico23. La Chronographia di Teofane registra per il 336 che Narsete24, presumibilmente calando dall'Armenia, travolse la Mesopotamia e prese la città di Amida. Il Cesare Costanzo, figlio di Costantino, gli mosse guerra e subì alcuni rovesci minori. Poi, gli inflisse una tale sconfitta in battaglia che Narsete fu ucciso.25 In questo contesto di forte tensione, durante l'inverno 336-337 Shapur inviò a Costantino un'ambasciata26 il cui contenuto, a noi ignoto, non era sicuramente amichevole; si dibatte se la altre gli erano state trattenute da Shapur. L’imperatore avrebbe dunque chiesto al re persiano la restituzione delle pietre, e al rifiuto di quest’ultimo, si sarebbe preparato a muovere guerra alla Persia. 21 Hewsen 1978 22 Lib. Or. LIX,71-72 23 Epit. de Caes. XLI,20 e Anon. Vales. VI,35 confermano questa ipotesi. La seconda descrive Annibaliano come Re dei Re e regnante delle tribù pontiche. "Re dei Re" è una tipica titolatura pontica, ma è anche identificabile col titolo persiano shahanshah. Taluni vedono quindi nella scelta di questo titolo un'intenzione di sostituire addirittura la dinastia Sassanide con quella Costantinide, cristiana, sul trono della Persia. 24 Da Teofane erroneamente indicato come il figlio di Shapur - che reincontreremo a Singara nel 348 - trattandosi invece in questo caso, probabilmente, del fratello del re. 25 Theoph. Chron.. a.m. 5815 26 Euseb. VC IV,56 e LXII,2; Fest. Brev. 26 ; Lib. Or. LIX, 71 segg. 17 richiesta Persiana fosse l’evacuazione completa dell’Armenia da parte dei Romani o solo il riconoscimento da parte di Roma della legittimità de iure del governo persiano sulle satrapie transtigritane coinvolte nel trattato del 299, che probabilmente i Persiani avevano già parzialmente riacquisito de facto.27 E’ necessario aprire una parentesi a proposito di queste cinque satrapie transtigritane. La definizione del loro status è, e resta per tutto l’arco cronologico di pertinenza di questo articolo, piuttosto problematica. Dilleman28 suggerisce che vi sia ambiguità già alla radice, cioè che il passo di Pietro Patrizio ove si elencano i punti del trattato del 299 contenga una contraddizione nel definire il Tigri limes e, contemporaneamente, nell'indicare cinque satrapie transtigritane come “romane”. Pietro (che probabilmente scrive molto tempo dopo i fatti, consultando documenti d'archivio, ved. nota 3) potrebbe aver mescolato nel suo scritto situazioni relative a periodi diversi, oppure potrebbe aver menzionato tra i punti sanciti dal patto del 299 la concessione delle cinque satrapie ai Romani solo per deduzione, sulle basi del successivo patto del 363 che le "restituiva" in gran parte ai Persiani. Dilleman conclude però che una possibile soluzione a questa apparente contraddizione possa essere l'esistenza di due situazioni: una de iure, che sanciva la romanità delle satrapie, e una de facto, sviluppatasi dopo la sanzione del patto stesso, quando i Romani, per motivi strategici, avrebbero deciso di attestarsi dietro al Tigri e di esercitare su di esse un controllo indiretto, rimettendole così, di fatto, tra le mani dei Persiani, perlomeno da un punto di vista prettamente territoriale, seppure i Sassanidi non avessero giurisdizione su di esse. E’ dunque possibile che nei termini del patto del 299, o forse più tardi in seguito alle evoluzioni strategiche sopra ipotizzate, fosse stata definita una sorta di area di influenza romana su quelle terre – terre su cui un controllo indiretto era peraltro difficilissimo da attuare a causa della loro posizione e dell’inevitabile, conseguente, fortissima influenza persiana. Circostanze, queste, che assoggettarono le cinque satrapie a costanti pressioni diplomatiche da parte delle due potenze, le quali cercavano di garantirsene il supporto più o meno ufficiale, indipendentemente dal loro status giuridico; una situazione, per questi motivi, non facilmente né univocamente definibile, basata com'era su situazioni “non ufficiali”, temporanee e spesso affette da evoluzioni diplomatiche di notevole complessità. Queste regioni, dunque, potrebbero aver fluttuato “di fatto” più volte tra l’una e l’altra potenza nel corso degli anni, e aver assunto talvolta posizioni ambigue; significativo il caso della Corduene, che è una delle cinque satrapie vincolate a Roma dal patto del 299: Ammiano, parlando di fatti relativi al 359, dichiara che essa sottostava alla potestà persiana29 ("obtemperabat potestati Persarum" ) , ma che era governata da un satrapo “segretamente” filo-romano, amante dei costumi e della civiltà romana30; poco dopo, parlando della ritirata dell'esercito di Giuliano nel 363, egli dice che prevalse l'opinione, perduta ogni speranza in una soluzione migliore, di impadronirsi della Corduene ("Corduenam arriperemus") 31; sempre riferendosi alla ritirata del 363, però, Ammiano rimprovera Gioviano, il successore di Giuliano, poiché se avesse approfittato di questo periodo di tempo per allontanarsi lentamente dai territori nemici, sarebbe di certo giunto alla Corduene regione fertile ed in nostro possesso ("uberis regionis et nostrae")32. 27 Blockley 1989, p.469 n. 21; Barnes 1981, p.397 n.148 Dilleman 1962, p.217 29 AM XVIII,6,20 e segg. 30 AM XVII,6,20: Era in quel tempo satrapo della Corduene, territorio posto sotto il dominio persiano, un giovane che dai Romani veniva chiamato Gioviniano: questi nutriva segrete simpatie nei nostri confronti perché, trattenuto come ostaggio in Siria e affascinato dalla bellezza degli studi liberali, desiderava ardentemente ritornare fra di noi. 31 AM XXIV,8,5 32 AM XXV,7,8 28 18 Determinare la reale situazione, sia de iure che de facto, della Corduene in base a queste considerazioni, è significativamente molto arduo. In definitiva, cercare di definire uno status univoco per le cinque satrapie transtigritane è pressoché impossibile, e questo renderà anche cronicamente incompleto ogni tentativo di definizione, nel prosieguo di questo articolo, delle successive situazioni strategiche relative all'Armenia. Ad ogni modo, vista l'incertezza che regna su questo aspetto, quando si farà riferimento, d'ora in poi, allo status quo definito dal patto del 299 - e capiterà spesso - si intenderà implicitamente escludere da questa definizione, quando non specificata, la vaga posizione delle satrapie transtigritane, sottintendendo la loro ambigua posizione. Chiudendo questa necessaria parentesi, la risposta di Costantino all'ambasciata persiana fu la preparazione di una imponente campagna offensiva33. La propaganda ammantava questa iniziativa di uno scopo cristianizzante sulla Persia. Certamente, se il titolo Rex regum assegnato da Costantino ad Annibaliano è da intendersi come equivalente del titolo persiano shahanshah34, si possono intravvedere in quel titolo e nella preparazione di questa campagna due iniziative parallele all’interno della pianificazione di un sostituzione della dinastia cristiana Costantinide a quella Sassanide sul trono persiano, e quindi, di fatto, dell’annessione della Persia all’impero romano.35 Nessuna fonte in realtà riporta quali fossero gli obiettivi di Costantino, e non è affatto detto che essi fossero così estremi. Più realisticamente, Costantino potrebbe aver voluto “calmare”, mediante una pesante iniziativa militare in territorio persiano, il turbolento Shapur, imponendo il rispetto del trattato del 299 proprio in relazione alle satrapie transtigritane, magari arricchendolo di qualche ulteriore vantaggio per Roma e per i cristiani di Persia. Nel 337, in Maggio, Costantino si mosse verso Est; la morte lo colse però il 22, a Nicomedia. Suo figlio Costanzo, che già si trovava in prossimità della zona di operazioni in Oriente, tornò a Nicomedia e scortò il corpo del padre fino a Costantinopoli, dove fu seppellito. In Settembre il ramo "cadetto" della dinastia costantinide fu sterminato, e su questo episodio aleggia l'ombra, tra gli altri, proprio di Costanzo. Ad ogni modo, egli, assieme ai fratelli Costantino e Costante, fu proclamato Augusto. I tre si incontrarono in Pannonia nella tarda estate o nell’autunno del 337 e si divisero l'impero36; i rapporti tra loro già si mostravano tutt'altro che idilliaci. A Costanzo II andarono l'Oriente e l'Asia minore, che già gli spettavano da Cesare, e la Tracia, che costituì la sua quota nella spartizione con Costante delle province del Cesare Dalmazio, che era stato ucciso37. Toccava dunque a lui, che come Cesare aveva già avuto in carico l’Oriente romano, ereditare dal padre il grande fardello della questione persiana. 33 Sulla preparazione della campagna, che non è oggetto di questo articolo, vedansi: Eus. VC IV,56 ; Lib. Or. LIX 6075 ; Epit. de Caes.XLI,16 ; Fest. Brev. 26 ; Hyeron. Chron. a. 337 ; Eutr. Brev. X,8,2 ; Anon. Vales. 6,35 ; Oros. Adv. Pagan. VII,28,31 ; Chron. Pasch. p.532 7-21 ; Teoph. Chronogr., A.M. 5828, 34 ved. nota 23 35 Blockley1992, p.12 36 Jul. Or. I,19; Zos. II,39,2; Euseb. VC IV,51,1; Philost. HE III,1a 37 Costante ebbe l’area danubiana (esclusa la Tracia), Grecia, Italia e Africa. Costantino continuò a governare su Britannia, Gallia e Spagna come aveva fatto da Cesare. 19 6. 337 - 33838 D.C. : IL PRIMO ASSEDIO DI NISIBI E LA QUESTIONE ARMENA 6.1 Nisibi Costanzo dovette immediatamente assaggiare il sapore39 della frontiera orientale. Shapur, approfittando della complessa e inquieta situazione conseguente la morte di Costantino, e con un esercito già pronto a fronteggiare l'invasione che questi aveva pianificato, cercò di sfruttare l'effetto sorpresa e l'inesperienza dei figli del Grande; egli prese l'iniziativa varcando il Tigri e mise sotto assedio Nisibi, uno dei cardini strategici del sistema difensivo fortificato romano in Mesopotamia. Costanzo, appresa la notizia dell’inquietudine persiana lungo il Tigri, si mosse immediatamente dalla Pannonia, ove era avvenuto l'incontro coi fratelli, verso il teatro d'operazioni40, giungendo ad Antiochia41 nel tardo 33742; troppo tardi per arrivare al contatto col nemico. Non fu apparentemente, infatti, l'intervento dell’esercito di Costanzo a causare il fallimento del primo assedio di Nisibi. Dopo circa due mesi di tentativi43, evidentemente senza risultati, Shapur decise di utilizzare l'acqua del fiume Mygdonius come arma – nelle sue intenzioni - risolutiva. Secondo le fonti che raccontano l'accaduto nel dettaglio44, egli ne deviò il corso e costruì una diga a monte della città, affinché ivi si accumulasse una quantità d'acqua ritenuta sufficiente, che poi fece liberare d'un colpo contro le mura di Nisibi. La violenza dell’impatto causò, come previsto, il crollo di parte delle mura direttamente investite. Shapur, a questo punto, esitò per un giorno, ritenendo che da un lato potesse essere problematico entrare in città mentre le acque ancora la invadevano, e avendo dall'altro la certezza che rimandare di qualche ora la ormai inevitabile spallata finale non avrebbe potuto costituire per lui un rischio. Durante la notte, invece, le fervide preghiere del vescovo di Nisibi, Giacomo, fecero scendere non solo sulla guarnigione della città, ma su chiunque fosse fisicamente in grado di collaborare, una tale forza d’animo e una così solida fiducia nel supporto divino, da rendere possibile una ricostruzione forse non perfetta dal punto di vista tecnico ma sicuramente efficace – del tratto di mura abbattute. Quando Shapur si rese conto che la breccia era stata richiusa e, contestualmente, vide sulla cima degli spalti una figura imporporata con diadema che dava l’idea di dirigere le difese, minacciò di morte i suoi consiglieri che avevano escluso la presenza dell’imperatore sul posto. 38 La datazione quasi unanimemente considerata corretta per il primo assedio di Nisibi è il 337 d.C., in quanto l'impressione data dalle fonti è di una certa immediatezza dopo la morte di Costantino, sebbene non sia del tutto possibile escludere la datazione alternativa al 338 d.C. . In quest’articolo opteremo per il 337 d.C. 39 Il gioco di parole è involontario ma quanto mai appropriato. 40 Zonar. XIII,5,5-6 41 Theod. HE II,30,1 42 Socrat. HE II,7; Lib. Or. LIX,75 segg.; Barnes 1980, p.162 43 Theod. HE II,30,4 parla di 70 giorni; Chron. Pasch. p.533, 18-20 e Teoph Chronogr. 5829, che attinge dal Chronicon Paschale, riportano 63 giorni. 44 Theod. HE II,30,1-14 ; Theod. HR I,11-12 ; Hist. S. Ephraemi 6-7: queste raccontano l’assedio secondo una linea pressoché coincidente; sottolineano, inoltre, le dimensioni notevoli dell'esercito persiano, in cui, accanto a fanteria e cavalleria, trovavano impiego un notevole numero di elefanti; non si può però, ovviamente, basarsi su queste narrazioni, finalizzate a mettere in risalto le gesta miracolose di Santi (San Giacomo di Nisibi, San Ephraim), per effettuare considerazioni sulla reale consistenza dell'armata di Shapur, o per trarre conclusioni in ambito tattico/strategico. Non ci si può naturalmente aspettare una attendibile descrizione delle tecniche d'assedio impiegate: la descrizione proposta dalle fonti citate rappresenta infatti più o meno lo "standard" tattico di una situazione di assedio: vengono genericamente menzionati terrapieni, macchine da assedio, torri, e non vale la pena, per i nostri scopi, di riportarne i dettagli, se non ove ritenuto significativo. 20 Davanti alla circostanziata insistenza di questi a proposito della fondatezza delle loro affermazioni, Shapur diede alla visione una valenza religiosa, miracolosa, prendendo atto della presenza del Dio cristiano al fianco dei romani. Non sapeva, Shapur, che in realtà sugli spalti c'era Giacomo in persona, i cui gesti di minaccia non erano quelli di un imperatore che dirige le difese di una città assediata, ma quelli di un futuro Santo che chiede ( ottenendola ) al Cielo una sorta di "piaga": questa si materializzerà in un attacco di zanzare e moscerini, a causa del quale cavalli ed elefanti imbizzarriranno e, in ultima in analisi, l'esercito persiano sarà costretto alla ritirata.45 Le fonti che tramandano questi fatti (fondamentalmente la Historia Sancti Ephraemi di un anonimo biografo del Santo, e due opere di Theodorete, la Historia religiosa e la Historia ecclesiastica), hanno notoriamente tra gli scopi il suffragare il compimento di gesta miracolose da parte dei Santi; sono fonti religiose i cui fini esulano da una trattazione storica dei fatti in ottica politico-strategica se non nella misura in cui essa può essere finalizzata ai reali obiettivi degli autori; non possiamo dunque aspettarci di trarne conclusioni significative ai fini dell’analisi strategica o tattica del contesto, se non per (talvolta ardita) deduzione. E' quindi necessario aprire una parentesi che riguarda queste fonti nel tentativo di fare, per quanto possibile, una certa chiarezza sui fatti. L'utilizzo del fiume come arma offensiva, che rappresenta l’aspetto più peculiare del racconto dal punto di vista tattico, è un elemento piuttosto inusuale, ma non si può escludere che abbia qualche base storica: esso è stato però oggetto di un dibattito "tecnico" che lo ha messo fortemente in dubbio, perlomeno nelle sue dimensioni. Per ottenere un risultato come quello descritto nelle fonti, la diga avrebbe dovuto essere di dimensioni smisurate, ed il tempo a disposizione per metterla in atto ben superiore a quello dichiarato dalle fonti in relazione alla durata dell’assedio. Poiché però in climi particolarmente asciutti l'acqua può avere effetti devastanti sulle basi di strutture murarie, non è escluso che il fiume possa essere stato comunque utilizzato in qualche modo per "minare" le mura e supportare altre azioni distruttive effettuate contro le medesime.46 Il vero problema, in realtà, non è tanto la plausibilità di questo espediente tattico, né la storicità in assoluto del suo impiego contro le mura di Nisibi, quanto la sua pertinenza con questo specifico assedio. Noi sappiamo, infatti, e ne parleremo diffusamente, che Shapur assediò Nisibi (almeno) tre volte: nel 337, nel 346 e nel 350, fallendo in tutte e tre le occasioni. Come vedremo nel dettaglio più avanti, abbiamo due fonti indipendenti e di opposte attitudini, Giuliano e San Ephraim, che raccontano in maniera ben sovrapponibile il terzo assedio di Nisibi, quello del 350; la loro concordanza è estremamente significativa ai fini della loro attendibilità, e in entrambi è raccontato un episodio relativo all'uso del Mygdonius come arma offensiva pressoché analogo a quello che abbiamo appena incontrato a proposito del primo assedio. Vista l'attendibilità pressoché certa delle fonti relative al terzo assedio, viene fortemente messa in dubbio la storicità di questi fatti in relazione al primo; risulta infatti ragionevole ritenere che i racconti relativi al 337 riportino erroneamente fatti in realtà relativi al 350. Per quanto riguarda le fonti che trattano per esteso il primo assedio, il biografo autore della Historia Sancti Ephraemi attinge da Theodorete; è dunque quest’ultimo, probabilmente, l'origine dell'errore, se di tale si tratta. Scrivendo nel V secolo, egli trasferisce pressoché identico il suo racconto dalla Historia religiosa alla Historia ecclesiastica , da cui poi il biografo di San Ephraim attinge; Theodorete potrebbe 45 Hist.S.Ephraemi sostiene che sia stato non Giacomo, ma Ephraim, seppur dietro richiesta di Giacomo, a inviare la "piaga" ai Sassanidi. Inoltre questa fonte affianca significativamente alle figure semi-miracolose presenti sulle mura, una ballista - che possiamo interpretare come "simbolo" di una difesa armata - la quale avrebbe permesso di respingere gli attaccanti. 46 Dodgeon-Lieu 1991, p.384 n.6 21 quindi aver "duplicato" (fenomeno assai diffuso e insidioso nelle fonti) i fatti del 350 estendendoli al 337, con lo scopo di accreditare al destinatario delle sue lodi (San Giacomo) una protezione continua e costante verso la città di Nisibi. Infatti, presumibilmente, la questione del fiume, poco significativa in se stessa per Theodorete, è nella sua ottica un mero "allegato" di quella relativa all'intervento risolutore del Santo ed è funzionale ad esso, reale motivazione dietro a questa probabile duplicazione. Fattore fondamentale in questa analisi: Giacomo, e questo è uno dei pochi dati certi che abbiamo, muore nel 338, quindi contestualmente o poco dopo il primo assedio di Nisibi; il suo corpo fu sepolto all'interno della città, e da quel momento egli ne fu considerato il protettore47. Come vedremo più avanti, anche per quanto riguarda l'assedio del 350 alcune fonti riportano interventi soprannaturali che per certi versi ricordano nella loro forma quelli narrati da Theodorete a proposito del primo assedio, e l’implicazione di un collegamento tra questi fatti miracolosi a difesa delle mura nel 350 e la protezione soprannaturale di Giacomo sulla città, estremamente sentita in loco, è ovvia e fuor di dubbio. Theodorete, dunque, nell'esaminare i racconti relativi al terzo assedio, essendo a conoscenza del fatto che vi era effettivamente stato un assedio di Nisibi (quello del 337) anche mentre Giacomo era ancora in vita, avrebbe traslato indietro di 13 anni alcuni concetti (sia in relazione agli avvenimenti bellici che a quelli soprannaturali) relativi in realtà al 350 e "pregni" della presenza in spirito di Giacomo, applicandoli e modellandoli in modo da adattarli ad un Giacomo ancora vivo e in carne ed ossa, allo scopo di mettere in evidenza l’immancabile "scudo" del Santo volto a proteggere la sua città tramite il supporto divino sia durante la sua vita terrena che, poi, in quella ultraterrena. Se così fosse - ed è molto probabile che lo sia - i racconti del primo assedio da parte di Theodorete, e quelli che dalla sua opera derivano, perderebbero gran parte della loro validità dal punto di vista storico. Una volta indagato brevemente il rapporto tra queste fonti ed i possibili errori da esse indotti, va però detto che non si può del tutto escludere, celato tra dettagli la cui storicità è, come abbiamo visto, fortemente dubbia, un possibile ruolo storico di Giacomo come guida spirituale e fortemente carismatica all'interno della città durante l'assedio del 337, che possa aver almeno in parte influito sul racconto di Theodorete. Seppure ammantati di soprannaturale, infatti, i suoi brani mostrano tra le righe concetti che potrebbero, in linea del tutto ipotetica, avere un minimo di basi storiche. Quello di mostrarsi tramite della divinità allo scopo di incoraggiare gli uomini e spingerli a compiere azioni superiori alle loro forze è uno stratagemma che i capi carismatici hanno usato sin dagli albori della storia (che ne fossero, o meno, loro stessi convinti). Né, nell’ambito di queste stesse considerazioni, si può escludere una reale – e fino ad un certo punto attiva - presenza di Giacomo sulle mura a fianco dei difensori. In questo senso è significativo riportare un passo di Filostorgio (scritto a cavallo tra il IV ed il V secolo) in cui, a proposito di questi fatti, egli sostiene che Shapur pose Nisibi sotto assedio, ma che [...] contrariamente alle aspettative di tutti, fu costretto a ritirarsi con le sue forze coperto di vergogna, poiché Giacomo, vescovo della città, aveva mostrato alla cittadinanza cosa fare per il loro bene, e aveva meravigliosamente combattuto con una ferma speranza e confidenza in Dio per la salvezza della città.48 Giacomo appare in questo caso sotto una luce, diciamo, più realistica, ed anche come guida carismatica presso i difensori. 47 48 Genn. lib.script.eccles. 1 PL 58.1059 ; Hist. S. Ephraemi 7; Chron. Edes. 17 Philost. HE III,23 22 Assume allora connotazioni perlomeno intriganti il passo in cui Theodorete definisce Giacomo, nell’ambito della città di Nisibi: vescovo, guardiano e comandante in capo.49 Certamente, questo passo potrebbe ricadere nella ricostruzione fittizia di Theodorete, ma potrebbe essere anche indizio di una qualche base storica nella narrazione di questi fatti, poi coperta da una struttura di dubbia storicità, probabilmente contaminata, come si diceva, da una duplicazione di eventi posteriori oltreché da indubbi fini meramente agiografici. Rimane dunque perlomeno plausibile l’ipotesi di una difesa strenua della città, guidata spiritualmente, e, forse, anche - in parte - militarmente, da una figura fortemente carismatica e ispiratrice: Giacomo di Nisibi. E' allora interessante, a questo punto, leggere ciò che è scritto a proposito di questo assedio nella Chronographia di Teofane: Shapur, il re dei Persiani, venne in Mesopotamia, attaccò Nisibi e l'assediò per 63 giorni ma, non riuscendo a prenderla, ripartì. Giacomo, vescovo di Nisibi, che perseverava nella pratica della pietà, riuscì facilmente a ottenere ciò che voleva tramite la preghiera; fu lui a frustrare le speranze dei Persiani di prendere Nisibi. Come essi si ritirarono dalla città, inseguiti dalla forza delle sue preghiere, e tornarono nelle loro terre, ricevettero fame e peste come ricompensa per il gesto empio che avevano commesso. 50 In queste poche righe troviamo forse, tra l'altro, il nome di un vero alleato dei Romani contro Shapur nell'ambito di questa campagna: la peste. La figura di Giacomo resta centrale, in coerenza con quanto appena discusso, e forse ancor più come traccia dell’attingere da parte di Teofane a Theodorete o a fonti intermedie che lo abbiano riportato, ma il contesto assume colori più realistici: si fa chiaro accenno all'incapacità di Shapur di avere la meglio sui difensori di Nisibi per due mesi, ed alla sua scelta di ritirarsi con un esercito decimato dall'usura, dalla peste, e probabilmente minacciato dall’arrivo di Costanzo in Oriente, oltreché dall'incombente fine della stagione di campagna. D'altronde, la fonte principale di Teofane resta il Chronicon Paschale, estremamente asciutto nella descrizione di questi fatti: Shapur, re dei Persiani, venne contro la Mesopotamia con l'intenzione di saccheggiare Nisibi, e si accampò attorno ad essa per 63 giorni; non riuscendo a prevalere su di essa, si ritirò. 51 Il cronista, che scrive nel VII secolo, potrebbe aver avuto una visione più chiara dei fatti, limitandosi al (poco) certo, e tralasciando fonti che forse già allora gli apparivano di dubbia storicità; ma sulle fonti del cronista autore del Chrionicon Paschale, il dibattito è tuttora aperto, e non è questa la sede per discuterne. Ad ogni modo, questo passo ci offre, in due righe, quello che è fondamentale sapere ai fini dell'analisi strategica globale delle guerre persiane di Costanzo: il primo assedio di Nisibi fallì dopo due mesi di vani tentativi, probabilmente in seguito ad una efficace difesa da parte della guarnigione romana, alle condizioni ambientali e sanitarie in deterioramento (sicuramente sia entro che fuori la città), alla progressiva erosione delle forze assedianti, all’imminente arrivo dell’esercito da campo del nuovo Augusto, e presumibilmente all'approssimarsi della stagione invernale. 49 Theod. HE II,30,2 Theoph. Chronogr. a.m. 5829 51 Chron. Pasch. p.533, 18-20 50 23 6.2 L'Armenia Contemporaneamente a questi avvenimenti, e presumibilmente come conseguenza del medesimo piano strategico persiano volto a sorprendere le difese romane in assenza del nuovo Augusto, la situazione si fece critica anche in Armenia: una “rivolta”, probabilmente organizzata e attuata non senza una sotterranea, costante attività da parte della corte di Ctesifonte, portò di nuovo quella terra eternamente contesa dalla parte dei Persiani, come racconta, rivolgendosi a Costanzo, Giuliano: Gli Armeni, nostri vecchi alleati, si ribellarono, e una non piccola parte di loro passò ai Persiani, sconfinando e compiendo incursioni ai confini; in questa crisi sembrò non esserci altra speranza che il tuo prenderti carico della situazione, e la tua preparazione di una campagna, ma al momento ciò era impossibile, essendo tu in Pannonia a trattare coi tuoi fratelli 52 In realtà questo cambio di parte durò poco, poiché già nel 338 l’Armenia tornò nell’orbita romana. Questo è tutto ciò che sappiamo con certezza53; sui modi in cui si sviluppò la complessa dinamica che condusse a questo evolversi dei fatti vi è invece una certa nebulosità. L’unica fonte classica occidentale a descrivere gli eventi è Giuliano, che in questo caso si esprime in maniera piuttosto ambigua: Gli Armeni, che erano passati al nemico, cambiarono subito, nuovamente, parte, poiché tu estromettesti dal paese e mandasti a Roma coloro che erano stati responsabili dell’esilio di colui che governava, e assicurasti a coloro che erano stati esiliati un sicuro ritorno alla loro patria. Fosti così magnanimo con coloro che giunsero a Roma in esilio, e così generoso con coloro che tornarono dall’esilio con colui che aveva governato, che i primi piansero il loro fallimento nell’essersi rivoltati, ma erano comunque più soddisfatti della loro nuova condizione di quanto lo erano stati della loro usurpazione; i secondi, che erano stati in esilio, dichiararono che la loro esperienza era stata un insegnamento in prudenza, ma che ora stavano ricevendo un giusto premio per la loro fedeltà. Coloro che ritornarono dall’esilio, tu li colmasti con doni e ricompense così magnificenti che essi non poterono nemmeno risentirsi della buona sorte dei loro peggiori nemici né del fatto che questi fossero convenientemente onorati. 54 Questi fatti, raccontati da Giuliano dando molti aspetti per scontati (quando per noi, purtroppo, non lo sono affatto), accadono in un periodo in cui, come è già stato accennato, nemmeno la storia Armena è affatto chiara. Una versione dei fatti55, basata su fonte armena56 la cui storicità , in questo contesto, è stata però recentemente messa in dubbio57 , suggerisce che Arsace fu posto sul trono Armeno dal re persiano dopo la morte di Annibaliano e dopo una conseguente sollevazione in suo favore da parte della fazione filo-persiana armena, che riprese il controllo del regno. Il nuovo re armeno sarebbe poi stato costretto da Shapur a combattere al fianco dei Persiani durante l’assedio di Nisibi. Fallito l’assedio, sarebbe sorta in Armenia una nuova fazione filo-romana attorno a un leader di nome Vardan, che, divenuta vincente, avrebbe costretto Arsace all’esilio. 52 Jul. Or. I.18D-19A Lightfoot 1981, pp.327-8 ipotizza un’identificazione di questa rivolta con quella, fallita, attuata da Bacour e Sanatruk con supporto persiano, attestata da fonti armene. Ved. Faust.Buzand. Hist. Arm. III,9 54 Jul. Or. I.20D-21B 55 Dodgeon-Lieu 1991, p.383 n.2 , p.384 n.11 56 Faust. Buzand. Hist. Arm. IV,20 57 Blockley 1992, p. 176 n. 4 suggerisce che parte del racconto di Faustus relativo a queste vicende sia in realtà una errata inflazione dei fatti del 297-8 53 24 Una diversa versione dei fatti58 contempla invece una lotta tra le fazioni filo-romana e filo-persiana subito conseguente alla morte di Annibaliano ed al successivo tentativo della prima di mettere sul trono armeno Arsace, figlio del re filo-romano Tiridate, ma anche personaggio che Shapur aveva cercato di portare dalla sua parte con un paziente lavoro diplomatico, e su cui il re persiano aveva dunque una certa influenza. La fazione filo-persiana, risultata vincente, avrebbe costretto Arsace e i suoi sostenitori a rifugiarsi in territorio romano. In comune le due versioni hanno l’esito: l’anno dopo, Costanzo restaurò Arsace sul trono armeno come proprio alleato. Giunto a Cesarea nel 33859, l'imperatore romano si sarebbe trovato (e questo è coerente con entrambe le evoluzioni prospettate) con un dilemma diplomatico di non facile soluzione: poteva cercare di lasciare il potere nelle mani di una fazione fortemente filo-romana, imponendola sia ai Persiani (a cui ovviamente sarebbe stata invisa) che agli Armeni (presso i quali un Arsacide sarebbe stato, naturalmente, molto più popolare), o riportare sul trono Arsace, personaggio in fondo relativamente gradito a tutti, imponendogli però amicizia nei confronti di Roma e neutralità militare. Saggiamente Costanzo optò per la seconda soluzione, riportando l’Armenia nell’orbita Romana ma garantendo una soluzione mirata a diminuire la tensione interna armena e ad essere perlomeno accettabile per tutte le parti in gioco. Il passo di Giuliano sopra menzionato sembra adattarsi meglio alla prima evoluzione dei fatti ipotizzata: è plausibile che i rappresentanti di una fazione fortemente filo-romana, che avevano esiliato Arsace (“colui che governava”) venissero estromessi dall’Armenia da Costanzo (per ragioni diplomatiche), chiamati a Roma e benevolmente onorati, mentre coloro che erano stati esiliati (Arsace e i suoi, esiliati in precedenza dai filo-romani) tornassero nella “loro patria”, fossero a loro volta colmati di doni e onori (come nuovi alleati di Roma) e dichiarassero di aver imparato prudenza (nella gestione delle complesse situazioni interne all’Armenia e nei rapporti con Roma) e di meritare un riconoscimento della propria fedeltà (malgrado la costrizione ad affiancare Shapur per un breve periodo), senza potersi rammaricare che i loro peggiori nemici ( gli esponenti della fazione filo-romana ) fossero anch’essi trattati con benevolenza. L’ambiguità di questo passo però impedisce di trarre conclusioni definitive, e in fondo non è nemmeno il nostro scopo indagare troppo in profondità su come si giunse alla conclusione, comune in linea di massima alle due diverse versioni dei fatti. Significativo, invece, è cercare di capire che tipo di soluzione fu, quella ottenuta da Costanzo. Senz’altro si trattò di una parziale restaurazione del controllo romano sull’Armenia, e quindi di una vittoria diplomatica. In realtà, però, i termini di questo successo non sembrano essere quelli piuttosto netti che Giuliano cerca di suggerire.60 La scelta di Costanzo fu probabilmente la più saggia; con davanti la prospettiva di una inevitabile guerra che stava già cominciando, non casualmente, in un momento di grande complessità interna all’impero, la via migliore era cercare una soluzione “moderata”, vantaggiosa per Roma ma accettabile per tutte le parti dello scacchiere mesopotamico, così da “congelare” la variabile- 58 Blockley 1992, p. 13 Athanas. Apol. Ad Const. V; Barnes 1980, p.162 60 Le letture che, seguendo Giuliano alla lettera, vedono nella restaurazione di Arsace una vittoria diplomatica di grandissime dimensioni per Roma e una radicale imposizione alla Persia, mancano però nel fornire basi solide che possano giustificare da parte persiana l’accettazione di un così netto dictat. Né la vittoria del 336 su Narsete né il fallimento dell’assedio del 337 a Nisibi appaiono infatti sufficienti per fornire a Costanzo un’arma diplomatica così definitiva. Vedasi, a sostegno di questa linea, anche Warmington 1977, p.512 59 25 Armenia, in modo che essa garantisse perlomeno neutralità militare con una formale, dichiarata amicizia verso Roma. Pur non potendo così contare su un alleato militarmente schierato, questo significava avere una parte (quella a nord) del fronte “coperta” e relativamente sicura, e questo, lo vedremo, è coerente con un aspetto che appare essere costantemente parte integrante della strategia difensiva di Costanzo. Il cercare di imporre la fazione filo-romana al governo dell’Armenia, avrebbe invece potuto garantire, in caso di successo, un più netto supporto alla causa romana nel brevissimo periodo, ma anche un esponenziale acuirsi delle tensioni interne a quel regno: esso sarebbe così rimasto una variabile ad alto rischio costantemente soggetta a cambiare repentinamente e radicalmente parte, e a trasformarsi – in qualsiasi momento - in una pericolosissima spina nel fianco del limes romano. In definitiva, la questione Armena della stagione 337-338 può essere vista, alla sua chiusura, come un buon successo diplomatico per Costanzo: apparentemente egli, con l’assenso più o meno esplicito di Shapur, riuscì a restaurare, per quanto riguarda l’Armenia, la situazione del 299, dopo il fallimento costantiniano nel tentativo di legare il regno più strettamente alla sua famiglia, e quello persiano di portarlo dalla propria parte. Lo Stein61 estremizza questa visione, ipotizzando addirittura un trattato – di cui però non abbiamo traccia in alcuna fonte - tra Costanzo e Shapur nel 338, volto a sistemare la questione nei termini sopra descritti. 7. 338 D.C. : LA SITUAZIONE STRATEGICA Abbiamo dunque constatato come la prima offensiva persiana immediatamente dopo l'elevazione di Costanzo si fosse sviluppata su due direttrici, una militare e una politico-diplomatica. Purtroppo, come è evidente da quanto discusso più sopra, della struttura della campagna persiana del 337 non sappiamo pressoché nulla, anche se presumibilmente essa si limitò all’assedio di Nisibi e alla devastazione dei territori circostanti. D'altro canto, come avremo spesso occasione di notare, le periodiche campagne offensive su larga scala montate dai Persiani furono pressoché invariabilmente finalizzate all’eliminazione dei capisaldi su cui si basava il sistema difensivo fortificato romano in Mesopotamia: questa fu una costante della strategia persiana lungo tutto il periodo in cui Costanzo fu Augusto. L'esito di questa prima campagna, però, era stato negativo, e si trattava indubbiamente di una grande occasione perduta: Roma si era trovata di colpo senza aver più la possibilità di compiere un'azione offensiva in tempi brevi e su larga scala; la Persia, invece, che si era preparata a ricevere l'invasione di Costantino, si trovò pronta e con l'inattesa e improvvisa opportunità di strappare l'iniziativa al nemico, cosa che fece prontamente. Il fallimento non fu solo fine a se stesso, quindi, ma significò per Shapur anche la perdita del prezioso e irripetibile effetto-sorpresa. Dal punto di vista romano, invece, la stagione aveva avuto una connotazione prettamente difensiva. D'altronde, considerando la complessa situazione interna conseguente la successione e la ripartizione dell'impero ( e, questione fondamentale, delle risorse militari ) tra i tre figli di Costantino, i cui reciproci rapporti non erano certamente idilliaci62, e la contemporaneità con una 61 Stein 1959, p.137 Jul. Or. 18C-20A sottolinea la magnanimità di Costanzo nel concedere ai fratelli la maggior parte dell'impero e delle risorse a vantaggio dei rapporti tra i tre – il che nasconde ovviamente una limitata soddisfazione nell’ambito della suddivisione dell’impero - e dichiara esplicitamente che costoro non gli fornirono alcun aiuto, il che è senz’altro vero. In ogni caso sul fatto che le risorse a disposizione di Costanzo fossero limitate in relazione alla campagna progettata da Costantino, non c'è alcun dubbio. 62 26 guerra condotta da Costante contro i Sarmati, che impegnò notevoli risorse63 impedendone la dislocazione sul fronte orientale64, non si può certo rimproverare a Costanzo mancanza d’iniziativa: pensare di portare avanti l'invasione pianificata da Costantino in un contesto così radicalmente mutato, con risorse notevolmente inferiori, ed in una situazione così instabile, sarebbe stato irrealistico65. Roma era improvvisamente sulla difensiva, e il prenderne atto, per Costanzo, non fu una scelta; fu una necessità. Inoltre, nelle fonti risalta il fatto che inizialmente le truppe romane in Oriente, legate com'erano al ricordo di Costantino66 e pregne d’ammirazione per il condottiero che avevano seguito di battaglia in battaglia, non vedessero affatto di buon occhio il loro nuovo comandante e Augusto. Questo fu sicuramente un altro fattore di primaria importanza nel rendere il contesto generale in cui Costanzo si venne a trovare estremamente difficile. Contesto, peraltro, efficacemente riassunto da Giuliano in questi termini: Questo è forse il momento di descrivere come tu controllasti la situazione, circondato com’eri, dopo la morte di tuo padre, da così tanti pericoli e difficoltà di ogni genere: confusione, una guerra inevitabile, numerose incursioni nemiche, alleati in rivolta, carenza di disciplina nelle guarnigioni, e tutte le altre minacciose situazioni del momento.67 L'aver mantenuto le posizioni durante la sua prima, difficile, stagione da imperatore, rintuzzando le offensive persiane sia dal punto di vista militare che da quello politico-diplomatico, fu quindi, da parte di Costanzo, un risultato tutto sommato apprezzabile. Respinta con successo la minaccia immediata, egli si dedicò subito ad un’azione di ampia portata volta ad adeguare il sistema difensivo romano, in senso lato, alle nuove circostanze strategiche, che si sviluppò lungo diverse direttive. 7.1 La diplomazia Come già discusso, l’esito della questione armena evolutasi negli anni 337-338 fu presumibilmente figlio di una più generale iniziativa da parte di Costanzo volta a coprire e proteggere, ove possibile, il limes del Tigri tramite interventi diplomatici, in modo da limitare le possibile fonti di minaccia e consentire una maggiore concentrazione delle esigue e preziose risorse militari nei punti nevralgici del fronte persiano. Parte integrante di questa iniziativa si sviluppò anche nel settore sud, nei confronti delle tribù arabe. Distribuiti non solo nella penisola arabica, ma anche in Mesopotamia e nelle province siriache68, divisi al loro interno e estremamente difficili da controllare tanto per i Romani quanto per i Persiani, gli Arabi storicamente oscillavano tra un campo e l'altro cercando di cogliere il meglio dai contesti strategici in cui di volta in volta si venivano a trovare. La morte di Costantino e quella precedente (nel 328) di Imru ‘al-qais, il principale alleato dei Romani tra i capitribù arabi, portò probabilmente alla progressiva cessazione dell’alleanza che i due avevano conservato69. 63 Blockley 1989, p.472 Oltre che da questioni relative alla gestione delle risorse, è probabile che la mancanza di cooperazione tra i due fratelli derivasse dalle tensioni conseguenti il rischio che la guerra sarmatica di Costante inducesse un’intromissione di quest’ultimo in Tracia (che “apparteneva” a Costanzo) , e soprattutto dalle divergenze religiose tra i due. 65 Per due secoli e mezzo dopo la morte di Costantino, solo Giuliano montò una campagna su grande scala in Persia, ma poteva gestire tutte le risorse militari, indivise. 66 Jul. Or. I.18D 67 Jul. Or. I.20 A-B 68 Blockley 1992, p.173 n.15 69 Dodgeon-Lieu 1991, p.384 n.13 64 27 L’atteggiamento al momento dell'elevazione di Costanzo delle tribù arabe stanziate oltre il limes nell’area siriana - le più rilevanti strategicamente - è difficilmente caratterizzabile e probabilmente poco uniforme, ma fu indubbiamente, almeno in parte, ostile. Questo elemento strategico incerto e indefinito rese dunque urgente l'intervento diplomatico di Costanzo. Tutte queste difficoltà [la questione armena del 337-338] tu rapidamente superasti, poi, per mezzo di ambasciate, rivolgesti gli Arabi, che allora compivano incursioni [nei confronti dell'Impero Romano], contro il nostro nemico70 Il realizzarsi di questo successo diplomatico con gli Arabi, enfatizzato da Giuliano, sembra confermato indirettamente da altre due fonti che descrivono la situazione rispettivamente prima e dopo i fatti in questione: Teofilo conferma che alla morte di Costantino e all'inizio del “regno” di Costanzo, tribù arabe compivano incursioni in territorio romano71; Ammiano72 descrive Arabi come supplici alleati nei confronti di un benevolo Giuliano, che li avrebbe dunque ereditati come tali da Costanzo (salvo poi inimicarseli nel corso della sua campagna persiana). In realtà è difficile dire quanto questa “alleanza”, se così la si può definire, fosse solida e, soprattutto, uniforme; tuttavia, anche se certamente essa non coprì l'intero mondo arabo, poté indubbiamente bilanciare eventuali alleanze di altre tribù arabe coi Persiani, risultato non disprezzabile nella generale ottica strategica.73 In definitiva, nell'impossibilità di definirne l'entità, si può dunque supporre che si sia trattato in linea di massima di un risultato diplomatico positivo, presumibilmente ottenuto nel 33874, parallelamente e contemporaneamente a quello relativo all'Armenia. 7.2 La rete difensiva Negli anni precedenti al 297, le difese imperiali sul fronte persiano erano state costituite fondamentalmente dalla linea di fortificazioni sul limes dell’Eufrate, integrate da una serie di avamposti fortificati disposti lungo le principali linee di comunicazione all'interno della Mesopotamia.75 Il trattato del 299 spostò il limes sul Tigri; né le fonti letterarie né l’archeologia offrono la sensazione della costituzione di una vera e propria linea fortificata lungo il fiume; la distribuzione di difese lungo le linee di comunicazione interne alla Mesopotamia e le possibili direttrici di invasione divenne invece molto più densa76, costituendo così una rete relativamente fitta dietro al 70 Jul.Or.I.21B Theoph. Chronogr. a.m. 5828 72 AM XXIII,3,8 73 Oltre all’attività nei confronti delle tribù dell’area siriaca, si è anche ipotizzato che in quest’ambito rientrino in senso lato le ambasciate, a noi note, inviate nell’Arabia meridionale, tramite cui Teofilo e Frumenzio convertirono al Cristianesimo rispettivamente i Sabaeni e il regno di Axum (ved. Blockley 1989, p.473) - quest’ultima, più tarda, nel 346: d’altronde Costanzo mantenne un’attenzione costante all’aspetto diplomatico; entrambe le missioni assunsero in realtà connotazioni politico-diplomatiche, oltre che religiose; il fatto che Costanzo, nell’urgenza della gestione del contesto strategico, tendesse ad anteporre le prime alle seconde, è suggerito dal fatto che egli era ariano, mentre Frumenzio era ortodosso (ved. Blockley 1992, p.15). 74 E' probabile che questa iniziativa diplomatica si sia svolta nel 338 mentre Costanzo era a Emesa, come testimonia un suo editto registrato nel Codice Teodosiano (CTh XII,1.25); ved. Barnes 1981, p.162 75 Dilleman 1962, p.211 76 In parte questa può essere una nostra percezione dovuta al fatto che per il IV secolo abbiamo una conoscenza delle difese mesopotamiche migliore rispetto ad altri periodi. 71 28 fiume e adatta al tipo di difesa in profondità tanto cara al Luttwak77 e in un certo senso accennata vagamente anche da Ammiano.78 La linea sull'Eufrate non venne smantellata dopo il 299, e rimase come linea arretrata di difesa a protezione della Siria romana: ancora nel 359, quando Shapur invaderà in forze la Mesopotamia minacciando apparentemente la Siria, Ammiano menzionerà esplicitamente la messa in allarme dei castella di questa linea, un generale rinforzo dei punti più critici della medesima_79 e la pianificata distruzione a scopo difensivo di alcuni dei ponti sul fiume80. L'impressione che deriva da queste considerazioni è che il nuovo sistema difensivo vedesse la Mesopotamia in sé come una sorta di “ammortizzatore”, un’area di difesa in profondità sufficiente ad assorbire sia le più frequenti incursioni a bassa intensità, sia le eventuali invasioni nemiche su grande scala, tramite una rete di punti fortificati costituiti da città-cardine (Amida, Nisibi e Singara erano le principali), integrate da fortezze minori a presidio delle vie d’accesso, in cui erano stabilmente stanziate le guarnigioni di limitanei; nell'ambito di questa struttura difensiva si sarebbe poi sviluppata l'azione dell'esercito mobile romano. Un simile sistema costringeva i Persiani, nell'ambito della definizione della loro strategia offensiva, a concentrare le forze in lunghi, difficili assedi, necessari per eliminarne progressivamente i cardini - ed infatti questa fu la costante finalità delle maggiori campagne persiane nel corso del regno di Costanzo, come abbiamo già accennato. Durante tali assedi, l'esercito sassanide sarebbe stato però, in teoria, costantemente minacciato alle spalle dall’intervento dell’esercito mobile romano, al quale, per non vanificare la campagna con una ritirata, avrebbe dovuto offrire battaglia campale. In alternativa, gli strateghi persiani avrebbero potuto puntare ad eliminare in via preventiva l'esercito mobile romano in un grande scontro campale (come fu probabilmente pianificato nel 348, vedasi cap. 12), per poi potersi occupare del sistema fortificato senza la minaccia del suo intervento. In definitiva, i Persiani, per poter ottenere qualunque risultato strategicamente significativo e per poter mirare alla riduzione delle difese fortificate in Mesopotamia, avrebbero dovuto comunque accettare battaglia dall'esercito mobile romano in un contesto, dal punto di vista territoriale e logistico, fortemente favorevole a quest'ultimo; un tipo di scontro che, come vedremo, fu un'invariabile obiettivo di Costanzo. Questo complesso sistema difensivo in profondità copriva quello che era probabilmente percepito come il "vero" limes imperiale, quello dell'Eufrate, a sua volta ben presidiato. 77 Luttwak 1976 AM XIV,3,2: […] i territori della Mesopotamia, esposti a frequenti incursioni, erano difesi da presidii militari e da guarnigioni dislocate nelle campagne [...] 79 AM XVIII,7,6 80 AM XVIII,8,1 78 29 Fig. 2: La Mesopotamia romana secondo Dillmean (1962): la linea tratto-punto indica il probabile limes effettivo post-299, che si sovrappone al Tigri, escludendo dunque dal controllo diretto le satrapie transtigritane. Costanzo fu da sempre attivo promotore di un rafforzamento del già imponente sistema difensivo fortificato mesopotamico voluto da Diocleziano; evidentemente questa era una sua visione strategica indipendente, almeno in parte, dalla situazione che si trovò a fronteggiare come Augusto. Infatti Ammiano81 specifica che gran parte delle sue opere di consolidamento della rete difensiva furono compiute mentre egli era ancora Cesare82, e consistettero fondamentalmente nella fortificazione di Amida e nella rifondazione di Constantia.83 Amida (che Ammiano descrive anche come deposito strategico di artiglieria) divenne subito il nuovo fulcro difensivo dell’area a nord del massiccio del Tur'Abdin, quello che Ammiano chiama mons Izala84, così come Nisibi costituiva sin dai tempi di Diocleziano il fulcro della parte centrale del sistema, ora integrato dalla fortezza di Bezabde (acquisita nel 299), posta ad Est di Nisibi, sulla riva occidentale del Tigri, e parzialmente protetto dall'area di oscillante connotazione costituita dai territori transtigritani coinvolti nel patto del 299. Il terzo cardine strategico della Mesopotamia romana era Singara, che ne costituiva praticamente il limite sud-orientale; oltre quest'area i Romani non reclamavano territori mesopotamici - la città di Hatra, la prima di una certa importanza ad est di Singara, aveva costituito già in passato un luogo di difficile controllo per entrambe le potenze, e Ammiano, durante la ritirata dell'esercito di Giuliano nel 363, ne descrive le rovine lasciate in stato di abbandono.85 81 AM XVIII,9,1 Probabilmente dopo la prima suddivisione dell'impero nel 335, ved. Blockley 1989, p. 472 83 Dilleman 1962, citando Josh. Styl. Chron. 91, sostiene che la finalità della rifondazione di Constantia fosse la difesa dalle incursioni degli Arabi più che da quelle dei Persiani 84 AM XVIII,6,12 85 AM XXV,8,5 82 30 Costanzo costruì anche due altre fortezze “minori” 86; una, Cefae, sul Tigri e presumibilmente parte del sistema difensivo settentrionale centrato su Amida, l'altro, di più difficile identificazione, potrebbe coincidere con Tourhabdion, situato più a Sud, destinato quindi probabilmente a rafforzare le difese nel settore di competenza di Nisibi.87 7.3 L’esercito L'odore di guerra che doveva giungere acre ai sensi di Costanzo nei primissimi anni del suo impero ci è trasmesso da diverse fonti che sembrano dipingere un clima di preparazione, di attesa, di profondo adeguamento. Oltre ai passi diplomatici e al rafforzamento delle difese fortificate, siamo a conoscenza di azioni svolte da Costanzo nei confronti del suo stesso esercito, mirate evidentemente a prepararlo ad un conflitto. Un passo di Giuliano descrive come l'imperatore reagì ad un diffuso clima di lassismo_e ad un'organizzazione piuttosto carente sotto diversi punti di vista: Il precedente periodo di pace aveva rilassato le truppe e alleggerito il fardello di chi doveva compiere servizi pubblici. Ma la guerra richiedeva soldi, provviste, approvvigionamenti su ampia scala, e ancora più richiedeva resistenza, energia ed esperienza militare da parte delle truppe. Nella quasi totale assenza di tutto ciò, tu personalmente ottenesti e organizzasti tutto, addestrasti coloro che avevano raggiunto l'età per il servizio militare, mettesti assieme una forza di cavalleria che equilibrasse quella nemica, ed emettesti ordini affinché la fanteria continuasse ad addestrarsi. Non ti limitasti a dare ordini e fare discorsi, ma tu stesso ti addestrasti assieme alle truppe, mostrasti loro il loro dovere tramite l'esempio, e li rendesti esperti nell'arte della guerra. Poi riuscisti a trovare fondi, ma non aumentando l'entità delle tasse straordinarie come facevano gli ateniesi ai loro tempi, che usavano raddoppiarli o aumentarli ancor di più. [...] Le truppe sotto la tua guida furono abbondantemente approvvigionate, non al punto da provocare quella sazietà che conduce all'insolenza, ma nemmeno queste furono condotte all'insubordinazione in seguito alla mancanza di ciò che è loro necessario. 88 Costanzo sembrò dunque agire energicamente per riportare disciplina e ordine tra le sue truppe, e per guadagnarsene il rispetto. Non solo, però: egli mirò ad un miglioramento qualitativo del soldato tramite un addestramento intensivo, e agì anche in ambito tattico/strategico rafforzando la cavalleria romana per equilibrare (per quanto questo sia ovviamente un concetto molto vago) quella nemica; su questo Giuliano sembra mettere enfasi. Lo stesso Giuliano tornerà in seguito a dissertare sulla cavalleria di Costanzo: Che imperatore si può citare che nel passato abbia pianificato e ricreato un sì ammirevole tipo di cavalleria e simili equipaggiamenti? Prima ti allenasti ad indossarli, e poi insegnasti agli altri come utilizzare questo genere di arma a cui nessuno può resistere. [...] La tua cavalleria era quasi illimitata in numero e tutti i cavalieri sedevano sui cavalli come statue, e le loro membra erano coperte con un'armatura che seguiva fedelmente le forme del corpo umano. Essa copre il braccio dal polso al gomito, e quindi sino alla spalla, mentre una cotta di maglia protegge spalle, dorso e petto. Testa e volto sono coperti da una maschera metallica, che rende 86 Hist. Jacob., ed. Nau, p. 7,5-13 Blockley 1989, p.473 88 Jul. Or. I.21B-22A 87 31 coloro che la indossano simili a statue scintillanti, poiché nemmeno le cosce, le gambe e le estremità dei piedi sono privi di armatura. E' attaccata alla corazza una fine rete di maglia, cosicché nessuna parte del corpo è visibile o priva di protezione, poiché questa protezione intrecciata copre anche le mani, ed è così flessibile che chi la indossa può anche piegare le dita. 89 Questo passo si riferisce alla battaglia di Mursa (351 d.C.) ma, in considerazione dell'enfasi posta sul concetto di "nuova" arma e delle parole iniziali di questo passo, è difficile non pensare che Giuliano volesse riferirsi allo sviluppo della cavalleria pesante anche nel passo precedente. Il riferimento al "bilanciare la cavalleria nemica", che notoriamente era abbondantemente costituita da questo genere di arma, può dunque essere interpretato in tale senso. Non è questo il luogo per approfondire lo sviluppo dei cosiddetti clibanarii e cataphracti o cataphractarii, ma se il rapido giudizio di Giuliano sull'efficacia di quest'arma rientra nel tono panegiristico che caratterizza la sua orazione, ed è notoriamente smentito dai fatti, il suo voler sottolineare come si debba a Costanzo lo sviluppo della cavalleria corazzata romana è comunque interessante. Sappiamo che nemmeno questo è del tutto vero, abbiamo menzione dell'impiego di unità costituite da cavalleria pesante nell'esercito romano anche prima, ma non è escluso che Costanzo abbia voluto dare un impulso nuovo e sensibile all'evoluzione di un tipo di arma che in ambito romano non aveva mai raggiunto (né mai raggiungerà in seguito) significativi livelli di impiego e di efficacia. E' quindi possibile che proprio Costanzo, mosso dall'intenzione di porre un "contraltare" ai cavalieri pesanti persiani, abbia voluto cercare di imitarne l'utilizzo estensivo, per poi rendersi conto dell'inutilità di una simile iniziativa, e che ne abbia quindi, in seguito, nuovamente ridotto la rilevanza numerica. D'altronde, per quanto significativo in termini generici, l'ultimo passo di Giuliano citato è contraddetto da Zosimo90, il quale, a proposito della battaglia di Mursa, assegna ai sagittarii il ruolo di arma decisiva che Giuliano affida invece ai clibanarii, mentre di questi ultimi Zosimo non fa nemmeno menzione. Non vogliamo qui indagare sulla natura della presenza o meno di cavalleria pesante romana a Mursa, ma la sensazione è che le parole di Giuliano sui catafratti/clibanari romani rappresentino più un cliché strettamente legato all’esercito di Costanzo che una realtà tattica legata al singolo evento. Abbiamo, infatti, una menzione di cavalieri pesanti nell’esercito di Costanzo anche in Libanio (riferita alle prime campagne sul fronte orientale nei tardi anni ‘30 del IV secolo): [Costanzo] colui che coprì con armature i_propri cavalieri con cura maggiore di quella impiegata dai persiani stessi; colui che protesse gli stessi cavalli dalle ferite per mezzo di armature. 91 In Ammiano, poi, a proposito del trionfo celebrato da Costanzo nel 357, appare il famosissimo (e ambiguo) passo: cataphracti equites quos clibanarios dictitant.92 Ammiano si dilunga poi in una stupita descrizione che ricalca in linea di massima quella di Giuliano nel paragonare i cavalieri a statue e nel sottolineare come le armature si adattassero ai corpi. Come concludere questo excursus? La cavalleria pesante, già da tempo presente ai margini dell’esercito romano, subì probabilmente un forte impulso ad opera di Costanzo II (non c’è ragione di dubitare di ciò), che la ritenne una soluzione tattico-strategica ottimale in vista di un conflitto contro i “maestri” nel campo. 89 Jul. Or. I.37C-38A ; Giuliano menziona di nuovo i cavalieri pesanti a proposito dello stesso episodio in Or.II.57C, descrivendone ulteriormente le armature e specificando che essi non necessitano di scudo. 90 Zos. II,50 91 Lib. Or. XVIII,206 92 AM XVI,10,8 32 Tale impulso sembra aver agito lungo due direttive, quella - appunto - prettamente tattico-strategica, e quella propagandistica. Sembrerebbe, infatti, che citare i cavalieri pesanti ed il loro inusuale equipaggiamento fosse diventato un vero luogo comune strettamente legato alla descrizione dell’esercito di Costanzo, tanto che la presenza ed il ruolo fondamentale di queste unità appaiono nelle descrizioni delle gesta dell’Augusto anche quando, probabilmente, la loro reale partecipazione ( e/o l’entità della medesima) ai fatti era molto limitata o quantomeno fortemente in dubbio, come nel caso di Mursa. E’ quindi probabile che l’aspetto propagandistico dell'abbondante e vistosa presenza di unità di cavalleria pesante sia rimasto quello preponderante rispetto all'esiguo significato tattico e strategico. Non stupisce dunque che le fonti, pur tornando con insistenza sull’argomento, menzionino più che altro l’aspetto particolarmente imponente e inusuale di questi cavalieri, e che i giudizi “tecnici” si limitino a commenti formali ed evidentemente di mera facciata. Risulta infatti molto probabile, come già accennato, che lo schieramento di unità di questo genere messo in atto da Costanzo all’inizio delle sue guerre persiane si fosse rivelato in breve tempo del tutto inefficiente, e che all’epoca di Mursa l’impiego di tali unità fosse già molto limitato, e forse ormai analogo a quello precedente la sua temporanea "riforma". D'altronde Giuliano stesso vivrà in prima persona uno dei più noti fallimenti della cavalleria pesante romana, quello di Strasburgo nel 357, quando, le turmae di cataphractarii sull'ala destra dello schieramento romano vacilleranno appena aperte le ostilità, e solo l'arrivo di Giuliano in persona in quel punto ne impedirà la rotta completa. Dopo la morte di Costanzo, le menzioni di unità romane di cavalleria pesante nelle fonti torneranno ad essere rare e di scarsa rilevanza; la presenza di unità di cavalleria pesante nell’esercito romano alla fine del IV secolo è testimoniato dalla Notitia Dignitatum, ma il ruolo sul campo di questo tipo d’arma tornò ad essere secondario, come era sempre stato. Tornando ai preparativi messi in atto da Costanzo in vista del conflitto, è interessante citare ancora Libanio93, il quale menziona significativamente l'arruolamento di ausiliari goti a integrare le truppe già presenti, probabilmente nell’ambito del patto del 332 stipulato da Costantino coi Goti Tervingi, che vincolava questi ultimi a fornire contingenti militari ai Romani su richiesta94. In definitiva, è evidente che l'insieme di queste informazioni forniteci dalle fonti mostra un lavoro preparatorio su larga scala, per quanto reso possibile dal nuovo contesto imperiale, e in diversi ambiti, con finalità prevalentemente (anche se non esclusivamente) difensive, presumibilmente volto a conservare lo status quo del trattato del 299: ciò costituirà l’obiettivo strategico di base di Costanzo II sul fronte persiano fino alla sua morte. 8. DIFESA ATTIVA Esaminata la situazione generale al 338 d.C., cominciano i nostri problemi. Non sappiamo infatti con esattezza quando si aprirono effettivamente le ostilità, se vogliamo escludere da questo ambito e considerare a sé stante la repentina campagna persiana del 337 che portò al primo assedio di Nisibi, e che era finalizzata a sfruttare un ben preciso frangente. Il problema della cronologia sarà piuttosto assillante in tutta la trattazione che riguarda le guerre persiane di Costanzo, perlomeno fino a che non entrerà in gioco come fonte a nostra disposizione Ammiano Marcellino, ma mancano ancora più di tre lustri a quel momento. La prima attestazione priva di qualunque ambiguità di combattimenti significativi riguarda eventi del 343, e di questi episodi parleremo a lungo in seguito (cap. 9). 93 Lib. Or. LIX,92-93 Sulla natura di questo patto vedansi Heather 1991, pp.107-115; Lenski 2002, pp.22-25 e 174-152; Barbero 2006, pp.95-96. 94 33 E’ però piuttosto improbabile che fino ad allora le due potenze si siano solo studiate. E’, in primo luogo, possibile che questo periodo, in cui l’attività militare sembra, a giudicare dalle fonti, estremamente ridotta, fosse conseguenza di accordi tra le due parti, contestuali o di poco successivi all’elevazione di Costanzo ad Augusto: sarebbe in effetti plausibile ipotizzare che Costanzo, nell’ambito della situazione appena descritta, potesse aver inviato ambascerie a Shapur proponendo la restaurazione di Arsace sul trono armeno e offrendo in cambio la rinuncia a portare avanti la campagna offensiva preparata da Costantino95, il che sarebbe a sua volta coerente con l’ipotesi di Stein su un trattato nel 33896 e potrebbe quindi aver limitato per qualche anno le azioni belliche a poco più che scaramucce di confine. E’ un quadro ipotetico, certamente possibile, ma che probabilmente non è necessario “imporre”: una serie di stagioni interlocutorie caratterizzate da incursioni su scala ridotta da ambo le parti si può considerare comunque complessivamente coerente con la situazione strategica esistente, anche in assenza di trattati di cui le fonti, d’altronde, non riportano alcuna traccia. Shapur, fallito sotto le mura di Nisibi il suo primo, repentino impeto offensivo perdendo l’importante effetto sorpresa e usurando notevolmente il proprio esercito, trovandosi in posizione diplomatica certamente non particolarmente vantaggiosa, e con Costanzo ormai giunto nell'area – fattore che costituirà sempre un forte deterrente per il re persiano - aveva valide ragioni per attendere con calma le condizioni adatte ad una nuova, futura offensiva su larga scala, compiendo nel frattempo azioni di ridotta entità per logorare e tenere in tensione le difese nemiche, ma senza rischiare scontri campali che fossero più di una scaramuccia, le cui conseguenze avrebbero potuto vanificare i suoi stessi piani per il futuro prossimo. Costanzo, che non disponeva di risorse adeguate a prendere iniziative su grande scala, e che aveva dovuto assumere, come abbiamo visto, un atteggiamento strategico di natura prevalentemente difensiva, promuoveva cionondimeno periodiche incursioni di media entità in territorio nemico allo scopo di provocare il nemico, sperando così di spingerlo ad accettare uno scontro campale potenzialmente risolutivo, vinto il quale egli avrebbe imposto il rispetto del patto del 299 tramite un nuovo trattato che lo riconfermasse, il che costituiva l'obiettivo primario dell'Augusto. In fondo, è proprio questo che si legge tra le righe di un brano di Libanio97, ove il retore loda la prudente strategia di Costanzo in quei primissimi anni dopo la sua elevazione. Egli ci descrive periodiche offensive in terra persiana guidate dall’imperatore in persona, quindi in presenza del suo esercito mobile, volte a devastare le zone appena oltre il Tigri allo scopo di attirare il nemico in uno scontro campale, mentre i Persiani, sempre aggressivi in assenza di Costanzo, rifiutavano regolarmente lo scontro ogniqualvolta egli si mostrasse di persona con le sue truppe. D’altronde, il rifiuto di rilevanti scontri in campo aperto, confidando nell’esaurimento delle offensive nemiche per progressiva e graduale usura, rappresentava una applicazione strategica difensiva abbastanza costante da parte dei Sassanidi nella storia delle loro vicende belliche contro Roma; a maggior ragione, in un contesto in cui una vera e propria offensiva romana era pressoché impossibile, è comprensibile che Shapur lasciasse sfogare ed esaurire le limitate incursioni romane senza mettere minimamente a rischio il proprio esercito. Libanio loda Costanzo per aver evitato, nell'ambito di questa oculata gestione strategica, inutili grandi assedi, con successive inevitabili ritirate, nell'evidente impossibilità di portare avanti una campagna offensiva su larga scala, ma di aver invece costretto i Persiani a subire costantemente inattese, improvvise, pungenti, logoranti controffensive da parte del suo esercito da campo. 95 Blockley 1992, p.176 n.4 Ved. cap. 6 e nota 61 97 Lib.Or. LIX,76-82 96 34 In realtà, l’efficacia di queste azioni romane non andava oltre il mettere un po’ di pressione su Shapur e lo strappargli, talvolta, l’iniziativa. In definitiva, però, Costanzo non aveva alternative più promettenti, e probabilmente utilizzò al meglio le proprie risorse: senza rischiare, cioè, di sacrificarle in una appariscente ma pericolosa e inopportuna “invasione” della Persia, ma senza paura di metterle in campo e utilizzarle prendendo l'iniziativa e sfidando apertamente, seppur inutilmente, Shapur. E' necessario porre enfasi su quest’ultimo concetto, tutt’altro che scontato e banale, poiché noi sappiamo98 quanto allora fosse largamente diffusa l'aspettativa di una gloriosa e trionfale azione di profonda conquista in Persia da parte di Costanzo: la realizzazione, cioè, dell’opera incompiuta del padre. Il non aver ceduto davanti a questa pressione, ma l'aver gestito la situazione in modo meno vistoso e popolare ma certamente più saggio, equilibrato e realistico in relazione al mutato contesto strategico, merita di essere sottolineato come dimostrazione di forza e di pragmatismo da parte dell'Augusto, e non di debolezza o indecisione come talvolta viene sostenuto. Anche Giuliano offre tra le righe del suo panegirico una breve descrizione della strategia adottata da Costanzo in questi anni - il passo in questione si riferisce probabilmente al 34099: Non mi dilungherò sul tuo grande schieramento di armi, cavalli, barche fluviali, macchine da guerra e cose simili. Ma quando tutto fu pronto, e arrivò il momento di fare uso appropriato di tutto ciò, furono costruiti ponti di zattere sul Tigri e furono costruiti diversi forti a guardia del fiume. Intanto, il nemico mai osò difendere la sua terre dai saccheggi, e ogni cosa utile che loro possedessero fu presa da noi. Questo, in parte perché avevano paura di offrire battaglia, e in parte perché coloro che erano così avventati da farlo, erano puniti sul posto. Questo è un mero sommario delle tue invasioni del territorio nemico. […] Tu spesso attraversasti il Tigri col tuo esercito e passasti un lungo tempo nel territorio nemico, ma sempre tornasti vittorioso. Poi, visitasti le città che avevi liberato, e a cui avevi assicurato pace e abbondanza, tutte le possibili benedizioni, e tutte insieme. Così, per mano tua, ricevettero ciò che avevano desiderato così a lungo, la sconfitta dei barbari e la creazione di trofei di vittoria sulla disonestà e la codardia del nemico. Disonestà dimostrata quando ruppero trattati e interruppero la pace, e codardia quando mancarono del coraggio di combattere per la propria terra e per ciò che era loro caro. 100 Queste parole, al netto di ciò che è puramente finalizzato all’esaltazione della figura di Costanzo, confermano comunque in maniera significativa quanto sopra discusso101, cioè che la strategia 98 Questo sembra essere testimoniato, tra l'altro, dall'anonima dedica a Costanzo II dell' Itinerarium Alexandri, epitome delle campagne persiane di Alessandro il Grande e di Traiano, in cui l'Augusto, sul punto di intraprendere un'analoga campagna, viene paragonato ai due grandi precursori. L'opera, contemporanea ai fatti che stiamo analizzando (la probabile datazione è attorno al 340 d.C., ved. Barnes 1985, p.135), sembra mostrare in maniera chiara e netta quali fossero le diffuse aspettative nei confronti di Costanzo in relazione alla guerra ereditata dal padre. 99 Dodgeon-Lieu,1991, p.385 nn.16 e 17 , in cui si sottolinea che il 12 Agosto del 340 Costanzo era ad Edessa come testimoniato da un decreto da lui ivi emesso in quell’anno (CTh XII,1,30); Cth. 6.4.5-6 testimonia invece la presenza di Costanzo ad Antiochia il 9 Settembre dello stesso anno; ved. Barnes 1980,p.162 100 Jul. Or. I.22A-D 101 E' chiaro che trattandosi, sia nel caso di Libanio che per quanto riguarda Giuliano, di panegiristi, il giudizio va preso con le molle; un'attenta e razionale analisi di quanto riportato sembra però condurre a conclusioni, quelle esposte, plausibili e credibili. Lo stesso Libanio, anni dopo, nella sua orazione funebre per Giuliano ( Or.XVIII, 206), descriverà nuovamente la strategia di Costanzo ribaltando però il suo giudizio: in questo caso sono però del tutto evidenti la manipolazione e la strumentalizzazione operata a vantaggio della figura di Giuliano che conduce Libanio ad accusare Costanzo di essere 35 globalmente difensiva dell'imperatore prevedesse per i suoi scopi e come sua parte integrante un'attività offensiva di media intensità finalizzata ad attirare Shapur in un grande scontro campale, costituendo così una sorta di "difesa attiva"102. 9. 343 D.C. : ADIABENICUS MAXIMUS Come abbiamo già avuto occasione di sottolineare, Costanzo era fortemente influenzato, nella sua politica di quegli anni, dalla caotica situazione interna all'impero romano. Nel 340 Costantino II, fratello e co-Augusto di Costanzo e Costante, decise di inviare truppe ad est; quello che poteva apparire come una collaborazione nella gestione della situazione sul fronte persiano, era in realtà solo una copertura per transitare nelle zone di pertinenza di Costante ed attaccarne i territori italiani: ne nacque una breve guerra civile che costò la sconfitta, e la vita, a Costantino II, le cui province passarono sotto il controllo di Costante. Certamente tutto ciò non tranquillizzava Costanzo; egli sapeva non solo di non poter contare sul supporto dell’unico fratello rimastogli, ma anche di doversi guardare da lui lungo i confini interni che delimitavano le zone di pertinenza dei due Augusti; ciò, inevitabilmente, lo costringeva a spalmare ulteriormente le sue risorse già divise tra il fronte persiano e quello danubiano. In questo contesto strategico che, dunque, andava complicandosi sempre più, Costanzo dovette fare i conti con un ulteriore fattore di notevole peso, quello religioso. Nell'impero romano la religione cristiana si diffondeva e acquistava un peso sempre maggiore; essa era ormai supportata dall’establishment anche a livello ufficiale, e non solo al di qua dei limites. Tutto ciò non poteva non creare un clima di sospetto, sempre più netto e minaccioso, da parte delle autorità persiane verso i cristiani residenti all'interno dell'impero Sassanide. Si assistette, in effetti, ad una vera e propria escalation, ben testimoniata dalle sorte toccata a Simeone, figura-simbolo in questo contesto, in quanto vescovo di Seleucia-Ctesifonte e leader carismatico dei cristiani di Persia. Nel 340 Shapur gli impose di raccogliere tasse doppie, rispetto al normale, presso la sua comunità; al rifiuto del vescovo, il re ebbe il suo casus belli e imprigionò il religioso accusandolo di mancanza di lealtà verso lo stato; contestualmente cominciarono le persecuzioni verso i cristiani, che proseguirono in un crescendo culminato nel 344 con l'esecuzione di Simeone e con un generalizzato massacro di cristiani, proseguito anche nel 345; le persecuzioni continuarono, in realtà, durante tutto il regno di Shapur103. Il fatto che all'acuirsi delle persecuzioni verso i cristiani di Persia corrisponda il primo atto bellico di una certa consistenza dopo 5 anni di stasi, e che l’iniziativa sia stata presa da Roma, fa fortemente sospettare che tra le due situazioni vi sia un legame. Che fosse un atto di soccorso verso fratelli cristiani, o che per Costanzo fosse un'occasione imperdibile a fini politici, strategici e propagandistici (come è oggettivamente più probabile), resta il fatto che nel 343 l’esercito romano varcò il Tigri e invase l'Adiabene (e forse anche Arzanene e Corduene). Le tre satrapie erano a popolazione sostanzialmente cristiana, il che spiegherebbe e motiverebbe in buona parte l’azione offensiva pianificata e compiuta su questi obiettivi: il sostegno della popolazione locale è sempre un fattore di grande importanza durante un’invasione, e ai cristiani vessati e perseguitati di quelle terre i Romani potrebbero essere apparsi come una sorta di "liberatori": Costanzo avrebbe dunque opportunamente sfruttato questo fattore. I Persiani, così come i Parti prima di loro, usavano mobilitare due diversi tipi di truppe: truppe locali al comando di funzionari di frontiera, e l'esercito di linea reclutato nella totalità dell'impero. pressoché in combutta con Shapur; di conseguenza il passo in questione non è ritenuto rilevante ai fini del nostro studio. (Ved. cap. 2) 102 Blockley 1992, pp.14-16 103 Blockley 1992, p.15 36 Le prime erano talvolta utilizzate per incursioni di piccola-media entità in territorio nemico104, e presumibilmente per la prima difesa locale. Le fonti testimoniano questo aspetto, e mostrano la separazione tra i due diversi tipi di truppe. Tacito racconta che [Vologese] cinge del diadema reale il capo di Tiridate e affida a Monese, un uomo della nobiltà, insieme a reparti di Adiabeni, l'efficentissima guardia dei cavalieri [...]105 Sebbene si riferisca nella fattispecie ad altri episodi, la menzione dell’utilizzo di reparti Adiabeni come truppe locali si accorda perfettamente al nostro studio. Le truppe Adiabene, nel contesto del 343, sarebbero presumibilmente state composte in gran parte da cristiani, ed è comprensibile che possano aver difeso con scarso entusiasmo gli interessi di un regno che li perseguitava da quelli di un impero che invece li avrebbe accolti e integrati lasciando loro libertà di culto. D’altra parte, il grosso dell’esercito di linea, fedelmente alla consueta operatività strategica persiana, difficilmente sarebbe intervenuto, perlomeno a questo livello dell’offensiva, per non offrire ai romani battaglia campale. Questo potrebbe spiegare in parte l'apparente nettezza della vittoria romana e la scarsa opposizione persiana a questa offensiva di Costanzo106. Oltre al titolo Adiabenicus Maximus, che Costanzo in seguitò inserirà nella sua titolatura107, abbiamo infatti chiari riferimenti nelle fonti ad una vittoria militare108 e addirittura ad un trionfo109 di Costanzo sui Persiani nel 343. Libanio racconta la presa di una città persiana nel 343110; una città di una certa rilevanza, egli sottolinea. Il suo riferimento alla moderazione e alla benevolenza con cui Costanzo trattò i prigionieri, che non uccise né rese schiavi, ma trasferì in massa in Tracia come coloni, è molto importante. Al di là della retorica panegiristica volta a lodare l'imperatore per la sua "magnanimità", si può riconoscere nelle azioni dell'Augusto un atto coerente ad una politica non nuova, in generale, agli imperatori romani, ma che assunse contorni particolari con Costanzo, e poi Giuliano, in Persia: quello della deportazione. In realtà sul fronte mesopotamico le conquiste di città da parte dell'uno o dell'altro contendente avevano quasi sempre come conseguenza un trasferimento di parte della popolazione all'interno dei confini del vincitore. Questi atti avevano diverse finalità: una propagandistica, in quanto mettevano sotto gli occhi del proprio popolo i frutti della vittoria, ma ne avevano anche uno politico-economico-sociale, che lo stesso Libanio, dopo aver raccontato della colonna di profughi che vide sfilare per due giorni interi, descrive perfettamente, nel considerare come merito primario di Costanzo l'aver riportato in gran parte alla civiltà una zona devastata della Tracia, provvedendola di gente che la coltivasse111 104 Dilleman 1962, p. 212. In quest'ottica si può probabilmente interpretare un passo di Zosimo ( III,12) che descrive raid persiani in territorio romano condotti al modo dei predatori; è plausibile che le truppe locali di frontiera al comando di nobili locali effettuassero questo genere di guerra. 105 Tac. Ann. XV,2 106 Blockley 1989, p.475 107 CIL III, 3705 108 Athanas. Hist.Ar.ad Mon. 16 , menziona una vittoria la cui notizia causò l'interruzione del concilio di Serdica (343344 d.C.) 109 Cedren. I.522 110 Lib. Or. LIX, 83-87 111 Trad. Barbero 2006, p. 122 37 Queste parole evidenziano un aspetto importante della politica di confine di Costanzo II, rimarcato in maniera molto forte anche dall'Itinerarium Alexandri, ove, fra gli scopi primari dell'auspicata guerra di conquista di Costanzo in Persia, viene sottolineata la prospettiva della ricollocazione sul suolo romano, e dell'integrazione nella società romana, delle moltitudini oppresse dall'impero Sassanide: accolti infine per opera tua nel nome dei nostri e ricevuta in dono la cittadinanza romana entro le nostre province, imparino ad essere liberi per beneficio di chi governa, essi che là per superbia dei re sono considerati tutti soldati in tempo di guerra e servi in tempo di pace. 112 Questo passo offre una immagine di primissimo piano del significato dei concetti di integrazione e assorbimento vivi nell'impero romano, e suggerisce considerazioni di grande interesse sulla concessione della cittadinanza ai deportati113. Inoltre tutto ciò dà un'idea di quale fosse lo sforzo di Costanzo volto alla gestione delle province di confine - il ripopolamento della Tracia era stato un grave problema che sin dai tempi di Aureliano si provava a risolvere - evidentemente l'immigrazione proveniente da oltre il Danubio non era sufficiente114, e in questa circostanza abbiamo una "fotografia", tramite le fonti, delle complesse operazioni di trasferimento e deportazione che costituivano parte integrante dell'organizzazione sociale, politica ma anche strettamente correlata con l'arruolamento e dunque militare, dell'impero. Ciò esula e va ben oltre i fatti di una singola campagna per divenire un tratto caratteristico e di primaria importanza della gestione dell'impero da parte di Costanzo. Questo aspetto oltretutto fornisce una ulteriore motivazione di primaria importanza all’iniziativa militare del 343: la presenza di consistenti minoranze cristiane nell’impero sassanide costituiva un prezioso serbatoio umano da utilizzare, con reciproco vantaggio, per colmare i vuoti demografici che colpivano alcune aree dell’impero come la Tracia; un’ulteriore corrispondenza, dunque, tra vantaggi propagandistici, vantaggi politico-sociali e vantaggi strategici, che Costanzo seppe sfruttare. Nelle parole di Libanio, insomma, potremmo aver trovato il vero scopo, o uno dei maggiori obiettivi, di questa campagna offensiva. Libanio non dice, nella fattispecie, di che città si tratta . Una ipotesi concreta e coerente con il fatto che l'offensiva romana si svolse in Adiabene, è quella che identifica in questa ignota città Niniveh115, definita da Ammiano come importante città dell'Adiabene116. Tornando all’analisi delle fonti relative alla campagna del 343, si nota come Giuliano ponga meno enfasi di quello che ci sarebbe da attendersi sulla differenza tra ciò che questa campagna sembra aver significato e la "difesa attiva" degli anni precedenti, non facendo menzione specifica dei fatti relativi all’offensiva in Adiabene. In linea di massima, tutto sembra ricadere, dal suo punto di vista, nella generica descrizione della situazione militare di confine di quegli anni che egli propone nel passo con cui abbiamo chiuso il precedente capitolo117. In questo modo, Giuliano sembra forse ridimensionare troppo la campagna del 343, perlomeno se paragonato con le altre fonti. 112 Ved. nota 98 Barbero 2006, p.123-124 114 Barbero 2006, p.123 115 Dodgeon-Lieu 1991, p.385 n.18 116 AM XVIII,7,1 117 Ved. cap.8 e nota 100 113 38 Che egli non abbia voluto porre in evidenza una campagna motivata, forse, perlomeno da un punto di vista propagandistico, su basi religiose, potrebbe essere comprensibile, ma stona comunque il mancato approfittare di un'occasione simile per lodare il destinatario del suo panegirico. Resta dunque almeno un dubbio sull'effettiva dimensione di questa vittoria "adiabenica", della cui storicità però non possiamo dubitare. Non possiamo escludere che il trionfo, l'auto-titolatura e tutto l'apparato propagandistico che sembra circondare questo evento bellico, siano anche la risposta di Costanzo alle già menzionate pressioni da parte dell'opinione pubblica verso un'azione offensiva in profondità che mancava ormai da tempo e che era fortemente auspicata; l'occasione offerta dalla questione religiosa era in quest'ottica una di quelle da non perdere. La questione religiosa costituiva infatti un elemento catalizzatore delle tensioni dell'opinione pubblica, e una pronta e vistosa risposta all’evoluzione che essa viveva in Persia avrebbe avuto riflessi propagandistici notevoli; inoltre, come già sottolineato, essa costituiva un vantaggio strategico notevole, in quanto permetteva di appoggiarsi su gran parte della popolazione locale che, seppure in armi, non si sarebbe opposta troppo a chi l’avrebbe “liberata” dai persecutori per poi, nella migliore delle ipotesi, collocarla, secondo una prassi ormai nota, entro i propri confini in un territorio ove i profughi avrebbero avuto la possibilità di integrarsi e ricominciare una vita come coloni. Il popolo romano avrebbe avuto la sua grande vittoria persiana, per di più in nome della cristianità; Costanzo, oltre ad indubbi vantaggi strategici, sociali e politici, avrebbe avuto qualche altro anno per portare avanti la sua consolidata ed equilibrata politica estera con meno pressioni addosso. Se anche la campagna del 343 fosse dunque da vedere come un semplice picco nell'applicazione a livello operativo di una immutata politica strategica di difesa attiva, più che come una rottura con essa, esaminati gli scopi e le conseguenze, la valutazione risulta, ad ogni modo, positiva. E comunque, Giuliano, nella sua seconda orazione, riprendendo i fatti di quegli anni concederà infine qualcosa che ci lascia perlomeno col dubbio118: [...] in quell'occasione in cui essi [i persiani] non si avventurarono a difendere la loro terra, mentre lui [Costanzo, ma non necessariamente in persona] la devastava tra il Tigri e il Lycus. E il Grande Zab, allora Lycus, giunge proprio dalle profondità dell'Adiabene, prima di gettarsi nel Tigri. 10. 346 D.C. : IL SECONDO ASSEDIO DI NISIBI Negli anni immediatamente successivi a questi fatti non abbiamo, di nuovo, notizia certa di attività bellica di rilievo. La prima, nuova attestazione priva di ambiguità offerta dalle fonti di un'offensiva significativa da parte di una delle due potenze è infatti relativa al 346. Non a caso si tratta dell'unica stagione, dal 342 fino al 349, in cui sappiamo essere Costanzo assente dalla zona di operazioni.119 118 Jul. Or. II,74C Seeck 1916, 194, registra due decreti del Codex Theodosianus che testimonierebbero la presenza di Costanzo a Costantinopoli il 26 Maggio ed il 27 Agosto del 346 (rispettivamente CTh XVI,2,10 e CTh XI,39,4 ); Barnes 1980, p.64 n.15 è scettico sulla lettura del secondo dei due passi e propone di emendarlo: esso riguarderebbe in questa ipotesi un decreto pubblicato nel 342. Egli comunque non rifiuta la teoria diffusamente condivisa che Costanzo fosse assente dall’area di operazioni e che non sia intervenuto a sollevare l’assedio; Barnes si oppone, anzi, a talune letture di Ephr. Carm.Nis,XIII.4-6, che individuano nelle parole di Ephraim una prova dell’intervento di Costanzo a Nisibi durante la campagna. Barnes op.cit., p.163 n.14 fa notare che esse suggeriscono la presenza di Costanzo a Nisibi e attestano l’assedio mosso da Shapur alla città, senza però in alcun modo implicare la contemporaneità dei due fatti. A possibile conferma di ciò, Cth 11.7.5 registra la presenza di Costanzo a Nisibi il 12 Maggio 345, un anno prima. Inoltre, Barnes 119 39 Non è, probabilmente, un caso, il fatto che Shapur abbia approfittato proprio di ciò, riproponendo un'azione che unicamente al presentarsi delle medesime circostanze, cioè in assenza di Costanzo, aveva già tentato nove anni prima e proverà di nuovo quattro anni più tardi. Il suo esercitò attraversò il Tigri e, dopo averne devastati i dintorni, mise nuovamente Nisibi sotto assedio. Di questo secondo assedio sappiamo davvero poco, non abbiamo alcun dettaglio né sulle situazioni tattiche né sull'operatività strategica della campagna del re persiano. Dobbiamo accontentarci di ciò che riportano i cronisti, il che, comunque, anche in questo caso è sufficiente a delineare chiaramente l'esito dell'offensiva. Girolamo è estremamente conciso: Shapur assediò di nuovo, per tre mesi, Nisibi120 Teofane aggiunge opportunamente qualche significativa notizia: Ma Shapur, re dei persiani, tornò in Mesopotamia e assediò Nisibi per settantotto giorni; di nuovo frustrato nel suo tentativo, si ritirò. 121 Questo assedio sembra, dunque, la riproposizione di un’offensiva su larga scala finalizzata all’eliminazione del principale fulcro strategico delle difese romane in Mesopotamia. Evidentemente, anche questa volta i difensori seppero resistere più degli attaccanti. Seppure le informazioni a nostra disposizione siano scarne a proposito di questo episodio, e malgrado esso appaia un altro “picco” nell’ambito della consueta stasi, a questo punto si apre però un panorama per noi, fino ad ora, insolito. 11. LE NOVE BATTAGLIE La seconda metà degli anni '40, infatti, in contrasto con la guerra quasi esclusivamente d'attrito combattuta sul fronte persiano negli otto-nove anni precedenti, sembra presentare una serie di scontri campali apparentemente di un certo rilievo, perlomeno in relazione alle caratteristiche del contesto strategico nel quale ebbero luogo. Questo elemento è riscontrabile, seppure con contorni generalmente piuttosto nebulosi, in diverse fonti. Il brano che utilizzeremo come punto di partenza per poi approfondire l’indagine, è quello tratto dal Breviarium di Festo122, in cui sono brevemente riassunti gli eventi bellici più rilevanti accaduti nei 25 anni di guerre tra Costanzo e Shapur: In primo luogo, Festo scrive che: Costanzo combatté contro i Persiani con esiti variabili. Oltre alla guerra d'attrito tra le guarnigioni di stanza sul limes, vi furono nove battaglie; in sette occasioni queste furono condotte dai suoi generali, mentre egli fu presente in persona in due di esse. Festo si accinge ad elencare i nove episodi; riportiamo questa parte anche in originale, poiché proprio nella sua traduzione, o nel tentativo di ottenerne una univoca, si gioca la soluzione delle ambiguità in essa presenti: fa notare che il silenzio di Libanio nell’orazione LIX sul presunto intervento dell’imperatore durante l’assedio è significativo della probabile astoricità dell’episodio. 120 Hyeron. Chron., 346, p.236, 19 121 Theoph. Chronogr. a.m. 5837 122 Fest. Brev. 27 40 verum pugnis Sisarena, Singarena et iterum Singarena, praesente Constantio, ac Sicgarena, Costantiniensi quoque, et cum Amida capta est, graue sub eo principe res publica uulnus accepit. ter autem a Persis est obsessa Nisibis, sed maiore sui detrimento dum obsidet hostis adfectus est. Narasarensi autem, ubi Narseus occiditur, superiores discessimus. nocturna uero Eliensi prope Singaram pugna, ubi praesens Constantius adfuit, omnium espeditionum compensatus fuisset euentus, si locis et nocte aduersantibus, percitos ferocia milites ab intempestiuo pugnandi tempore imperator ipse adloquendo reuocare potuisset. Il problema sta, dunque, nel fatto che apparentemente, effettuata la più spontanea e letterale tra le possibili traduzioni, gli eventi elencati sono più di nove; se ne possono rilevare addirittura undici: Tuttavia, nelle battaglie a Sisara, Singara, Singara una seconda volta (in cui Costanzo era presente), e a Sicgara, a Constantia e quando Amida fu presa, lo stato subì gravi perdite sotto questo imperatore. Nisibi fu assediata tre volte, ma il nemico subì le perdite maggiori nel corso di tali assedi. Tuttavia, alla battaglia di Narasara, dove Narsete fu ucciso, fummo vincitori. Ma nella battaglia notturna a Eleia, vicino a Singara, l'esito di tutte le campagne sarebbe stato bilanciato se, essendo il terreno e la notte avverse, l'imperatore, nel rivolgersi a loro, fosse riuscito a richiamare i suoi soldati - eccitati dall'attacco - da una situazione inopportuna per una battaglia. Blockley123, che noi seguiremo, propone una lettura originale di questo passo che sembra portare ad una soluzione coerente con la menzione del "nove" come numero complessivo di scontri. Fatto salvo che le battaglie di Sisara, Singara (2), Sicgara124, la presa di Amida e i tre assedi di Nisibi sono, dal punto di vista della traduzione, punti fissi e privi di alcuna ambiguità in questo elenco, restano tre candidate per il nono posto – la Constantiniensis, la Narasarensis e la Eliensis. Blockley suggerisce che Constantiniensi quoque non stia ad indicare una battaglia combattuta nei pressi di Constantia, ma che sia un attributo del Sicgarena che lo precede , mediante il quale Festo intende specificare che anche la battaglia di Sicgara fu combattuta in presenza di Costanzo - il che è perfettamente plausibile ed anche coerente con la precedente menzione del fatto che Costanzo presenziò in due occasioni. A questo punto, il passo Eliensi prope Singaram .... Constantius adfuit , non potendo riferirsi ad una terza battaglia in cui Costanzo fosse presente, deve essere una ulteriore descrizione della già menzionata Singarena iterum preaesente Constantio, ed anche questo è assolutamente plausibile, oltreché, come vedremo, confermato dalle altre fonti. Non resta quindi che assegnare alla Narasarensis il posto di nona battaglia. Questa interpretazione dà coerenza al passo: in realtà però in esso si cela probabilmente un errore. Fermo restando il numero nove, che anche altre fonti125 menzionano come numero complessivo di eventi rilevanti, come vedremo dai racconti di Libanio e Giuliano la battaglia Narasarensis e la Eliensis costituiscono in realtà due fasi del medesimo episodio, quella Singarena iterum che vide la presenza e la partecipazione di Costanzo. Il che riduce ad otto gli episodi indipendenti effettivamente presenti nel passo di Festo. Per definire quale sia la vera, nona "battaglia", abbiamo fortunatamente Gerolamo, che probabilmente ha dedotto la sua lista da una fonte diversa da quella utilizzata da Festo; egli, dopo aver descritto la battaglia notturna di Singara (la Singarena iterum di Festo ), aggiunge: 123 Blockley 1989, pp.489-490 Sicgarena potrebbe essere una corruzione per Singarena. 125 Hyeron. Chron. 348, p.236, 3-237,2 ; Oros. Adv. Pag. VII,29,6 124 41 […] in effetti tra le nove grandi battaglie combattute contro i Persiani, nessuna fu più grande [della seconda Singara]; omettendo le altre, poi, Nisibi fu assediata, Bezabde e Amida furono prese. 126 E', quindi, proprio la presa di Bezabde del 360, che manca nel passo di Festo, il “nono” evento; esso, al pari della caduta di Amida del 359, riguarda le vicende degli ultimi anni di Costanzo, e ne parleremo, quindi, in seguito. E’ però forse il caso, a questo punto, di motivare la scelta di menzionare proprio in questo momento il passo di Festo: trattandosi, come abbiamo visto, di una descrizione che copre tutto l’arco dei conflitti tra Costanzo e Shapur, avremmo potuto prenderlo in considerazione in apertura, a scopo introduttivo, o in conclusione, nel trarre un bilancio; in realtà, però, è proprio in questo frangente che esso mostra la sua reale utilità: infatti, dedotti gli assedi di Nisibi, a proposito dei quali abbiamo una discreta conoscenza tramite altre fonti , e quelli di Bezabde e Amida, coperti in maniera completa da Ammiano Marcellino, restano le 4 battaglie di Sisara, Singara (2) e Sicgara; si tratta di una serie di eventi i cui contorni sono piuttosto nebulosi e confusi e che fondamentalmente ruotano attorno a quello che appare chiaramente, nelle parole delle nostre fonti, essere lo scontro campale di maggior rilievo in tutto il contesto trattato da questo articolo: Singarena iterum, la seconda battaglia di Singara. Quest'ultima, la cui datazione è tuttora dibattuta, è quasi certamente da collocarsi nel 348. Le altre tre, probabilmente, si svolsero in questi stessi anni127: nessuna altra fonte, purtroppo, suggerisce però alcun indizio. Se Sicgara è, come probabile, una erronea scrittura per Singara, tutte queste battaglie si svolsero in territorio romano, essendo notoriamente sia Singara che Sisara (40 km. a est di Nisibi) al di qua del limes. Il fatto che Gerolamo non ritenga necessario menzionarle ( a parte la seconda Singara, che definisce la più grande), pur avendone fornito il numero complessivo, suggerisce che si sia trattato di scontri di importanza limitata, forse vittorie tattiche persiane, stando a Festo, ma senza conseguenze a livello strategico, il che spiegherebbe in parte il silenzio di tutte le altre fonti. Indubbiamente esse possono aver avuto all'epoca un relativo risalto nell'ambito della stasi generalizzata di quegli anni, il che le ha rese meritevoli di essere considerate nel novero dei pochi episodi degni di menzione individuale, ma, probabilmente, nulla più: Singara è una posizione strategica di rilievo, come noto; è certamente possibile che Shapur abbia posto - o cercato di porre Singara sotto assedio in questi anni, spostando in parte le sue attenzioni da Nisibi (non per la battaglia di Sisara, che potrebbe essersi combattuta nell’ambito di un ulteriore tentativo di Shapur di raggiungere Nisibi, o nell’ambito della campagna del 346) ma mantenendo la stessa strategia di base volta al tentativo di eliminare i cardini del sistema fortificato romano; questa “attenzione” per Singara viene suggerita anche da alcuni passi di Ammiano, dai quali riceviamo, però, solo vaghi riferimenti a fatti probabilmente raccontati per esteso nei libri perduti della sua opera128. 126 Hyeron. Chron. 348, p.236, 3-237,2 Blockley 1989, p.475 n.60 128 XVIII,9,3 in cui elencando le unità di guarnigione ad Amida nel 359, menziona alcune di esse che avevano effettuato una sortita da Singara (come ho raccontato) e ucciso un gran numero di Persiani nel sonno; XIX,2,8 ove nell’ambito dell’assedio di Amida dello stesso anno viene descritto l’uso di artigleria che i Persiani avevano acquisito durante il saccheggio di Singara ; XIX,9,9 in cui, nel suo bilancio relativo dell’assedio di Amida, Ammiano sostiene che malgrado la vittoria di Shapur le perdite persiane superavano quelle romane, come era accaduto diverse volte presso Nisibi e Singara:; XX,6,5 ove nella narrazione dell’assedio di Singara del 360 i Persiani sfondano una torre nel medesimo punto ove era stata aperta una breccia nell’assedio precedente. Malgrado alcuni commenti all’opera di Ammiano tendano a riferire, forse troppo frettolosamente, tutte queste citazioni alla campagna del 348, l’unica prima del 360 che sappiamo con certezza essere stata diretta a Singara, nessuna tra le fonti (nemmeno quelle ostili a Costanzo) che pure si dilungano a proposito di quella campagna, menziona alcun assedio, né prima né dopo la battaglia; esse sottolineano anzi, generalmente, come i Persiani, dopo la battaglia campale, si ritirarono senza porre alcun assedio (ved. cap. 12). Più probabilmente i passi in questione si riferiscono ad altre campagne di entità minore che ebbero Singara 127 42 Ad ogni modo, in base a queste considerazioni, il fatto che attorno a Singara si possano essere combattute battaglie e scaramucce nell’ambito di campagne persiane di entità variabile è del tutto plausibile. Questo, d’altronde, è certamente il caso della seconda battaglia di Singara: di questo scontro sappiamo molto; ne conosciamo addirittura, seppure a grandi linee, lo svolgersi tattico. Le fonti che la citano sono diverse, e l'episodio sembra avere avuto una rilevanza del tutto diversa rispetto agli altri scontri elencati da Festo e Gerolamo. 12. 348 D.C. : LA BATTAGLIA DI SINGARA La datazione della seconda battaglia di Singara è dibattuta. Sebbene Gerolamo la ponga chiaramente nel 348129, e Libanio, scrivendo nel 348-349130, descriva questa battaglia come ¹ τeleuta…a mac», vi è un inspiegabile passo di Giuliano131 in cui il futuro imperatore data lo scontro sei anni prima della morte di Costante (che avvenne nel 350), il che collocherebbe la battaglia di Singara nel 344 ( o nel 343, a seconda del tipo di conteggio effettuato). Un'analisi dell'opera di Gerolamo dimostra che, sebbene egli non sia sempre di una precisione assoluta, raramente sbaglia di più di un anno132, e l'espressione di Libanio sembra piuttosto significativa. Considerate però la vicinanza cronologica di Giuliano ai fatti e la sua usuale attendibilità “tecnica”, è difficile trovare una motivazione alla base della sua diversa datazione133, a meno che non si voglia accettare la possibilità di un semplice quanto incomprensibile errore, o di una sua confusione con un’altra (ipotetica) battaglia combattuta presso Singara (presumibilmente, in questo caso, una di quelle elencate da Festo) nel 344 o 343 La tendenza recente da parte degli storici, che noi seguiremo, è comunque quella di accettare il 348 come collocazione cronologica effettiva di questa battaglia134. In quanto allo svolgimento dello scontro, esso è desumibile in maniera piuttosto chiara dal racconto di Libanio: Quando i persiani si stancarono delle incursioni dell'imperatore, e si stufarono della lunghezza della guerra [.....] arruolarono reclute tra gli uomini, dai giovani in su, e non permisero l'esenzione senza sanzioni nemmeno per i giovanissimi. Coscrissero anche le loro donne come vivandiere nell'esercito. come obiettivo; sembra potersi dedurre dagli accenni di Ammiano che esse abbiano comportato talvolta temporanei successi per gli assedianti; Ammiano stesso (XX,6,9), d'altronde, durante la narrazione dell'assedio del 360, sembra voler sottolineare proprio come Singara fosse una città difficile da difendere da parte dei Romani, ma anche impossibile (come è comprensibile, considerata la sua posizione) da tenere per i Persiani qualora l’avessero presa, il che la condusse ad essere più volte espugnata ma sempre con conseguenze temporanee e strategicamente limitate, come probabilmente sarebbe stato anche per l’assedio del 360 (ved. capp. 20 e 21) se la situazione strategica globale non fosse precipitata nel 363 : [...] del resto neppure nei tempi antichi nessuno poté mai portare aiuto a Singara in pericolo a causa dell'aridità delle località circostanti dovuta alla penuria d'acqua. Sebbene questa fortezza sia stata fondata nell'antichità in una posizione adatta per essere informati in tempo sui movimenti improvvisi dei nemici,fu tuttavia di danno allo stato romano poiché fu espugnata parecchie volte con perdite tra i difensori. Dunque, le ipotetiche conseguenze strategiche di questi episodi desumibili dalla comparazione dei passi di Festo e Ammiano, e che nessun’altra fonte a noi nota menziona, sarebbero comunque state certamente pressoché nulle. 129 Hyeron. Chron. a.348, p.236,3-237,2 130 Lib. Or. LIX, 99 131 Jul. Or. I,26B 132 Olivetti 1915, pp. 1019-1023 133 Olivetti 1915, p.1023, propone la possibilità di una corruzione del testo di Giuliano 134 Vedansi ad es. Blockley 1989 e 1992, Barnes 1980, p.164, che pone un’altra battaglia di Singara nel 343 sulla base del passo di Giuliano; le maggiori confutazioni a favore del 344 sono quelle di Bury 1896 e Portmann 1989 43 Vi erano diverse popolazioni di barbari lungo i loro confini, ed alcune di esse le persuasero con negoziati, altre le obbligarono con la forza, a condividere i loro pericoli e ad arruolarsi. A loro offrirono pagamenti in oro, un tesoro preservato sin dai tempi antichi, e per la prima volta pagarono soldati mercenari. [...] Praticavano l'addestramento durante la marcia, e si diressero verso il fiume. L'imperatore aveva avuto sentore di ciò che si preparava. Come avrebbe potuto una simile nuvola di polvere passare inosservata, quando si elevava fino in mezzo al cielo? [....] e i nostri esploratori, che avevano osservato le manovre, portarono notizie basate sull'osservazione e non di seconda mano. Quando un accurato rapporto su ciò raggiunse l'imperatore [...] egli preparò una strategia adatta ad affrontare le circostanze. I suoi ordini alle guarnigioni sul limes furono di ritirarsi in tutta velocità e non infastidire il nemico mentre costruiva ponti, di non prevenire il suo attraversamento, e di non impedire che fortificasse il campo; che lo si lasciasse scavare trincee, se lo voleva, ed erigere una palizzata in cui rifugiarsi, e anche accumulare scorte d'acqua e addirittura lo si lasciasse avere il vantaggio di scegliere il terreno. Se, infatti, avessero attraversato e si fossero accampati, questo non avrebbe causato in lui il panico; ma se fossero stati sconfitti in partenza, avrebbero avuto una scusa per ritirarsi. La strategia richiedeva che il nemico fosse illuso dalla facilità nel guadare il fiume. Quando queste apparenti concessioni furono fatte e nessuno di noi si oppose a loro, gettarono ponti sul fiume in tre punti, e lo varcarono ovunque a ranghi serrati. [...] Quando ebbero la necessità di fortificare la loro posizione [...] eressero mura circolari [...] Non vi era tipo di truppe che non fosse rappresentato nel loro esercito: arcieri, arcieri montati, frombolieri, fanteria pesante, cavalleria, e uomini armati da ogni parte. [...] Il loro re apparve. [...] Poi i Persiani svilupparono una strategia come segue: schierarono arcieri e lanciatori di giavellotti sulle alture e sulle loro mura, poi schierarono le truppe pesanti davanti alle mura. Le truppe rimanenti avanzarono verso il nemico per spingerlo all'azione. Quando videro i Romani muoversi, immediatamente si ritirarono per trascinarli a portata di tiro delle loro armi da lancio, cosicché fossero colpiti da sopra. Così l'inseguimento proseguì per un certo tempo, in realtà per la maggior parte del giorno finché i fuggitivi si chiusero all'interno delle mura. Dopodiché gli arcieri e le truppe sopra le mura che finora non avevano combattuto furono chiamati a sfruttare la situazione. In seguito l'imperatore ottenne una vittoria, non del tipo delle conquiste comuni, né come quelle ottenute frequentemente nel presente e nel passato, neppure una il cui esito dipendesse dall'abilità nelle armi e dall'equipaggiamento militare, e neppure una di quelle da condividere con altri, senza cui non sarebbe stata ottenibile. Fu una vittoria che possiamo a pieno diritto definire come appartenente al vincitore. Che tipo di vittoria fu? Egli, da solo, capì l'intenzione che si celava dietro a ciò che accadeva, e non solo non fu ingannato dallo schieramento nemico, ma egli solo gridò e ordinò alle nostre truppe di non procedere all'inseguimento per non esporsi ad un ovvio pericolo. [...] Tra i due campi vi era una distanza di 150 stadii [circa 30 km]; cominciarono l'inseguimento in mattinata ed erano presso le mura nel tardo pomeriggio. Considerando la situazione, il peso delle armi, la lunghezza dell'inseguimento, il calore rovente del sole, la sete critica, l'arrivo della notte e gli arcieri nemici sulle alture circostanti, egli decise di non dare corda ai persiani […] Se [i soldati romani] fossero stati più disposti a ragionare e la loro tempra non avesse sovrastato le sue indicazioni, nulla avrebbe impedito la sconfitta del nemico e la sicurezza dei vincitori. Tuttavia, più si trova colpa in ciò, più si incrementa la reputazione dell'imperatore. [...] 44 E' appropriato esaminare i meriti di coloro che combatterono. [...] Prima di tutto, quando si scontrarono con la cavalleria pesante davanti alle mura, utilizzarono una tattica superiore alle armature nemiche: infatti il fante si spostava lateralmente al cavaliere che lo caricava, rendendo l'attacco vano, e colpiva il cavaliere alle tempie con la sua arma mentre egli gli passava accanto, e lo faceva cadere, dopodiché il lavoro veniva portato a termine facilmente. [...] Poi essi rasero al suolo le mura circolari, mentre si riversavano all'interno. [...] Solo coloro che fuggirono furono risparmiati. Quando la rotta divenne manifesta, la loro azione richiedeva solo un giorno più chiaro, se possibile, per essere terminata. Ma quando la battaglia divenne notturna, furono bersagliati dalle alture e coperti di frecce da tutte le parti. [...] L'oscurità impediva loro di utilizzare le armi come sapevano fare; tuttavia la fanteria pesante avanzò verso le truppe leggere nemiche che basavano la loro efficacia sulla lontananza. Esausti, persero qualche uomo contro i nemici più freschi, ma li misero in fuga. [...] I Persiani abbandonarono il campo e si diressero verso i loro ponti di barche. [...] Definiamo allora le tre fasi della battaglia e tiriamo un giudizio: prima, il periodo precedente la battaglia, poi lo scontro in sé, e infine la fase della rotta. Il nemico riuscì ad attraversare il fiume non respingendo qualcuno che si opponesse loro, ma essendo lasciato agire liberamente da chi scelse di non impedirglielo. Quando giunsero nel nostro territorio e fecero ricognizioni, presero quelli che ritenevano i punti più vantaggiosi sul territorio, ma come se fossero affetti da mancanza di armi, non lanciarono l'offensiva contro coloro che apparvero. Finora avevano avuto buon gioco, ma quando gli eserciti si scontrarono, invece di fronteggiare chi li attaccava e di combattere corpo a corpo, cominciarono a fuggire. Una volta barricatisi nel loro perimetro difensivo, non mantennero difese esterne, ma abbandonarono il forte e in più persero il tesoro che era nelle loro tende. Coloro che rimanevano indietro caddero nel panico, e videro il figlio del re, erede al trono, preso prigioniero, frustato, torturato, e , poco dopo, giustiziato. Se riuscirono a combattere in qualche modo efficacemente, infatti, fu per uno stratagemma, non per coraggio. [...] Essi non si ripresero dal massacro, ma fuggirono, e tagliarono i ponti [...]135 Passiamo, prima di qualunque commento, al racconto di Giuliano: L'estate era ancora al suo culmine, e le legioni si radunarono molto prima di mezzogiorno. Poiché il nemico era colpito dalla disciplina, dall'equipaggiamento e dalla calma delle nostre truppe, mentre a noi loro apparivano in numero enorme, nessuno dei due prese l'iniziativa; poiché loro esitavano ad avvicinarsi a truppe così ben equipaggiate, e noi aspettavamo che loro venissero, così che sotto ogni punto di vista potesse apparire che la nostra fosse una difesa, e non fossimo responsabili dell'inizio delle ostilità dopo la pace. Alla fine, però, il condottiero dei barbari [Shapur in persona] , sollevato sui loro scudi, percepì la magnificenza delle nostre forze schierate a battaglia. 135 Lib. Or. LIX,99-120 45 Che cambiamento in lui! Che esclamazioni emise! Urlò che era stato tradito, che era colpa di chi lo aveva persuaso all'offensiva, e decise che l'unica cosa da fare era ritirarsi rapidamente, e che solo questa opzione avrebbe assicurato la sua salvezza: attraversare, prima che noi potessimo raggiungerlo, il fiume, che costituisce l'antico confine tra i nostri imperi. A questo scopo, egli dapprima diede il segnale di una ritirata in buon ordine, poi gradualmente aumentò il passo finché infine si diede alla fuga seguito solo da un piccolo contingente di cavalleria, e lasciò l'intero esercito al figlio e all'amico in cui aveva più fiducia. Quando i nostri videro ciò, furono presi dalla rabbia per il fatto che i barbari stavano scampando la punizione per la loro audacia, e chiesero a gran voce di essere condotti all'inseguimento, si irritarono al tuo ordine di fermarsi e cominciarono a inseguire il nemico, indossando le loro corazze, con tutte le loro energie e a tutta velocità. Poiché non avevano avuto, fino a quel momento, possibilità di giudicare la tua abilità come condottiero, e non vollero credere che tu potessi valutare meglio di loro ciò che stava accadendo. In più, essi avevano combattuto diverse battaglie sotto tuo padre, sempre vittoriosi: un fatto che li spingeva a credersi invincibili. Ma erano, soprattutto, esaltati dal terrore che i Persiani mostravano; quando pensavano come avevano combattuto non solo contro il nemico, ma anche contro la natura del terreno, se anche un maggior ostacolo si fosse loro presentato proveniente da qualche nuova direzione, essi sentivano che lo avrebbero superato. Quindi, corsero a massima velocità per circa cento stadii [circa 20 km.] e si fermarono solo quando presero contatto coi Persiani, che si erano rifugiati in un forte da loro recentemente costruito affinché servisse come campo. Era, a questo punto, sera, ed essi ingaggiarono battaglia. I nostri presero subito il forte massacrandone i difensori. Una volta all'interno, dimostrarono grande coraggio per lungo tempo, ma ormai erano al limite dello svenimento per la sete, e quando trovarono cisterne nel forte, essi vanificarono una grande vittoria e diedero al nemico l'opportunità di evitare la sconfitta. Questo, dunque, fu l'esito della battaglia, che causò a noi la perdita di soli tre-quattro uomini, mentre i persiani persero l'erede al trono, che era stato catturato in precedenza, con tutta la sua scorta. Mentre accadeva tutto ciò, del condottiero dei barbari non si vide più nemmeno l'ombra, ed egli non cessò la sua fuga finché non ebbe attraversato il fiume. Tu, d'altra parte, non ti togliesti l'armatura per tutto il giorno e la notte, ora condividendo la lotta di coloro che avevano la meglio, ora correndo in aiuto di coloro che erano in difficoltà. E a causa del tuo coraggio e del tuo valore, mutasti così tanto il volto della battaglia che all'alba il nemico fu ben contento di battere ritirata fin nel suo territorio, e anche i nostri feriti, scortati da te, poterono ritirarsi dalla battaglia. Così tu evitasti a tutti i rischi della ritirata. Ora, che fortezza fu presa dal nemico? Che città assediata? Di quali approvvigionamenti militari si impossessarono, che potessero dare loro qualche motivo di cui vantarsi dopo la guerra? 136 Festo, a proposito dei frangenti finali dello scontro, racconta: Essi, tuttavia, con immutata forza e con un inatteso aiuto contro la sete portato dalla sera che sopraggiungeva, attaccarono il campo persiano. Travolsero le difese, presero il campo e costrinsero il re alla fuga. Quando ripresero il fiato dopo la battaglia e videro con stupore l'acqua che avevano scoperto tenendo alte le luci, furono sopraffatti da una nuvola di frecce poiché loro stessi fornivano l'illuminazione nell'oscurità che permetteva di dirigere il tiro con più efficacia contro di loro. 137 136 137 Jul. Or. I,22D-25B Fest. Brev. 27 46 Le fonti, depurate da ciò che ha chiaramente scopi apologetici, offrono un quadro piuttosto ricco e completo. Libanio parte addirittura dai preparativi dei Persiani per la campagna, e ci è di grande aiuto nella comprensione del contesto in cui la battaglia si colloca. Non necessariamente ogni dettaglio che egli propone è da prendere per buono, ma la sensazione complessiva che ne scaturisce è quella di una campagna pianificata da Shapur su scala decisamente ampia. Probabilmente fu un tipo di offensiva simile, come tipologia, a quelle già lanciate verso Nisibi ( e, forse, verso la stessa Singara, ved. nota 128), finalizzata però, in questo caso, in primo luogo alla distruzione dell'esercito mobile di Costanzo tramite una sorta di imboscata, ed in seconda battuta, presumibilmente, all’assedio di una città di grande importanza strategica come la stessa Singara. Lo spazio che le fonti riservano a questa battaglia, paragonato ai semplici, vaghi accenni ad altri scontri relativi a campagne genericamente dello stesso tipo, è coerente con la peculiarità di questa offensiva sia per quanto riguarda l'obiettivo primario che essa doveva avere (l’eliminazione dell’esercito mobile romano), sia per la conseguente, insolita scelta da parte del re persiano (finalizzata, d'altronde, al raggiungimento del suddetto obiettivo) di montare una simile campagna con Costanzo ed il suo esercito presenti sul fronte mesopotamico. Indubbiamente, comunque, questo evento dovette risaltare notevolmente nel contesto del conflitto a bassa intensità che caratterizzava il fonte mesopotamico, e che Libanio stesso menziona rapidamente all’inizio del passo citato, sottolineando la stanchezza dei Persiani per quel genere di guerra di attrito. L’esercito guidato dal re, dunque, con tanto di alleati (le modalità della cui presenza sono motivate dal Seeck come l’esito di recenti guerre interne o lungo il confine tra Persiani e popoli vicini138) e mercenari, attraversò il Tigri, senza che Costanzo vi si opponesse. Conferma di questa costante attitudine tattico/strategica da parte dell’imperatore romano (e indirettamente della generica attendibilità di Libanio nel descrivere lo svolgersi dei fatti) arriva da Ammiano139 che racconta come anche nel 361 Costanzo, avendo di nuovo - dopo molto tempo - la possibilità di schierare il suo esercito in Mesopotamia all'apertura della stagione di campagna, ed essendo sempre deciso a cercare la battaglia campale, avesse scelto, a questo scopo, di non opporsi all'attraversamento del Tigri da parte dei Persiani. D’altronde, come già discusso in precedenza, una vittoria risolutiva sul campo avrebbe potuto portare come conseguenza un nuovo trattato vantaggioso ed un lungo periodo di relativa tranquillità sul fronte persiano. I Persiani avevano invece sempre rifiutato una battaglia che potesse essere risolutiva; nemmeno durante l’unica offensiva romana di rilievo, quella del 343, abbiamo notizia - né ci saremmo aspettati diversamente - dell’intervento dell’esercito “di linea” persiano. Per Costanzo, dunque, la presa d’atto dell’entità dell’offensiva nemica in un momento in cui egli avrebbe potuto opporvisi “di persona”, dovette essere di grande soddisfazione: finalmente avrebbe avuto l’occasione di misurarsi in battaglia, una grande battaglia, con Shapur. Per questo si guardò bene dal rendere difficoltoso l’ingresso del nemico in territorio romano; il rischio di causarne una ritirata e di perdere l’opportunità tanto attesa non andava assolutamente corso. Shapur stesso, d’altronde, doveva essere consapevole che Costanzo avrebbe fatto di tutto perché si arrivasse alla battaglia in campo aperto; probabilmente sfruttò proprio questa attitudine dell'imperatore romano per trarlo in trappola. Conscio della superiorità tecnica e tattica dei romani e della composizione eterogenea del suo pur numerosissimo esercito, nonché dello scarso livello di addestramento del medesimo, a cui si cercò di porre rimedio durante la marcia, egli dovette però ritenere prudente ricorrere alla soluzione 138 139 Seeck 1919, vol. IV p. 92 AM XXI,13,3 47 tattica descritta da Giuliano e Libanio che prevedeva, dopo aver schierato sul campo parte delle sue truppe, una simulazione di ritirata da parte di queste ultime ed una imboscata portata da truppe pesanti fresche e da unità leggere, dotate di armi da lancio, nascoste sulle alture circostanti al campo fortificato. Giuliano, nel passo citato, parla di “pace”, ed è un dettaglio rilevante, reso ancora più significativo dall’insistenza della fonte nello spiegare i motivi per cui i Romani volevano fosse formalmente evidente che la loro era una difesa da un’aggressione e che la colpa per la riapertura delle ostilità era da addebitare a Shapur. Non abbiamo notizia di trattati o tregue formali; Giuliano potrebbe d’altronde riferirsi ad accordi ufficiali, ma anche alla semplice, fisiologica sospensione delle attività militari tra una stagione e l’altra, o per più stagioni; potrebbe infine, in senso più lato, intendere l’escalation ad un’intensità bellica superiore a quella comune agli anni precedenti. Nell’incertezza, essendoci noto l’assedio di Nisibi di due anni prima, si può perlomeno escludere l’esistenza di un accordo ufficiale di lunga durata. Ad ogni modo, lo scontro cominciò: i Persiani misero in atto la loro pianificazione tattica e si ritirarono, forse – lascia intendere Giuliano - in maniera meno ordinata di quanto avessero previsto, se non ai limiti della rotta, davanti ai Romani, che, come previsto, li inseguirono. Costanzo, consapevole di ciò che stava accadendo, tentò invano di trattenere i suoi dall’inseguimento: essi non lo ascoltarono, e proseguirono. Questa prima parte dello scontro, avvenuta di giorno, è quella che Festo nel passo sopra citato (ved. cap. 11) chiama, considerandola vittoriosa, Narasarensis; in questa fase, secondo Festo, sarebbe stato catturato dai Romani il figlio di Shapur, che verrà in seguito torturato e giustiziato140 – il che costituisce, probabilmente, un altro atto compiuto irrazionalmente da parte dei soldati romani; se Costanzo avesse avuto la possibilità di intervenire nella questione, non avrebbe perso l’occasione di tenersi ben stretto e ben vivo un ostaggio di inestimabile valore. L’inseguimento, molto lungo e fisicamente massacrante, finì al calar della sera in prossimità della posizione fortificata dei Persiani. Qui i Romani, a giudicare dalle fonti, avrebbero avuto uno scontro vittorioso con le truppe che i Persiani avevano lasciato a guardia del campo fortificato, malgrado queste fossero fresche e loro stremati; dopodiché essi sarebbero penetrati entro le mura, espugnando il forte ed appropriandosi delle ricchezze ivi trovate, soprattutto dell’acqua. In questo frangente scattò la trappola persiana: le truppe leggere cominciarono, dalle alture circostanti, a bersagliare con frecce e armi da lancio i Romani, causando loro ingenti perdite, tali da bilanciare gli esiti dello scontro, fino a quel momento nettamente sfavorevoli per i Sassanidi. La situazione si fa ora meno chiara: Libanio sembra far intendere che i Romani, combattendo ordinatamente, avessero messo in fuga anche le truppe leggere scacciandole dalle alture, Giuliano glissa e Festo si limita a descrivere la pioggia di dardi che li colpì. Una cosa è certa, ad ogni modo: a questo punto cessa anche la seconda parte della battaglia, quella che Festo chiama Eliensis; i romani sono caduti in trappola, ma sembrerebbero aver gestito la situazione in maniera relativamente ordinata, e si può dedurre che l’esito finale sia stato in fondo piuttosto equilibrato, tanto che entrambi i contendenti si ritirarono. Come giudicare, dunque, il comportamento di Costanzo? 140 Sia Giuliano che Libanio, nei passi citati, menzionano l'uccisione del figlio di Shapur senza nominarlo, mentre Festo parla dell'uccisione di Narseus senza specificare che si tratta del figlio del re. Theoph Chron. a.m. 5818 annota la morte del figlio di Shapur Nerseh, ma lo confonde col fratello del re che aveva invaso l'Armenia nel 334-336 (ved. cap.5) In effetti, alla sua morte nel 379, Shapur avrà come successore il nipote. 48 Le fonti, anche quelle che sembrano dimostrare una ostilità a priori verso l’Augusto come Eutropio (ved. sotto e nota 142) , gli danno unanimemente atto di aver letto in maniera corretta l’evolvere della battaglia. Senza dubbio, egli non fu in grado di controllare le proprie truppe, che di fatto non seguirono i suoi ordini, il che potrebbe essere indizio di scarso ascendente sui soldati e di limitato carisma. Interessante, a questo proposito, il passo in cui Giuliano descrive come i soldati romani non avessero mai potuto giudicare il valore di Costanzo sul campo, e quindi non si fidassero del suo giudizio mentre egli ordinava loro di cessare l’inseguimento. Tra l’altro, viene messa indirettamente in evidenza una grossa difficoltà con cui si dovette scontrare Costanzo (cui abbiamo già accennato in apertura): un esercito composto in gran parte da soldati abituati ad un grande condottiero, con cui avevano combattuto frequenti battaglie foriere di gloria e conquiste, si trovò improvvisamente agli ordini di un comandante meno esperto che li tenne per dieci anni “prigionieri”, dal loro punto di vista, di una incomprensibile strategia prevalentemente attendista, avara di rilevanti azioni offensive e pressoché del tutto priva di grandi scontri campali. Il fattore umano è spesso messo in secondo piano nelle analisi storiche, ma è di estremo rilievo. Ad ogni modo, da Libanio soprattutto, sembrerebbe potersi rilevare che, fallito il suo tentativo di evitare l’imboscata nemica pur avendola prevista, Costanzo abbia saputo gestire con buoni risultati la seconda, difficilissima parte dello scontro, quella presso il forte persiano, ove, seppure in condizioni fisiche, ambientali e tattiche precarie, i Romani, apparentemente, riuscirono, anche se con grandi perdite (i 3-4 morti dichiarati da Giuliano sono ovviamente del tutto privi di credibilità, e in contrasto con quanto egli stesso dichiara in un altro passo, vedasi sotto e nota 146), a mantenere le loro posizioni. Dopodiché, i Persiani si ritirarono oltre il Tigri. Di chi fu, dunque, la vittoria? Comunque vogliamo giudicare l’esito tattico della battaglia, essa fu una sconfitta strategica per Shapur, e questo è il senso delle parole con cui sia Giuliano che Libanio chiudono le rispettive trattazioni di questo evento: l’esercito persiano uscì dalla battaglia di Singara in condizioni tali da dover rinunciare al proseguimento dell’offensiva, e la campagna si concluse lì. Le fonti, a parte Libanio, tendono a concordare nel giudicare l’esito tattico come una sconfitta romana, ma la reale entità della medesima è tutta da dimostrare; la sensazione, infatti, è che sia stato l’effetto della grande vittoria (prospettata dall'andamento della prima parte della battaglia) gettata poi al vento, piuttosto che una effettiva sconfitta, a guidare le critiche parole delle fonti. Vediamone alcune. Gerolamo parla di battaglia notturna in cui perdemmo una vittoria fortemente dubbia141 Eutropio, ostile a Costanzo, nell’accusarlo di non aver mai vinto una battaglia contro Shapur (il che tatticamente parlando è probabilmente vero, anche se la critica manca di consapevolezza strategica), dice però che a Singara la vittoria avrebbe potuto essere sua, ma che egli la perse per l'eccessiva brama dei suoi soldati che contrariamente ai dettami della pratica militare , insubordinatamente e stupidamente cercarono la battaglia quando il giorno stava finendo. 142 Nella Historia Ecclesiastica di Socrates si legge che nella battaglia notturna combattuta in prossimità della frontiera i Persiani ottennero una vittoria di misura143 141 142 Hyeron. Chron. 348, p.236,3-237,2 Eutr. Brev. X,10,1 49 Ammiano raccontando di fatti relativi al 359, ripercorre la battaglia di Heleia e Singara, ove quel duro scontro notturno ebbe luogo, in cui perdemmo molti uomini ; come se qualche messaggero si fosse interposto per fermarli, i Persiani, seppur vittoriosi, non avanzarono mai fino a Edessa sui ponti sopra l'Eufrate. 144 Zonaras, anche se non con riferimento specifico a questo episodio, scrive che L'imperatore Costanzo spesso si scontrò coi Persiani avendo la peggio, e perse molto uomini. E molti dei persiani caddero e Shapur stesso fu ferito. 145 Si nota una generale consapevolezza dell’aver sprecato una grande occasione, ma in definitiva non vi sono elementi per classificare con certezza la battaglia di Singara come una rilevante sconfitta tattica. Giuliano, in fondo, è la fonte che dà il giudizio più sfavorevole ai Romani da questo punto di vista, anche se il passo in questione rientra nel suo discorso a proposito della propria imparzialità, che egli dichiara proprio in apertura del racconto della battaglia di Singara (ved. cap. 2): Sono conscio del fatto che la battaglia che combattemmo a Singara fu un'importante vittoria dei barbari. Ma devo rispondere, per giustizia, che la battaglia inflisse uguali perdite ai due eserciti . 146 Anche Giuliano, dunque, addolcisce un commento piuttosto duro (la cui durezza è probabilmente strumentale alla dimostrazione della propria obiettività) con parole coerenti alle altre fonti: la battaglia fu sanguinosa e molto costosa, in termini di perdite, per entrambi i contendenti, e sembra essersi conclusa in sostanziale “parità” tattica. In definitiva, nel tentativo di definire un vincitore tattico, un tentativo che già dovette sembrare arduo al tempo, dovremmo forse seguire il ragionamento, piuttosto lucido e razionale seppure celato dietro un tono apologetico, che Libanio pone al termine del suo racconto della battaglia ed in cui, in pratica, sottolinea il fatto che, davanti all’esito strategico evidente, cercare di definire un vincitore tattico è pura accademia senza alcuna reale utilità: Nella fattispecie, due possono essere state le circostanze: o [i Persiani] persero e fuggirono, o vinsero ma furono irrimediabilmente danneggiati per i successivi sviluppi. Nel primo caso, la vittoria sarebbe nostra. Ma se anche dopo la battaglia notturna, malgrado la vittoria, essi ritennero di non poter continuare l'offensiva, la vittoria dell'imperatore sarebbe ancora maggiore.147 Per trarre una conclusione, si può dunque supporre che il tentativo persiano di proporre un’offensiva su grande scala al duplice scopo distruggere l'esercito mobile di Costanzo e, in subordine, di espugnare Singara, ebbe il suo culmine quando i due eserciti si scontrarono presso la città. Shapur, che per i suoi scopi aveva insolitamente montato una campagna di grandi dimensioni con Costanzo presente in Mesopotamia, cercò di sfruttare l'atteggiamento "difensivamente aggressivo" 143 Socrat. HE II,25,5 AM XVIII,5,7 145 Zonar. XIII,5,333 146 Jul. Or. I.23A 147 Lib. Or. LIX,120 144 50 dell'imperatore, costantemente volto alla ricerca della battaglia campale, attirandone l'esercito in una imboscata con lo scopo di distruggerlo - il che sarebbe stato un risultato strategico estremamente rilevante, e avrebbe dato al re la possibilità di aumentarne ulteriormente l'entità dedicandosi all'attività ossidionale presso Singara con maggiore efficacia e tranquillità. I Romani, inferiori in numero ma superiori qualitativamente, inizialmente, anche in conseguenza delle caratteristiche del piano tattico di Shapur, misero in forte difficoltà i Persiani. Poi, però, sprecarono l’occasione di ottenere una vittoria forse non definitivamente risolutiva in senso strategico come Costanzo avrebbe desiderato, ma indubbiamente importante: essi caddero infatti nel tranello predisposto in prossimità del campo fortificato persiano, offrendo così al nemico l’insperata possibilità di bilanciare l’esito tattico della battaglia, ed ebbero forti perdite. Di fatto, però, l’esercito persiano non riuscì a distruggere l'esercito romano né ad ottenere su di esso una vittoria netta, dovette anzi subire complessivamente, a sua volta, perdite tanto rilevanti da rendere impensabile il proseguimento della campagna in territorio romano, il che condusse ad un duplice fallimento strategico per i Sassanidi. Anche la stagione militare del 348 si concluse, dunque, con un sostanziale nulla di fatto: nessuno dei due contendenti riusciva rendere vincente la propria strategia, ma il limes romano continuava a tenere. 13. 350 D.C. : DIFESA PASSIVA Entrambe le parti passarono, presumibilmente, il 349 a leccarsi le ferite; non vi è infatti alcun indizio di attività bellica. Il 350, al contrario, fu un anno fondamentale e di svolta: dopo 13 anni Costanzo fu costretto a mutare radicalmente le modalità d’applicazione operativa della sua strategia sul fronte mesopotamico. Un cambiamento che, forse, doveva essere temporaneo nelle previsioni dell’imperatore, ma che gli eventi resero pressoché definitivo. L'evento decisivo in questo senso fu, all'inizio dell'anno, la ribellione dell'esercito delle Gallie che elevò Magnenzio alla porpora. Questi uccise Costante (i rapporti tra Costante e Costanzo erano recentemente migliorati), scese in Italia ove eliminò un altro usurpatore, Nepoziano, ed estese la sua zona d'influenza a Spagna ed Africa, nominando il fratello Decenzio suo Cesare in carico della Gallia e del limes renano. Solo l'ulteriore usurpazione del magister militum per l'Illirico, Vetranio, che, dichiaratosi a sua volta imperatore, gli si oppose, impedì una sua avanzata verso est. La situazione era critica: due dei tre eserciti da campo romani (quello delle Gallie e quello dell'Illirico) si erano rivoltati, e se Vetranio dichiarava, almeno formalmente, di sostenere Costanzo, Magnenzio aveva chiaramente come scopo l'ottenimento del controllo su tutto l'impero. La dinastia costantinide, inoltre, era in serio pericolo: due dei tre figli del Grande erano stati eliminati, e la responsabilità di difenderne la legittimità a regnare, nonché la sopravvivenza, gravava ormai sulle spalle del solo Costanzo, e, in seconda battuta, sui due cugini Costanzo Gallo e Giuliano La situazione in occidente richiedeva dunque la presenza dell'unico legittimo imperatore; il fronte orientale divenne così inevitabilmente secondario rispetto a quello balcanico. Questo momento è topico anche perché la partenza di Costanzo generò, comprensibilmente, forte malcontento in oriente, e diede origine a molte delle critiche che ancora oggi costituiscono i più diffusi - e generalmente ingiusti - giudizi sulla sua figura. Costanzo sceglieva, agli occhi dell'opinione pubblica, di trascurare un nemico dell'impero per occuparsi di un nemico "personale", anteponendo le necessità della dinastia a quelle dello stato: ovviamente la realtà non era così semplificabile. La propaganda a lui favorevole cercò vanamente di evidenziare le origini barbariche di Magnenzio, ed il trionfo del 357, celebrato da Costanzo proprio in relazione alla vittoriosa guerra contro 51 l’usurpatore conclusasi nel 353, è probabilmente da intendersi in questo senso, in quanto da sempre il trionfo era considerato improprio nell'ambito di guerre civili. Ammiano criticherà severamente, però, questa scelta di voler trionfare sul sangue romano.148 La partenza di Costanzo rese necessario un cambiamento nel livello operativo della sua strategia locale; in assenza sua e del suo esercito da campo, la "difesa attiva" attuata fino a quel momento diventava irrealizzabile. Costanzo dovette passare ad una "difesa passiva", basata sulle sole città fortificate della Mesopotamia, che avrebbero costituito il baluardo contro le prevedibili offensive persiane, mentre ogni iniziativa romana diveniva impossibile. La difesa del Tigri veniva dunque affidata quasi esclusivamente alle unità di limitanei; l’oriente era privato di un suo esercito mobile, che dovette faticosamente rinascere dalle proprie ceneri, costituite dalle poche unità comitatenses distaccate da Costanzo e lasciate in Mesopotamia. Le fonti registrano chiaramente questo cambiamento: Filostorgio149 racconta che l'Augusto rimase ad Edessa per un certo tempo dopo aver ricevuto notizia dell'usurpazione, probabilmente allo scopo di riorganizzare il sistema difensivo. Temistio150 sostiene che Costanzo sistemò e organizzò le città orientali prima di muoversi verso i Balcani. Anche Giuliano illustra i preparativi di Costanzo prima di partire: Riempisti le città della Siria con macchine da guerra, guarnigioni, provviste, equipaggiamenti di ogni genere, valutando, con questi accorgimenti, di poter, seppur assente, proteggere a sufficienza gli abitanti, mentre pianificavi di muoverti di persona contro gli usurpatori. 151 Per Shapur la partenza di Costanzo fu ovviamente un fattore di primaria importanza, che egli cercò subito di sfruttare nel modo a lui, evidentemente, più congeniale. 14. 350 D.C. : IL TERZO ASSEDIO DI NISIBI L'esercito persiano mosse infatti alla volta del Tigri, varcato il quale si diresse verso Nisibi per assediarla: la terza volta in 14 anni. Anche in questo caso, Giuliano si rivela fonte preziosa nel descrivere i fatti: Ma i Persiani, sin dall'ultima campagna, stavano aspettando una simile occasione e pianificarono di conquistare la Siria con una singola invasione.152 Difficilmente l’obiettivo poteva essere così ambizioso, anche in considerazione del fatto che l’occasione si presentò abbastanza repentinamente, e altrettanto rapida dovette essere l’organizzazione della campagna offensiva da parte di Shapur per coglierla al volo. Più probabilmente, ancora una volta il re puntava a colpire il sistema difensivo fortificato romano. La descrizione dei preparativi ricorda molto quella di Libanio a proposito della campagna del 348, ma potrebbe trattarsi di un cliché: coscrizione di uomini, donne, ragazzi, schiavi in grandissima quantità. Continua poi Giuliano: 148 AM XVI,10,1 Philost. HE III.22 150 Them. Or. IV.56 151 Jul. Or. I.26D 152 Jul. Or. I.27A 149 52 Era loro intenzione ridurre le città e, una volta padroni del territorio, portare coloni da sostituire a noi. Ma la grandezza dei tuoi preparativi rese chiaro che le loro aspettative erano vane. Cominciarono l'assedio e circondarono completamente la città con argini, dopodiché il fiume Mygdonius si riversò all'interno e inondò lo spazio in prossimità delle mura , così come dicono che il Nilo inondi l'Egitto. Le macchine d'assedio furono portate contro i bastioni su barche, ed il loro piano prevedeva che una forza dovesse veleggiare fino ad attaccare le mura, mentre l'altra continuava a bersagliare i difensori della città dagli argini. Ma la guarnigione oppose una solida resistenza dai bastioni.. Tutta la zona era coperta da cadaveri, relitti, pezzi d'armatura [...] La massa di armi galleggianti quasi copriva l'intera superficie tra gli argini e le mura. Il lago si trasformò in sangue, e attorno alle mura ovunque echeggiavano i lamenti dei barbari, che non uccidevano ma venivano uccisi in ogni modo e con ferite di tutti i tipi. [...] [I difensori] lanciavano fuoco giù sugli scudi, e molti fanti pesanti caddero mezzi bruciati, mentre altri che scamparono alle fiamme non poterono scampare ai giavellotti Alcuni mentre nuotavano furono colpiti alla schiena e affogarono, altri che saltavano giù dalle macchine da assedio venivano colpiti prima ancora di toccare l'acqua, trovando così non salvezza ma una più facile morte. E chi potrebbe contare o ricordare per nome coloro che non sapendo nuotare morirono in modo più oscuro di quelli appena nominati? [...] Così, dopo quattro mesi, colui che [Shapur] aveva con sé un esercito che aveva perso migliaia di uomini, colui che era sempre sembrato irresistibile, fu felice di mantenere la pace, e di usare come bastione per la propria salvezza il fatto che tu non avessi tempo da perdere e che la nostra situazione fosse confusa. 153 Giuliano riprende estensivamente questi fatti anche nella sua seconda orazione. 154 Il racconto è simile: egli sottolinea l'occasione colta da Shapur per attaccare in assenza di Costanzo, lo stratagemma persiano di circondare con argini la città e allagare lo spazio tra essi e le mura creando una sorta di lago artificiale ove muovevano le macchine d'assedio su imbarcazioni, e la difesa strenua dei romani che dagli spalti gettavano dardi infuocati sulle macchine persiane. Interessante il passo in cui egli descrive come [i Romani] distrussero molte navi dagli spalti, mentre altre navi furono distrutte dalla forza delle catapulte quando lanciavano, o dal peso dei proiettili. A questo punto però Giuliano aggiunge dettagli sul proseguimento dell'assedio: Dopo alcuni giorni consecutivi in cui accadevano questi fatti, parte degli argini cedette e l'acqua si riversò come una marea, portando con sé una porzione delle mura lunga cento cubiti. Dopodiché [Shapur] schierò l'esercito alla maniera dei Persiani. Giuliano accusa i Sassanidi di non voler essere considerati alla stregua dei Parti, e di voler fingere di essere i legittimi eredi dell'impero che era stato di Serse, e non, invece, dei ribelli che si erano rivoltati contro i Macedoni. Così, Giuliano descrive la disposizione dell'esercito persiano: 153 154 Jul. Or. I.27A-29A Jul. Or. II,62B-67A 53 L'esercito avanzava accompagnato dalle bestie [gli elefanti] ; queste venivano dall'India e portavano torrette di ferro piene di arcieri. Prima venivano la cavalleria corazzata e gli arcieri, poi il resto della cavalleria in numeri enormi; poiché considerano la fanteria di poca utilità per i loro metodi di combattimento, e non la tengono in gran conto. Non è infatti necessaria per loro, poiché tutta la loro terra è in pianura. [...] Il nostro stato, invece, avendo dovuto incontrare nemici di ogni genere, e avendo ottenuto la sua preminenza attraverso validi giudizi e buona fortuna, si è naturalmente adattato ad ogni tipo di corazza e di equipaggiamento. [...] Quando i Persiani si mossero per attaccare le mura nel loro splendido equipaggiamento, uomini e cavalli, supportati dagli elefanti indiani, con la massima confidenza si apprestarono a prenderle d'assalto. Al segnale d'attacco tutti avanzarono, ciascuno ansioso di essere il primo a scalare le mura e guadagnarsi la gloria che ne sarebbe derivata.. Non immaginavano che ci fosse qualcosa da temere o che gli assediati potessero loro resistere. [...] Gli assediati, tuttavia, tennero i loro ranghi compatti in prossimità della breccia nelle mura, e misero sugli spalti tutti i non combattenti, distribuendo uniformemente tra loro un ugual numero di soldati. Quando il nemico cavalcò verso di noi e nessun giavellotto fu loro lanciato dalle mura, la loro confidenza aumentò [...] Giuliano prosegue raccontando che il terreno intorno alle mura era ridotto a fango ed acqua, sia in seguito all'allagamento operato in precedenza dai Persiani, cessato solo alla rottura degli argini, sia come conseguenza di accorgimenti difensivi precedenti, e continua: Quando il nemico raggiunse questa sorta di palude e cercò di attraversarla, una consistente forza di assediati operò una sortita, mente molti altri lanciavano pietre dagli spalti. Molti degli assedianti furono uccisi, e tutti voltarono contemporaneamente i cavalli e si ritirarono. [...] La cavalleria pesante restò però impantanata nel fango, e in molti, caduti da cavallo e incapaci di liberarsi dalla melma sotto il peso delle armature, furono massacrati. Giuliano prosegue raccontando come, dopo il fallimento della cavalleria, i Persiani provarono con gli elefanti; essi schierarono gli animali, carichi di arcieri, a distanze uniformi tra loro, riempiendo i vuoti con fanti. Giuliano commenta ironicamente la completa inutilità di un simile schieramento per un assedio, oltretutto su un terreno paludoso, e descrive lo spettacolo che appariva ai difensori quasi ridicolo. Bersagliati da pietre e frecce, i Persiani, resisi conto della loro inaudita situazione, decisero di fare marcia indietro; furono rispediti all'attacco dal re, infuriato, ma si dovettero nuovamente ritirare con perdite155. Quindi, 155 Probabilmente gli elefanti mostrarono in questa occasione la loro consueta sensibilità alle situazioni di pericolo, e contribuirono, creando disordine e confusione, al fallimento dell’attacco. D’altronde, Ammiano Marcellino (XXV,1,15) descrivendo la ritirata romana dopo la morte di Giuliano nel 363, parla dell’accorgimento adottato dai conduttori di elefanti i quali, portando un pugnale legato alla mano destra, avevano la possibilità di uccidere l’animale colpendolo tra il collo e la testa nel caso in cui esso, preso dal terrore, divenisse ingovernabile. Ammiano dice che l’accorgimento fu adottato ricordando il disastro che subirono a Nisibi. 54 fallito anche questo secondo tentativo, il re divise i suoi arcieri in compagnie e ordinò loro di alternarsi nel bersagliare la breccia nel muro, cosicché gli assediati non potessero ricostruirle e rendere la città sicura. Sperava, in questo modo, di prendere la città di sorpresa, o di sopraffare la guarnigione per una mera questione di numeri. Ma le preparazioni operate dall'imperatore resero evidente che il loro piano era futile. Infatti, dietro ai fanti [romani, che difendevano la breccia] un secondo muro veniva costruito, e mentre loro credevano che la vecchia linea di mura sarebbe stata usata come base [per la nuova] e che il lavoro non fosse ancora cominciato, essi [i Romani] avevano lavorato un giorno ed una notte finché il muro era stato elevato ad una altezza di quattro cubiti. All'alba esso divenne visibile: una nuova, cospicua opera. In più gli assediati non cedettero mai terreno, continuarono ad alternarsi nel lanciare giavellotti contro chi attaccava la breccia [...] Il racconto di Giuliano si conclude nel descrivere ulteriori attacchi di Shapur, sempre respinti, proseguiti finché il re decise, finalmente, di ritirarsi, dopo aver perso intere tribù per la fame e moltissime vite durante l'assedio, e dopo aver giustiziato diversi satrapi con diverse accuse di inettitudine. Infine, Giuliano chiude sottolineando come da quel momento egli mantenne la pace nei nostri confronti senza chiedere alcun trattato o patto, ma restando a casa e ringraziando che l'imperatore non marciasse contro di lui e non esigesse vendetta per la sua audacia e follia. [Giuliano scrive la sua seconda orazione nella seconda metà degli anni '50, quando, dopo questi fatti, ancora non ve ne erano stati altri di una certa rilevanza sul fronte mesopotamico] Il terzo assedio di Nisibi è ben documentato anche da altre fonti. Seppure esse confermino in linea di massima i racconti di Giuliano, talvolta aggiungono dettagli di una certa rilevanza. La conferma più importante arriva dai Carmina Nisibena di S.Ephraim156, una fonte del tutto indipendente da Giuliano e di tendenze, naturalmente, opposte; pur essendo infarcita di elementi coerenti con la religiosità dell'autore, che accreditano alla preghiera dei relativi Vescovi e alla protezione divina il fallimento dei tre assedi di Nisibi, al netto di questi elementi il racconto dal punto di visto tecnico conferma quello di Giuliano, il che gioca fortemente a favore della credibilità di entrambe le fonti. Zosimo157, pur dedicando all’accaduto poche righe, menziona il nome del comandante della guarnigione romana, Lucilliano. Zonaras offre una descrizione abbastanza completa dei fatti, e per quanto riguarda lo stratagemma del fiume è più esauriente di Giuliano, anche se a differenza di Giuliano ed Ephraim, egli sostiene che il fiume attraversasse Nisibi, invece che passargli accanto. Egli descrive dunque in termini parzialmente differenti lo stratagemma tattico di Shapur, cioè deviare il fiume che attraversa il centro della città cosicché gli abitanti fossero oppressi dalla sete e gli consegnassero la città. Ma essi possedevano ampie scorte d’acqua, ottenute sia da pozzi che da sorgenti. Quando i suoi piani non portarono ad alcun risultato, egli cercò altre soluzioni. Risalendo il corso del fiume che, come detto, attraversava la città, giunse ad una stretta ove la sezione attraverso cui il fiume scorreva era di minore ampiezza. 156 157 Ephr. Carm. Nis. I.3,8; II.9,17-19; III.6; XI.15-17; XIII,17-18 Zos. III,8,2 55 Pose qui un blocco e osservò il corso del fiume. Quando l’acqua cominciò a straripare, fece repentinamente togliere il blocco in modo che l’inondazione procedesse verso la città. La massa d’acqua colpì le mura con forza eccessiva e ne abbatté una parte. 158 Il re, secondo Zonaras, scelse a questo punto di rimandare l’attacco, non vedendo resistenza da parte della città ed essendo ormai prossima la sera. I Romani, quando videro che Shapur aveva rinviato l’assalto, passarono la notte a costruire un secondo muro interno al primo; il re persiano, quando all’alba si rese conto di ciò, anche in considerazione dell’elevato numero di perdite sostenute dall’inizio dell’assedio (Zonaras sostiene ventimila), decise di ritirarsi. Dalla comparazione delle diverse fonti si delinea in maniera più chiara la presenza di due fasi nell’utilizzo del fiume: una prima in cui esso fu deviato tramite argini artificiali e formò una specie di lago attorno alle mura rendendo la città una sorta di isola, ed una seconda in cui, in seguito ad un cedimento di parte degli argini (accidentale o provocato dall’induzione di una ondata di piena tramite la creazione di una sorta di bacino artificiale, come sembra indicare Zonaras) , fu provocata la caduta di una parte delle mura in seguito all’urto di una grandissima massa d’acqua. A questo proposito è interessante anche leggere cosa racconta Teofane159: […] Immediatamente la città fu protetta, e i nemici travolti e uccisi in gran numero dalle acque; sebbene essi avessero subito queste perdite, minacciarono di penetrare attraverso il muro collassato […] Da queste parole, come da quelle di Giuliano, sembra che l’ondata che abbatté il muro fosse inattesa dal grosso degli assedianti; questo non significa d’altronde che il crearla non possa essere comunque stato un atto intenzionale da parte di Shapur, ma ci lascia perlomeno il dubbio. Per il resto, il racconto di Teofane ricalca quello del Chronicon Paschale160, che evidentemente usò come fonte. Una particolarità dei racconti di entrambi i cronisti è la menzione dell’elemento soprannaturale; come abbiamo anticipato in occasione della descrizione del primo assedio di Nisibi (cap. 6.1) , in città era fortemente sentita la “protezione” di San Giacomo di Nisibi, morto nel 338 e ivi sepolto. A questa particolare protezione si intese presumibilmente ascrivere gli interventi di figure come quella che, stando al Chronicon Paschale , Shapur vide correre sulle mura di Nisibi nel momento più critico per i difensori, e che aveva le sembianze di Costanzo. Shapur divenne furente, in quanto la guarnigione di Nisibi si rifiutava di consegnare la città in assenza dell’imperatore; questa motivazione era perfettamente coerente con la reale assenza dell’Augusto, ma fu interpretata da Shapur, dopo la sua visione, come una insultante bugia. Egli interrogò i suoi Magi, che compresero la potenza dell’angelo che era apparso con Costanzo, e diedero al re la loro interpretazione.161 Dopodiché il re, accertata la presenza del supporto del Dio cristiano dalla parte degli assediati (fattore sottolineato con insistenza e lungo tutti i rispettivi racconti da entrambi i cronisti), fuggì a gambe levate trovando quiete solo nella sua terra. L’autore del Paschale dichiara la sua fonte: una lettera datata 350 e scritta da Vologese , vescovo di Nisibi all’epoca di questo assedio e dunque uno dei successori di Giacomo: una fonte di primissima mano ma indubbiamente dotata di una forte caratterizzazione specifica, ed è comprensibile nella sua narrazione la pesante presenza di connotazioni soprannaturali. 158 Zonar. XIII,7,1-14 Theoph. Chronogr. a.m. 5841 160 Chron. Pasch. p.536,18 – 539,3 161 Chron. Pasch. p.536,18 – 539,3 159 56 E’ anche chiaramente riconoscibile, nei racconti delle fonti ecclesiastiche riguardo il primo assedio di Nisibi (ved. cap. 6.1), una parziale duplicazione di questi fenomeni soprannaturali, adeguati ed adattati alla presenza di San Giacomo in carne ed ossa, ed arricchiti con alcuni aspetti, anch’essi quasi certamente duplicati, relativi sia all’uso del fiume Mygdonius come espediente tattico, sia alla risolutiva ricostruzione notturna delle mura collassate; ma di questo si è già parlato. Come giudicare, in definitiva, questo assedio? Indubbiamente i Persiani fallirono tutti i loro ripetuti, e talvolta ingegnosi, tentativi, e anche questa terza volta, dopo tre mesi abbondanti di assedio (il Chronicon Paschale parla di cento giorni), dovettero rinunciare, chiudendo così un’altra fallimentare campagna. Nisibi restava inespugnata. Le perdite persiane furono elevate; Zonaras dichiara, come abbiamo visto, ventimila morti; il Chronicon Paschale diecimila. Si tratta in ogni caso di numeri molto significativi. In quel clima, in quelle situazioni ambientali e sanitarie, un assedio prolungato finiva inevitabilmente per essere devastante anche per gli assedianti, e dopo un certo tempo doveva essere sollevato (questo anche, naturalmente, per la limitata durata della stagione di campagna): anche in questo caso, tra le cause del fallimento, appaiono la fame e, nel Chronicon Paschale, la peste. Non solo, però: un interessantissimo passo nella chiusura del racconto di Zonaras, menziona tra le cause del ritiro di Shapur, quanto segue: poiché già i Massageti avevano invaso la Persia, e stavano ivi causando danni.162 Forse il destino volle che nel momento in cui Costanzo fu costretto ad abbandonare il fronte orientale per affrontare problemi vitali altrove, Shapur, fallita l’occasione di approfittarne con immediatezza, si ritrovasse improvvisamente in una simile circostanza. Ammiano conferma, infatti, che lungo la frontiera nord-est dell’impero persiano diverse tribù nomadi avevano preso l’iniziativa e portavano ripetuti attacchi a cui Shapur si opponeva essendo presente nell’area; il passo di Ammiano si riferisce al 354 d.C.163 Zonaras individua il 350, dunque, come data d’inizio di queste incursioni. 15. 351-358 D.C. : INTERLUDIO Negli anni successivi al 350, dunque, la guerra sul fronte orientale venne portata avanti da entrambe la parti in assenza dei rispettivi sovrani. L’iniziativa sembra essere rimasta fondamentalmente nelle mani dei Persiani: Ammiano menziona una serie di raids di confine condotti con discontinuità, al presentarsi dell'occasione, da parte di generali persiani - probabilmente nobili locali, come già discusso in precedenza - che comandavano e gestivano le truppe di frontiera. Incursioni a bassa intensità di questo tipo non mettevano in serio pericolo le difese romane, ma contribuivano a creare un clima di tensione nelle guarnigioni e di forte preoccupazione nelle città siriane e mesopotamiche. Uno degli episodi raccontati da Ammiano è particolarmente interessante nell'illustrare chiaramente questo contesto, seppure l’incursione persiana sia, nella fattispecie, fallita sul nascere (l'anno è il 354): 162 163 Zonar. XIII,7,14 AM XIV,3,1 57 Frattanto il Re di Persia, impegnato in guerre con le popolazioni vicine, respingeva dai confini genti bellicose, le quali, volubili come sono di carattere, spesso l'assalgono e talvolta gli offrono aiuto, quand'egli ci muove guerra. Un nobile di nome Nohodares, che aveva ordine di fare scorrerie in Mesopotamia ogniqualvolta gli si presentasse occasione, spiava attentamente il nostro territorio per vedere di trovare il luogo adatto ove sferrare un attacco improvviso. Ma poiché i territori della Mesopotamia, esposti a frequenti incursioni, erano difesi da presidii militari e da guarnigioni dislocate nelle campagne, egli si volse a sinistra e si fermò nelle contrade più remote dell'Osroene, meditando un piano audace e insolito, che gli avrebbe permesso, se fosse andato ad effetto, di devastare come un fulmine tutta la regione. Questo, a grandi linee, era il suo disegno. Il municipio di Batnae, [...] è poco distante dal fiume Eufrate; [...] Attraverso i deserti e le rive erbose del fiume Abora il generale prima ricordato si preparava ad attaccare il luogo nei giorni fissati per la festa, quando fu tradito da una delazione dei suoi, passati nelle file romane per timore di un delitto commesso. Fallito così il suo piano, egli si ritirò, e trascorse il resto della vita in neghittosa inerzia. 164 Alle truppe di frontiera persiane si opponevano i limitanei, supportati da esigui distaccamenti dell'esercito praesentalis, lasciati in Mesopotamia da Costanzo, e che ormai costituivano, di fatto, l'esiguo nucleo del nuovo esercito mobile d'Oriente. Costanzo ad ogni modo seguiva con attenzione, anche se da lontano, l'evolversi della situazione su questo fronte: nel 354 chiamò il magister equitum per Orientem Ursicino, personaggio di cui si parlerà a lungo in seguito, a Sirmium, per consultarsi e concordare un incremento di truppe necessario ad opporsi alle pur limitate offensive persiane.165 In un passo più conciso, relativo al 355, Ammiano descrive l'inerzia dei governatori locali in assenza di Costanzo e, ancora una volta, la natura delle incursioni nemiche portate con truppe di confine: I capi persiani che si trovavano nelle vicinanze dei fiumi, approfittando del fatto che il loro re era impegnato nelle regioni più lontane, assalivano con bande di predoni le nostre province, devastando senza timore la Mesopotamia e l'Armenia, poiché i governatori romani erano occupati a trarre bottino dai loro sudditi. 166 Un ultimo brano di Ammiano, relativo al 356, sottolinea esplicitamente come questo tipo di guerra di frontiera fosse di una intensità inferiore a quella, già di per sé costituita per la maggior parte da scaramucce di limitata intensità, combattuta fino al 350: Intanto in Oriente, con furti e scorrerie, anziché con scaramucce come un tempo, i Persiani facevano preda di uomini e animali. Talvolta potevano conservare il bottino per la celerità degli attacchi, talvolta lo perdevano, superati dalla moltitudine delle nostre truppe; non di rado poi non si permetteva loro nemmeno di vedere cosa si potesse rapire. 167 Proprio nell'ambito di questo contesto ben dipinto da Ammiano, già nel 352 Costanzo, resosi conto dell’impossibilità di tornare ad Oriente in tempi brevi come aveva invece inizialmente sperato, conscio del malessere che la sua assenza provocava nelle popolazioni locali, e consapevole del fatto 164 AM XIV,3 AM XIV,11,4 : Ammiano in realtà considera questo motivo come un pretesto per allontanare un personaggio di valore, e quindi potenzialmente pericoloso in politica interna, dal fronte orientale al fine di tenerlo sotto maggior controllo; in effetti Ursicino verrà trattenuto 3 anni in Occidente, senza perdere però il suo rango, sostituito in oriente da un vicario. Sulla visione poco obiettiva di Ammiano a proposito delle vicende coinvolgenti Ursicino e Costanzo si parlerà diffusamente in seguito. 166 AM XV,13,4 167 AM XVI,9,1 165 58 che, per quanto di bassa intensità, l'azione persiana metteva notevole pressione alle guarnigioni romane e costituiva in ogni caso un saldo mantenimento dell'iniziativa da parte dei Sassanidi, aveva nominato Cesare suo cugino (e fratello di Giuliano) Costanzo Gallo, affidandogli la gestione del fronte orientale168. Evidentemente, l’imperatore volle così rimediare in parte alla propria latitanza; la presenza sul posto di un costantinide era un modo per far sentire alla popolazione locale la presenza dello stato e l’interessamento profondo e personale da parte dell’imperatore, ancor più che un provvedimento operativo-strategico; infatti, l’entità delle risorse militari disponibili in loco rimaneva pressoché immutata, e la possibilità di carpire l'iniziativa per intraprendere azioni offensive di una certa rilevanza restava inesistente169. I generali di Costanzo Gallo contennero comunque con una certa facilità le incursioni persiane; d’altronde tra loro troviamo nomi di un certo rilievo nel panorama militare romano orientale di quel tempo: il comes rei militaris (potrebbe aver condotto la difesa della Mesopotamia come dux Mesopotamiae170) Lucilliano171, che abbiamo già incontrato come comandante della guarnigione di Nisibi durante il terzo assedio172, e che nel 354 ricopriva addirittura la carica di comes domesticorum173; Cassiano, che sappiamo essere dux Mesopotamiae nel 356174 ; Ursicino, magister equitum per Orientem (già da tempo) nel 354, e tale anche negli anni successivi, poi magister peditum praesentalis distaccato in Mesopotamia durante la campagna del 359; Ammiano dirà che, nel 359, Ursicino deteneva un comando in oriente da 10 anni175, anche se in realtà nel periodo dal 354 al 357 egli si trovò in Occidente176. Ursicino è un personaggio di cui sappiamo molto, in quanto protagonista centrale dei primi libri sopravvissuti dell'opera di Ammiano; lo storico, infatti, era un ufficiale nei protectores domestici, e fece parte di una sorta di task-force aggregata per molti anni (sicuramente dal 353-54177 fino alla fine della campagna persiana del 359) proprio al magister equitum per Orientem e poi magister peditum praesentalis Ursicino. Negli scritti di Ammiano risalta costantemente una intensissima fedeltà nei confronti del suo comandante che talvolta ne minaccia l’attendibilità; da questo elemento deriva infatti, in seguito agli ambigui rapporti tra Ursicino e Costanzo, una certa avversione dello storico nei confronti dell'Augusto, una sua poco parziale lettura dei fatti che coinvolsero i due, e, di conseguenza, una poco serena interpretazione di tutte le circostanze che da questi rapporti furono influenzate (ved. cap. 18.1). 168 Correlazioni dirette tra gli attacchi persiani, il conseguente clima di sfiducia in Oriente verso Costanzo, e la nomina di Gallo, sono suggerite da Zos. II,45,1; Theoph. Chronogr. a.m. 5842; Zonar. XIII,8,3-4; Philost. HE III,25; Chron. Pasch. p.540 169 Zonar. XIII,8,9; Zos. III,1,1; Theoph. Chronogr. a.m. 5846; Passio S. Artemii 12 suggeriscono che la presenza di Gallo frenò o ridusse la frequenza delle incursioni da parte dei Persiani che ne temevano la reazione; queste fonti lasciano presumere che, comunque, i buoni risultati di Gallo fossero di natura difensiva; probabilmente, e comprensibilmente, nessuna significativa offensiva fu portata dal Cesare in territorio nemico. Ironicamente, Ammiano (AM XIV,7,5), che è notoriamente fortemente ostile a Gallo, descrive la vistosa partenza del Cesare da Antiochia, ove risiedeva, per Hierapoli, quindi uno spostamento interno all'impero, come se si stesse preparando ad una campagna. Philost. HE III,25-28 loda i risultati di Gallo contro i Persiani e incolpa i calunniatori di averlo screditato presso Costanzo, causandone la disgrazia. 170 Blockley 1989, p. 479 n.77 171 Zos. II,45,2 172 Zos. III,8,2 173 AM XIV,11,14 174 AM XVI,9,2 175 AM XVIII,6,2 176 Durante i 3 anni in Gallia, Ursicino mantenne comunque la carica di magister equitum per Orientem, e fu sostituito sul fronte orientale da un comes con assegnazione temporanea, Prospero (AM XIV,1,5); vedasi nota 207 177 Purtroppo la parte dell’opera di Ammiano che copriva gli anni precedenti è andata perduta; di conseguenza non siamo in grado di stabilire con esattezza quando Ammiano fu assegnato allo staff di Ursicino. 59 Nemmeno tra Augusto e Cesare, d’altronde, i rapporti erano idilliaci: nel 354 la reciproca sfiducia e la forte tensione esistenti tra i due portarono Costanzo II ad ordinare l'eliminazione fisica di Costanzo Gallo. L’imperatore, intanto, era bloccato col suo esercito da campo su altri fronti; dopo aver sconfitto e liquidato Magnenzio nel 353, fu immediatamente e seriamente impegnato sui fronti del Reno e del Danubio, ove dovette opporsi agli attacchi delle popolazioni germaniche e dei Sarmati, oltre che da ulteriori complesse problematiche interne che non è la sede per analizzare. In quest'ottica va vista la nomina di Giuliano a Cesare, in Gallia, nel 355; a lui fu affidata la gestione del fronte renano, mentre Costanzo si concentrava su quello danubiano stabilendosi a Sirmium. L’assenza di episodi di rilievo sul fronte mesopotamico in questi anni non deve però trarre in inganno: la situazione era estremamente tesa, probabilmente in maniera molto maggiore rispetto agli anni precedenti. Se la presenza di Shapur e Costanzo sul posto aveva lasciato intendere per anni che per entrambi il fronte orientale fosse quello prioritario, e che quindi da un momento all’altro potessero svilupparsi campagne di dimensioni ragguardevoli, ma sempre contraddistinte da un certo equilibrio, l’assenza di entrambi rendeva tutto aleatorio e imprevedibile. Evidentemente entrambi erano informati del fatto che anche il nemico concentrava, in quei momenti, i suoi sforzi su altri fronti. Ma era anche evidente che il primo dei due che avesse risolto i suoi problemi altrove, avrebbe avuto una ghiottissima occasione per concentrare di nuovo le proprie risorse sul fronte orientale col nemico impossibilitato a fare altrettanto, e quindi praticamente senza possibilità di opporsi adeguatamente. Questo rendeva la situazione estremamente delicata, incerta, soggetta a imprevisti e radicali mutamenti dall'una o dall'altra parte; non sorprende, dunque, notare contestualmente un intensificarsi dell’attività diplomatica. Fonti armene sottolineano i costanti tentativi di Shapur di portare Arsace dalla sua parte negli anni '50; un episodio la cui collocazione esatta all'interno del decennio è incerta - l'assassinio della moglie di Arsace, Olympia, figlia del prefetto del pretorio di Costanzo, poco dopo il matrimonio pare abbia portato il re armeno a pendere dalla parte dei Sassanidi per qualche tempo. C’è però da dire che nel 351 la cavalleria armena era addirittura presente a Mursa dalla parte di Costanzo contro le truppe di Magnenzio, e Ammiano descrive Arsace (parlando di fatti relativi al 363) come colui che era stato sempre nostro fidato amico.178 Dunque, se qualche oscillazione vi fu - e, come vedremo, vi fu - si può forse ritenere che in linea di massima Arsace abbia però mantenuto in questi anni la sua fedeltà, seppure traballante e bisognosa di essere costantemente coltivata, a Roma. Sul versante meridionale sembra vacillare parzialmente l’alleanza con le tribù ( o parte delle tribù ) arabe, che nel 354 compirono incursioni nell'impero romano.179 La crescente preoccupazione di Costanzo per la situazione sul fronte mesopotamico è testimoniata dal fatto che a metà del 357 egli, mossosi da Roma, dove aveva trionfato, a Sirmium, reinviò in Oriente Ursicino, dopo 3 anni di permanenza del magister equitum per Orientem in Occidente. In questo contesto di tensione crescente, l’azione più importante dal punto di vista diplomatico, nonché l’origine degli eventi che turberanno il fronte orientale negli ultimi anni di vita di Costanzo, fu, in quello stesso anno, un’iniziativa del prefetto del pretorio per l’Oriente, Musoniano. 178 179 AM XXV,7,12 AM XIV,4,1 60 16. 358-359 D.C. : UNA PARTITA A SCACCHI Non è escluso che in quegli anni fossero già in atto contatti diretti tra le diplomazie delle due potenze180, ma l’iniziativa di Musoniano fu un punto di svolta. Egli aveva alle spalle una lunga esperienza da burocrate, ed era indubbiamente esperto nell’arte della diplomazia, a cui si era dedicato per buona parte della sua carriera. Nel 357, con Costanzo a Sirmium e dopo l’uccisione di Costanzo Gallo, Musoniano era la carica civile più alta in Oriente, ed era in stretto contatto col dux Mesopotamiae Cassiano, con cui collaborava al fine di gestire la delicata situazione strategica nell'area.181 Fu, come lascia supporre Ammiano, in seguito alle informazioni raccolte e integrate da parte dei due, in base alle quali Shapur risultava severamente impegnato sul suo fronte nord-est quanto Costanzo lo era su quello danubiano, che nacque la decisione di inviare a Tamsapore, comandante persiano sul fronte del Tigri, una proposta da sottoporre al suo re, finalizzata all’ottenimento di una pace duratura. Ecco come Ammiano racconta l'episodio: Tuttavia il prefetto del pretorio Musoniano, uomo di molti pregi, come abbiamo detto, ma venale e pronto a tradire per denaro, per mezzo di emissari molto esperti nell’arte di ingannare e di suggestionare, cercava di conoscere le intenzioni dei Persiani con l’aiuto di Cassiano, il dux Mesopotamiae, da molti anni avvezzo ai pericoli della vita militare. Ed essi, avendo saputo dalle concordi relazioni degli informatori che il re Shapur con gravi perdite dei suoi riusciva a stento a respingere i nemici agli estremi confini del regno, con segreti colloqui per tramite di oscuri soldati, cercarono di convincere Tamsapore, generale persiano e stanziato presso i nostri confini, a indurre con una lettera il re, se mai ne avesse avuta occasione, a trattare finalmente la pace con l’imperatore romano: libero in tal modo dal fronte occidentale,, avrebbe potuto volgersi completamente contro le persistenti ribellioni.182 Avendo noi ben presente quanto il fronte persiano costituisse un fattore di elevato rischio strategico in un contesto che vedeva l’imperatore e il suo esercito stabilmente e severamente impegnati altrove, risulta evidente come la pace, nell’ambito di questo passo diplomatico, fosse un mero strumento strategico finalizzato a ridurre le enormi problematiche legate alla contemporanea gestione, da parte di Roma, di diversi fronti di primaria rilevanza. Musoniano, naturalmente, cercò di dissimulare l’importanza e la gravità che questo fattore assumeva, in quel momento, per i Romani, rimarcandone invece gli aspetti applicabili ai Persiani, i quali si trovavano, in fondo, in una situazione strategicamente abbastanza simile.183 Ammiano, però, subito dopo aver descritto l’iniziativa di Musoniano, riporta in questi termini la forma in cui Tamsapore avrebbe inoltrato la proposta a Shapur: Acconsentì Tamsapore, e da essi persuaso scrisse al re che Costanzo, impegnato in aspre guerre, chiedeva supplicando la pace.184 Le parole di Ammiano sembrerebbero quindi suggerire (non sappiamo, naturalmente, quanto per effettiva conoscenza e quanto per deduzione dai fatti successivi) che il generale persiano, nell'inoltrare la richiesta di pace a Shapur, avesse immediatamente individuato, come ragione della 180 Them. Or. 4.57B scrivendo nel 357 sostiene di aver visto “recentemente” inviati persiani ad Antiochia per discutere di pace. 181 AM XVI,10,21 182 AM XVI,9,2-3 183 Blockley 1992, p.18 184 AM XVI,9,4 61 loro iniziativa diplomatica, proprio un momento di estrema difficoltà dei Romani a livello strategico - concetto, come abbiamo sottolineato, del tutto assente nelle parole con cui lo stesso Ammiano ci trasmette il senso originario del messaggio di Musoniano. Questo è un punto fondamentale. Indipendentemente dal quadro che Musoniano desiderava e sperava di trasmettere, infatti, Tamsapore era evidentemente a conoscenza della reale, complessa situazione sul Danubio che rendeva in quel momento impossibile una concentrazione di forze, da parte di Roma, sul fronte orientale, ed ebbe la possibilità di inoltrare a Shapur la proposta romana inquadrandola però in un contesto che egli giudicava più realistico. In effetti è probabile che i Persiani avessero davvero una fonte estremamente preziosa e attendibile di informazioni “sensibili” dal punto di vista strategico, e Ammiano ne parla diffusamente. Antonino, un ex-mercante romano con una carriera nello staff del dux Mesopotamiae, attualmente nel ruolo di rationarius apparitor e protector185, dotato di ottima fama nelle province orientali, si era recentemente trovato in una situazione finanziaria senza uscita. Schiacciato, secondo Ammiano, dalla cupidigia e dalla disonestà dei potentes e dai poteri occulti di personaggi influenti che rendevano vano ogni suo tentativo di avere giustizia, egli […] stanco di sbattere la testa contro un muro, si volse a più blande lusinghe […] e ormai deciso a tutto, si diede ad osservare nascostamente la situazione e le strutture dello stato. E poiché conosceva le lingue ed era esperto nei calcoli, annotava il numero ed il genere dei soldati, i luoghi in cui essi erano di stanza, calcolava il periodo in cui si sarebbero svolte le operazioni militari, informandosi senza posa sulla quantità delle armi, delle vettovaglie e di tutto ciò che potesse servire per la guerra. Mentre così indagava sulla situazione interna dell’Oriente e venne a sapere che la maggior parte delle milizie e del denaro per la loro paga era distribuito nell’Illirico, dove l’imperatore era trattenuto da gravi questioni, si avvicinava [ il giorno in cui Antonino avrebbe dovuto versare al fisco la somma di cui era “ingiustamente” debitore ]. Vedendo che da ogni parte era circondato da pericoli e che il comes largitionum era sempre più propenso a favorire gli avversari, come estremo tentativo di salvezza pensò di rifugiarsi in Persia con la moglie, i figli e i congiunti. 186 Antonino, evidentemente, si era indebitato oltre le sue possibilità presso alcuni personaggi di rilievo locale; la questione arrivò a coinvolgere, forse come parte interessata187, l’ufficio del comes sacrarum largitionum, il che dovette aumentare a un punto tale la pressione sul rationarius, da spingerlo in una situazione senza via d’uscita. Egli, grazie alla sua posizione nello staff del dux Mesopotamiae, aveva avuto accesso ad informazioni di importanza primaria sulla disposizione e sui movimenti delle truppe romane, e sulla logistica relativa all’esercito; informazioni che presumibilmente utilizzò come merce di scambio per chiedere protezione e ospitalità in Persia. Al fine di non destare sospetti, egli aveva acquistato un terreno proprio sul limes, giusto al di qua del Tigri, e tramite fidati emissari che sconfinavano nottetempo, si era dato a trattative con Tamsapore, probabilmente avendo già da tempo cominciato a cedere, a prova della propria “buona volontà” e del proprio valore come fonte di informazioni, qualche pezzo d’intelligence; finché una 185 Dilleman 1961, p.96 sottolinea che i due ruoli che Ammiano accredita ad Antonino , quello di rationarius apparitor e quello di protector, sono probabilmente da intendersi come contemporanei e non in sequenza. Così anche Blockley 1989, p.483, n.93 186 AM XVIII,5,1-3 187 Blockley 1988, p.251 62 notte il generale persiano, accogliendo le sue richieste, inviò una squadra di soldati a scortarlo in territorio sassanide188. E’ quindi comprensibile come Shapur si fosse trovato di colpo in una situazione estremamente vantaggiosa. Tamsapore aveva presumibilmente potuto vagliare e inquadrare la proposta di Musoniano nel suo reale contesto strategico - ben diverso da quello prospettato dal praefectus praetorio - proprio in base a questa messe di informazioni preziosissime che riceveva tramite Antonino; poté quindi proporre al suo re un quadro della situazione plausibile e piuttosto incoraggiante. Non solo: proprio nella primavera del 358, mentre Costanzo era bloccato sul Danubio e la comunicazione di Tamsapore raggiungeva Shapur189 , questi concluse con successo le sue campagne contro i popoli del nord-est, chiudendo quel fronte e guadagnandosi nuovi alleati. A questo punto la richiesta originaria di Musoniano, oltre che di credibilità, era definitivamente privata anche di ogni fondamento nelle sue motivazioni “ufficiali”, in quanto Shapur non aveva più alcun bisogno di pacificare il suo fronte occidentale per potersi concentrarsi su quello nordorientale. Egli, anzi, divenne consapevole del fatto che alle sue forze, integrate da quelle dei nuovi alleati conquistati nel nord-est e rischierate sul Tigri, Costanzo avrebbe probabilmente potuto opporre, a causa della situazione strategica romana, il solo sistema di difesa passiva organizzato prima di partire, quindi risorse militari largamente sottodimensionate e solo parzialmente integrate, nel frattempo, con l’invio di qualche legione tra quelle che erano state di Magnenzio (ved. cap. 17.3). La richiesta romana, dunque, per una serie di circostanze (il tradimento di Antonino, la conclusione della campagna nord-orientale dei Sassanidi), arrivò al re persiano proprio nel momento in cui l'intero contesto strategico prendeva definitivamente forma secondo il quadro che Tamsapore aveva dipinto; essa finì quindi col fornire a Shapur una preziosa occasione per prendere decisamente l'iniziativa dal punto di vista diplomatico. Non è quindi sorprendente che la risposta di Shapur, inviata nella stessa primavera del 358, fosse aggressiva e pressoché ricattatoria: Il re persiano, che ancora si trovava ai confini con genti lontane, e dopo aver stretto amicizia con i bellicosi Chioniti e Gelani, stava per tornare tra i suoi, ricevette una lettera di Tamsapore, nella quale lo informava che l’imperatore romano chiedeva supplichevolmente la pace. Ed egli, pensando che avesse preso questa decisione perché disponeva di poche forze, fattosi più superbo, accettò il pretesto della pace per stabilire gravi condizioni. Al legato Narseo, inviato con doni come ambasciatore, diede una lettera per Costanzo nella quale, con usuale e innata superbia, così press’a poco diceva: “Io, Sapore, re dei re, alleato delle stelle, fratello del sole e della luna, saluto cordialmente mio fratello Costanzo Cesare. Mi rallegro finalmente che tu sia tornato alla via migliore e abbia riconosciuto l’incorrotto giudizio dell’equità, dopo aver appreso dall’esperienza quali sventure possa talvolta causare la tenace cupidigia dei beni altrui. Poiché intorno alla verità si deve parlare liberamente, ed è giusto che gli uomini più potenti esprimano liberamente i propri sentimenti, dirò in breve il mio pensiero, ricordando di avere più volte ripetuto quanto ora sto per dire. Che i miei antenati abbiano esteso i loro possedimenti fino al fiume Strimone e ai confini della Macedonia, lo attestano anche i vostri antichi storici: e questi 188 Anche Libanio Or.12,74 descrive Antonino in termini dispregiativi, definendolo un nuovo Demerato e sostenendo che egli avesse promesso a Shapur di consegnargli Antiochia col tradimento. 189 Dalla descrizione di Ammiano dei fatti contestuali, si deduce che la proposta di Musoniano probabilmente raggiunse Shapur solo nella primavera del 358; la risposta non poté giungere a Costanzo prima dell'estate. Ved. Blockley 1989, p.480 n.83 63 possedimenti è giusto che io li recuperi, né sembri arrogante la mia richiesta, perché io supero di molto i miei predecessori per magnificenza e splendore di virtù. Ma soprattutto mi sta a cuore la giustizia, per cui, in essa educato fin dall’adolescenza, non ho mai fatto cosa alcuna di cui debba poi pentirmi. E’ perciò mio dovere riacquistare l’Armenia e la Mesopotamia strappate con la frode ["composita fraude"] al mio avo. Mai presso di noi prevarrà quel principio da voi sostenuto con tanta baldanza, per cui si debba lodare ugualmente ogni prospero successo di guerra, senza alcuna distinzione tra valore e inganno. Ed infine, se vorrai dar retta a questo mio consiglio, abbandona questa piccola parte, per te sempre motivo di lutto e di sangue, per regnare con sicurezza sul resto dell’impero, e considera prudentemente che talvolta anche i medici bruciano, tagliano, amputano alcune parti del corpo perché le altre siano sane. Anche le bestie, quando si accorgono che l’uomo le insegue per impadronirsi di una parte del loro corpo, spontaneamente se la tagliano per poter vivere senza timore. Dichiaro inoltre che, se questa mia ambasciata tornerà senza alcun risultato, dopo la quiete invernale mi affretterò a venire con tutte le mie forze, fin dove mi sembrerà ragionevole, riponendo nella mia fortuna e nell’equità delle mie condizioni la speranza di un felice successo. 190 Il re persiano chiese dunque, come prezzo per la pace, la restituzione di Mesopotamia e Armenia, o meglio, delle parti di esse prese dai romani composita fraude, "con la frode". Se ciò non fosse accaduto, la successiva stagione bellica (quella del 359) avrebbe visto un attacco persiano in forze. Non sappiamo, ovviamente, quanto le parole di Ammiano rispecchino l’effettivo contenuto del documento di Shapur: lo storico è generalmente ritenuto, anche a proposito di questo specifico episodio, piuttosto attendibile191. In questa lettera, che esplicita le intenzioni del re persiano, è chiaramente visibile l’impatto sulla storia delle reciproche relazioni tra Roma e Ctesifonte causato dagli effetti del trattato del 299. Tutti gli sforzi dell’Augusto nei vent’anni precedenti erano stati diretti, come abbiamo visto, al mantenimento e alla preservazione dei termini sanciti da quel trattato; adesso Shapur, dall’alto di una situazione strategicamente vantaggiosa, dichiarava, di fatto, che il suo obiettivo era quello d'invalidarli, ed in quella direzione aveva, d'altronde, anch’egli sempre agito, cercando di riprendere il controllo della Mesopotamia nord-orientale tramite la graduale eliminazione del sistema di fortificazioni romane che la presidiava. Proprio il suo giudizio su come le terre che ora egli reclamava erano state ottenute dai romani, quel composita fraude, è un punto focale. Il re persiano cercava di rimuovere il “diritto di conquista” dalla questione: entrambe le parti avevano diritto, secondo Shapur, alle conquiste ottenute in guerre "legittime", ma non quelle carpite con l'inganno, ovvero tramite il supporto di popolazioni assoggettate al nemico o situazioni analoghe; è quindi probabile che la fraus a cui Shapur si riferisce sia proprio la vittoria di Galerio da cui scaturì il trattato del 299, ottenuta col supporto degli Armeni, la cui posizione era sempre piuttosto ambigua, e la cui fedeltà “ufficiale” era stata strappata da poco ai Persiani: quindi, secondo i princìpi persiani, si trattava di una vittoria "illegittima".192 Shapur voleva dunque trasmettere ai Romani la sensazione che la sua richiesta fosse una rivendicazione di suoi precisi e legittimi diritti su quelle terre, non un desiderio di conquista di territori semplicemente contesi da entrambe le parti. 190 AM XVII,5,1-9 Blockley 1992, p.19; Blockley 1989, p.480 n.84; d'altronde Ammiano stesso dichiara di voler trasmettere il senso dei documenti che cita, più che le parole esatte: AM XVII,5,2: [litteras] quarum hunc fuisse accepimus sensum ; AM XVII,5,9: responsum est hoc modo ; ved. Matthews 1989, p. 485 n.12 192 Blockley 1989, p.480 n.84 191 64 Coerentemente con ciò, egli sollevò la questione del territorio che si estende fino al fiume Strimone, in Tracia, che era appartenuto agli Achemenidi: questa menzione è strumentale alla contestuale “rinuncia”, da parte di Shapur, a far valere suoi eventuali diritti anche in questa direzione. Un tentativo, dunque, di differenziare le conquiste romane ottenute legittimamente, che egli riconosceva, da quelle ottenute con l'inganno, che invece denunciava, accusando i romani di non compiere una analoga distinzione; egli intendeva far passare la sua richiesta come una soluzione che rispettasse i reali diritti di legittima conquista di entrambe le potenze, sottintendendo, tra l’altro, che, ottenuto quanto gli spettava, non avrebbe avuto altre richieste nei confronti di Roma e il confine orientale si sarebbe potuto ritenere sede di una pacifica convivenza. 193 Pietro Patrizio194 sottolinea come l’inviato di Shapur, Narseo, avesse cercato di rendere la questione, a parole, in maniera meno intransigente di quanto apparisse dalla lettera del re. Difficilmente, però, Shapur poteva davvero aspettarsi una accettazione dei suoi termini da parte di Costanzo: la situazione strategica era, non c’è dubbio, fortemente vantaggiosa per i Persiani, ma i termini posti da Shapur rasentavano, dal punto di vista di Roma, quelli di una vera e propria resa senza combattere; resta allora il forte dubbio che Shapur stesse mirando a sfruttare immediatamente questo vantaggio strategico, di cui non avrebbe potuto godere in eterno, procurandosi una sorta di giustificazione formale, come il rifiuto delle sue richieste da parte di Costanzo sarebbe apparso, per sferrare una grande offensiva già nel 359. E, infatti, Costanzo rifiutò. Narseo tornò dal suo re con una lettera da parte dell’imperatore romano. Il senso della quale, a leggere Ammiano, era tutt’altro che conciliante. Io Costanzo, sempre Augusto, vittorioso per terra e per mare, saluto cordialmente il re Shapur, mio fratello. Quale futuro amico, se tu lo vorrai, mi rallegro molto della tua prosperità; ma disapprovo vivamente la tua immutata e insaziabile cupidigia. Come tuoi possedimenti, tu esigi il possesso di Mesopotamia e Armenia, e mi consigli di tagliare delle membra da un corpo sano, affinché poi la sua salute si rafforzi. Mi sembra che tale consiglio sia da ricusare piuttosto che da confermare con il mio assenso. Ascolta dunque la verità, non velata da inganni, ma chiara e non intimorita da vane minacce. Il mio prefetto del pretorio, pensando di giovare alla pubblica utilità , a mia insaputa e per tramite di infimi soldati parlò di pace con un tuo generale. Noi non vogliamo né rifiutarla né respingerla, purché sia decorosa ed onesta, né rechi offesa al sentimento dell’onore e alla maestà nostra. Sarebbe infatti sconveniente e stolto, proprio ora che una serie di fortunate imprese ha placato quell’invidia che tanti danni ci aveva arrecato, quando ormai, abbattuti i tiranni, tutto l’orbe romano obbedisce a noi, che noi cedessimo quei possedimenti che a lungo conservammo intatti, anche quando il nostro potere si limitava ai ristretti territori dell’oriente. Cessino inoltre quelle minacce, esercitate al solito su di noi; non v’è dubbio infatti che non già per inerzia, ma per prudenza noi abbiamo subito attacchi anziché sferrarli, e che ogni qual volta siamo stati provocati, con gran diligenza ed energia abbiamo difeso le nostre cose avendo appreso 193 Che le mire di Shapur si limitassero ai territori soggetti al trattato del 299 pare essere confermato anche dal fatto che nel 363, quando il re persiano si trovò nella posizione di poter imporre una pace umiliante a Gioviano dopo la campagna di Giuliano, egli reclamò solo quegli stessi territori, e nemmeno nella loro totalità, lasciando ai romani una parte della Mesopotamia settentrionale da essi acquisita nel 299 (ved. cap. 21). E' probabile (ved. Blockley 1989, p.480 n.84) che la menzione dell'Armenia sottintendesse anche una restituzione de iure delle satrapie transtigritane oggetto del trattato del 299, che erano già de facto, almeno parzialmente, sotto controllo persiano (ved. cap. 5) 194 Petr. Patric. fragm.17, FHG IV, p.190 65 dall’esperienza e dalla storia che la potenza romana poté talvolta vacillare in alcune battaglie195, ma nella somma delle guerre non fu mai disfatta. 196 Nella lettera venne dunque sottolineato il fatto che le proposte di pace erano state un’iniziativa di Musoniano, e che non venivano ritirate da Costanzo solo in quanto utili al bene pubblico, fintanto che l'esito non fosse lesivo della dignità e delle necessità di Roma. Questa premessa conduce dritti al successivo, prevedibile, rifiuto di cedere territorio ai Persiani, e alla promessa di opporsi, anch’egli con le risorse imperiali indivise, ormai a sua disposizione, all’offensiva di Shapur. Per quanto noi, col senno di poi, sappiamo che Costanzo era eccessivamente ottimista sulla reale possibilità di liberare a breve le forze ancora impegnate a "pacificare” il fronte danubiano, le parole che egli dedicò a "spiegare" la strategia mantenuta negli anni precedenti sul fronte orientale confermano pienamente quanto dedotto nei capitoli precedenti, e descrivono in maniera concisa ma molto efficace l'intenzione dell'Augusto di mantenere invariati i termini acquisiti nel 299 con una politica prudente nell'azione ma accorta, attiva e pronta nella reazione - l'unica possibile fintanto che egli poté contare solo su una parte delle risorse militari imperiali, o fu assente dall’area. Zonaras, sempre in relazione al contenuto di questa lettera di Costanzo, riporta una considerazione di un certo rilievo, che l’imperatore avrebbe incluso, di cui però Ammiano non parla (il che, tra l’altro, risveglia in noi perlomeno qualche sospetto sulle fonti di Zonaras): la sua difesa del diritto di Roma a possedere Armenia e Mesopotamia, basato sulla conquista Macedone dell’impero persiano e la successiva conquista romana della Macedonia. Questa – se davvero contenuta nella lettera di Costanzo - sarebbe una risposta al cuore della lettera di Shapur, quel composita fraude su cui il re persiano aveva basato la giustezza delle sue richieste. Mentre, tuttavia, Costanzo stava marciando dall'occidente e tornava a Costantinopoli, inviati dei Persiani lo incontrarono presso Sirmium. Erano mandati da Shapur, che chiedeva che Armenia e Mesopotamia fossero restituite alla Persia e che ciò potesse mettere fine alla guerra con Roma, poiché questi territori erano stati causa di problemi per essa sin dai tempi degli avi; ma se Costanzo non avesse acconsentito, egli chiarì all'imperatore che si sarebbe rivolto a Marte per dirimere la questione. A questo proposito, Costanzo rimandò indietro la delegazione trasmettendo il suo stupore che Shapur dimenticasse che una volta i Persiani erano schiavi dei Macedoni. Quando la Macedonia divenne soggetta a Roma, coloro che erano ad essa soggetti divennero soggetti a Roma. Shapur, irritato, decise per la guerra.197 Shapur aveva spostato la questione fuori dall'ambito del “diritto di conquista”, non ritenendo quest'ultimo pertinente ai territori da lui invocati; ora Costanzo, secondo Zonaras, tornava a porre questo concetto al centro della questione, facendo rientrare, tramite un passaggio logico, anche Armenia e Mesopotamia tra i territori ottenuti dai romani legittimamente. 195 Questa precisazione di Costanzo (o, naturalmente, di Ammiano) farebbe pensare che i commenti di Festo e delle altre fonti a proposito dell'esito tattico generalmente favorevole ai Persiani (seppur senza significative conseguenze a livello strategico) nei pochi scontri campali di un qualche rilievo combattuti in questi anni, siano tendenzialmente attendibili (ved. cap. 11) 196 AM XVII,5,10-14 197 Zonar. XIII,9,25-31 66 E’ interessante notare, per quanto non si possa essere certi del grado di effettiva corrispondenza tra le fonti e il reale contenuto dei documenti scambiati tra i due, come entrambi i regnanti cercassero di giustificare le proprie posizioni su basi storiche e di diritto. Anche per quanto riguarda la risposta di Costanzo, come per la lettera di Shapur, l’iniziativa diplomatica celava però, probabilmente, un espediente con tutt’altro fine. Poco dopo aver rispedito indietro Narseo, Costanzo inviò infatti un’ulteriore ambasceria a Shapur. La componevano Prospero, Spettato, ed Eustazio. Il primo aveva svolto, come abbiamo visto, le funzioni di magister militum per Orientem durante la triennale assenza di Ursicino, il secondo era tribunus et notarius, il terzo era un filosofo, inserito su consiglio di Musoniano (che non ricopriva più il suo incarico ma i cui consigli evidentemente erano ancora ritenuti preziosi), che Ammiano dipinge in un ruolo di “persuasore”. La presenza di una figura simile, unitamente alla considerazione del rango relativamente basso dei due diplomatici, suggerisce che lo scopo reale dell’ambasceria fosse guadagnare tempo, e d'altronde Ammiano stesso lo conferma : Portando lettere e doni da parte dell’imperatore, essi dovevano anche fare in modo di sospendere con qualche artificio i preparativi di Shapur, perché intanto si fortificassero quanto più possibile le province settentrionali. 198 Questo passo richiede qualche considerazione. Era ormai evidente quanto una soluzione diplomatica della crisi fosse pressoché impossibile: la diplomazia, per entrambi i contendenti, era ormai un puro espediente allo scopo di migliorare la propria posizione iniziale in vista di un inevitabile scontro armato che avrebbe caratterizzato la prossima stagione di campagna, quella del 359. Shapur poneva condizioni formalmente sostenute da motivazioni razionali, ma di fatto inaccettabili per Roma, così da poter impugnare l'inevitabile rifiuto di Costanzo e sventolarlo come atto ostile, "giustificando" così la sua aggressione. Costanzo cercava di allungare e dilatare le schermaglie diplomatiche, mantenendole in stallo, in modo da avere più tempo a disposizione: l'imperatore romano, infatti, sapeva di non avere alcuna possibilità di essere in oriente durante la parte iniziale della prossima stagione di campagna: le ostilità sul Danubio erano ancora da chiudere, e solo una volta sistemato quel fronte egli avrebbe trasferito verso est l'esercito praesentalis allo scopo di ribilanciare il contesto strategico in Mesopotamia. Il piano di Costanzo relativo al fronte orientale, come Shapur si aspettava, doveva quindi prevedere, inizialmente, l'ormai consueta attuazione di una "difesa passiva" basata sul sistema fortificato, che sarebbe sfociata quasi certamente nell'assedio di qualche città-cardine del medesimo da parte dei Persiani; l'imperatore, al suo arrivo in oriente - inevitabilmente a stagione inoltrata - avrebbe poi costretto Shapur a sollevare l'assedio e ad accettare una battaglia in campo aperto in Mesopotamia. Naturalmente le prospettive di efficacia di questo piano erano direttamente proporzionali al ritardo che la diplomazia romana sarebbe riuscita ad imporre all'inizio dell'offensiva persiana: se questa fosse stata lanciata subito all’apertura della stagione, Costanzo avrebbe corso il rischio, dal suo punto di vista, che Shapur, con mesi a disposizione per portare avanti una campagna di una certa complessità, e in assenza di una rilevante opposizione sul campo, puntasse addirittura all'Eufrate e minacciasse la Siria, ed impedire ciò costituiva senza dubbio la priorità strategica difensiva romana. In realtà, probabilmente, Shapur non considerò mai strategicamente opportuno (né, forse, un suo obiettivo) un attacco diretto alla Siria (ved. cap. 21); ma, come l'evolvere dell'incipiente campagna 198 AM XVII,5,15 67 dimostrerà ampiamente, dal punto di vista romano questa rimaneva un'eventualità assolutamente plausibile e molto temuta. Inoltre, causando il maggior ritardo possibile all’inizio dell'offensiva persiana nell'ambito della stagione, Costanzo non solo avrebbe accorciato il periodo - quello prima del suo arrivo - di forzata applicazione della sola difesa passiva; egli avrebbe anche accorciato la campagna stessa (essendone il termine imposto dall'inesorabile mutare stagionale delle condizioni climatiche), "condannandola" quindi a limitarsi nei suoi obiettivi, ed a svilupparsi solo in prossimità del Tigri, presumibilmente in direzione di Nisibi o Singara, come era accaduto diverse volte in passato, ed evitando così il rischio di un possibile attacco alla Siria.199 L’Augusto, dunque, poteva raggiungere questi scopi solo allungando il più possibile le trattative diplomatiche; in quest'ottica egli inviò, come si diceva, una nuova ambasceria, intenzionalmente composta da personaggi di medio rango - una scelta peraltro poco gradita da Shapur200 - in modo che essi, privi di qualunque "libertà di movimento" rispetto alla linea diplomatica predefinite dall'imperatore, tenessero in stallo la questione : In quegli stessi giorni Prospero, Spettato ed Eustazio, inviati come dicemmo come ambasciatori in Persia, si presentarono con le lettere e i doni dell’imperatore dinanzi al re, ritornato a Ctesifonte. Chiedevano al re la pace a condizione che tutto restasse nella situazione in cui era e, memori degli ordini dell’imperatore, non cedevano in nulla che fosse richiesto dall’interesse e dalla maestà dello stato romano: affermavano che si dovesse concludere la pace a patto che non avvenisse alcun mutamento in Mesopotamia e in Armenia. Perciò, trattenutisi a lungo e vedendo che il re si ostinava a non concedere la pace se non gli fosse stato concesso il possesso di quelle regioni, fecero ritorno senza nulla avere concluso. Dopo questo tentativo, per richiedere la stessa cosa alle stesse condizioni furono inviati il comes Lucilliano e il notarius Procopio201, che dall’inestricabile nodo del destino fu poi spinto alla rivolta.202 Costanzo, al ritorno dei suoi inviati, coerentemente con i suoi scopi, rispose inviando un'ulteriore ambasceria, questa volta di maggior autorevolezza (siamo ormai nel tardo 358 o all'inizio del 359): la componevano il comes domesticorum Lucilliano e il tribunus et notarius Procopio. A questo punto, però, il tentativo di prendere tempo, invero piuttosto evidente, di Costanzo, fallì: Shapur, deciso a sfruttare il vantaggio strategico e certamente conscio dei motivi di questa nuova missione diplomatica, detenne l’ambasceria romana, in modo che Costanzo potesse supporre le trattative in atto e dunque illudersi di un successo della sua tattica dilatoria, e affrettò i preparativi per l'offensiva: Infatti, il re dei Persiani, accresciuto nelle forze da quelle fiere genti che aveva sottomesso e oltremodo desideroso di accrescere il proprio dominio, preparava armi, truppe e vettovaglie, chiamando a parte dei suoi piane le ombre del Tartaro e consultando tutti coloro che sanno 199 Blockley 1989, p.481 Eunap. vit. sophist. VI,5,1-10 descrive l'abilità oratoria di Eustazio che avrebbe spinto il re, inizialmente diffidente ed ostile, non solo a dargli udienza, ma anche ad usargli attenzioni e onori inusuali; l'intervento di alcuni Magi avrebbe però impedito che il re cedesse a tale eloquenza, tanto che Shapur avrebbe infine risposto a Costanzo chiedendogli sdegnato perché, quando la sorte aveva permesso loro di avere così tanti uomini di valore, egli avesse mandato presso lui nient'altro che schiavi arricchiti. 201 Procopio usurpò durante l'impero di Valente, nel 365; vedasi Lenski 2002, pp.68-105 202 AM XVII,14 200 68 prevedere il futuro. E provveduto a tutte queste cose pensava di sferrare l’attacco all’inizio della Primavera. 203 L’imperatore romano, dunque, era inconsapevole del fatto che la sua ambasceria non stava ormai portando avanti alcun colloquio diplomatico. Egli si aspettava di poter garantire la saldezza del fronte danubiano e organizzare il suo ritorno su quello orientale in tempo per contrastare in forze l’offensiva persiana, presumibilmente tarda e limitata nel suo sviluppo, con una rapida campagna a stagione inoltrata. In questo senso dobbiamo probabilmente leggere anche il richiamo di Ursicino a Sirmium da parte di Costanzo, proprio all’inizio del 359, allo scopo di promuoverlo magister peditum praesentalis204, e la sua sostituzione, come magister equitum per Orientem, con Sabiniano205. Malgrado la sospettosa attitudine di Ammiano spinga lo storico a non prendere questa possibilità nemmeno in considerazione nella sua narrazione206, il trasferimento di Ursicino al comando dell'esercito praesentalis era probabilmente proprio una mossa in vista del ritorno del medesimo in Mesopotamia, previsto nel corso della stagione. In questo modo, Costanzo avrebbe avuto, durante la campagna in oriente contro Shapur, un generale che riteneva valido e molto esperto di quell’area al comando del grosso delle forze mobili romane (l'esercito praesentalis, appunto), piuttosto che alla guida delle truppe limitanee mesopotamiche e delle esigue truppe mobili d'Oriente - ruolo che avrebbe invece avuto se fosse rimasto nel suo precedente "posto" di magister equitum per Orientem (e che ora sarebbe spettato a Sabiniano). Un simile avvicendamento richiedeva però inevitabilmente tempi tecnici non trascurabili affinché diventasse operativo ed efficace, ed è indice della pianificazione di una riorganizzazione piuttosto spinta, da parte dell'imperatore, delle forze a sua disposizione, contestuale alla chiusura del fronte danubiano; anche questa considerazione è coerente col fatto che Costanzo non si aspettasse l’offensiva persiana all’inizio della stagione. Ammiano ci trasmette l’inquietudine delle città locali all’atto della sostituzione di Ursicino con Sabiniano; lo storico, fedele alla propria linea, motiva questa tensione con il disappunto per la perdita di un personaggio esperto e di valore, sostituito nel ruolo di comandante militare locale - in base ad una decisione dettata dalla sfiducia e dal sospetto che divoravano l’imperatore - da un incapace e imbelle. Noi, però, in considerazione della scarsa obiettività dello storico quando c’è Ursicino di mezzo e della sua nota ostilità verso Sabiniano, possiamo supporre che l’inquietudine in Oriente fosse sì tangibile, ma motivata più che altro dal crearsi di una situazione interlocutoria in ambito locale in un momento estremamente delicato. Non si può escludere, d'altro canto, che Sabiniano fosse davvero un personaggio di scarsa rilevanza e privo d’iniziativa, come Ammiano suggerisce, ma che fosse stato posto in quel ruolo proprio 203 AM XVIII,4,1 Al posto di Barbazione, recentemente processato e fatto giustiziare da Costanzo in quanto sospettato di puntare alla porpora: AM XVIII,3 205 AM XVIII,5,5 ; Un passo della Vita Malchi 10 di Gerolamo suggerisce che un Sabiano, o Sabiniano a seconda delle trascrizioni, fosse stato dux mesopotamiae negli anni ’30. Questo sarebbe coerente col fatto che Ammiano descrive Sabiniano nel 359 come senex , e potrebbe indicare, seppure non comprovare, che si tratta della stessa persona. 206 In AM XVIII,6,1-2 , Ammiano critica aspramente la scelta di Costanzo, pur ammettendo che formalmente Ursicino veniva elevato superiore dignitate: lo storico, che in questa parte della sua opera appare ossessionato da continui complotti di corte contro il suo comandante, interpreta la mossa di Costanzo come un inopportuno allontanamento di Ursicino, personaggio amato e di grande valore, e dunque potenzialmente pericoloso per l’imperatore, da un fronte così delicato e importante dietro spinta dei suoi malfidati consiglieri, i quali avrebbero inculcato nell'imperatore il sospetto che egli avesse piani ambiziosi per i suoi due figli (AM XIV,11,3). Ammiano in effetti, dal punto di vista cronologico, suggerisce una catena causa effetto tra la preparazione dell’offensiva persiana, la scelta di togliere di mezzo Ursicino prima che essa cominciasse, e la scelta di Shapur di attaccare proprio in seguito all’eliminazione di un sì valente comandante nemico dal teatro di operazioni. 204 69 affinché, essendo uomo facilmente gestibile e controllabile, eseguisse gli ordini alla lettera e non prendesse iniziative in attesa dell'arrivo dello stesso Ursicino con l'esercito da campo di Costanzo, operando quindi fino a quel momento una politica di attesa e contenimento, senza correre eccessivi rischi dal punto di vista della gestione delle proprie limitate risorse militari207. Costanzo, però, il tempo che gli serviva affinché tutto ciò potesse svolgersi secondo quanto pianificato, non l’avrebbe avuto: Shapur, spinto, secondo Ammiano, dalle pressioni e dalle raccomandazioni di Antonino208, oltre che dalla consapevolezza del suo notevole vantaggio strategico e dalla sostituzione di Ursicino con un personaggio di secondo piano209, era ormai pronto a lanciare la sua grande offensiva all'inizio della primavera, e di questo fattore grave e - per lui inatteso, Costanzo dovette averne consapevolezza con l'approssimarsi dell'inizio della stagione. Il colpo di grazia ai piani dell’imperatore venne dal fronte danubiano, che, mentre egli ormai si apprestava ad attuare quanto necessario per preparare il ritorno ad oriente, si rivelò molto più lontano del previsto dall'essere pacificato: all’apertura della stagione di campagna, una nuova, inattesa minaccia costituita dai Sarmati Limiganti bloccò l’Augusto in Valeria, a nord-est della Pannonia; i Limiganti, gruppo “perdente” all’interno dell’etnia Sarmata, si erano ribellati contro i loro “dominatori”, cioè le popolazioni sarmatiche "vincenti", e avevano creato tensioni lungo il limes nel 358210; Costanzo li aveva allora deportati in aree più lontane dai confini dell’impero, ma ora essi erano tornati in prossimità del limes danubiano, e dimostravano una irrequietezza che preoccupava l’imperatore: Frattanto Costanzo, che svernava tranquillamente a Sirmium, era preoccupato da gravi e allarmanti notizie. Si diceva, infatti, come egli soprattutto temeva, che i Sarmati Limiganti, dopo aver cacciato dalle antiche sedi i loro padroni e avere abbandonato le terre ad essi assegnate nell’anno precedente affinché spinti dalla loro irrequietezza non tentassero imprese a nostro danno, avessero occupato le regioni vicine ai nostri confini e vagassero qua e là senza freno, secondo il loro costume, pronti a creare disordini qualora non fossero stati respinti. L’imperatore, ritenendo che le loro mosse sarebbero state più pericolose se avesse differito l’impresa, raccolse d’ogni parte il meglio dei soldati, pronti alla guerra, e all’inizio della Primavera mosse contro i nemici. […] 207 Blockley 1989, p. 482 n.90 ipotizza che Costanzo avesse posto un personaggio oscuro e di secondo piano come Sabiniano nel ruolo che era stato di Ursicino proprio affinché quest’ultimo non temesse di essere stato “scavalcato”, ma prendesse atto che il nuovo magister equitum per Orientem era una presenza poco più che formale (probabilmente con le spalle“coperte” , nell’ambito dell’organizzazione del sistema difensivo passivo romano in vista dell’offensiva persiana, dalla presenza dell’esperto dux Mesopotamiae Cassiano), in attesa dell’arrivo in oriente dell’esercito praesentalis guidato dallo stesso Ursicino, a cui dunque era in realtà affidato l’effettivo comando delle operazioni per la campagna ormai prossima; Blockley paragona questa circostanza con la rimozione di Ursicino dall’oriente negli anni dal 354 al 357, quando, seppure in occidente, egli mantenne il suo titolo di magister equitum per Orientem, e fu sostituito in quel ruolo da un vicario: anche in questo caso Costanzo sembrerebbe essersi preoccupato di mettere bene in chiaro che il suo richiamo era finalizzato allo scopo di affidare a Ursicino importanti compiti in Occidente, non a toglierlo da una posizione che restava comunque ufficialmente sua. 208 AM XVIII,5,6 Antonino sollecita Shapur all’offensiva, ricordando come alcuni comportamenti passati del re, tra cui egli cita la ritirata dopo la “vittoria” di Singara del 348 (ved. cap.12), fossero meritevoli di un rimprovero pari a quello che Maarbale mosse ad Annibale, cioè di saper ottenere vittorie ma di non avere abbastanza iniziativa per saperle sfruttare. 209 AM XVIII,6,3 210 Le vicende di Costanzo coi diversi gruppi di Sarmati, tra cui i Limigantes, richiederebbero una complessa trattazione che esula però dagli scopi di questo articolo. 70 Deciso dunque ad opporsi a così grande pericolo, l’imperatore partì con molto seguito per la Valeria, una volta parte della Pannonia, e poi eretta a provincia col nome della figlia di Diocleziano. 211 Costanzo fu dunque improvvisamente costretto a reimpostare la stagione nell'ottica dettata dalla nuova, inattesa, grave situazione sul Danubio, il che rese definitivamente impossibile la realizzazione dei suoi piani per quanto riguardava la Mesopotamia, ove, a questo punto, molto difficilmente sarebbe riuscito a tornare in tempo per attuarvi una campagna col suo esercito praesentalis e affrontare Shapur. Egli dovette dunque ritornare repentinamente sui suoi passi per quanto riguardava l'intera applicazione operativo-strategica per la stagione e, quindi, anche per ciò che riguardava la riorganizzazione del suo esercito mobile: senza più una credibile prospettiva di poter riportare l’esercito praesentalis in Mesopotamia in tempo per uno scontro con Shapur, non sussisteva più la motivazione alla base del trasferimento di Ursicino al comando dello stesso; anzi, per poter usufruire della sua presenza sul fronte orientale durante l’offensiva persiana, ormai incipiente, era necessario un immediato cambio degli ordini che lo riguardavano. Mentre Ursicino era in marcia per raggiungere Sirmium ed era in prossimità del fiume Hebrus in Tracia (l'attuale Maritza in Turchia), gli giunse dunque il "contrordine" dell’imperatore: le nuove direttive erano di tornare immediatamente in Mesopotamia e ivi riprendere servizio. Ursicino pare aver preso male questo cambiamento, e Ammiano riflette il suo punto di vista: se il precedente richiamo del magister militum per Orientem a Sirmium era stato visto dallo storico come un tentativo di limitarne la libertà d'azione ponendolo in una posizione formalmente più prestigiosa ma in realtà solo più facilmente controllabile e gestibile dalla corte imperiale a lui ostile, questo improvviso reinvio in Mesopotamia viene descritto come ignobilmente finalizzato a spingere Ursicino in una situazione in cui, in caso di sconfitta nella ormai incipiente campagna, egli ne sarebbe stato incolpato, mentre in caso di vittoria il merito sarebbe stato accreditato a Sabiniano. 212 Seppure, come noto, Ammiano vedesse costantemente cattiva fede nelle decisioni di Costanzo, c'è da considerare che il punto di vista suo e di Ursicino era "interno" ai fatti e dunque per forza di cose di limitata ampiezza; inoltre la velocità delle comunicazioni di allora rendeva estremamente complesso gestire da Sirmium la situazione in Mesopotamia: i ritardi tra causa ed effetto, tra azione e reazione, già di per sé notevoli all'epoca, potevano essere un problema enorme quando il contesto era fluido e rapidamente mutevole come in questo caso. Ursicino ed Ammiano, dal loro punto di osservazione, potevano avere una consapevolezza nettamente più rapida, rispetto a Costanzo, dell’evolvere della situazione mesopotamica, di cui erano diretti protagonisti, e quindi recepivano con malumore gli effetti della gestione strategica operata invece da Sirmium, inevitabilmente e gravemente affetta dai ritardi nello scambio di informazioni: in poche parole, i due potevano avere avuto una percezione dell'immediata urgenza della situazione sul Tigri molto prima dell'imperatore; le contraddittorie direttive imperiali che riguardavano Ursicino (prima il richiamo a corte quando in Mesopotamia – ma probabilmente non ancora a Sirmium – la situazione orientale appariva già in rapido deterioramento, e poi il repentino “dietro front” quando ormai il comando in Mesopotamia sarebbe comunque spettato, dal loro punto di vista, ad un altro), apparvero probabilmente, da loro punto di vista, ambigue, gravemente intempestive, e dunque "sospette". E’ però anche evidente come Costanzo fosse del tutto incolpevole di ciò, soggetto lui per primo ai tempi tecnici di ricezione delle notizie da est e di inoltro delle sue conseguenti direttive, a loro volta 211 212 AM XIX,11,1 AM XVIII, 6,5-7 71 influenzate, tra l’altro, da elementi derivanti dal contesto strategico globale dell’impero, di cui Ursicino e Ammiano non potevano avere una completa conoscenza. 213 Josephine Lenssen214 fa acutamente notare la “sospetta”, totale assenza, nella narrazione ammianea, di qualunque riferimento ad un momento chiave, che non viene, effettivamente, menzionato: proprio quello della ricezione presso la corte imperiale, a Sirmium, delle informazioni provenienti da oriente a proposito dell’inattesa imminenza dell’offensiva persiana, il che costituisce, come si diceva e come si desume esaminando con obiettività il contesto, la vera ragione, assieme ai nuovi problemi sul Danubio, degli improvvisi cambiamenti a livello operativo-strategico apportati_da Costanzo, e della sua conseguente decisione di rispedire repentinamente Ursicino in Mesopotamia. Inoltre, Ammiano evita anche qualunque menzione dell’importanza del fattore-ritardo nelle comunicazioni, rilevanza di cui era ben conscio, avendolo rimarcato altrove nella sua narrazione a proposito di altri fatti215. Pur nella consapevolezza del limitato punto di vista di Ammiano durante l’accadere dei fatti, si tratta, in questo caso, di elementi che lo storico, scrivendo a posteriori, doveva certamente aver compreso al momento della stesura dell’opera; la sua scelta di sopprimerli, dunque, deve essere stata, secondo la Lenssen, intenzionale. Non avesse, Ammiano, soppresso quelle due considerazioni, avrebbe d'altronde fornito una valida motivazione strategica (quella reale, oltretutto) al richiamo ed al seguente reinvio di Ursicino in Mesopotamia, e avrebbe validamente giustificato anche il ritardo da parte di Costanzo nell’effettuare questa scelta, privandosi così dei suoi fondamentali “capi d’accusa” e “scagionando” i suoi grandi accusati - imperatore e cortigiani - nell'ambito di quello che egli vide e descrisse come un grande complotto di corte finalizzato a screditare Ursicino. Si potrebbe forse obiettare che la Lenssen, nel suo articolo, ponga troppa enfasi su una delle due cause dei “contrordini” di Costanzo (la presa di coscienza del fatto che l’offensiva persiana sarebbe stata lanciata subito) senza prendere in adeguata considerazione l’altra (i Limiganti sul Danubio), e che dunque ella dia troppa importanza alla soppressione, da parte di Ammiano, di questa informazione che, in realtà, potrebbe anche essere giunta più tardi, essendo la nuova situazione sul Danubio, in linea puramente teorica, probabilmente già sufficiente a ridurre drasticamente le possibilità di un trasferimento in oriente dell'esercito praesentalis prima della fine della stagione, e quindi a motivare il reinvio di Ursicino in Mesopotamia. Da un punto di vista di fatto, si tratta di un’obiezione probabilmente sensata. In via di principio, però, ciò che la Lenssen vuole suggerire viene ulteriormente rafforzato da queste considerazioni: Ammiano infatti ha un comportamento sospetto anche per quanto riguarda la sua narrazione dei fatti sul Danubio. Infatti essi (la ribellione dei Limiganti e la loro soppressione da parte dell’imperatore) vengono citati solo dopo il racconto della campagna del 359 e la conseguente caduta di Amida, seppure Ammiano scriva chiaramente che riguardarono la fase iniziale della stagione; la partenza di Costanzo da Costantinopoli verso l’oriente, successiva alla definitiva chiusura della questioneLimiganti, viene proposta da Ammiano nell’ottica del rimediare alla disgrazia subita ad Amida, ma in realtà la partenza dell’imperatore, seppur ritardata dagli eventi al punto da impedire l’arrivo in oriente in tempo per affrontare Shapur, dovette essere, comunque, certamente anteriore alla caduta di Amida216, sicuramente non motivata da essa, e già prevista, come ampiamente discusso in precedenza. Ammiano, dunque, che già di norma fornisce pochi elementi per chiarire la cronologia delle sue narrazioni, in questo caso sembra voler oscurare tale aspetto in maniera ancora più marcata, forse 213 Matthews 1989, p. 40 Lenssen 1999, pp.40-50 215 AM XV,5-6: si tratta dell'episodio in cui Ursicino ed Ammiano, con la loro squadra, vengomo inviati da Costanzo ad eliminare Silvano, magister peditum per Gallias recentemente elevato Augusto dalle proprie truppe. 216 Blockley 1992, p.181 n.61 214 72 allo scopo, riscontrabile anche in altri frangenti (ved. capp. 18 e 19), di rimuovere presso il lettore l’evidenza di alcuni “scomodi” nessi causa-effetto: nella fattispecie, in linea con quanto notato dalla Lenssen, Ammiano cercherebbe di nascondere le reali motivazioni strategiche (di cui l’iniziativa dei Limiganti fu probabilmente la principale) dietro la “gestione” di Ursicino da parte di Costanzo. Ad ogni modo, Ursicino e il suo seguito invertirono rotta e si diressero nuovamente verso la Mesopotamia. La fretta e l'urgenza della situazione, ormai prossima a precipitare per l'incipiente invasione persiana, impedirono nuovi mutamenti organizzativi, imponendo invece un repentino adeguamento alle circostanze esistenti in quel momento: Sabiniano fu lasciato al suo nuovo posto di magister equitum per Orientem , mentre a Ursicino e alla sua squadra fu, apparentemente, assegnato un compito subordinato: l'organizzare le difese localmente. Questo, almeno, si deduce dal polemico passo di Ammiano a proposito della ridistribuzione dei comandi : [...] ad alium omni potestate traslata217 [l'ordine di tornare immediatamente in Mesopotamia per affrontare quella pericolosa spedizione] dopo che tutto il potere era stato trasferito ad altro. La situazione dei comandi qui prospettata da Ammiano, dunque, si presentava molto diversa rispetto alle probabili (seppur taciute da Ammiano), precedenti intenzioni dell'imperatore: Ursicino avrebbe gestito situazioni locali nell’ambito del sistema fortificato, mentre Sabiniano avrebbe avuto il comando delle truppe mobili già in Mesopotamia che costituivano l’embrione del “nuovo” esercito da campo d’Oriente, oltre alla supervisione delle truppe di frontiera. Inoltre, egli avrebbe presumibilmente avuto anche la responsabilità di gestire, insieme a Costanzo, l'esercito praesentalis stesso nell’ormai improbabile ipotesi che esso giungesse nell’area prima della fine della stagione.218 Questa distribuzione dei comandi, fortemente penalizzante per Ursicino, è comunque ipotetica ed è, sottolineiamolo ancora, quella suggerita da Ammiano o dedotta dalle sue parole; proseguendo con la narrazione, avremo occasione di metterla fortemente in discussione. Al suo arrivo nell’area, Ursicino si dedicò comunque alla preparazione delle difese di Nisibi; d’altronde, negli ultimi vent'anni, quasi ogni volta in cui Shapur aveva dato vita ad un’offensiva su larga scala, si era diretto lì, ed aveva posto la città sotto assedio; era probabile, dal punto di vista dei romani, che accadesse di nuovo. 17. 359 D.C. : AMIDA 17.1: La presa di coscienza Proprio dagli spalti di Nisibi, Ursicino poté infatti assistere alla fase iniziale di un’incursione persiana. Ammiano, che, ricordiamolo, faceva parte della squadra di Ursicino, ed era dunque all’interno delle mura di Nisibi, descrive così il momento: 217 218 AM XVIII,6,5 Matthews 1989, p.41 73 Mentre in tutta fretta fra le mura si preparava ciò di cui più urgente era il bisogno, fumo e fiamme che splendevano in numero maggiore del solito dalla parte del Tigri, in direzione di Castra Maurorum, e delle altre località limitrofe fino ai sobborghi della città, annunciavano che schiere nemiche avevano superato il fiume ed avanzavano devastando. 219 In un contesto strategico caratterizzato per lo più da incursioni di intensità medio-bassa, era probabilmente piuttosto arduo per Ursicino – perlomeno in questa fase iniziale - stabilire se lo spettacolo visibile dalle mura di Nisibi fosse una delle ricorrenti iniziative di quel tipo, o se si trattasse delle prime avvisaglie di quell’offensiva su larga scala che certamente non era, ormai, inattesa. Queste sono pagine tra le più intense nell'opera di Ammiano: Ursicino e il suo seguito, temendo che le vie di comunicazione potessero essere presto bloccate, decisero di allontanarsi in tutta fretta da Nisibi per portare avanti anche altrove, finché erano in tempo, il loro "tour" delle principali posizioni fortificate mesopotamiche. Essi si trovarono però alle calcagna uno squadrone di cavalleria nemica, oltretutto in una luminosa notte di luna piena; solo il "classico", ma evidentemente sempre efficace, stratagemma della fiaccola legata su un animale da soma spronato poi in una direzione diversa da quella effettivamente seguita, li salvò, e permise loro di dirigersi verso Amida, fulcro settentrionale del sistema difensivo imperiale e loro prossima tappa, mentre gli inseguitori proseguivano, ingannati, verso Constantia. Sulla loro strada, all’altezza di Meiacarire, Ursicino e i suoi incapparono in un disertore, un soldato originario delle Gallie che aveva servito nella cavalleria romana ma che, per evitare le punizioni conseguenti ad un delitto da lui commesso, era passato dalla parte dei Persiani ed era da loro impiegato come esploratore. Questi, messo alle strette, confessò che il suo compito era riferire a coloro che comandavano le truppe persiane impegnate in quest’azione, Tamsapore e Nohodares, quanto aveva visto e appreso.220 Il disertore fu giustiziato sul posto, ma ciò che egli aveva rivelato fu sentito curarum crescente sollecitudine221 da Ursicino: ora si sapeva che gli incursori erano guidati da due generali di notevole autorevolezza, i responsabili dell’esercito persiano nell’area del Tigri, il che escludeva un’azione di piccola portata e suggeriva l’inizio di qualcosa più di un'incursione locale. Si trattava dunque dell’invasione vera e propria, ed era, allora, finalizzata al quarto assedio di Nisibi? E’ molto probabile che Ursicino, a questo punto degli eventi, lo abbia creduto. Secondo ciò che si deduce da quanto afferma Ammiano, il piano di Shapur prevedeva però uno sviluppo differente da quelli attuati in passato: invece che portare assedio a Nisibi o a Singara, consigliato222 da Antonino, che conosceva la disposizione delle forze romane e poteva garantire l'assenza dall'oriente dell'esercito praesentalis, il re, con tutta la stagione davanti, intendeva bypassare queste città e dirigersi verso l’Eufrate, per attraversarlo e attaccare la Siria - conscio dell'assenza di seri rischi di dover concedere battaglia campale durante il percorso. Shapur, al fine di nascondere i suoi scopi reali, aveva dunque lanciato un'azione diversiva su Nisibi, guidata da Tamsapore e Nohodares, che inizialmente ingannò i romani. Probabilmente questo attacco fu portato anche dagli Armeni di Arsace, in uno dei suoi momenti di "oscillazione" verso la Persia - la sua fama di scarsa affidabilità sembra confermata dal fatto che i 219 AM XVIII,6,9 AM XVIII,6,10-16 221 AM XVIII,6,17 222 AM XVIII,5,1-2 220 74 Persiani , apparentemente, non comunicarono ad Arsace il fatto che quella a lui affidata era solo un'azione diversiva. 223 Questa presunta caratterizzazione del piano strategico di Shapur fu dedotta da Ursicino (e da Ammiano) quando, giunti ad Amida, lui e il suo staff ricevettero una squadra di exploratores romani che tornavano dalla propria missione; uno di essi estrasse dal fodero della spada224 e consegnò al magister peditum una messaggio cifrato proveniente da Procopio, uno dei componenti l'ultima ambasceria vanamente inviata da Costanzo a Shapur, che era stata trattenuta in Persia (cap. 16). Il testo riportato (ovviamente in forma già decrittata) da Ammiano è il seguente: "Poiché gli ambasciatori dei Greci sono stati allontanati e forse anche destinati ad essere uccisi, quel re longevo, non contento dell'Ellesponto, dopo aver gettato dei ponti sul Granico e sul Rindaco, arriverà per invadere l'Asia con numerosi popoli: Egli per sua natura è irritabile e assai duro, e lo eccita e lo spinge il successore di Adriano, che un tempo fu sovrano di Roma. Se la Grecia non correrà ai ripari, tutto è finito ed il suo funerale bell'e fatto." Questo testo significava che il re dei Persiani, varcati i fiumi Anzaba e Tigri per consiglio di Antonino, aspirava al dominio di tutto l'Oriente. Dopo aver decifrato questo messaggio con grandissima fatica a causa della sua oscurità, venne presa una saggia decisione. 225 Le difficoltà menzionate da Ammiano sono riferite sia al fatto che il messaggio era originariamente cifrato, come Ammiano stesso dichiara, sia al fatto che anche una volta decrittato esso si riferiva ad eventi contemporanei facendo allusioni a fatti del passato i cui riferimenti non solo non sono nemmeno oggi così ovvi come possono sembrare a prima vista, ma presupponevano, in coloro che avrebbero ricevuto e letto il messaggio, una cultura non scontata né, all’epoca, molto diffusa. I riferimenti del messaggio non sono, come si potrebbe pensare di primo acchito, relativi all'invasione della Grecia da parte di Serse nel 480 a.C., ma all'invasione della provincia romana d'Asia da parte di Mitridate VI Eupatore nel 74/73 a.C. (terza guerra mitridatica)226, narrata da Appiano227, in cui vi sono tra l'altro espliciti riferimenti sia all'abbondante presenza di eserciti alleati, che alla definizione della provincia d’Asia come obiettivo. Stabilita questa cornice, il primo chiaro, significativo riferimento era quello al "re longevo", ovviamente Shapur; il messaggio rivelava dunque che, come prevedibile, il re stava per guidare una grande offensiva, e l'esercito di Tamsapore e Nohodares, per quanto ragguardevole, doveva essere la forza secondaria nell’ambito strategico dell'offensiva. I due fiumi menzionati - il Granico e il Rindaco - che Mitiridate avrebbe dovuto attraversare per passare dall'Ellesponto all'Asia, furono “identificati” nell'Anzaba e nel Tigri, i due fiumi che Shapur avrebbe attraversato per passare in Mesopotamia qualora l'avesse fatto sufficientemente a nord rispetto alla loro confluenza da rendere giustificabile il doppio guado228 ; la provincia d'Asia, cioè l’obiettivo strategico, fu sicuramente intesa da Ursicino, e da Ammiano che parla di “tutto l’Oriente”, come la provincia romana della Siria.229 Inoltre, il riferimento al "successore di Adriano" - Antonino - era un chiaro riferimento alla presenza dell'omonimo traditore - e quindi di tutto il suo bagaglio di informazioni pregiate - nelle mani di Shapur. 223 Faust.Buzand. Hist. Arm. IV, 20 Seguendo perfettamente le indicazioni di Front. Strat.III,13,15 225 AM XVIII,6,18-19 226 Matthews 1989, pp.42-43, Blockley 1986 227 Appian., Mithr. 69-71 228 Matthews 1989, p.43 229 Matthews 1989, pp.42-43, Blockley 1986 224 75 Il messaggio, se quella di Ursicino ed Ammiano ne era la corretta interpretazione, faceva dunque temere che questa volta la situazione potesse svilupparsi in maniera molto più complessa rispetto al consueto attacco ai capisaldi del sistema fortificato romano, tipologia strategica che fino al 350 aveva contraddistinto le offensive più significative portate dai Persiani: esso suggeriva che Shapur, seguendo una strategia inedita, avrebbe puntato direttamente ad invadere la Siria. Diventava dunque fondamentale, per confermare la validità di queste deduzioni, avere informazioni sulla effettiva presenza e sulle presumibili intenzioni di Shapur alla testa del grosso delle forze persiane, che ormai dovevano essere in procinto di passare in Mesopotamia. Ursicino decise allora di inviare in missione esplorativa due uomini scelti, che avrebbero dovuto penetrare nella satrapia della Corduene e da lì trovare un punto d'osservazione da cui poter tenere d'occhio i movimenti delle armate persiane, e di conseguenza desumere le intenzioni del re. Per nostra fortuna, uno dei due uomini scelti per la missione era proprio Ammiano. Proprio a questo episodio si riferiscono alcune delle complesse considerazioni sulla Corduene già discusse nell'analizzare lo status delle satrapie transtigritane (cap. 5): seppure formalmente inclusa tra le regioni sotto influenza romana definite dal trattato del 299, Ammiano descrive questa terra come controllata dai Persiani, ma il satrapo, Gioviniano, era segretamente filo-romano, essendo stato in passato ostaggio in Siria, ove aveva imparato ad apprezzare gli studi liberali.230 Ammiano, oltretutto, descrive così il suo arrivo presso Gioviniano: Presso di lui fui inviato assieme ad un centurione fidatissimo, per conoscere a fondo ciò che i nemici facevano, e vi giunsi attraverso montagne impervie e strette gole. Vistomi e riconosciutomi, mi accolse gentilmente ed a lui solo confidai la ragione della mia visita. Accompagnato da un silenzioso conoscitore di quella zona, fui mandato su alcune rupi altissime, molto distanti da quel luogo, donde si poteva vedere, a meno che la vista non fosse mancata, ogni più piccolo particolare per un raggio di 50 miglia. 231 Non solo, dunque, Gioviniano era filo-romano, attitudine dimostrata nel dotare Ammiano di una guida locale che permise il successo della sua missione, ma i due probabilmente si conoscevano. Non è escluso, vista la qualifica di adulescens con cui Ammiano descrive il satrapo, che i due, essendo più o meno coetanei, fossero stati educati insieme ad Antiochia.232 Là ci trattenemmo due giorni, e nel terzo, al levarsi del sole, vedemmo tutta la pianura sottostante, fino all’orizzonte, brulicare di innumerevoli schiere, innanzi alle quali procedeva il re, risplendente in una candida veste. Alla sua sinistra era Grumbate, il nuovo re dei Chioniti, uomo di mezza e età e rugoso, ma di grande animo e insigne per numerose e grandi vittorie; sulla destra, pari per grado e onori, era il re degli Albani. Seguivano poi molti capi, eminenti per autorità e potere, e una moltitudine di militari, il fiore delle genti vicine, da molte vicende esercitata a tollerare l’asprezza della fortuna.233 Il punto su cui lo storico pare insistere, è la presenza degli alleati conquistati da Shapur durante le sue recenti campagne nord-orientali; Grumbate, personaggio che in seguito avrà un ruolo primario, era probabilmente il re posto sul trono dei Chioniti da Shapur dopo aver sedato la ribellione di quel popolo. 230 AM XVIII,6,20 AM XVIII,6,21 232 Matthews 1989, p.44 233 AM XVIII,6,22: difficilmente Ammiano può aver notato alcuni dei dettagli che descrive, come, ad esempio, l'aspetto fisico dei personaggi, ma non è escluso che abbia potuto conoscer questi particolari più tardi, ad Amida. 231 76 Lasciata alle spalle Ninive, grande città dell’Adiabene, i re immolarono vittime sul ponte dell’Anzaba, e tratti auspici favorevoli, attraversarono baldanzosi quel fiume, mentre noi, pensando che difficilmente tutto l’esercito potesse attraversare il fiume in meno di tre giorni, ritornammo celermente presso il satrapo, dove approfittammo della cortese ospitalità per riposarci. Di là, attraverso luoghi solitari e deserti, sorretti e incitati dalla necessità, prima di quanto potessimo sperare giungemmo presso i nostri compagni incerti e turbati dalla notizia che i re avanzavano direttamente e avevano effettuato il guado tramite un solo ponte di barche.234 Il senso di questo passaggio è probabilmente il seguente: i Romani temevano che il grosso dell'esercito persiano stesse varcando il Tigri a Sud della sua confluenza coll'Anzaba, il che avrebbe, appunto, richiesto un solo guado e avrebbe accelerato i tempi dell'invasione. Ammiano invece poté confermare ai suoi ciò che aveva visto, e ciò che era stato presumibilmente dedotto dal messaggio cifrato: Shapur aveva scelto una via più a nord, all'altezza di Ninive, e quindi per penetrare in Mesopotamia avrebbe dovuto guadare in successione Anzaba e Tigri, lasciando più tempo ai Romani per organizzarsi. Naturalmente, da questa osservazione dell'esercito nemico non era possibile trarre alcuna conclusione sul suo reale obiettivo né sul percorso che esso avrebbe seguito una volta in Mesopotamia. La situazione descritta da Ammiano ad Ursicino al termine della sua missione esplorativa confermava il duplice guado fluviale da parte di un poderoso esercito guidato da Shapur, che costituiva la forza primaria d'invasione: ciò era compatibile, ma nulla più, con l'interpretazione del messaggio di Procopio e con la conseguente identificazione della Siria come obiettivo. Questa semplice compatibilità con uno scenario puramente presunto, cadde però in un terreno fertile, la ormai completa convinzione dello staff romano che Shapur avrebbe puntato verso l'Eufrate: Senza indugio sono inviati cavalieri a Cassiano, dux Mesopotamiae, e al governatore civile della provincia Eufronio, per costringere gli abitanti dei villaggi a trasferirsi in luoghi più sicuri con le famiglie e con gli armenti, e indurre gli abitanti di Carrae ad abbandonare in fretta la loro città, difesa da mura poco solide: si dà inoltre ordine di appiccare il fuoco per tutti i campi, perché i nemici, avanzando, non vi trovino biade. Eseguiti gli ordini ed appiccato il fuoco, fu così grande la violenza delle fiamme che bruciarono tutte le messi già bionde sulle turgide spighe, e le erbe già alte, e nulla più verdeggiante si scorgeva dalle rive del Tigri fino all’Eufrate. Mentre i campi bruciavano, i tribuni ed i protectores ivi mandati fortificavano la riva al di qua dell’Eufrate, vi piantavano pali appuntiti e, nei luoghi adatti, ove il fiume è poco profondo, sistemavano macchine da guerra e quanto potesse essere utile alla difesa. 235 Ursicino, dunque, sulla base della sua interpretazione del messaggio di Procopio e dell’individuazione dell’esercito di Shapur, dedusse con certezza che questi volesse penetrare lungo la via Singara-Carrae, per poi attraversare l’Eufrate presso Zeugma o Capersana; dispose allora l'evacuazione di Carrae, il cui livello di fortificazione venne giudicato insufficiente, e dei villaggi lungo il percorso, spingendo la popolazione a rifugiarsi nei centri meglio fortificati. Allertò poi la linea di difesa dell'Eufrate, il vecchio limes, ultimo baluardo davanti alla Siria, cercando di rinforzarne le difese nei punti più delicati. 234 AM XVIII,7,1-2 L’interpetazione delle parole unde per loca itidem deserta et sola magno necessitatis ducente solacio celerius quam potuit sperari reversi confirmavimus animos haesitantium, unum e navalibus pontem transisse reges absque ulla circumitione perdoctos che chiudono il passo citato non è naturalmente univoca; quella che segue, ove viene posta enfasi sull’ unum inteso come un guado singolo in contrasto ad un eventuale doppio guado, appare però essere la più coerente col contesto. 235 AM XVIII,7,3-6 77 Contemporaneamente, mise in atto la classica "terra bruciata" per isolare i Persiani da qualunque fonte di sostentamento locale lungo il percorso che, secondo lui, essi avrebbero seguito. Nel frattempo, Sabiniano, ad Edessa, restava, secondo Ammiano, del tutto inattivo e ozioso.236 Le contromisure attuate da Ursicino ebbero apparentemente effetto: Frattanto i re, oltrepassata Nisibi come se fosse un posto di guardia senza importanza, avanzavano tra valli erbose ai piedi delle montagne, poiché il divampare degli incendi in tanta aridità rendeva sempre più grave la mancanza di viveri. Come poi giunsero al villaggio di Bebase, distante cento miglia da Constantia e da cui è divisa da un deserto bruciato per l'assoluta mancanza di acqua eccetto quella minima quantità che si trova nei pozzi, si fermarono a lungo, indecisi. E già stavano per attraversare quell’arida pianura, fidando nella resistenza dei soldati, quando vengono a sapere da un esploratore degno di fede che il fiume Eufrate, in piena per lo scioglimento delle nevi, aveva allagato i luoghi circostanti e non era possibile attraversarlo a guado. Delusi quindi nelle loro speranze, si volsero a ciò che le circostanze offrivano. Convocato un consiglio di guerra, per affrontare la gravità della situazione, invitarono Antonino ad esporre la sua opinione. Ed egli allora consigliò di piegare a destra, e con un’ampia curva attraverso fertili e ricche regioni, non ancora danneggiate dal nemico che si muoveva in linea retta, di attaccare sotto la sua guida i due forti di Barzalo e Claudias; quivi, vicino alle sorgenti, ove il fiume non è ampio e profondo, né ancora ingrossato da altri corsi d’acqua, lo si poteva passare facilmente a guado. Il suo consiglio fu ascoltato ed approvato, ed egli ricevette l'ordine di condurre l'esercito per la via a lui nota. Tutte le truppe fecero una conversione dalla direzione che avevano inizialmente tenuto e seguirono la guida. 237 Sembrerebbe, dunque, che Shapur fosse stato costretto a due successive conversioni verso nord. La prima effettuata, secondo Ammiano, allo scopo di uscire dall’area a cui i romani avevano applicato la "terra bruciata", spostandosi verso le pendici meridionali del Tur 'Abdin. Secondo il Dilleman238, il passo di Ammiano implica che secondo lo storico i Persiani intendessero, attuata questa deviazione ed aggirata l'area devastata dai Romani, raggiungere una nuova direttrice verso l’Eufrate (via Constantia ed Edessa), parallela a quella abbandonata in precedenza, immettendovisi a ovest di Nisibi, essendosi così lasciati la città fortificata romana, come già nei loro piani, alle spalle, senza curarsene. 236 AM XVIII,7,7 AM XVIII,7,8-11 238 Dilleman 1962, pp.290 segg. 237 78 Fig. 3: Ipotetica posizione di Bebase, percorsi pianificati e percorso effettivamente seguito da Shapur durante l'invasione del 359, basati su Ammiano Marcellino XVIII,7 , secondo Dilleman239. In linea tratteggiata i successivi percorsi pianificati da Shapur , in linea continua quelli effettivamente seguiti; sulla pianta sono riportati i passi di Ammiano in base cui Dilleman ha tratto le sue conclusioni. 239 Dilleman 1962, p.291, fig.XXXVII 79 Una volta in prossimità di Bebase, però, (fig. 3) Shapur dovette apparentemente cambiare i suoi piani una seconda volta: pur avendo egli deciso di "tagliare" attraverso un'area arida240 per puntare direttamente verso Constantia ed ivi immettersi sulla direttrice per Edessa, fu costretto a rinunciare quando venne a sapere da un informatore che una piena sull'Eufrate rendeva impossibile guadare il fiume così a sud. Egli avrebbe dunque deciso di volgersi si nuovo a nord e proseguire lungo la via in direzione della strada Nisibi-Edessa, per poi tagliare via Horre241 e immettersi presso Meiacarire sulla direttrice che conduceva ad Amida, allo scopo di eseguire, più tardi, una nuova conversione ad ovest e attaccare l'Eufrate presso Claudias e Barzalo, come suggerito da Antonino. Secondo Ammiano, Ursicino, allorché venimmo a conoscenza di ciò da rapporti sicuri242, scelse di lasciare Amida e di dirigersi verso Samosata, sulla riva Ovest dell’Eufrate, per poter concentrare in quell'area la difesa243, dopo aver tagliato i ponti a Zeugma e Capersana. La natura stessa di questo spostamento sembrerebbe suggerire che le informazioni ricevute da Ursicino, sulle quali fu basata la decisione di dirigersi a Samosata, fossero state raccolte prima che Shapur tagliasse via Horre verso la direttrice per Amida; infatti lo spostamento dei Romani da Amida a Samosata è chiaramente finalizzato ad opporsi ai Persiani al termine della direttrice Carrae-Edessa, e la scelta di attuare una simile misura presuppone che, dal punto di vista di Ursicino, fosse ancora plausibile l'ipotesi che Shapur imboccasse questa strada e la percorresse fino all'Eufrate. In realtà, però, questo punto è tanto fondamentale quanto ambiguo: fondamentale perché con questo spostamento Ursicino di fatto lasciò Amida praticamente come l'aveva trovata, senza aver attuato alcun accorgimento per prepararla ad un possibile assedio (ved. cap.18 e nota 293), e ciò avrà conseguenze fatali per la città (sull’analisi del reale contesto che generò questo movimento si baserà infatti buona parte del nostro tentativo di chiarire la vera natura dell’offensiva persiana) ; ambiguo perché la natura delle informazioni sui movimenti dei Persiani ricevute in quel frangente dallo staff romano, che lo storico lascia del tutto vaghe offrendoci solo quel venimmo a conoscenza di ciò da rapporti sicuri, ha un notevole peso nel definire l'attendibilità complessiva di questa parte della narrazione di Ammiano; di entrambi questi aspetti discuteremo ampiamente in seguito (ved. cap. 18). Ammiano racconta come la manovra di Ursicino, comunque, fallì poiché due turmae di cavalieri Illirici, che egli descrive come 700 uomini inviati recentemente in Mesopotamia e posti proprio a presidiare quella zona, si macchiarono di grave colpa lasciando sguarnite le strade, per timore e scarso senso del dovere, proprio di notte quando il pericolo era maggiore, permettendo così ai 20.000 persiani agli ordini di Tamsapore e Nohodares (che nel frattempo, dopo l’azione diversiva su Nisibi, avevano dunque proceduto lungo la direttrice Nisibi-Edessa, per poi puntare a Nord lungo la strada per Amida, precedendo quindi in questo tratto l’armata principale di Shapur) di approfittarne, passare indisturbati e celarsi sulle colline vicino ad Amida, senza che nessuno ne sospettasse la presenza.244 Non appena, poco dopo, Ursicino si mosse coi suoi uomini, i Persiani, in agguato, lo attaccarono. I Romani erano nettamente inferiori in numero e in cavalleria, e il nemico era troppo vicino: una fuga si sarebbe trasformata in un massacro. 240 Dilleman 1962, pp.36, 291 definisce l'area che Shapur avrebbe avuto intenzione di attraversare stèppe mesopotamienne 241 AM XVIII,10,1: Il re, insieme al suo esercito ed alle genti di cui era a capo, dopo aver compiuto, secondo il consiglio di Antonino, una conversione a destra, da Bebase avanzava per Horre, Meiacarire e Charca, come se intendesse raggiungere Amida. 242 AM XVIII,8,1 243 AM XVIII,8,1 244 AM XVIII,8,2-3; Ursicino, dopo averne ingannato l’avanguardia con il trucco della fiaccola, non aveva apparentemente più avuto alcuna notizia di questo esercito di supporto. 80 Ursicino fece serrare i ranghi, e ordinò di rimanere in attesa, essendo imprudente anche prendere l’iniziativa, tanto che chi, tra i Romani, era avanzato uscendo dai ranghi, aveva trovato la morte per mano del nemico. Le due schiere si avvicinavano, quella persiana avanzando spavaldamente. A questo punto, però, Ursicino riconobbe alla testa del nemico proprio Antonino: E quello [Antonino], aspramente apostrofato e da lui [Ursicino] chiamato infame e traditore, si tolse la tiara, che portava sul capo in segno di onore; poi, balzato da cavallo e inchinandosi profondamente davanti a lui, congiunse le mani dietro la schiena, come è proprio in Assiria dei supplici, e lo salutò chiamandolo patrono e signore: “Perdonami –diceva- nobilissimo generale, poiché non di mia volontà, ma costretto dalle circostanze, mi sono ridotto in questa condizione, di cui riconosco tutta l’infamia. Sai bene che iniqui traditori mi hanno tratto a rovina; e alla loro avarizia, se anche avessi voluto venire incontro ai miei mali, neppure la tua eccelsa fortuna avrebbe posto un freno”. Così dicendo si ritraeva e non ci volgeva le spalle allontanandosi da noi, ma rispettosamente camminava all’indietro, sempre col petto rivolto verso di noi.245 Lo stallo fu interrotto improvvisamente dalle grida della retroguardia romana sulle alture, che segnalava il rapido avvicinarsi, alle spalle, di squadroni di catafratti persiani; circondati, i Romani si trovarono presi in una gigantesca mischia che si trasformò in una sorta di caccia all’uomo. E noi, […] indecisi contro chi dovessimo o potessimo opporci, eravamo spinti dal peso di una immensa moltitudine e sbandavamo in diverse direzioni, e mentre ognuno cercava di sottrarsi al pericolo, disperdendoci chi qua e chi là, ci trovammo mischiati al nemico che incalzava da ogni direzione. Allora, venuto meno il desiderio della vita, ci disponemmo coraggiosamente a combattere, ma fummo respinti fino alle rive del Tigri, alte e scoscese.246 Qui molti soldati romani, racconta Ammiano, morirono cadendo nel fiume e affogando sotto il peso del proprio equipaggiamento. La rotta era ormai totale. Alcuni riuscirono a raggiungere le gole tra i monti del Taurus e ivi si nascosero. Tra questi anche il nostro comandante, sebbene riconosciuto e circondato da una schiera di nemici, riuscì a porsi in salvo, grazie alla velocità del suo cavallo, insieme al tribuno Aiadalte e ad uno scudiero. Io mi allontanavo dalla strada seguita dai compagni e mi guardavo attorno senza sapere che fare.247 In mezzo alla più totale confusione, dunque, le strade di Ursicino e Ammiano si separarono: lo staff che aveva gestito fino a quel momento la situazione, si dissolse. Il protector si diresse faticosamente, sempre inseguito dai Persiani, fin sotto le mura di Amida, dove la mischia si riaccese serrata. Le macchine da guerra romane cominciarono a lanciare dagli spalti, mentre Ammiano, finalmente, riuscì a penetrare entro le mura da una porta, e si trovò all’interno di una città stipata di gente che vi aveva cercato rifugio248, essendo proprio in quei giorni in svolgimento una fiera. 245 AM XVIII,8,6 AM XVIII,8,8-9 247 AM XVIII,8,11 248 AM XVIII,8,12-15 246 81 17.2 La situazione strategica Vale la pena di fermare un momento il corso degli eventi e fare il punto della situazione. Ammiano si trova all'interno di Amida; Ursicino è fuggito verso i monti del Taurus. Quando Ammiano, nel prosieguo degli avvenimenti, riuscirà a fuggire da Amida, raggiungerà Melitina, nell'Armenia minore, ove repertum ducem comitatique iam preofecturum249 incontrato il nostro comandante, ci unimmo a lui che già stava per muoversi. Sebbene Ammiano non chiami il "comandante" per nome, è probabile che si riferisca ad Ursicino (il termine dux è qui utilizzato in senso non strettamente tecnico, come d'altronde Ammiano fa anche in altri passi, sempre riferiti ad Ursicino250). In questa ipotesi, dopo la separazione tra i due, Ursicino si sarebbe dunque diretto verso l'Armenia minore (il che è compatibile con la direzione presa inizialmente, verso il Taurus), installandosi a Melitina, area verso cui le truppe di Tamsapore e Nohodares sembravano - almeno a suo parere – puntare, dopo essersi lasciati anche Amida alle spalle. In effetti questa intuizione, se tale fu, risultò esatta: Ammiano, durante l'assedio di Amida da parte dell'esercito di Shapur, menzionerà la presa di Ziata, che si trova in Ingilene, Armenia minore, indubbiamente da parte delle truppe di Tamsapore e Nohodares251, e descriverà attività bellica dei Persiani proprio nella zona del nord-Eufrate252. Mentre, quindi, l'esercito di Tamsapore e Nohodares devastava l'Armenia minore, il grosso dell'armata persiana col suo re era a sua volta sulla strada per Amida. Sabiniano era ad Edessa, e Ammiano non manca di farlo notare a più riprese253, sempre con sarcasmo e con accuse di inattività e mollezza, e spesso con riferimento al suo attaccamento per i sepulchra edessena, il che è un evidente attacco al culto cristiano dei martiri (Sabiniano era cristiano, Ammiano, invece, pagano); tutto ciò contrapposto ai drammatici eventi che si trovava invece a vivere il suo comandante Ursicino. La scarsa obiettività di Ammiano, in questa specifica contrapposizione è stata già accennata in precedenza, ma a questo punto della trattazione vale la pena di approfondirla. Come già discusso, secondo lo storico, al momento del repentino reinvio di Ursicino in Mesopotamia da parte di Costanzo, subito prima dell'avvio della campagna persiana, gli furono assegnati compiti relativamente di secondo piano, essendo il comando nell’area ormai completamente nelle mani del nuovo magister equitum per Orientem, Sabiniano. Ammiano, dopo aver individuato nel richiamo di Ursicino a Sirmium – allo scopo di essere promosso comandante dell'esercito praesentalis - una manovra per allontanare un personaggio eccessivamente valido e popolare - e quindi potenzialmente pericoloso per l'Augusto - da un'area importante come la Mesopotamia, descrive la scelta di riassegnare repentinamente il generale al "suo" fronte come una mossa di Costanzo finalizzata all'avere un eroe da lodare in caso di vittoria (Sabiniano), e un capro espiatorio da incolpare in caso di sconfitta (Ursicino). 254 Sappiamo bene che in queste considerazioni Ammiano è largamente inattendibile. Sorge, piuttosto, il dubbio che l'artificio sia invece proprio quello ideato da Ammiano nel descrivere la distribuzione dei comandi locali in modo fuorviante: addossando la completa 249 AM XIX,8,12 AM XV,2,2 ; XV,5,20 251 AM XIX,6,1 252 AM XIX,8,10 253 AM XVIII,5,5; 6,7-8 ; 7,7 ; XIX,1,3 254 AM XVIII,6,6 250 82 responsabilità di comando a Sabiniano, ne fa a priori il principale colpevole degli esiti negativi della campagna del 359, scaricandone così, di fatto, Ursicino. L'evoluzione strategica dei fatti che abbiamo visto finora fornisce infatti diversi indizi per approfondire la questione. La gestione da parte di Ursicino dell'emergenza, al momento della presa di coscienza dell'incipiente passaggio di Shapur in Mesopotamia255, lascia trasparire una sua notevole libertà d'azione, ed è significativa la sua legittimità a dare ordini su questioni operative-strategiche rilevanti anche a personalità di rango elevato (ad esempio, per attuare l'evacuazione di Carrae e dei villaggi sulla strada che vi conduceva, egli mandò ordini tanto al dux Mesopotamiae quanto al governatore civile della provincia256), così come lo è la serie di direttive con cui egli attivò e adeguò la linea difensiva sull'Eufrate (cap. 17.1) ; tutto ciò rende poco credibile una sua posizione così marcatamente subordinata e secondaria a chicchessia, sul fronte mesopotamico, come Ammiano vorrebbe far pensare. Non si può dunque escludere che in realtà la divisione del comando tra i due fosse molto più paritetica di quanto lo storico voglia far credere. Una possibilità, proposta da Blockley257 , è che nell'improvvisa impossibilità, conseguente al repentino inizio dell'offensiva persiana e ai problemi sul Danubio, di sviluppare il suo piano strategico originario258, Costanzo avesse rispedito di fretta Ursicino in zona affidandogli la difesa avanzata, cioè la completa gestione della rete fortificata difensiva della Mesopotamia (e delle relative guarnigioni), di cui era grande esperto avendola gestita quasi continuativamente per 10 anni proprio come magister militum per Orientem259 ; l'Augusto avrebbe invece affidato a Sabiniano parte delle poche truppe mobili disponibili in loco, assemblate e stanziate ad Edessa, che sarebbero però entrate in azione solo nel caso di una penetrazione in profondità dei Persiani con minaccia diretta alla Siria. Si tratta di una ipotesi, i cui contorni sono piuttosto vaghi; probabilmente, però, la direzione in cui guardare è questa, e vale la pena di spingersi ancora un po' più in là con le ipotesi. Coerentemente con le recenti iniziative di Costanzo nei confronti di Ursicino (come la sua promozione a magister peditum praesentalis), anche questa ipotetica divisione dei comandi sembrerebbe dimostrare, con buona pace di Ammiano, un'alta considerazione dell'Augusto per il suo generale. 260 255 AM XVIII,7,3-6 AM XVIII,7,4-3 257 Blockley 1988, p.255 258 Affidare, cioè, a Ursicino l'esercito praesentalis in procinto di tornare in Mesopotamia lasciando a Sabiniano le unità mobili orientali e la supervisione delle truppe di frontiera locali (compiti, in quel periodo, appunto, del magister equitum per Orientem) 259 AM XVIII,6,2 260 L'imperatore cercava, adeguandosi ai continui mutamenti strategici, di porre sempre il suo magister peditum praesentalis nella posizione di maggior responsabilità possibile "sul campo" per opporsi a Shapur. La critica moderna tende a concordare in ciò, ridimensionando il valore di Ursicino , insistentemente sottolineato da Ammiano, e rifiutando di accettare come storica la forte ostilità da parte dell'Augusto dipinta dallo storico. Vedasi ad es. Thompson 1947, p.47 segg. Blockley 1988 p. 252 sostiene che in fondo non vi sia ragione di dubitare a priori dei sospetti da parte dell’imperatore a proposito delle ambizioni di Ursicino suggeriti da Ammiano, in quanto la grande fama del generale in Oriente e la sua probabile vicinanza con Antonino, che al momento del loro incontro lo chiamerà patronus (cap. 17.1), avrebbero reso in effetti prudente un suo allontanamento dal fronte mesopotamico ed un suo richiamo nell' "orbita" di Costanzo: è vero che quella a magister peditum praesentalis era una promozione, ma poneva Ursicino in una posizione così vicina a Costanzo da limitarne notevolmente la libertà d'azione, anche una volta tornato in Mesopotamia al comando dell'esercito mobile di Costanzo. In realtà, però, Blockley stesso, in coda al suo ragionamento, ammette che il reinvio di Ursicino in Oriente per assumere un ruolo importante (qualunque esso effettivamente fosse) nell'ambito della difesa dall'incipiente offensiva persiana supporta la tesi di Thompson secondo cui Costanzo trattò sempre Ursicino coi guanti di velluto e non ebbe in realtà alcuna ostilità nei suoi confronti. 256 83 Tutte le maggiori offensive persiane degli ultimi due decenni, coerentemente con le rivendicazioni di Shapur (par. 16), avevano mirato ad erodere il sistema difensivo fortificato mesopotamico; offrire a Ursicino la responsabilità di questa rete di fortezze, dal Tigri all'Eufrate, significava, con ogni probabilità, che egli avrebbe avuto sulle spalle tutto il peso dell’organizzazione e dell’attuazione della "difesa passiva" su cui i Romani avrebbero dovuto ancora una volta basarsi; un compito quindi di grandissima responsabilità e assolutamente prioritario. Sabiniano, personaggio, come ipotizzato in precedenza (cap. 16) forse davvero di secondo piano, aveva invece probabilmente ricevuto il comando di un limitato esercito mobile261 che, non essendo dal punto di vista numerico assolutamente adatto a sfidare in campo aperto le armate persiane, sarebbe rimasto immobile ad Edessa, costituendo una sorta di riserva strategica davanti all’Eufrate con l’ordine di intervenire solo e unicamente qualora la situazione fosse precipitata e Shapur fosse realmente arrivato a minacciare direttamente e chiaramente la Siria. In qualunque altra circostanza, Sabiniano avrebbe dovuto lasciare la questione nelle mani di Ursicino, rimanendo "fuori dalla mischia" per preservare le sue già esigue forze senza provocarne una pericolosa erosione in azioni fuori dalle sue strette competenze, col rischio di non poter poi assolvere al suo fondamentale compito qualora fosse stato chiamato in causa. Avendo risorse mobili estremamente limitate, insomma, Costanzo dovette scegliere molto attentamente come usarle: lo fece assegnandole alla sola difesa della Siria, che, ricordiamolo, costituiva la reale priorità strategica in ambito difensivo, per Roma, sul fronte orientale. Questo panorama rimane ipotetico, ma si adatta perfettamente alle mosse di Ursicino, costantemente volte alla gestione delle fortificazioni sul Tigri, sull'Eufrate, e nell'area mesopotamica, e finalizzate all'attuazione delle direttive di "difesa passiva" davanti all'avanzata delle armate persiane, come l'estensiva applicazione della "terra bruciata", o, nella convinzione di una imminente puntata di Shapur verso l'Eufrate, la dichiarata intenzione di tagliare i ponti sul fiume per posizionarsi poi alle spalle della riserva strategica di Sabiniano. Questa ipotesi, poi, si adatta ancor di più all'atteggiamento di Sabiniano; seppur criticato continuamente da Ammiano per la sua inattività, egli non avrebbe fatto altro, dunque, che seguire gli ordini imperiali di non impegnare truppe in alcuna azione che non fosse nel ristretto novero di quelle assegnategli. In quest'ottica possiamo leggere il suo rifiuto di inviare truppe, su richiesta di Ursicino, ad alleviare l'assedio di Amida - rifiuto che egli giustificò, secondo lo stesso Ammiano, mostrando l'ordine imperiale con cui Costanzo gli imponeva di fare ciò che poteva in supporto alla difesa, senza però che i soldati ne avessero alcun danno (par. 17.4). Di questo parleremo a suo tempo, così come parleremo dell'inchiesta che seguì alla caduta di Amida: anche quest'ultimo episodio mostrerà che probabilmente Sabiniano, avendo seguito gli ordini imperiali, ne uscì, al contrario di Ursicino, indenne. Nel prosieguo dell'articolo noi ipotizzeremo che questa, che appare altamente plausibile, sia stata la reale suddivisione dei comandi.262 261 Non è probabilmente corretto identificare le forze a disposizione di Sabiniano con l'intero, seppur già di per sé esiguo, esercito mobile d'Oriente. Sappiamo, ad esempio, dalla descrizione ammianea della guarnigione di Amida (cap. 17.3) , che nella città erano di stanza almeno due unità comitatenses, originariamente ivi trasferite dall'esercito mobile delle Gallie in attesa di partecipare alla grande campagna di Costanzo, ma poi non aggregate alle truppe di Sabiniano; esse furono lasciate probabilmente a integrare la guarnigione della città in vista dell'incipiente attività persiana nell'area mesopotamica. 262 Austin 1979, pp.25-27 suggerisce addirittura che Ursicino avesse in realtà il comando completo e indiviso del fronte persiano; la divisione dei comandi in quest'area è tuttavia un fenomeno frequente, e l'ipotesi di Austin appare eccessivamente estrema. 84 17.3 I difensori di Amida Nel frattempo, Shapur e la sua armata continuavano la loro marcia verso Amida. Il re, lungo il tragitto, decise di presentarsi sotto le mura di due città, Busan e Reman, che, a giudicare dalle informazioni ottenute da disertori, celavano grandi ricchezze lì accumulate contando sul rilevante livello di fortificazione dei due centri e sul loro scarso valore strategico, il che avrebbe reso improbabile una particolare attenzione da parte dei Persiani. Entrambe le città, sorprese e terrorizzate dall'inatteso avvicinarsi dell'esercito nemico, si arresero senza resistenza. Tra i prigionieri Shapur ebbe particolare e rispettosa attenzione per una donna, la cui presenza gli era nota in partenza, e che forse costituiva il vero scopo di questa diversione; ella era moglie di un influente personaggio appartenente al senato di Nisibi, e il re sperava forse, in questo modo, di guadagnarsene la gratitudine, per poi farne adeguato uso al momento giusto. Due giorni dopo, Shapur era sotto Amida. Da quando Costanzo, ancora Cesare, l’aveva fortificata e dotata di abbondanti apparati difensivi, essa costituiva il fulcro delle difese romane nel settore nord del fronte mesopotamico, trovandosi non lontana dalle sorgenti del Tigri, ed essendo lambita dal fiume stesso. La sua guarnigione permanente era costituita dalla V Parthica, una legione limitanea - integrata da turmae di cavalleria locale che Ammiano definisce “non disprezzabili”.263 Costanzo, però, aveva recentemente inviato ad Amida, a marce forzate, altre sei legiones: Magnentiaci et Decentiaci, quos post consummatos civiles procinctus, ut fallaces et turbidos ad Orientem venire compulit imperator, ubi nihil praeter bella timetur externa, et Trincensimani Decimanique Fortenses, et Superuentores atque Praeuentores cum Aeliano iam comite, quos tirones tum etiam nouellos hortante memorato adhuc protectore erupisse a Singara Persasque fusos in somnum rettulimus trucidasse complures. 264 Il passo è riportato in originale poiché contiene ambiguità che ne influenzano la possibile interpretazione: Superventores e Praeventores sono elencati nella Notitia Dignitatum in partibus orientis come milites praeventores sotto il comando del Dux Moesiae secundae265 e come milites superventores sotto il Dux Scythiae266. Non sappiamo purtroppo definire con precisione il tipo di unità genericamente indicate nella Notitia Dignitatum come milites. Si tratta di unità limitanee, che spesso, però, portano nomi che richiamano quelli di legiones limitanee oppure di unità appartenenti ad eserciti mobili, generalmente legiones pseudocomitatenses - cioè unità originariamente limitanee poi aggregate ad un esercito da campo. Il legame dei milites ad unità del tipo delle legiones è suggerito anche da altri elementi, come il fatto che nella Notitia essi appaiono comandati da praefecti, come, appunto, le legioni limitanee, e non da tribuni. Inoltre, nella provincia Moesia Secunda, i milites sono elencati sotto il "capitolo" item legiones267, sebbene in altre province essi appaiano come auxiliares. Le ipotesi possono essere più d'una: i milites possono essere emanazioni, distaccamenti di legioni dell'esercito mobile, o di legioni limitanee, inviate come guarnigione ove necessario; oppure, al 263 AM XVIII,9,3 AM XVIII,9,3 265 ND Or. XL 266 ND Or. XXXIX 267 ND Or. XLI 264 85 contrario, potrebbero essere i milites a costituire (o offrire distaccamenti come) nuclei di legioni pseudocomitatensi.268 Non è nemmeno escluso che entrambe le situazioni potessero verificarsi contemporaneamente, sappiamo che questo genere di situazioni spesso erano di difficile caratterizzazione e non definibili uniformemente né in senso cronologico, né in senso geografico. D'altronde, nella Notitia Dignitatum in partibus occidentis esiste una legione pseudocomitatense chiamata Superventores Iuniores. Questo permette di ipotizzare la presenza di un'analoga unità in Oriente, anche se presumibilmente non più esistente all'atto della stesura della Notitia, di Superventores seniores (si può però escludere che la sua assenza nella Notitia derivi dal fatto che l'unità fosse stata distrutta proprio ad Amida in questa circostanza, in quanto la scissione di unità dell’esercito romano in iuniores/seniores è certamente successiva a questi fatti) 269; ciò suggerisce anche che i milites superventores potessero esserne distaccamento, o esserne l'unità-madre. Gli stessi concetti, naturalmente, si applicano, in teoria e per estensione, ai praeventores. Detto questo, noi non sappiamo se i Praeventores ed i Superventores di Amida fossero due unità di milites, due legiones pseudocomitatenses, o due distaccamenti di queste ultime. Sebbene questo non sia un elemento probante, Ammiano non aggiunge alcuna qualifica ai nomi delle due unità (non usa il termine milites), quindi potrebbe trattarsi realmente di due legioni pseudocomitatensi, o di loro distaccamenti, dissoltesi dopo questi fatti, i cui nomi sono perpetuati da un'unità come i Superventores iuniores e dalle unità di milites, tutte legate in qualche modo alle due unità perse ad Amida. Generalmente, a sostegno di questa ipotesi, si ritiene che i milites appaiano come tipo di unità, solo nel tardo IV secolo se non nel V270; le unità di milites superventores e praeventores nella Notitia potrebbero dunque essere evoluzioni più tarde di distaccamenti delle due legiones pseudocomitatenses inviati altrove prima che esse (o solo altri loro distaccamenti) fossero distrutte ad Amida. Ad ogni modo, pur nella vaghezza della situazione, in qualunque ipotesi sembra coerente il fatto che Ammiano includa queste due unità nel novero delle sei legiones. In quanto alla natura tattica dei milites, seppure il termine miles abbia una connotazione generica, il fatto che queste unità, nella Notitia Dignitatum, siano generalmente affiancate da altre chiamate altrettanto genericamente equites, quasi che i due termini fossero messi in contrasto ad indicare unità di entità simile ma complementari in una medesima area di operazioni, fa pensare che la possibilità che i milites fossero truppe montate (ipotesi riscontrabile con una certa frequenza nella letteratura moderna) sia, se non da escludersi, da ritenersi quanto meno occasionale.271 Ammiano, nel passo sopra riportato, racconta che il comes Eliano, quando era ancora nei protectores, aveva guidato queste reclute appena arruolate in una sortita fuori da Singara durante la quale erano stati trucidati un gran numero di persiani addormentati. Purtroppo, l’episodio a cui il passo si riferisce si trova nella parte andata perduta della sua opera, dunque non abbiamo modo di sapere a quale delle campagne di Shapur ciò si riferisca, e il fatto che Ammiano parli di reclute non implica necessariamente unità di recente creazione, potendo esso riferirsi alla frequente necessità di riempire i progressivi vuoti di un'unità (o di integrare la ridotta 268 Nicasie 1998, pp.58-59 Superventres Iuniores: ND Occ. V; sulla separazione di unità in iuniores/seniores: la scoperta presso Nakoleia di un’epigrafe risalente al 356 e menzionante una unità di seniores ha smentito la diffusa teoria secondo cui la genesi di unità iuniores/seniores fosse da collocarsi nel 364, all’atto della ripartizione dell’esercito romano tra i due imperatori Valente e Valentiniano. Resta però molto probabile che, sebbene vi fossero casi precedenti al 364, la “scissione” delle unità in iuniores e seniores rifletta sostanzialmente proprio la ripartizione dell’esercito del 364. Vedansi Lenski 2002, pp. 308-309 ; Nicasie 1998, pp. 24-35 270 Nicasie 1998, p.59 271 Nicasie 1998, p.58 269 86 entità numerica di un distaccamento inviato in loco) con abbondanti reclutamenti attorno ad un esiguo nucleo di veterani. Questo passo suggerisce però che le due unità fossero già in Mesopotamia da tempo; ciò, tra l'altro, non esclude che, trovandosi di stanza altrove nella regione, potessero comunque essere state inviate di recente ed a marce forzate ad Amida, e quindi ricadere anche sotto questo punto di vista nell’elenco delle sei legiones fornito da Ammiano. Magnentiaci e Decentiaci sono evidentemente due unità che avevano combattuto per Magnenzio e Decenzio durante le recenti guerre civili. Quella che descrive Ammiano è una soluzione spesso adottata dai vincitori di guerre intestine: le truppe di fedeltà meno provata, cioè quelle che avevano combattuto per il nemico, spesso venivano inviate su fronti lontani dai punti nevralgici in relazione al controllo dello Stato, in luoghi, quindi, ove si dovessero temere solo guerre esterne. Tecnicamente, è probabile che si trattasse di due legiones comitatenses trasferite dall’esercito da campo Gallico per rafforzare l’embrione di quello d’Oriente, e stanziate, come d’uso nel tardo impero, presso le città prossime al teatro d’operazioni. Nella seconda parte del IV secolo ed in tutto il V, d'altronde, l'esiguo esercito mobile d'Oriente necessitò cronicamente di rinforzi provenienti da altri eserciti mobili o dall'esercito praesentalis ogniqualvolta si intendesse pianificare una campagna su larga scala.272 In questa circostanza, e se l'ipotesi sulla reale divisioni dei comandi in Oriente sopra riportata (cap. 17.2) è corretta, queste due unità non erano tecnicamente parte della guarnigione difensiva di Amida, ma erano truppe da campo ivi stanziate in attesa di essere poi assemblate col resto dell'esercito mobile. Un'ambiguità risiede in quel Decimanique Fortenses: non è del tutto chiaro se Ammiano le intenda come due unità separate ( i Decimani e i Fortenses), o se si tratti invece una singola unità chiamata Decimani Fortenses. Nicasie273 sottolinea che già nel III secolo pare diffondersi l'usanza di riferirsi occasionalmente ad una legione o ad un suo distaccamento tramite questo tipo di riferimento al suo "numerale" : egli cita un'iscrizione a Lambesi in cui la III Augusta è chiamata Tertii Augustani274 , e menziona un passo della Historia Augusta in cui Probo è il comandante, sotto Aureliano, dei Decimani275 . Gli Undecimani e i Primani sono elencati nella Notitia Dignitatum; questi ultimi sono menzionati anche da Ammiano nell'ambito della battaglia di Argentoratum276. Di conseguenza, i Tricensimani sono senza dubbio legionari appartenenti alla XXX, e i Decimani alla X. Se i Decimani Fortenses fossero una singola unità, dovremmo però forse aspettarci quell’attributo anche nella denominazione originale della legione. Infatti nei commenti ad alcune traduzioni dell’opera di Ammiano277 si dichiara che i Decimani Fortenses fossero militi di una legio Decima Fortis, della cui esistenza nelle fonti non si trova però alcuna traccia. Poiché la Notitia Dignitatum in partibus orientis elenca più d’una unità chiamata Fortenses, ovvero una legio palatina nell’esercito praesentalis278, e dei Fortenses auxiliarii tra le truppe pseudocomitatenses aggregate all’esercito del magister militum per Orientem279, l’ipotesi che si possa trattare di due unità separate è perlomeno accettabile. 272 Scott 1972, p.10 Nicasie 1998, p.51 274 CIL VIII 2571 275 SHA, Probus, VI.5-6 276 AM XVI,12,49 277 Resta-Barrile 1973, p. 382; Selem 2007, p.346 278 ND Or. V 279 ND Or. VII 273 87 Resta però un’ulteriore possibilità, forse, in fondo, la più plausibile: Decimani Fortenses potrebbe essere una corruzione nella trascrizione del testo per Decimani Fretenses, forma attestata e coerente con la presenza della Decima Fretensis nella Notitia Dignitatum in partibus orientis280. Prendendo per buona questa ipotesi, Trincesimani e Decimani Fretenses sono dunque, di fatto, due legioni, o, più probabilmente, due distaccamenti delle medesime (nel tardo impero era piuttosto comune che una legione limitanea - come ad esempio la Decima Fretensis risulta essere nella Notitia Dignitatum281 - fosse divisa in più distaccamenti sparsi nei forti che costituivano la rete difensiva presso il limes; inoltre la menzione della Decima Fretensis nella Notitia Dignitatum, che è un documento più tardo rispetto a questi fatti, implica che l'unità fosse sopravvissuta, e che quindi quello presumibilmente annichilito ad Amida ne fosse un distaccamento). Questo aspetto, oltretutto, influenza a sua volta i tentativi di risolvere quella che è un’ulteriore ambiguità di questo passo ammianeo. Alcuni storici282 interpretano infatti la lista di unità singolarmente nominate da Ammiano come le sei legiones "aggiuntive" menzionate collettivamente subito prima. Questo è però possibile solo se i Decimani Fortenses sono una sola unità (altrimenti il totale di quelle elencate individualmente per nome diventerebbe pari a sette). Un’altra interpretazione283 (che però non seguiremo in questo articolo) , forse proprio in conseguenza della vaghezza con cui le due unità possono essere identificate, esclude Praeventores e Superventores dal novero delle sei legiones inviate ad Amida di recente; in questo caso resta libera la possibilità che i Decimani e i Fortenses fossero due unità distinte, nel qual caso sarebbero elencate cinque delle sei legioni (altrimenti, se teniamo buona l'ipotesi della Decima Fretensis, ne sono elencate quattro). Praeventores e Superventores sarebbero invece, in questa ipotesi, da considerarsi come unità aggiuntive e di rilevanza inferiore, non valutabili alla stregua di legioni; non sarebbero, d’altronde, le uniche: vi erano infatti delle turmae di arcieri montati, ovvero gran parte dei comites sagittarii, squadroni di cavalleria così chiamati in quanto costituiti da barbari di libera condizione284, che si distinguono dagli altri per vigoria fisica abilità nell’uso delle armi285; con questa menzione Ammiano conclude la descrizione della guarnigione di Amida286. E' ovvio che questa concentrazione di truppe non era conseguente alla percezione di una minaccia specifica alla città di Amida, percezione che Ammiano non fa mai trasparire, ma doveva fare già parte della più generale preparazione attuata da Costanzo, tramite significativi travasi di forze verso est, in vista di una stagione bellica impegnativa. 280 ND Or. XXXIV ND Or. XXXIV: la X Fretensis è al comando del Dux Palestinae 282 Jones 1964, p.682 ; Trombley 1999, p.26 283 Nicasie 1998, p.70 284 Ingenui barbari 285 AM XVIII,9,4 286 Va sottolineato che si sta parlando di legioni tardo-imperiali, successive all’inizio delle riforme del periodo Dioclezianeo-Costantiniano; l’entità, dal punto di vista degli effettivi, di queste unità è tuttora dibattuta, e non vi è accordo nemmeno sull’esistenza di una dimensione standard, seppure indicativa, per esse. La tendenza generale è di considerare il numero di effettivi di una legione tardo imperiale intorno ai 1000-1500 uomini sulla carta; taluni (ved. Nicasie, 1998) ipotizzano che le legioni limitanee potessero aver conservato, perlomeno nel primo periodo post-riforma, le dimensioni delle legioni alto-imperiali. L’ambiguità sulla lettura del passo di Ammiano (XIX,2,14) in cui egli dichiara il numero totale di persone presenti in Amida durante l’assedio, che a seconda delle trascrizioni è inteso come 20.000, lettura maggiormente attendibile, 50.000 o addirittura, lettura da escludersi, 120.000, l’impossibilità di definire con un sufficiente grado di precisione quanti civili – abitanti, rifugiati, visitatori della importante fiera che era in corso fossero presenti, e l’incertezza appena descritta sulla reale composizione della guarnigione, rendono arduo ipotizzare l'entità numerica della stessa, essendo troppe le variabili in gioco. Quello che è certo è che la città risultava, come fa chiaramente capire Ammiano nel passo in oggetto, ampiamente sovraffollata per le sue esigue dimensioni. 281 88 In quest'ottica, è anche significativo un decreto nel Codex Theodosianus, datato Maggio 359, che autorizza lo spostamento di truppe ad Est ad opera del magister equitum et peditum.287 Amida, d'altronde, era uno dei punti cardine nell'area, ed è naturale che lì (come presumibilmente accadde anche negli altri punti chiave) venissero concentrate truppe, sia di comitatenses (e forse pseudocomitatenses) che di limitanei (seppure con diversi compiti strategici e tattici), inviate in vista di un aumento dell'intensità bellica sul fronte di competenza, a dimostrazione della grande e troppo raramente riconosciuta flessibilità dell’esercito romano tardo-imperiale. Non dimentichiamo inoltre che Costanzo stesso, già all'atto della sua fortificazione, aveva destinato la città a deposito strategico di macchine da guerra. (par. 7.2). 17.4 L'assedio A seguire Ammiano, sembra che Shapur inizialmente non avesse alcuna intenzione di volgersi contro Amida, ma che sia stato forzato in quella direzione, come abbiamo visto, da una imprevedibile concatenazione di eventi, l'ultimo dei quali accadde proprio sotto le mura della città, quando ancora il re persiano era fermamente intenzionato, secondo lo storico, a puntare verso l'Eufrate per guadarlo nella zona di Claudias e Barzalo. Nel descrivere l'immensa distesa dell'esercito persiano che si avvicinava ad Amida, Ammiano sottolinea come Shapur, chiaramente riconoscibile dall'aspetto delle sue vesti e dalle sue insegne, si fosse imprudentemente e con superbia avvicinato alle mura, certo che le sue parole minacciose e la fama che lo precedeva sarebbero state sufficienti, anche in questo caso, a impaurire a tal punto i difensori da farli cedere senza combattere. In questo modo, presa incruentemente Amida, il re avrebbe poi potuto proseguire, come da consiglio di Antonino, verso l'Eufrate.288 Aveva però, Shapur, sbagliato di grosso nel dare per scontata l'arrendevolezza romana. Non appena egli fu sufficientemente vicino, dalle mura di Amida si scatenò un lancio di dardi e giavellotti che non uccise il re, seminascosto dal polverone, solo per un caso: stando ad Ammiano, egli ebbe la veste strappata da un colpo romano. Il re, infuriatosi per questa resistenza “sacrilega”, decise di prepararsi ad assediare la città, e solo l'insistenza dei suoi consiglieri, che temevano di vedere l'intera campagna vanificata solo per un sentimento di rabbia, lo fece tornare sui suoi passi. Shapur decise così di ripetere l'intimazione di resa il giorno seguente, e all'alba il corteo si avvicinò di nuovo alle mura, circondato da guardie del corpo. Questa volta, alla testa del gruppo come rappresentante di Shapur vi era Grumbate, re dei Chioniti. Improvvisamente, un contemplator peritissimus sugli spalti della città lo prese di mira, da grande distanza, con un colpo di ballista: fallendo l'obiettivo di pochissimo, ne colpì il figlio, che era al suo fianco, uccidendolo.289 Questo episodio è fondamentale nel racconto di Ammiano: il resto della giornata fu caratterizzato da una furibonda battaglia sotto le mura, in cui i Persiani, bersagliati da una pioggia di proiettili, cercavano in tutti i modi di recuperare il cadavere del figlio di Grumbate, finché vi riuscirono a prezzo di ingenti perdite. Seguirono sette giorni di tregua in cui furono celebrati i riti funerari per il giovane; dopodiché vi furono due ulteriori giorni di pausa.290 A questo punto Grumbate si rifiutò di proseguire senza aver prima vendicato la morte dell'unico figlio.291 287 Blockley 1988, p.255; Cth I.7.1 AM XIX,1,3 289 AM XIX,1,4-7 290 AM XIX,1,8-11 291 AM XIX,2,1 288 89 Shapur acconsentì alla richiesta del suo alleato: Amida sarebbe stata assediata. Stando al racconto di Ammiano, dunque, questo fu il momento decisivo, quello in cui tutta la pianificazione strategica di Shapur finalizzata ad una penetrazione verso la Siria venne di fatto vanificata per soddisfare il desiderio di vendetta di Grumbate: gli sforzi persiani da questo momento saranno diretti a punire Amida, prescelta dunque, secondo Ammiano, dal numen caeleste per concentrare in un solo luogo i mali di tutto l'impero romano.292 I Persiani, mandati numerosi soldati a devastare i campi fertili e coltivati che erano indifesi come in tempo di pace293, circondarono la città con cinque linee di scudi. Al sorgere del terzo giorno lampeggianti squadroni di cavalleria invasero tutta la zona.294 Ammiano, oltre a ricordare la presenza degli immancabili elefanti, descrive la disposizione degli alleati di Shapur attorno alle mura (così da sottolinearne ulteriormente l'apporto rilevante): i Chioniti ad est, dove era caduto il figlio di Grumbate, i Gelani a sud, gli Albani a nord e i Segestani a ovest. Alla vista di popoli così innumerevoli [...] disperammo della salvezza e ci preoccupavamo di morire gloriosamente, il che ormai era il desiderio di tutti noi.295 Il giorno passò nel silenzio e nell'immobilità totale, finché i Persiani si ritirarono per la notte. All'alba si rischierarono; a questo punto appena Grumbate, secondo il costume patrio dei nostri Feziali, ebbe scagliato un'asta sporca di sangue, l'esercito, facendo strepito con le armi, si lanciò contro le mura. [...] Quindi il peso dei massi lanciati dagli scorpiones [romani] spaccò teste e schiacciò molti nemici.296 Altrettanto efficace era il lancio di frecce e di proiettili verso le mura e l'interno della città da parte delle truppe di Shapur. I Persiani usavano anche macchine d'assedio romane di cui si erano impossessati presso Singara durante una precedente campagna.297 Combattimenti intensi si protraevano da mattina a sera, ogni giorno, senza che una delle due parti tendesse a prevalere, finché dopo cinque giorni d'assedio, vi fu una nuova tregua. A questo punto Ammiano descrive un episodio di una certa importanza, perlomeno nella sua ottica: egli sostiene che Ursicino, amareggiato di dipendere dal gesto di un altro, cercò di convincere Sabiniano, che continuava a starsene attaccato ai sepolcri, a mettere insieme truppe leggere con cui 292 AM XIX,1,4 Ammiano persevera nel suo voler far apparire l'assedio di Amida come un evento del tutto imprevisto e imprevedibile. 293 AM XIX,2,2 Questa nota di Ammiano testimonia la mancanza di preparazione della città e dei suoi dintorni ad un assedio; i ricchi raccolti dei campi attorno ad Amida non furono né distrutti né ammassati entro le mura; i Persiani poterono, presumibilmente, nutrirsi abbondantemente “dalla terra” , un vantaggio fondamentale in una situazione d’assedio. 294 AM XIX,2,2 295 AM XIX,2,4 296 AM XIX,2,6-7 297 AM XIX,2,8; anche in questo caso si tratta di un riferimento ad episodi presumibilmente narrati nei libri perduti dell’opera di Ammiano; non sappiamo dunque in quale occasione i Persiani si impossessarono, presso Singara, di pezzi d’artiglieria romana (ved. nota 128). 90 attaccare nottetempo i picchetti persiani prendendoli di sorpresa, in modo da provocare ingenti perdite al nemico e alleggerire l'assedio.298 Sabiniano, secondo Ammiano, si sarebbe opposto a queste proposte come se fossero dannose, giustificandosi con la lettera di istruzioni da parte dell'imperatore che gli imponeva di fare tutto il possibile senza però che i soldati ne avessero alcun danno.299 Ammiano, non inaspettatamente, aggiunge che in realtà le reali istruzioni di Costanzo a Sabiniano fossero di impedire a Ursicino di guadagnare gloria anche se ciò fosse andato a detrimento dello stato. Lo storico termina il paragrafo addolorandosi per i molti piani vanamente ideati da Ursicino, simile ad un leone terribile per grandezza e cipiglio, che però non osa, essendogli stati strappati i denti e le unghie, accorrere a liberare i suoi piccoli chiusi nella rete300, costretto a limitarsi all'invio di exploratores che solo raramente riuscivano a penetrare nella città. Inutile soffermarsi sull'evidente inattendibilità di quest'ultimo passaggio ammianeo; l'episodio rappresenta, malgrado le frequenti lamentele di Ammiano, l'unico caso comprovato in cui Sabiniano si rifiutò di collaborare con Ursicino301. Probabilmente, oltretutto, lo fece con cognizione di causa: nella plausibile ipotesi di una equilibrata divisione dei comandi tra i due come ipotizzata sopra (cap. 17.2), Sabiniano, attenendosi agli ordini ricevuti da Costanzo, non volle impegnare truppe sotto la sua responsabilità e assegnate all’esclusiva difesa della Siria in un'azione dalle scarsissime possibilità di successo e a forte rischio di accerchiamento: l'esercito di Tamsapore e Nohodares, che devastava poco lontano da Amida le campagne armene, difficilmente a questo punto poteva avere uno ruolo tattico diverso dal fungere da martello qualora i Romani si fossero imprudentemente avvicinati in forze all'incudine costituita dall'esercito di Shapur. 302 Chiusa questa parentesi, e con essa la descrizione dei primi quattordici giorni di assedio, Ammiano assume un tono più vago; durante la parte centrale dei settantatrè giorni di assedio, egli, tra considerazioni generiche, descrive in maniera precisa solo due episodi, senza peraltro specificare esattamente in che fase essi accaddero. Il primo fu lo svilupparsi di una pestilenza all'interno della città, a causa del caldo e del numero elevato di morti inseppelliti. Ricordiamo come Ammiano (ved. nota 286) sottolinei esplicitamente il sovraffollamento della città dovuto alla presenza di una guarnigione molto superiore a quella permanente, dei visitatori della fiera, e dei rifugiati dei villaggi non fortificati dell'area. La pestilenza si protrasse per dieci giorni, dopodiché una provvidenziale pioggia dissipò l'aria infetta.303 I Persiani intanto proseguivano nel loro assedio: mentre continuava la pioggia di proiettili da parte di arcieri e frombolieri, vennero costruiti terrapieni e torri sulla cui sommità furono poste macchine da guerra per bersagliare la sommità delle mura.304 Il secondo episodio si sviluppò una notte, quando settanta arcieri persiani della guardia reale riuscirono a raggiungere la sommità di una delle torri di Amida; entrarono tramite una serie di cunicoli sotterranei, il cui ingresso era ad un livello molto più basso del piano della città, alla base della scoscesa scarpata che dava sul Tigri. 298 AM XIX,3,1 AM XIX,3,2 300 AM XIX,3,3 301 Blockley 1988, pp. 254-5 302 Blockley 1988, pp. 255 303 AM XIX,4 304 AM XIX,5,1 299 91 Si trattava di camminamenti segreti utilizzati dagli assediati per attingere acqua senza essere visti, ma un disertore ne aveva rivelata l'esistenza ai Persiani. La mattina seguente, i difensori si trovarono bersagliati dall'alto da un nugolo di frecce, e questo rese ardua la difesa delle mura, tanto che gli assedianti ormai le scalavano. I Romani, nella più totale confusione, decisero allora di dividersi in due parti. Mentre alcuni si concentravano sulla difesa dei bastioni, altri tolsero cinque leviores ballistae dalle mura e le portarono di fronte alla torre "infestata". In breve, sotto i colpi d'artiglieria, gli arcieri persiani furono sbaragliati e le macchine da guerra romane ricollocate al loro posto, ove ripresero a fare strage di assedianti. Ammiano sostiene che quel giorno i Persiani si ritirarono già a mezzogiorno, dopo il fallimento anche di questo stratagemma e dopo aver subito ingenti perdite305: La fortuna spirò favorevole a noi suscitando una tenue speranza di salvezza poiché quella giornata si concluse senza nostro danno e con una strage di nemici.306 A questo punto, Ammiano propone di nuovo considerazioni generiche: l'assedio proseguiva, i Persiani costruivano lentamente due terrapieni, i Romani facevano altrettanto per opporvisi.307 A questo genere di lavori non partecipavano gli uomini delle due legioni galliche che erano all'interno della città, quelle che Ammiano aveva chiamato Decentiaci e Magnentiaci, e che ora definisce come costituite da soldati forti e agili, adatti ai combattimenti in pianura, però non solo inetti al tipo di guerra a cui eravamo allora costretti, ma anzi di grande impedimento. Costoro non erano di nessun aiuto né all'artiglieria né alla costruzione delle opere di guerra. Alle volte con troppa leggerezza facevano sortite, e combattendo con eccessiva baldanza, ritornavano in minor numero. E così erano di vantaggio come, per usare un'espressione proverbiale, in un incendio generale l'acqua portata da un solo uomo.308 Come abbiamo già avuto occasione di sottolineare, le due unità comitatenses erano presumibilmente state trasferite all’esangue esercito mobile d’Oriente in vista della campagna che Costanzo pensava di poter attuare nel 359; era normale che fossero di stanza in una città all’interno del teatro d’operazioni, e molto probabilmente altre unità analoghe erano dislocate in altre città nell’area; esse sarebbero state probabilmente assemblate al momento dell’avvio della campagna. Essendo truppe mobili, erano naturalmente adatte a combattere in campo aperto. Si trovarono, invece, sorprese dal rapido precipitare della situazione ed invischiate in un assedio, tipo di combattimento a cui non erano né abituate né addestrate. Ammiano dedica diversi paragrafi a descrivere l'irrazionale insistenza con cui i legionari di queste due unità premevano per attuare una sortita, spingendosi ai limiti dell'insubordinazione se non della ribellione contro i superiori, contrariati dalla prospettiva di non compiere gesta all'altezza della grandezza d'animo gallica309, sia nella vittoria che nella sconfitta; lo storico descrive la difficoltà (parlando in prima persona plurale) nel gestirli, e la successiva decisione di cercare di placarli promettendo di concedere loro la sortita in un momento successivo.310 Tuttavia non si riuscì, evidentemente, a ritardarne più di tanto l'iniziativa: essi riuscirono infine a uscire dalla città durante una notte senza luna. 305 AM XIX,5,4-8 AM XIX,6,1 307 AM XIX,6,6 308 AM XIX,5,2 309 AM XIX,6,4 310 AM XIX,6,3-5 306 92 Si avvicinarono rapidamente e silenziosamente alle sentinelle del campo nemico, assopite, e le fecero a pezzi. Penetrarono poi nel campo per colpire il re in persona, ma i lamenti dei feriti svegliarono i primi Persiani, ed in breve tempo si creò l'inferno. I Galli si trovarono in breve attaccati da tutte le parti e, soggetti a fitto lancio di frecce, non poterono più avanzare.311 Essi mantennero saldamente la formazione, malgrado la situazione, e si affrettavano ad uscire dal campo nemico senza fuggire. Ripiegando quasi a ritmo di musica, a poco a poco si ritirarono oltre il vallum.312 Le macchine da guerra romane cominciarono a simulare lanci senza effettuarli, in modo che il loro minaccioso stridore spingesse le sentinelle persiane a spostarsi dai punti meno sicuri in vicinanza delle mura facilitando l'ingresso in città dei legionari. Solo all'alba i Galli riuscirono a tornare in Amida: 400 di loro erano rimasti sul campo, un numero elevatissimo considerati gli effettivi di una legione tardo-imperiale, non superiore a 1000-1500 uomini sulla carta, che doveva essere già stato pesantemente eroso in precedenza durante le altre sortite. Anche le perdite tra i Persiani dovettero però essere sensibili: Ammiano parla di personaggi di un certo rilievo, anche di satrapi, tra i caduti, e di sdegno, rabbia e dolore presso Shapur. Questa sortita fruttò, inoltre, una tregua di 3 giorni concordata tra le parti, che per gli assediati era una manna.313 Costanzo fece in seguito erigere in onore dei campiductores che avevano guidato i Galli nella sortita notturna statue che li raffiguravano armati, proprio nel punto più frequentato di Edessa. Ed esse si conservano intatte anche ai giorni nostri.314 La fine della sortita delle due legioni galliche coincide con la ripresa, da parte di Ammiano, di una narrazione dettagliata, quotidiana (analoga a quella dei primi quattordici giorni), che coprirà gli ultimi sei giorni d'assedio, compresi i 3 di tregua. Al riprendere delle ostilità, dunque, i tattici persiani si resero conto che l'azione dei soldati da terra era generalmente poco efficace; malgrado le pesanti corazzature, quando essi si avvicinavano alle mura erano costretti a diradare i ranghi per non costituire un bersaglio impossibile da mancare, e in generale finivano col ritirarsi; gli elefanti, seppur descritti da Ammiano ancora una volta come terribili e spaventosi, si dimostrarono, come era accaduto nei precedenti assedi, del tutto inutili, essendo costantemente e facilmente respinti: in questo caso con frecce incendiarie. Invece, grande efficacia era ottenuta con ballistae poste sulla sommità di torri d'assedio corazzate e di recente avvicinate agli spalti; essendo queste più in alto rispetto ai difensori, spiega Ammiano, avevano una grande efficacia e ne fecero strage fino a sera. I Romani, dopo aver discusso tutta la notte su come opporsi a questo sfacelo, decisero di spostare quattro scorpiones sistemandoli di fronte alla torri persiane (operazione che Ammiano definisce molto complessa), per utilizzarli contro di esse. All'alba, i rotundi lapides scagliati dagli scorpiones colpirono e devastarono i punti strutturalmente portanti delle torri d'assedio, e ne causarono il cedimento; gli artiglieri e le ballistae persiane precipitarono dalle sommità ; dopodiché le strutture lignee delle torri furono distrutte del tutto dal lancio di frecce incendiarie.315 311 AM XIX,6,8-9 AM XIX,6,9 313 AM XIX,6,10-13 314 AM XIX,6,12 315 AM XIX,7,1-7 312 93 La situazione di stallo proseguì, le perdite crescevano da ambo le parti, persino Shapur si gettò, circondato da guardie del corpo, nella mischia, compiendo un gesto che Ammiano definisce, con una certa ammirazione, del tutto insolito per un re persiano316. Il combattimento ormai si svolgeva fondamentalmente sui terrapieni contrapposti, senza che gli attaccanti ottenessero rilevanti successi. Quando la situazione stava probabilmente divenendo insostenibile per entrambi gli schieramenti, protraendosi l'assedio ormai da più di due mesi, avvenne l'episodio imprevedibile che cambiò tutto. Un terrapieno romano cedette e crollò. Non solo questo impedì ai difensori di opporsi agli assedianti, ma il materiale che lo costituiva riempì, crollando, lo spazio tra le mura e il terrapieno persiano, creando una specie di ponte. Le truppe persiane avevano, improvvisamente, via libera: esse si riversarono in città, massacrando militari e civili senza tregua; all'interno delle mura si combatteva ormai una battaglia estremamente cruenta. Ammiano, con due commilitoni, riuscì a mettersi in salvo uscendo da una porta, e ad allontanarsi. Superando la sete, l'arsura e la fatica, i tre giunsero presso l'Eufrate con l'intenzione di guadarlo, ma vedendo cavalieri romani inseguiti e dispersi da una moltitudine di Persiani, i fuggitivi cercarono rifugio tra i monti e giunsero a Melitina, ove Ammiano si riunì a Ursicino, e viaggiò con lui fino ad Antiochia317. Nel frattempo, ad Amida si sviluppava la vendetta persiana: il comes Eliano, presumibilmente il grado militare più elevato in città, fu giustiziato insieme ai tribuni che avevano guidato con lui la difesa, mentre altri funzionari e i protectores, i commilitoni di Ammiano, furono condotti via in catene.318 Shapur dedicò una particolare attenzione a sterminare fino all'ultimo, dai nobili fino ai più umili, quanti abitavano al di là del Tigri 319 : questo passo è importante, poiché senza dubbio Ammiano si riferisce a coloro che, originari delle satrapie transtigritane affette dal trattato del 299 ed il cui controllo di fatto fu costantemente conteso tra le due potenze, avevano scelto di stare coi Romani. La furia con cui Shapur si assicurò di giustiziarli tutti, fa supporre che egli li considerasse traditori, il che è significativo alla luce di quanto discusso in precedenza a proposito di queste terre (par. 5). Si chiuse così, dopo 73 giorni, l'assedio di Amida. La città non fu occupata, fu smantellata e resa inservibile come centro fortificato; veniva così eliminato, perlomeno temporaneamente, il primo cardine, a nord, del sistema difensivo romano. Fu vera gloria? Ammiano è perlomeno dubbioso: Ma il re, sebbene facesse mostra di sicurezza e sembrasse esultante per la distruzione di Amida, nel profondo dell'animo tuttavia era assai sconvolto per le luttuose perdite sofferte spesso nelle sciagure degli assedi e per il fatto che il numero di perdite di vite umane superava quello dei prigionieri catturati o, in ogni modo, dei nemici uccisi nelle diverse battaglie, com'era accaduto più volte presso Nisibi e Singara. Così, nell'assedio di Amida, compiuto da una moltitudine di soldati e protrattosi per settantatré giorni, perse trentamila uomini, secondo il calcolo eseguito poco tempo dopo dal tribunus et notarius Discenes.320 E' difficile dire quanto le cifre presentate da Ammiano possano essere realistiche, ma indubbiamente l'assedio di Amida bloccò le campagna persiana per 2 mesi, e quando esso terminò, a Ottobre inoltrato, non vi era più tempo per continuarla. 316 AM XIX,7,8 AM XIX,8 318 AM XIX,9,2 319 AM XIX,9,2 320 AM XIX,9,9 317 94 La vittoria strategica persiana è fuori dubbio, ma in fondo di entità relativamente_limitata; il limes romano resisteva del tutto immutato, anche se, indubbiamente, temporaneamente meno presidiato nel settore nord (ved. cap. 21). Il re dovette tornare in patria, e lo fece con migliaia di prigionieri in più, ma migliaia di soldati in meno. L'esito era inedito, ma ancora una volta un assedio protrattosi molto a lungo era costato perdite elevatissime a Shapur, e aveva ingessato una campagna che, in assenza dell'esercito di Costanzo, avrebbe potuto raggiungere risultati ben diversi, stando agli obiettivi iniziali di Shapur suggeriti da Ammiano. Ma le cose andarono davvero in questo modo? 18. 359 D.C. : SCENARI ALTERNATIVI 18.1 La natura della narrazione di Ammiano Nel cercare di raccontare la campagna del 359, abbiamo più volte messo in risalto come alcuni passaggi nel racconto di Ammiano siano perlomeno dubbi e necessitino di qualche considerazione allo scopo di valutarne l’attendibilità. E' notorio come la struttura di questa parte dell'opera dello storico sia in gran parte finalizzata a mostrare la figura del suo comandante, Ursicino, sotto una luce estremamente positiva ed esente da colpe per l’esito negativo della campagna (colpe integralmente addossate, invece, a Sabiniano e Costanzo), e a sottolineare come la tendenza di Costanzo ad assecondare i suoi “infidi” consiglieri avesse condotto l'imperatore ad assumere un atteggiamento costantemente ostile verso il generale; una simile attitudine porta inevitabilmente Ammiano ad offrire una visione di parte dei fatti in cui questi personaggi intregirono tra loro. Essendo ormai tali considerazioni pressoché unanimemente condivise dalla critica moderna, ciò che costituisce il vero oggetto del dibattito storiografico è il valutare se questa attitudine sia applicata dallo storico in cattiva fede, cioè manipolando, celando, adeguando intenzionalmente gli eventi per i suoi scopi , oppure se la sua costruzione sia in buona fede, cioè sia semplicemente l'esposizione di un punto di vista del tutto soggettivo e quindi limitato, quello da cui lui stesso e, soprattutto, Ursicino, avevano vissuto realmente, "da dentro", gli eventi: un punto d'osservazione soggetto, oltretutto, alla considerazione che uno storico troppo vicino ai fatti narrati, soprattutto se fortemente coinvolto, non ne ha mai una visuale ottimale né imparziale. Recentemente, la tendenza, seppure non unanime, è nella direzione di questa seconda ipotesi321, che effettivamente appare essere la più plausibile, perlomeno nella maggior parte dei casi, seppur resti il dubbio di qualche parziale manipolazione, come abbiamo potuto constatare, ad esempio, nei casi della narrazione del richiamo a Sirmium e del successivo reinvio in Oriente di Ursicino, e della conseguente suddivisione del comando con Sabiniano in Mesopotamia. Questa premessa è necessaria perché, stando così le cose, possiamo assumere che dedurre la natura dei fatti relativi al 359 seguendo Ammiano, significhi farlo secondo una visuale del tutto soggettiva, basata sul complesso lavoro di progressiva interpretazione del contesto tattico/strategico e delle mosse del nemico - fondamentale per qualunque comandante militare nell'ambito della "lettura" di una campagna - portato avanti da Ursicino e dal suo staff prima e durante lo svilupparsi dell'offensiva persiana. 321 Thompson 1947; Matthews 1989; Blockley 1988 95 C'è però un elemento a cui va prestata grande attenzione: malgrado la natura di questa parte dell'opera ammianea sia quasi certamente quella appena descritta, lo storico, in un certo senso, la maschera: i nessi logici e le relazioni causa-effetto che egli introduce per legare tra loro e per giustificare eventi a cui egli assisteva ma della cui natura non poteva avere alcun tipo di conoscenza, spesso nemmeno a posteriori (in particolare le intenzioni e le motivazioni dietro alle azioni dei Persiani, ma anche alcune scelte strategico-organizzative di Costanzo) , e che furono, quindi, mere supposizioni e convinzioni generatesi nello staff di Ursicino, vengono presentati invece come dati di fatto, sullo stesso livello di quelli che dati di fatto, effettivamente, lo sono. Ed è proprio questo passaggio operato da Ammiano nel redigere la storia della campagna del 359, la "trasformazione", cioè, di supposizioni in consapevolezze e di un punto di vista soggettivo in verità oggettive, a rendere necessaria la "rivisitazione" che ci apprestiamo ad effettuare. Infatti, una fondamentale conseguenza di questo insidioso aspetto della narrazione della campagna in questione consiste nel fatto che un ipotetico errore di lettura strategica da parte di Ursicino e del suo staff riguardo la natura e l'evolvere dell'attività persiana nel corso della stagione, avrebbe avuto riflessi simili sia sull'efficacia della campagna difensiva romana, sia sull'effettive storicità (e, quindi, attendibilità) dell'esposizione ammianea dei fatti, limitando entrambe. Un'analisi, filtrata da queste considerazioni, dei fatti del 359 come raccontati nell'opera di Ammiano, mette in evidenza infatti alcune questioni di importanza radicale nell'ottica di una possibile ricostruzione alternativa dei medesimi. Dal momento della ricezione e dell’interpretazione del messaggio cifrato inviato da Procopio322 in poi (cap. 17.1), tutte le azioni di Ursicino sembrano basarsi sulla certezza che lo scopo dei Persiani, dietro raccomandazione di Antonino, fosse una penetrazione verso l’Eufrate, direttamente in Siria. In conseguenza di ciò, Ursicino pare non aver mai preso in considerazione la possibilità che Shapur potesse assediare Amida. La “terra bruciata” che egli mise in atto, si limitò infatti al territorio attorno alle principali vie d’accesso diretto verso la Siria che Ursicino riteneva Shapur avrebbe seguito, tanto che le due conversioni a nord effettuate dal re persiano ne condussero l’esercito in aree non toccate dall'azione del generale romano, cioè attraverso fertili e ricche regioni, non ancora danneggiate dal nemico che si muoveva in linea retta.323 Ursicino, inoltre, fuggito da Nisibi col suo staff (cap. 17.1), giunse ad Amida, certamente tappa del suo "tour" organizzativo dei capisaldi difensivi romani; Ammiano però, a differenza di quanto rimarcato a proposito di Nisibi324, non menziona in questo caso alcun preparativo, dentro e attorno la città, in vista di un possibile assedio: né un accumulo di provviste entro le mura, né una devastazione dei dintorni tale da rendere difficoltosa la marcia di un esercito nemico, e ancor più un assedio; il generale addirittura lasciò che la fiera in svolgimento, attrattiva per moltissime persone nell'area, continuasse.325 Abbiamo visto come ciò, di fatto, fece sì che i Romani fossero colti di sorpresa dall'assedio nemico, e fossero costretti a subirlo, per ammissione stessa di Ammiano, con la città sovraffollata (ved. nota 286), mentre i Persiani furono in grado di protrarre tale assedio per due mesi e mezzo senza problemi di sostentamento. Questo comportamento di Ursicino riflette le sue convinzioni strategiche, che non contemplarono mai la possibilità di subire assedio ad Amida; sono convinzioni certamente condivise da Ammiano. 322 AM XVIII,6,18-19 AM XVIII,7,10 324 AM XVIII,6,8-9 325 AM XVIII,8,13 323 96 E' proprio in base a queste convinzioni e, soprattutto, in funzione della necessità di dare coerenza ai fatti in evoluzione davanti ai suoi occhi rispetto ad esse, che, come si diceva, lo storico tenderà, lungo tutto il suo racconto di questa campagna, a supporre connessioni logiche e nessi causa-effetto, a lui inevitabilmente ignoti, imponendoli poi non come supposizioni soggettive, ma come certezze acquisite. 18.2 Visioni soggettive Questa attitudine dello storico è facilmente individuabile nel suo attribuire le due successive conversioni verso nord di Shapur rispettivamente al successo della "terra bruciata" effettuata da Ursicino e alla piena dell’Eufrate326 (cap. 17.1). Si tratta di due nessi causa-effetto del tutto speculativi: poiché il cambio di direzione dei Persiani non era apparentemente coerente con la convinzione dello staff romano sul fatto che il loro obiettivo fosse la Siria, Ammiano (o Ursicino) interpretò le due conversioni come "reazioni", come, cioè, inevitabili adeguamenti in tempo reale, da parte di Shapur, a qualcosa che era per lui imprevisto e che imponeva una parziale modifica dei suoi piani; Ammiano (o Ursicino) dovette quindi dedurre ed introdurre, per esse, "cause esterne" che non necessariamente esistevano, e lo fece, ovviamente, secondo criteri logici ma del tutto soggettivi, anche se queste supposizioni vengono esposte come dati di fatto. Sono nessi causali che, infatti, da un punto di vista oggettivo, non reggono: il fatto che tra la "terra bruciata" applicata dai romani e la prima conversione di Shapur vi fosse una relazione causaeffetto non è in alcun modo comprovabile; mentre la considerazione che la seconda derivasse da una inattesa piena dell'Eufrate è addirittura poco plausibile (così come lo è il fatto che Ammiano potesse conoscere, anche a posteriori, il contenuto dei messaggi che Shapur riceveva dai suoi informatori), poiché una tale piena di quel fiume, dovuta ad uno scioglimento delle nevi a metà Luglio, è piuttosto improbabile.327 In definitiva non è oggettivamente possibile provare che le due conversioni di Shapur per tagliare fuori Nisibi e poi puntare a nord fossero reazioni a situazioni per lui impreviste e conseguenti a fattori esterni e non, al contrario, già pianificate a priori. Naturale conseguenza di questa esposizione ammianea in relazione alle due conversioni verso nord, è l'affermazione, subito successiva, secondo cui i Persiani, non potendo guadare l'Eufrate dove la piena lo impediva, avrebbero pianificato di puntare verso le due fortezze romane di Claudias e Barzalo, ove sarebbe stato possibile farlo328. Ammiano descrive una intenzione dei Persiani, poiché come sappiamo essi non si diressero mai verso quei due forti, né - dopo la seconda conversione - puntarono più verso l'Eufrate. Naturalmente, Ursicino e Ammiano non potevano conoscere le intenzioni dei Persiani né avere informazioni relative a ciò che veniva deliberato nei loro consigli di guerra: fosse stata, l’intelligence romana, così profonda, i movimenti dell’esercito di Tamsapore e Nohodares – un esercito di ventimila persone che giunse fino ad Amida e vi si nascose intorno senza che Ursicino ne avesse alcun sentore – sarebbero stati ben noti.329 326 AM XVIII,7,8-10 Blockley 1988, p.258 328 AM XVIII,7,8-10 329 Anche in seguito allo sconsiderato comportamento dei 700 cavalieri illirici narrato da Ammiano, Ursicino si trovò preso nell'imboscata realizzata da un esercito di 20000 uomini appostato intorno alla città ove egli si trovava, della cui presenza non aveva il minimo sentore, e che aveva percepito l'ultima volta, senza ancora conoscerne la consistenza né la natura, quando evitò per un soffio di esserne travolto, e riuscì a indirizzarne un'avanguardia in tutt'altra direzione grazie allo stratagemma della fiaccola sull'animale da soma (cap. 17.1) 327 97 Il fatto, dunque, che i Persiani intendessero guadare l'Eufrate a nord, presso Barzalo e Claudias, rappresenta una pura supposizione dello staff romano, basata, ancora una volta, sulla convinzione che Shapur avrebbe comunque puntato alla Siria: in quest'ottica soggettiva, avendo la "terra bruciata" romana e la piena dell'Eufrate "costretto" il re persiano a lasciarsi alle spalle una dopo l'altra le due direttrici principali verso ovest, e quindi a salire verso Amida, il modo più naturale e ovvio, per Shapur, di mantenere fermo il suo obiettivo strategico, sarebbe stato l'eseguire, più tardi, una nuova conversione ad ovest puntando quindi verso Claudias e Barzalo. Ammiano, ancora una volta, propone questa supposizione dello staff romano come un dato di fatto accertato, e addirittura afferma con certezza che il nuovo percorso pianificato dai Persiani fosse un suggerimento di Antonino330. Naturalmente, non esiste alcuna prova, né alcun indizio, neppure minimo, del fatto che Shapur abbia effettivamente mai preso in considerazione l'ipotesi di dirigersi verso Claudias e Barzalo. Gli elementi su cui abbiamo effettuato tutte queste considerazioni costituiscono, nella narrazione ammianea, l'insieme delle affermazioni relative ai movimenti dell'esercito di Shapur che sono immediatamente seguite dalle parole venimmo a sapere di ciò da rapporti sicuri331, e, in rapida successione, dalla pianificazione da parte di Ursicino, in base a questi rapporti, del repentino spostamento a Samosata. A una prima lettura, dunque, semrberebbe che Ammiano voglia suggerire un legame diretto, se non addirittura una coincidenza completa, tra le sue affermazioni e i rapporti sicuri. In base alle conclusioni appena tratte, però, possiamo affermare con buona sicurezza che le cose non stessero così; dovremmo anzi chiederci cosa, realmente, i Romani vennero a sapere grazie a quei rapporti. Se analizziamo di nuovo le affermazioni di Ammiano sui movimenti persiani al netto di ciò che abbiamo individuato e caratterizzato come speculazione, possiamo concludere che l'unica certezza effettivamente tale, per lo staff romano, dovette essere (ammesso e non concesso che vi sia stata, naturalmente) la generica consapevolezza della posizione e della direzione di marcia verso nord dell'armata persiana. Tutto ciò che Ammiano afferma come certezze e che eccede da questo singolo elemento, fu mera e soggettiva intepretazione; inoltre, lo storico pone in questo punto anche deduzioni che cronologicamente appartengono ad altri momenti; quella relativa all'intenzione persiana di puntare verso Claudias e Barzalo, infatti, che dovette essere necessariamente successiva al superamento da parte di Shapur della direttrice Nisbi-Constanita-Edessa senza imboccarla, non può essere contestuale alla ricezione dei rapporti, in quanto in evidente contraddizione con la successiva reazione dei Romani che invece presupponeva proprio che i Persiani potessero ancora imboccare e seguire quella strada (e quindi dovessero ancora raggiungerla - ved. fig. 4). 330 Un elemento significativo nell'ambito di questa analisi riguarda proprio Antonino: nel racconto di Ammiano, le decisioni più importanti nell’ambito della campagna persiana sono, generalmente, presentate come conseguenza di consigli offerti a Shapur dallo stesso Antonino. Ciò riguarda la scelta dell’obiettivo dell’offensiva, del momento in cui lanciarla, e anche, a campagna in atto, la scelta del percorso da seguire man mano che le circostanze “imponevano” cambi di programma (capp. 16 , 17.1) Anche in questo caso, Ammiano, naturalmente, non poteva conoscere direttamente le indicazioni di Antonino, ammesso che ve ne fossero. I suggerimenti di Antonino, ed il fatto che essi fossero dietro ad ogni scelta strategica di Shapur, sono dunque anch'essi, inevitabilmente, speculazioni di Ammiano (presentate, ancora, come dati di fatto), basate sulla consapevolezza della presenza del "traditore" al fianco del re persiano, sulla percezione oculare degli eventi, e sulla consueta necessità da parte dello staff romano di lavorare su ipotetiche ricostruzioni di ciò che stava dietro alle mosse del nemico. D’altronde, abbiamo visto Ursicino incontrare Antonino alla guida dell’esercito di Tamsapore e Nohodares, non di quello di Shapur; ciò non esclude contatti e consultazioni tra i due tramite messaggeri durante la campagna , ma li rende senza dubbio meno scontati e continuativi di quanto le parole di Ammiano lascino intendere. 331 AM XVIII,8,1 98 Di conseguenza, con un simile "precedente", non abbiamo nemmeno modo di sapere se i Romani effettivamente osservarono i Persiani cambiare direzione a Bebase332, o se anche questa fu un'elaborazione a posteriori di informazioni ricevute successivamente da parte dello storico. Possiamo quindi concludere che il momento cruciale della campagna, quello della doppia conversione di Shapur e della scelta di Urscino di abbandonare Amida per dirigersi a Samosata sull'Eufrate, è descritto da Ammiano concentrando in un unico passo supposizioni sia contestuali ai fatti narrati che successive ad esso, presentando il tutto come ciò che non era: un insieme di dati di fatto. Perchè? In linea con atteggiamenti simili tenuti in altri frangenti delicati, non si può escludere che Ammiano abbia intenzionalmente cercato di presentare le proprie speculazioni come realtà oggettive e di confondere la cronologia dei fatti per "proteggere" Ursicino e se stesso dall'accusa più ovvia e naturale: quella di non aver letto correttamente i fatti osservati e di averli interpretati secondo una visione strategica troppo ristretta e troppo rigidamente vincolata alla convinzione che la Siria fosse senza possibile ombra di dubbio l'obiettivo di Shapur, una visione che li condusse a lasciare Amida impreparata ad un assedio e sovraffollata, seppure in quel momento l'ipotesi che Shapur, in marcia verso nord, la assediasse, fosse perlomeno plausibile. Infine, va probabilmente inquadrato in quest’ambito anche il racconto della scelta di Shapur di assediare Amida al solo scopo di accontentare la sete di vendetta di Grumbate; esso appare poco plausibile, oltre che difficilmente accertabile dallo storico in via diretta, e può più probabilmente esser un artificio (o l'ennesima supposizione in buona fede presentata come consapevolezza) per far apparire ancora più "occasionale" un'azione bellica che Ammiano e Ursicino ritennero probabilmente erroneamente - non poter esser che tale. 332 Blockley 1988 p.257 si dilunga in un tentativo, forse superfluo, di definire in che punto i Romani raccolsero le informazioni che raggiunsero Ursicino sotto forma di rapporti sicuri. Indubbiamente, per quanto abbiamo osservato, tale punto, ammesso che l'osservazione vi sia davvero stata, deve collocarsi prima del superamento della direttrice Nisibi-Constantia-Edessa (altrimenti la reazione dello staff romano sarebbe insensata); Blockley suggerisce che essa non poté essere molto successiva alla prima conversione, anche perchè se essa fosse realmente avvenuta a Bebase o oltre, gli exploratores romani che poi portarono il messsaggio ad Ursicino avrebbero dovuto raggiungere e individuare l'esercito di Tamsapore e Nohodares che a quel punto doveva essera già sulla strada per Amida, mentre noi sappiamo che nessuno tra i Romani conosceva la posizione di quei 20.000 uomini. In base a ciò, Blockley suggerisce che nella "peggiore" delle ipotesi lo "spostamento" in avanti dell'osservazione dal suo effettivo luogo fino a Bebase, potesse essere stata una manipolazione di Ammiano finalizzata a giustificare l'urgenza della reazione di Ursicino e quidi l'assenza di tempo per svolgere attività preparatorie in Amida. In realtà però noi non conosciamo la distanza effettiva tra i due eserciti persiani, e le troppe variabili in gioco rendono sicuramente non conclusiva la deduzione di Blockley sul fatto che un’osservazione a Bebase avrebbe portato i messaggeri romani a prendere la via per Amida dopo l’esercito di Tamsapore, ma non così tanto dopo da essere certi che essi sarebbero giunti ad Amida prima di esso, superandolo. Resta quindi possibile e plausibile che gli exploratores romani avessero visto l’esercito di Shapur a Bebase, così come, d'altronde, è altrettanto plausibile il fatto che ciò sia una elaborazione posteriore di Ammiano. 99 Fig. 4: Schematizzazione delle principali vie di comunicazione nell’area interessata dai movimenti dei due eserciti persiani. (Blockley 1988) 18.3 Realtà alternativa Un elemento fondamentale da tenere in considerazione, è che il messaggio cifrato di Procopio costituisce l'unica causa diretta menzionata da Ammiano che possa aver condotto lo staff del generale alla convinzione che la Siria fosse l'obiettivo persiano.333 Qualunque altro elemento portato dallo storico a supporto di questa lettura strategica, è chiaramente “indotto” in lui, o in Ursicino, da quell’unico fattore iniziale, e, isolato da esso, non ha, come abbiamo potuto constatare, alcun valore “oggettivo”. In conseguenza di queste considerazioni, il momento ed il modo in cui quel messaggio fu letto e interpretato definì completamente la natura della campagna difensiva di Ursicino. E se la lettura e l'interpretazione del messaggio – anch’essi elementi soggettivi - fossero state erronee, e Shapur non avesse mai avuto la Siria come obiettivo? 333 Libanio Or. XII,74 sostiene che l'obiettivo dell'offensiva persiana fosse Antiochia, ma come di consueto l'attendibilità di quanto contenuto in questa orazione, scritta nel 363 in occasione dell'arrivo di Giuliano nell'area, è estremamente bassa; gli scopi apologetici sono evidenti, e le affermazioni di Libanio chiaramente finalizzate a far apparire Giuliano come colui che pose fine ai pericoli per Antiochia e la Siria. 100 Non solo: esiste anche la plausibile ipotesi secondo cui il messaggio “di Procopio” fosse, in realtà, una misura di controspionaggio da parte persiana334, atta a ingannare i Romani sui reali obiettivi della campagna: un falso, dunque. In entrambi questi casi, la lettura strategica dell'offensiva persiana da parte di Ursicino e del suo staff, influenzata e completamente definita dall’interpretazione di quel messaggio e riflessa nell’opera di Ammiano, sarebbe stata sbagliata e fuorviante sin dall’inizio, il che avrebbe generato contromisure del tutto inappropriate e inefficaci. In questo caso, l’esito negativo della stagione di campagna del 359 peserebbe in grandissima parte proprio sulla coscienza di Ursicino, e ciò motiverebbe, tra l’altro, l’attitudine ammianea nella sua narrazione dei fatti che abbiamo rilevato in questo capitolo. D’altronde, se rileggiamo Ammiano al netto dei nessi logici che abbiamo individuato e che si reggono unicamente sulla sua convinzione che l'obiettivo di Shapur fosse la Siria, la campagna del 359 ci appare, in maniera del tutto plausibile, sotto una luce ben diversa. In questa ipotesi, coerentemente con la strategia messa in atto dal re persiano nei 22 anni precedenti, il suo obiettivo fu, anche questa volta, un attacco al sistema difensivo fortificato romano in Mesopotamia; non presso Nisibi o Singara, come era già accaduto diverse altre volte, ma verso Amida. Consapevoli, grazie alle "soffiate" di Antonino, dell'assenza dell'esercito praesentalis di Costanzo e dell'esiguità del nuovo esercito mobile d'Oriente335, gli strateghi persiani potrebbero idearono un piano più elaborato, che prevedeva la presenza di due eserciti: quello di Tamsapore e Nohodares avrebbe dovuto attrarre lontano dal reale obiettivo - e possibilmente distruggere - le truppe mobili d'Oriente, mentre quello di Shapur si sarebbe diretto verso Amida, e l'avrebbe assediata. L'esercito di Tamsapore e Nohodares sarebbe stato dunque lanciato in una azione diversiva su Nisibi. Intanto, l'esercito di Shapur avrebbe varcato l'Anzaba e il Tigri, penetrando in Mesopotamia più a Sud rispetto all’esercito di Tamsapore e Nohodares, ed avanzando verso ovest fino ad un punto ove poter poi eseguire una conversione a nord avendo tagliato fuori Nisibi; dopodiché, esso sarebbe salito lungo la via per Amida, secondo quanto pianificato preventivamente e non come reazione all'evoluzione della campagna o alle azioni di Romani, L'esercito di Tamsapore e Nohodares, qualora non fosse stato impegnato in battaglia campale dalle truppe mobili romane a Nisibi, lasciata la città alle sue spalle senza assediarla, avrebbe preceduto Shapur sulla via per Amida fungendo da avanguardia allo scopo di attrarre l’eventuale opposizione romana sul campo, per poi proseguire a nord, oltre la stessa Amida. Una volta in atto l'assedio da parte del re, l'esercito di Tamsapore avrebbe devastato l'Armenia minore, restando pronto a intervenire qualora qualunque residua forza mobile romana avesse cercato di interferire con gli assedianti, nel qual caso essa sarebbe stata schiacciata tra l'incudine e il martello. Una lettura assolutamente plausibile e, oltretutto, compatibile e aderente al racconto di Ammiano (al netto dei suoi nessi logici di cui abbiamo individuato la completa soggettività), e che implica una pianificazione brillante e un'ottima esecuzione da parte dei Persiani, una lettura strategica completamente errata da parte di Ursicino, con una conseguente serie di errori nelle scelte tattiche e strategiche da parte dello stesso (la "terra bruciata" limitata alle direttrici verso l'Eufrate e la situazione in cui lasciò Amida furono i principali), e un motivato rifiuto da parte di Sabiniano di 334 Blockley 1988, p.256; Austin,1979, pp.25-27, che suggerisce, in base a dettagli della sua narrativa, un possibile ruolo di Ammiano come esperto di intelligence nello staff di Ursicino, il che lo porrebbe nella posizione di principale responsabile dell'eventuale errore che influenzò tutto l'andamento della campagna. 335 AM XVIII,5,2; Scott 1972, p.10 101 sacrificare il già scarso esercito mobile d'oriente in una missione di dubbia utilità e ad altissimo rischio di accerchiamento. Amida, infatti, era stata smantellata, ma il piccolo e preziosissimo esercito mobile d'Oriente era rimasto pressoché intatto. Ai posteri l'ardua sentenza. 18.4 Colpe e colpevoli Costanzo, nel frattempo, risolta finalmente la situazione sul Danubio, mosse verso Costantinopoli per tornare ad occuparsi di persona del fronte orientale e preparare la riscossa.336 Qui venne raggiunto da Ursicino, in qualità di magister peditum [praesentalis]337. Questa nota è importante, poiché suggerisce che a questo stadio degli eventi Costanzo non incolpava Ursicino per l'esito della campagna, altrimenti difficilmente gli avrebbe confermato ufficialmente un titolo così prestigioso.338 L'imperatore istituì però una commissione d'inchiesta per chiarire le responsabilità del fallimento della difesa romana. Ammiano lancia a questo punto un'invettiva contro i due ufficiali titolari dell'inchiesta (Arbizione e il magister officiorum Fiorenzo), che avrebbero intenzionalmente indagato su elementi inconsistenti e ben lontani dall'oggetto dell'inchiesta, ignorando invece l'evidenza, cioè il fatto che tutto era accaduto per la testarda ignavia di Sabiniano339 , allo scopo di non scontentare Eusebio, il praepositus cubiculi nonché principale colpevole dei complotti di corte che secondo lo storico alimentavano, alle orecchie di Costanzo, le calunnie nei confronti di Ursicino. Quest’ultimo, amareggiato per un tale atteggiamento da parte dei titolari dell’indagine, durante il suo interrogatorio manifestò la sua percezione del disprezzo di cui l'imperatore lo faceva oggetto e rimarcò ancora una volta che una simile inchiesta avrebbe dovuto essere guidata da Costanzo in persona, e non dai suoi infidi cortigiani su cui l'imperatore non aveva controllo, i quali gli avevano certamente riportato versioni manipolate dei fatti di Amida; poi, rispose che signoreggiato come è dalla volontà degli eunuchi, nemmeno lui [Costanzo] in persona insieme a tutta la forza del suo esercito potrà impedire nella prossima primavera lo smembramento della Mesopotamia.340 Quando Costanzo venne a conoscenza di queste parole, ordinò che Ursicino [...] lasciasse il servizio militare e si ritirasse a vita privata.341 Esce così di scena l'assoluto protagonista dei fatti relativi alla campagna del 359 raccontati dal punto di vista di Ammiano. Non possiamo nemmeno escludere che anche Sabiniano, qualunque fosse il suo reale ruolo nel contesto, abbia subito una analoga sorte: nemmeno di lui, come di Ursicino, si sentirà più parlare.342 E' anche vero, però, che un intenzionale silenzio da parte di Ammiano su questo personaggio, dopo i fatti di Amida, non ci stupirebbe, in quanto la sua sola permanenza su quel fronte sarebbe una lancia spezzata a favore della sua esenzione da colpe, e costituirebbe un dito puntato contro la 336 AM XIX,11,17 AM XX,2,1 : è il rango assegnato a Ursicino quando Costanzo lo ritirò dal fronte orientale chiamandolo a Sirmium per offrirgli il comando del suo esercito mobile; seppure Ursicino non giunse mai a Sirmium, essendo stato rispedito in Mesopotamia a fronteggiare l'invasione persiana, egli evidentemente detenne, da allora, questo titolo. 338 Matthews 1989, p.46 339 AM XX,2,3 340 AM XX,2,4 341 AM XX,2,5 342 Matthews 1989, p.47 337 102 passata condotta strategica di Ursicino; inoltre, lo storico non si sarebbe certamente fatto scappare la possibilità di raccontare con soddisfazione la contestuale (al congedo di Ursicino) fine della carriera di Sabiniano, qualora le cose fossero andate così: un fatto che da solo avrebbe giovato alla "causa" di Ammiano e Ursicino più di tutte le pagine da lui scritte su questi fatti. La lettura più realistica dei fatti, invece, implica che la strategia messa su da Costanzo in pochissimo tempo - quando si rese conto che quella iniziale, caratterizzata dal suo intervento diretto, sarebbe stata impossibile - la quale prevedeva Urscino come responsabile della difesa avanzata in Mesopotamia e Sabiniano posizionato come riserva strategica a difesa della Siria davanti alla linea dell'Eufrate, sia risultata di per sé ottimale; l'invasione persiana, qualunque fosse il suo obiettivo iniziale, dovette infatti consumarsi, come tutte le altre, nell' "ammortizzatore" difensivo costituito dalla Mesopotamia. Urscino però fallì nel suo compito specifico, cioè il portare l'offensiva persiana all'esaurimento senza consentire a Shapur l’ottenimento di alcun risultato strategicamente significativo. Se l'obiettivo iniziale di Shapur era Amida, Ursicino sbagliò completamente la lettura strategica dell'offensiva persiana; se invece l'obiettivo era davvero la Siria, le colpe del generale romano si "limitano" al non aver minimamente previsto la possibile elezione di Amida, da parte di Shapur, ad obiettivo secondario - una possibilità che non possiamo certo definire remota, alla luce dei precedenti 22 anni di offensive persiane e della loro tipologia strategica, oltre che sulle basi delle modalità di sviluppo della campagna in atto. Costanzo, probabilmente, non imputò a Ursicino la caduta di Amida in sé, che lo sbilanciamento di forze presente in quel momento in Mesopotamia e la casualità degli episodi che talvolta definiscono gli esiti di un assedio potevano anche rendere comprensibile. Per questo, presumibilmente, al suo arrivo confermò al generale il titolo di magister peditum praesentalis. Quando però i fatti cominciarono ad essere indagati e chiariti, risultò che Amida era stata lasciata del tutto impreparata, sotto ogni punto di vista, a subire assedio, e che quindi l'azione del nemico era stata grandemente favorita da questa impreparazione: ciò discendeva unicamente dalle scelte strategiche di Ursicino. A questo punto, Costanzo dovette valutare che, indipendentemente dall'esito di un assedio e dalla dubbia entità delle sue conseguenze, le capacità strategiche del suo magister militum praesentalis lasciassero piuttosto a desiderare, e se ne liberò. Umanamente è comprensibile la reazione di Ursicino e di Ammiano davanti al fatto che Sabiniano, pur non avendo mosso un dito, non fosse accusato del fallimento romano. Se, però, la strategia difensiva era quella da noi ipotizzata sopra, Sabiniano non fece altro che obbedire alle direttive ricevute, cosa che tra l'altro Ammiano stesso, in pratica, ammette descrivendo il contenuto della lettera contenente gli ordini di Costanzo mostrata da Sabiniano nel rifiutarsi di intervenire su richiesta di Ursicino per alleviare la situazione di Amida sotto assedio. Agilone, precedentemente tribunus dei Gentiles e degli Scutarii, prese il posto di Ursicino in seguito ad una promozione che Ammiano definisce straordinaria.343 Cala così il sipario su una stagione lunga e difficile, per i Romani. Amida fu distrutta, o quantomeno ne furono distrutte le mura e le fortificazioni344 per vanificarne la funzione di cardine nord del sistema difensivo romano; non fu, dunque, ivi posta una guarnigione persiana, d'altronde la città si trovava in un'area che i Persiani non reclamavano, e che non richiesero nemmeno col trattato del 363. 343 344 AM XX,2,5 AM XIX,9,2 parla di diruptiones civitatis 103 Proprio in seguito al ritorno di Nisibi e Singara in mani persiane nell’ambito di quel trattato, Amida, la cui ricostruzione, nel 363, era probabilmente già in atto, fu ampliata e nuovamente fortificata345; in questo nuovo contesto, la sua importanza strategica divenne per Valente ancora superiore a quella che ebbe per Costanzo.346 19. 360 D.C. : SINGARA E BEZABDE 19.1 Usurpazione Costanzo, ormai tornato a Costantinopoli, spese l’inverno 359/360 nella preparazione del suo esercito in vista della successiva stagione di campagna. Il Danubio era relativamente tranquillo, il suo Cesare Giuliano, in Gallia, si occupava del fronte del Reno, ed egli aveva sotto la sua gestione le risorse imperiali indivise, con la possibilità, quindi, di concentrarne il grosso sul fronte mesopotamico, tornato ad essere prioritario. Una simile coesistenza di situazioni favorevoli non si era mai verificata, da quando egli era stato elevato Augusto. Decise allora, nell'ambito dei suoi preparativi, di richiedere l’invio dalla Gallia di parte delle truppe di Giuliano, per integrare la concentrazione di forze sul fronte orientale: [Costanzo] inviò Decenzio, tribunus et notarius, con l’ordine di sottrargli immediatamente gli Heruli, i Batavi, i Petulantes, i Celtae347, e trecento uomini scelti dagli altri reparti.[…] L’ordine di partire alla testa degli ausiliarii e degli altri trecento fu ricevuto dal solo Lupicino, poiché non si sapeva ancora che era passato in Britannia, mentre a Sintula, allora tribunus stabuli di Giuliano, fu ordinato di scegliere e condurre via i più risoluti tra gli Scutarii e i Gentiles.348 Ammiano reitera, nella sua narrazione delle vicende che coinvolsero Costanzo e Giuliano, lo stesso tipo di parzialità che aveva applicato ai rapporti tra Costanzo e Ursicino: egli, infatti, accusa l’Augusto di aver messo in atto una tale richiesta non per effettive necessità strategiche, ma per invidia nei confronti di Giuliano, a causa dei successi militari di quest’ultimo contro gli Alamanni, e per timore che la sua fama crescesse troppo.349 E’ poco plausibile che questo fosse il vero motivo dietro le richieste di Costanzo - il quale, oltretutto, probabilmente trasferì truppe anche da altri fronti350; le motivazioni strategiche alla base di una simile iniziativa sono assolutamente realistiche e coerenti al contesto. Giuliano, ricevuti gli ordini dell'imperatore, sembrò inizialmente esitare, anche per l’assenza del suo magister equitum Lupicino; le sue preoccupazioni, d’altronde, erano almeno in parte ben motivate a 345 Sulle esigue dimensioni della Amida "di Ammiano", ved. nota 286 Matthews 1989, p.66 347 Si tratta probabilmente degli Heruli seniores, Batavi seniores, Petulantes seniores e Celtae seniores, cioè di quattro pregiati auxilia palatina elencati dalla Notitia Dignitatum nell’ambito dell’ esercito praesentalis d’occidente ( ND Occ.V) 348 AM XX,4,2-3 : i più risoluti tra gli Scutarii e i Gentiles sono probabilmente elementi scelti nell’ambito delle Scholae Scutariorum e Scholae Gentilium , cioè alcune delle unità di cavalleria d’elite che costituivano la guardia imperiale nel tardo impero – le Scholae Palatinae. Esse erano sotto il comando del magister officiorum. 349 AM XX,4,1-2 : Anche in questo caso, Ammiano vede, dietro le azioni di Costanzo, l’istigazione di qualcuno a lui vicino, in questo caso il prefetto al pretorio Fiorenzo. Libanio sostiene la stessa tesi di Ammiano, ma lo fa in modo scomposto ed evidentemente in cattiva fede nella sua orazione scritta in occasione dell'ingresso di Giuliano ad Antiochia, commissionata dallo stesso ( Or. XII, 58), ed in quella in morte di Giuliano (Or. XVIII,90-91), fonti generalmente ritenute prive di alcuna attendibilità per quanto riguarda l'analisi storica di questi fatti. 350 Sul fatto che le motivazioni dietro alle richieste di Costanzo fossero realmente dettate da ragioni strategiche, ved. anche Nicasie 1998, pp.16-7; sul trasferimento di truppe anche da altri fronti, Szidat 1977, p.72 346 104 causa di una consuetudine relativa all’arruolamento nel suo esercito dei volontari provenienti dai territori trans-renani, consuetudine incompatibile con le nuove direttive. Giuliano, infatti, aveva necessità di fare in modo che non avessero a sopportare alcun fastidio coloro che, abbandonate le loro case al di là del Reno, s'erano arruolati a condizione di non essere condotti mai al di là delle Alpi. Affermava che si doveva temere che i soldati barbari, soliti a passare di spontanea iniziativa dalla nostra parte a condizioni analoghe, fossero in futuro distolti dall'aver appreso di quest'episodio.351 Queste parole descrivono in maniera molto chiara come, per coprire con volontari reclutati oltre il Reno i vuoti che progressivamente si aprivano nel suo esercito, Giuliano dovesse fornire loro garanzie sul fatto che sarebbero stati impiegati unicamente nell'area da cui provenivano, e comunque non oltre le Alpi. Giuliano, in effetti, non parve preoccuparsi tanto dei soldati non toccati da queste considerazioni e già partiti col tribuno verso l'oriente in seguito alle direttive imperiali, quanto, in maniera specifica, della prospettiva che il trasgredire alle promesse fatte ai volontari reclutati tra le popolazioni transrenane potesse chiudere, in futuro, un fondamentale e vitale rubinetto di risorse umane che rendeva il suo esercito autosufficiente, e che gli permetteva addirittura di poter fornire unità ad altri eserciti. 352 Si trattava però, indubbiamente, di una prassi non ufficiale: le unità in cui queste reclute combattevano erano regolari, dunque nessun trattamento particolare poteva essere preteso per loro a livello ufficiale, e questa è la risposta che Giuliano otterrà da Costanzo quando gli sottoporrà il problema353. Proprio il contrasto su questa delicata questione contribuì fortemente a generare la situazione che portò all'usurpazione da parte del Cesare. Giuliano inizialmente cercò di rimediare acconsentendo al trasferimento in Oriente delle truppe di origine trans-renana con, al seguito, le loro intere famiglie, e incitò a obbedire agli ordini di Costanzo. Ma il risentimento verso le direttive dell'imperatore da parte dei soldati era troppo forte: Noi, come colpevoli e condannati, siamo spinti agli estremi confini del mondo: i nostri figli e le nostre spose, che con sanguinose battaglie liberammo dalla schiavitù, saranno di nuovo servi degli Alamanni. 354 La situazione degenerò fino alla ribellione contro l'autorità imperiale, soprattutto ad opera di Petulantes e Celtae, e all’elevazione di Giuliano ad Augusto da parte delle sue truppe. Questi inizialmente fu riluttante, ma come spiegò in una lettera a Costanzo, sentendosi minacciato dalla scomposta insistenza dei militi, preferì acconsentire alle loro richieste, sperando così di riprendere il controllo della situazione, piuttosto che rifiutare, rischiando di essere eliminato e che fosse proclamato Augusto qualcun altro al suo posto, il che non avrebbe certo migliorato la situazione generale.355 E’ difficile, e non è lo scopo di queste pagine, indagare le vere motivazioni dietro alle azioni di Giuliano; possiamo però supporre che egli si fosse realmente trovato in una situazione ingestibile 351 AM XX,4,4 Barbero 2006, pp.113-114 353 AM XX,9 354 AM XX,4,10 355 AM XX,8,10 352 105 per i motivi appena descritti, e che fosse stato costretto a scegliere quello che probabilmente, in quel contesto ormai fuori controllo, era dal suo punto di vista il male minore: l’usurpazione.356 Tratto il dado, anche le truppe già inviate verso est furono richiamate.357 Costanzo, forse ricordando le difficoltà incontrate nel gestire l'opinione pubblica quando aveva scelto di abbandonare la Mesopotamia e la minaccia di un nemico esterno per opporsi ad un nemico interno come Magnenzio, e probabilmente confidando nella possibilità di risolvere i problemi relativi alla divisione del potere con Giuliano per via diplomatica una volta conclusa la campagna orientale, decise di muovere comunque contro Shapur mantenendo la priorità sul fronte mesopotamico a scapito di quello interno. Ammiano, come era già accaduto nella sua descrizione della campagna del 359, nasconde la cronologia dei fatti, e questo non può non essere un atteggiamento intenzionale. Gli eventi che si susseguono in Gallia e in Oriente sono narrati su due linee parallele che non è possibile accostare in maniera certa, proprio perché lo storico evita di fornire punti di riferimento. Lo scopo è evidentemente rimuovere presso il lettore qualunque percezione di un nesso causaeffetto tra l'usurpazione di Giuliano e i mutamenti che Costanzo dovette ancora una volta apportare alla sua strategia, e che condussero al fallimentare esito della medesima. Un indizio, però, egli ce lo concede, come fa notare Blockley358: All'atto della richiesta di truppe a Giuliano, Ammiano scrive infatti: cosicché potessero unirsi all'inizio della primavera all'esercito in procinto di muoversi contro i Parti.359 Più tardi, dopo aver raccontato dell'usurpazione, lo storico afferma che [Costanzo] per timore dell'invasione dei Parti, fortificò con somma cura, durante l'inverno che passava a Costantinopoli, le frontiere orientali con ogni genere di apparati. Vi concentrò armi e reclute, accrebbe con rinforzi di gagliarda gioventù gli effettivi delle legioni, la cui fermezza nelle battaglie campali rifulse ben spesso durante le spedizioni orientali. Chiedeva inoltre aiuti, sia gratuiti che pagati, agli Sciti [i Goti]360, in modo da potersi muovere dalla Tracia a primavera inoltrata ed occupare i punti pericolosi.361 Confrontando i due passi tra i quali si colloca, nell'opera di Ammiano, l'usurpazione di Giuliano, si coglie una differenza fondamentale: l'inizio previsto per la campagna di Costanzo è spostato dall'inizio della primavera alla primavera inoltrata. Questo ritardo, chiaramente, cambiò del tutto le carte in tavola dal punto di vista dell’operatività strategica, e provocò un totale stravolgimento della campagna di Costanzo. Ammiano naturalmente vuole fare intendere che la nuova collocazione dell’avvio della campagna nella tarda primavera non dipendesse da altro che dal naturale prolungarsi delle operazioni di preparazione attuate dall’imperatore. E' però molto improbabile che Costanzo, giunto finalmente a Costantinopoli col suo esercito praesentalis sul finire della stagione precedente, e dopo un inverno di preparativi, si fosse trovato, 356 AM XX,4 AM XX,5,1 358 Blockley 1988, p.485 n.103 359 AM XX,4,2 : primo uere 360 Probabilmente parte dei Goti furono richiesti ancora una volta sulle basi del trattato del 332 tra Costantino e i Tervingi, mentre, a testimonianza degli arruolamenti su grande scala, altri furono reclutati come mercenari. 361 AM XX,8,1 :adulto uere 357 106 per responsabilità sue, impreparato a cominciare nei tempi che aveva pianificato la campagna che stava aspettando di poter realizzare da più di vent'anni. E' anche difficile, d’altro canto, che il mancato arrivo delle unità chieste a Giuliano creasse conseguenze tali da rendere necessaria una grandiosa, aggiuntiva, campagna di arruolamento, e da imporre la scelta di rimandare a stagione inoltrata la partenza da Costantinopoli, stravolgendo l'intera attuazione strategica romana. In realtà, è molto probabile che il forte ritardo con cui Costanzo si mosse verso la Mesopotamia fosse derivato unicamente dalla necessità di avere, prima di prendere decisioni strategiche definitive per quanto riguarda la gerarchia da assegnare ai diversi fronti, un quadro completo di ciò che accadeva in Gallia, quadro che, con la velocità del flusso di informazioni di allora, probabilmente richiese molto tempo per formarsi, tenendo l'Augusto bloccato a Costantinopoli e poi in Cappadocia molto più a lungo del previsto. La lettera di Giuliano, in cui egli spiegava le motivazioni del suo gesto e si augurava comprensione362, giunse a Costanzo mentre egli, mossosi da Costantinopoli, si trovava in attesa a Cesarea ( in Cappadocia) 363, ma l’Augusto indubbiamente già conosceva almeno a grandi linee ciò che stava accadendo in Gallia dalle relazioni presentategli da Decenzio e dai cubiculares partiti da Parigi verso l’Oriente, e dunque venne a sapere di questi fatti, almeno nelle linee generali, mentre ancora era a Costantinopoli. 364 Costanzo, però, come era d’altronde inevitabile, preferì assicurarsi che la situazione gli permettesse di mantenere con sicurezza la priorità sul fronte mesopotamico, prima di avviare con decisione la sua campagna orientale e varcare l'Eufrate; ricevuta la lettera di Giuliano, egli rispose aspramente intimandogli di rinunciare ai suoi intenti e negando ogni trattamento particolare per le truppe di origine trans-renana365; dopodiché, avendo giudicato che la soluzione alla questione interna potesse essere rimandata, si mosse finalmente verso la Mesopotamia, ma con molto ritardo. Aveva così perso, ancora una volta in seguito a fattori esterni e imprevedibili, la possibilità di prendere l’iniziativa, o di attendere quella persiana con le proprie forze già schierate. Aveva però ancora la possibilità di intervenire, a offensiva persiana in atto, per schiacciarne l'esercito bloccato, come certamente sarebbe stato, in un lungo assedio. Una sorta di deja-vu del 359. 19.2 Singara Noti questi fatti, sembrano quasi ironiche le parole con cui Ammiano descrive l'inizio della nuova invasione persiana: quante volte questo contesto aveva costituito le premesse per le offensive persiane, e con che convinzione Costanzo era stato vanamente certo che nel 360 le cose sarebbero andate diversamente…. 362 AM XX,8 : Nelle parole di Ammiano, Giuliano propone, nella sua lettera, le considerazioni a proposito dei volontari arruolati oltre il Reno, chiedendo a Costanzo una dispensa per loro, ed offrendosi di inviargli laeti, stirpe di barbari nata al di qua del Reno, o comunque volontari che militano nelle nostre file, che tu potrai unire a Gentiles e Scutarii. Giuliano sembra quindi realmente preoccuparsi non tanto per la cessione di truppe in sé, quanto per prospettiva di dover disattendere le condizioni da lui concordate coi trans-renani all’atto del loro arruolamento; Giuliano stesso (Ep. Ath. 279-80) dichiara di aver inviato a Costanzo quattro numeri di fanteria della migliore qualità, tre di qualità inferiore, e due reggimenti di cavalleria scelti tra quelli di maggior valore (probabilmente Gentiles e Scutarii). Ammiano, però a fianco di questa lettera ufficiale, perlomeno formalmente accomodante, ne menziona una seconda, che definisce “mordace”, inviata in segreto da Giuliano a Costanzo ma che egli, non avendo visto, dichiara di non poter descrivere. 363 AM XX,9,1 364 AM XX,8,4 365 AM XX, 9 107 Approfittando del fatto che Costanzo con l'esercito si trovava lontano, dopo aver accresciuto le proprie forze armate, [Shapur] passò superbamente il Tigri e pose assedio a Singara.366 Ammiano descrive la guarnigione di Singara: due legioni, la Prima Flavia e la Prima Parthica, integrate da cavalieri che vi erano rimasti chiusi367 ,quindi, questi ultimi, equites di una o più unità che si trovavano temporaneamente in città e che rimasero invischiate nell'assedio. Una guarnigione piuttosto limitata considerato il contesto esistente, in cui un assedio era tutt'altro che remoto. Il grosso dell’esercito, probabilmente costituito dalle unità mobili d'Oriente, era stato infatti concentrato a Nisibi, di gran lunga il centro più importante. Ammiano scrive infatti che la maggior parte dell'esercito, attendata, proteggeva Nisibi, che si trova a grandissima distanza.368 L'assedio di Singara fu probabilmente piuttosto breve e meno cruento rispetto agli altri descritti finora. A questa impressione contribuisce certamente il fatto che Ammiano lo racconti in modo ben diverso da come aveva narrato le vicende riguardanti Amida e la campagna dell’anno prima; è evidente che la sua “partecipazione” è molto più blanda e distaccata, e che egli, probabilmente, non era presente nell’area, o quantomeno, se lo era, il suo ruolo dovette essere marginale. Non si può escludere, d’altronde, che anche la sua carriera militare fosse stata compromessa nel momento in cui Ursicino cadde in disgrazia. Ad ogni modo, dopo la presentazione degli elementi che costituiscono un cliché negli assedi narrati da Ammiano (l'invito di Shapur ad arrendersi, il rifiuto romano, l'assalto in forze, la risposta “armata” dalle mura), i Persiani passarono all'azione, utilizzando un ariete contro una torre che, secondo lo storico, doveva essere già ben nota ai Persiani come punto debole “cronico” della cinta muraria di Singara, in quanto proprio lì essi avevano aperto una breccia già in un precedente assedio.369 Lo stratagemma ebbe, infatti, nuovamente successo, la torre crollò sotto i colpi dell’ariete, e questa volta i Persiani dilagarono in città.370 Ammiano racconta che pochissimi tra i difensori furono uccisi qua e là, e tutti i rimanenti, su ordine di Shapur, furono catturati vivi e deportati nelle più lontane regioni della Persia.371 Questa appare una indiretta conferma della relativa rapidità dell'assedio e forse della blanda resistenza della guarnigione romana - notoriamente assedi lunghi e probanti per gli attaccanti sfociavano, in caso di successo di questi ultimi, in incontrollabili massacri dei difensori. D'altronde, solo un assedio rapido avrebbe potuto permettere una lunga prosecuzione della campagna come quella che si svilupperà. Anche Singara, seppur si trovasse all'interno delle terre reclamate da Shapur, non fu dotata di guarnigione dal re persiano, il che sarebbe stato strategicamente insensato vistane la posizione in pieno territorio romano.372 366 AM XX,6,3 AM XX,6,8 368 AM XX,6,8 369 AM XX,6,5 : Purtroppo, anche questa volta Ammiano si riferisce ad episodi raccontati nella parte perduta della sua opera. Ved. nota 128 370 AM XX,6,2-7 371 AM XX,6,7 372 Su questo aspetto vedasi nota 128 e cap. 21. 367 108 Essa subì probabilmente una sorte non dissimile da quella di Amida, ne furono cioè smantellate, fondamentalmente, mura e fortificazioni. Ciò che interessava al re persiano era privarla, perlomeno temporaneamente, del suo valore come cardine strategico del sistema difensivo fortificato romano; ottenuto ciò, egli si lasciò Singara alle spalle e mosse altrove per proseguire la sua campagna. In questa circostanza, oltretutto, possiamo supporre con una certa convinzione che il nucleo cittadino in sé fu in buona misura risparmiato dalla distruzione. A possibile conferma di ciò vi è un'apparente contraddizione nel testo di Ammiano: parlando della presa di Singara, egli dichiara infatti che la città fu distrutta e l'intera popolazione superstite, civile e militare, deportata in Persia373; più avanti, nel descrivere i termini del trattato del 363 in cui i Romani cedettero Singara ai Persiani, egli sottolinea come Gioviano fosse riuscito ad ottenere per questa città (e per le altre città fortificate oggetto del patto, tra cui Nisibi) che la popolazione militare e civile romana fosse lasciata libera di trasferirsi altrove in territorio romano.374 Se, quindi, nel 363 Singara aveva ancora una popolazione romana da trasferire, significa che la sua distruzione nel 360 era stata solo parziale, probabilmente limitata agli aspetti che ne facevano un luogo strategico fortificato; la città come agglomerato abitativo, invece, era almeno sostanzialmente sopravvissuta ed era stata “rimessa in sesto” e ripopolata nel giro di soli tre anni; né può essere escluso che fosse già stata avviata anche la ricostruzione delle mura, e che fosse presente, nel 363, una guarnigione militare. 19.3 Bezabde Distrutta Singara, Shapur mosse verso nord-ovest; a leggere Ammiano, il re si tenne ben lontano da Nisibi, memore dei fallimenti passati e probabilmente anche conscio della concentrazione di forze romane presente presso quella città. Mosse invece verso Bezabde, centro fortificato a est di Nisibi, proprio sul Tigri, protetto, ove la natura non aveva già provveduto, da una doppia cinta di mura.375 La guarnigione di Nisibi era costituita da tre legioni, la secunda Flavia, la secunda Parthica, e la secunda Armeniaca; inoltre vi erano numerosi arcieri Zabdiceni; Bezabde si trova infatti nella porzione cis-tigritana della Zabdicene, una delle cinque satrapie passate ai Romani nel 299.376 Anche in questo caso, la concentrazione difensiva presso Nisibi aveva concesso solo una guarnigione piuttosto esigua. L’assedio iniziò secondo il consueto succedersi dei fatti: le minacce di Shapur, la risposta armata dei difensori, un secondo e ultimo tentativo di risolvere la questione senza le armi377, un ulteriore rifiuto, un giorno di tregua e poi l’attacco. Ammiano menziona però, a questo punto, un episodio ambiguo: il vescovo cristiano di Bezabde avrebbe chiesto udienza al re allo scopo di esortarlo alla pace e a rinunciare alla sua aggressione, richieste che Shapur avrebbe rifiutato. Improvvisamente, però, dopo questo “dialogo”, l'artiglieria persiana cominciò a puntare con sospetta sicurezza verso i punti deboli della cinta muraria della città, ove i bastioni erano pericolanti e meno solide. 373 AM XX,6,7-9; 7,1 AM XXV,7,11 375 AM XX,7,1 376 AM XX,7,2 377 AM XX,7,4 : interessante notare come Shapur, ormai abituato ad essere bersagliato (lui o i suoi legati) ogniqualvolta si avvicinasse alle mura di una città in procinto di essere assediata per cercare di intimorirne i difensori con le minacce, questa volta riunì i più conosciuti tra i prigionieri presi a Singara, e li fece utilizzare come scudi umani affinché i suoi inviati non fossero accolti col consueti lancio di pietre e giavellotti. Infatti i difensori non lanciarono alcunché, ma non risposero nemmeno alla proposta di resa del re. 374 109 Ammiano sottolinea marcatamente il forte sospetto che il vescovo avesse passato a Shapur informazioni riservate sullo stato e sulla solidità delle difese fortificate della città; nel descrivere questi sospetti come verosimili e avvalorati da diverse testimonianze, egli però se ne dissocia, con un’abile manovra letterario-diplomatica.378 Mentre continuava la difesa con ballistae e scorpiones che lanciavano rispettivamente dardi e massi sui Persiani, questi si avvicinavano alle mura con arieti, bersagliati anche da pietre, pece e frecce incendiarie. Uno degli arieti, coperto con pelli di toro bagnate per impedire che fosse incendiato, riuscì a giungere fin sotto le mura, e mediante la sua azione i Persiani riuscirono a far crollare una torre, aprendo una breccia e penetrando in città. La battaglia accesasi era senza speranze per i difensori, e ad essa seguì un terribile massacro che non risparmiò nemmeno i più indifesi tra i civili.379 A differenza di ciò che era accaduto ad Amida e Singara, il re fece subito ricostruire la porzione di mura abbattute, dotò la città di una guarnigione ben rifornita di approvvigionamenti, e solo allora si allontanò380 Questo fatto è importante per la lettura strategica della situazione. Shapur decise di tenere Bezabde, di farne cioè una sorta di testa di ponte oltre il Tigri, in territorio romano. Amida era fuori dai territori reclamati da Shapur, Singara era in una posizione che l’avrebbe resa pressoché indifendibile finché la Mesopotamia era Romana, ed infatti entrambe le città, dopo essere state espugnate, furono smantellate e abbandonate. Per Bezabde invece la situazione era diversa: la posizione a ridosso del Tigri, non lontano da Nisibi, era indubbiamente vantaggiosa, permetteva di essere efficacemente difesa da un eventuale tentativo di riprenderla da parte dei Romani, e collocava Bezabde nel pieno di un’area che Shapur reclamava come persiana di diritto.381 Anche questo assedio dovette essere relativamente rapido, infatti Shapur ancora non si fermò: dopo aver preso, probabilmente senza combattere, alcune fortezze di importanza minore382, si diresse verso Virta. Si trattava di una fortezza pressoché inespugnabile, a sentire Ammiano, per varie opere di difesa e per le mura curvate in dentro e rientranti383 che quindi permettevano da un tratto di mura la difesa diretta del tratto di mura prospiciente. Questa volta, Shapur dovette arrendersi, poiché i danni subiti superavano quelli arrecati384, o forse perché l'odore dell'esercito di Costanzo cominciava a farsi sentire nell'aria, e si ritirò. Spostandoci ora sul versante romano, troviamo, nel racconto ammianeo, Costanzo ancora una volta impegnato nell’assicurarsi la fedeltà di Arsace, dopo averlo convocato in Cappadocia e avergli fatto presente che alcune recenti esitazioni nella sua amicizia per Roma erano state poco apprezzate. Arsace dichiarò la sua immutata e immutabile fedeltà, e ritornò in Armenia.385 Ammiano non ci permette di collocare cronologicamente questo specifico episodio, ma probabilmente esso ebbe luogo prima dell’inizio dell’offensiva persiana e anche dell'usurpazione di Giuliano; si trattava infatti, presumibilmente, di una iniziativa diplomatica - ricorrente tra le 378 AM XX,7,9 AM XX,7,10-15 380 AM XX,7,16 381 Le presa di Bezabde da parte di Shapur è registrata anche in Theoph, Chron. a.m. 5852 382 AM XX,7,17 383 AM XX,7,17: non sappiamo ove fosse situata Vitra. Ammiano la descrive in extremo [...] Mesopotamiae situm, ma non ci è possibile dedurre univocamente la posizione della città da questo passo. 384 AM XX,7,18 385 AM XX,11,1-3 379 110 consuete attività con finalità strategiche svolte da Costanzo in preparazione di una stagione bellica in vista della campagna pianificata per la primavera, allo scopo di coprirsi le spalle da eventuali sorprese “armene”.386 Ciò che Ammiano colloca cronologicamente come accaduto una volta “partito Arsace dalla Cappadocia”, copre un vasto arco temporale: si tratta della partenza di Costanzo dalla Cappadocia presumibilmente da Cesarea dove l'abbiamo lasciato con la missiva di Giuliano tra le mani, per varcare l’Eufrate a Samosata e muovere verso Edessa, dopo aver definitivamente valutato il quadro globale e aver scelto di perseverare nella sua campagna orientale. Edessa costituiva il punto di assemblaggio del suo esercito, uomini e vettovaglie, e Ammiano scrive che Costanzo, per questa ragione, vi si trattenne a lungo 387. Dopodiché, passato l'equinozio d'autunno, l’Augusto si diresse verso Amida, di cui trovò le sole rovine388, su cui pianse; il comes largitionum Ursulo esclamò una frase piuttosto nota: "ecco con quale animo difendono le città i nostri soldati, cui non bastano le ricchezze dell’impero per aumentarne lo stipendio!"389 Generalmente, di questa frase si coglie l’ingiustizia nei confronti degli eroici difensori della città, ed infatti Ursulo stesso pagò poi con la vita questa sua “sincerità”, condannato a morte dal tribunale di Calcedone - in realtà, secondo Ammiano, dall’ostilità dell’ambiente militare dopo questa sua “uscita” presso le rovine di Amida390 . Se però leggiamo le parole di Ursulo in senso lato, cioè come accusa non ai difensori “fisici” di Amida, ma alla mancanza di una adeguata difesa della città da parte di chi aveva la responsabilità strategica del garantirla, alla luce della ricostruzione alternativa della campagna del 359 ipotizzata in precedenza, esse appaiono in un'ottica più “comprensibile”. Costanzo proseguì, e diresse il suo esercito verso Bezabde. 19.4 Bezabde bis Vi giunse troppo tardi per intercettare Shapur, e questo fatto segnò il fallimento strategico della sua campagna. Egli decise allora di cercare l'ultimo obiettivo rimastogli: tentare il recupero di Bezabde. Anche a parti invertite, il racconto ammianeo dell'assedio propone fasi ricorrenti. Alla richiesta di cedere senza combattere, i Persiani rifiutarono. Costanzo allora diede inizio alle operazioni, con un vano tentativo di demolizione delle mura operato dai legionari che si ammassavano sotto le medesime formando testudines. Il lancio di armi e oggetti da parte dei difensori li costrinse però a ritirarsi. Nel decimo giorno d'assedio, i Romani decisero di utilizzare un gigantesco ariete abbandonato anni prima dai persiani a Carrae; intanto si alzavano terrapieni, le gesta eroiche si succedevano, i Romani, in presenza del loro Augusto, combattevano senza elmo per farsi riconoscere ed essere apprezzati, i Persiani rispondevano cercando di colpire l'ariete e le altre macchine da guerra con frecce incendiarie, ma i legionari le proteggevano tramite pelli bagnate e deposizione di strati di allume. 386 Il fatto che lo sforzo diplomatico verso Arsace costituisse un fattore di primaria importanza nella strategia di Costanzo è suggerito anche dal Codex Theodosianus, in cui un decreto dell’Augusto, emesso a Costantinopoli nel Gennaio del 360, esenta Arsace, rex armenorum, dal pagamento di tributi. CTh XI,1,1 387 AM XX,11,4 388 Questo dettaglio potrebbe suggerire che Amida, espugnata l'anno prima, avesse subito uno smantellamento più radicale rispetto a Singara; non si può nemmeno escludere però che Ammiano drammatizzi la situazione di Amida e che essa fosse, seppure inservibile come centro fortificato, in fase di parziale ricostruzione; come terza ipotesi, infine, possiamo supporre che proprio il sopralluogo di Costanzo diede il via alla ricostruzione. 389 AM XX,11,4-5 390 AM XXII,3,7 111 Quando il grosso ariete era ormai prossimo ad una torre e pronto a colpirla, i Persiani con una fune riuscirono a bloccarne e sollevarne la parte terminale, che aveva forma di testa d'ariete, impedendo ai Romani di allontanarlo dalle mura per prendere "la rincorsa", e rendendolo di fatto inutilizzabile, oltre che facile bersaglio per il lancio di proiettili e pece dagli spalti sovrastanti. Nel frattempo, mentre i terrapieni romani crescevano, i Persiani decisero di tentare sortite per incendiare le macchine da guerra nemiche; una prima fallì, ma la seconda parve ottenere il suo scopo; Ammiano racconta che praticamente tutte le macchine romane bruciarono, tranne il grande ariete che, spezzate le funi, fu a fatica ritirato dalle mura, semidistrutto.391 E' oggettivamente difficile che le cose stessero davvero così; forse Ammiano si riferisce solo agli arieti di dimensioni minori che erano stati usati contestualmente a quello più grande. Infatti, il racconto prosegue con un ulteriore tentativo dei Romani: poste ballistae in cima ai terrapieni, che ormai superavano gli spalti in altezza, essi tenevano, tramite il lancio di proiettili, i Persiani lontani dalla sommità delle mura, ove sarebbero stati facili bersagli, dopodiché, quasi al crepuscolo, i nostri soldati furono ordinati in triplex acies, e con i pennacchi minacciosamente ondeggianti sugli elmi, mentre molti trascinavano le scale, tentarono di attaccare le mura.392 Il deterrente delle ballistae che impediva ai Persiani di stazionare sulle mura senza essere bersagliati dall'alto, permise ai Romani di utilizzare di nuovo l'ariete con un'opposizione dagli spalti questa volta molto più blanda. I legionari colpivano le mura anche con le dolabrae e i ligones, e già appoggiavano le scale. I Persiani, ormai consci di essere sul punto di dover cedere agli assedianti, avendo lasciato un certo numero di uomini a difendere le mura, effettuarono una disperata sortita, con cui riuscirono a incendiare il materiale di sostegno di uno dei terrapieni; le fiamme si diffusero, e i Romani riuscirono a fatica ad allontanare le macchine dalle mura per evitare di perderle.393 Questa azione persiana riuscì dunque a interrompere quella romana facendola fallire, e permise di arrivare ancora una volta a sera. Dopo questo fallimento, Ammiano descrive un cambio di tattica da parte di Costanzo. Vedendo che ormai la stagione volgeva al termine e Bezabde rimaneva integra, Costanzo decise di alleggerire l'assedio puntando non più ad espugnare la città direttamente, ma, certaturus leviter, cioè impegnandosi solo in combattimenti leggeri, operando un blocco e mirando a prendere i difensori per fame.394 Anche questo espediente, però, fallì: cominciarono le piogge invernali, che rendevano il terreno melmoso e difficile; la stagione si irrigidì, e l'Augusto fu costretto ad abbandonare l'assedio, dirigendosi verso Antiochia ove svernò. Malgrado la trattazione di Ammiano di questa campagna sia radicalmente meno sentita e più concisa rispetto a quella dell'anno prima, non permettendoci dunque un'analisi egualmente approfondita e lasciandoci l'ingannevole sensazione che si sia trattato di fatti meno "drammatici", molto probabilmente l'offensiva persiana fu di entità paragonabile a quella del 359, e ugualmente finalizzata all'erosione del sistema difensivo mesopotamico. La risposta romana, nei piani di Costanzo, doveva prevedere il sistema fortificato mesopotamico a cornice dell'azione dell'esercito mobile praesentalis che, in attesa davanti all'Eufrate, sarebbe avanzato e avrebbe costretto Shapur alla battaglia una volta che questo avesse varcato il Tigri o, in 391 AM XX, 11,6-20 AM XX 11,21 393 AM XX 11,22-23 394 AM XX,11,24 392 112 seconda battuta, se Costanzo fosse giunto a campagna iniziata, avrebbe attaccato i Persiani impegnati in qualche assedio. Le unità dell'esercito praesentalis non erano, al contrario dell'anno precedente, lontane e impegnate sul Danubio, ma già in oriente in attesa di essere poi assemblate in Mesopotamia, a Edessa; questo permise a Costanzo di concentrare le limitate truppe mobili di stanza in Mesopotamia non nel ruolo di difesa strategica della Siria subito davanti all'Eufrate, come nel 359, ove sarebbero state ridondanti, ma in posizione più avanzata, a protezione di Nisibi, seppure una tale concentrazione rischiasse di andare a scapito degli altri centri nell'area. A una simile soluzione, perlomeno, fa pensare il già citato passo di Ammiano in cui egli scrive che la maggior parte dell'esercito, attendata, proteggeva Nisibi, che si trova a grandissima distanza395, descrizione che presuppone qualcosa di diverso da una - seppur abbondante - guarnigione di truppe limitanee. Questa concentrazione di forze poteva essere parte del piano originario di Costanzo, forse con lo scopo di rallentare o sviare l'armata persiana qualora, varcato il Tigri, si fosse diretta verso quella che era, sia strategicamente che dal punto di vista commerciale-economico, la più importante città mesopotamica, evitandone la devastazione dei dintorni e possibilmente l'eventuale tentativo di porvi assedio: un elemento deterrente, insomma, allo scopo di far sviluppare la campagna (e quindi di spostarne gli effetti comunque devastanti) altrove. Tale misura sarebbe stata comunque parte di una cornice strategica nella quale era previsto che si muovesse l'esercito praesentalis, il quale, oltre a intervenire prontamente verso Nisibi se il deterrente non avesse funzionato, avrebbe impedito o sollevato qualunque assedio Shapur avesse cercato di portare ad altre città meno protette, portando i Persiani allo scontro campale. Nella forzata e inattesa assenza dal teatro d'operazioni dell'esercito mobile di Costanzo, questa distribuzione delle risorse militari portò invece, accanto alla salvezza di Nisibi, a cui Shapur, come previsto, non si avvicinò, anche la "condanna" di altre città, tra cui Singara, a questo punto evidentemente e irrimediabilmente sottoprotette. Oppure, la concentrazione di unità a Nisibi potrebbe essere stata non prevista nel piano originario, ed essere dunque conseguente all'usurpazione di Giuliano e alla presa di coscienza da parte di Costanzo del fatto che sarebbe giunto nel settore con grave ritardo: agendo in questo senso, egli avrebbe cercato di salvare il salvabile, concentrando rapidamente tutto ciò che aveva di "mobile" già in Mesopotamia, ovvero gran parte delle unità dell'esiguo esercito da campo d'Oriente, a difesa del suo bene più prezioso in quella regione, Nisibi appunto, con la consapevolezza che ciò avrebbe presumibilmente agito da deterrente a inevitabile scapito delle altre città, di cui infatti Shapur fece "strage". Si può quindi supporre che anche nel 360, come nel 359, Costanzo non fu nelle condizioni di applicare la sua pianificazione strategica, ma che nel 360 il contesto iniziale apparentemente molto più favorevole, e quindi la preparazione volta in maniera pressoché esclusiva al suo sfruttamento secondo quanto previsto, rese, apparentemente, più arduo attuare misure correttive improvvise nel momento in cui il contesto, rapidamente e del tutto inaspettatamente, mutò: ciò consentì a Shapur una campagna presumibilmente ancora più agevole di quella dell'anno prima. Shapur aveva distrutto un altro cardine della difesa romana, e aveva per la prima volta guadagnato una testa di ponte oltre il Tigri: un ottimo risultato, per una sola campagna. 20. 361 D.C. : L’ULTIMA CAMPAGNA. I preparativi per la stagione bellica del 361 sono efficacemente riassunti da Ammiano: 395 AM XX,6,8 113 Si preparavano nondimeno le cose necessarie per le guerre civili ed esterne: si aumentava il numero delle turmae di cavalleria, si arruolavano con pari diligenza nelle province le reclute per le legioni; ogni classe sociale, ogni professione di cittadini, era gravata di tasse per fornire vesti, armi, macchine da guerra, oro e argento oltre a vettovaglie in grande quantità e animali da soma d’ogni specie.396 Secondo quella che ormai è evidente essere una preoccupazione prioritaria di Costanzo, all’attività preparatoria dell’esercito si affiancava una intensa attività diplomatica: E poiché si temeva che il re dei Persiani […] avrebbe con la bella stagione rinnovato la guerra con più impeto di prima, si inviarono con molti doni ambasciatori ai re e ai satrapi al di là del Tigri, ammonendoli ed esortandoli tutti ad esserci amici e a non tentare contro di noi inganni o frodi. Con splendide vesti e vari doni furono innanzitutto guadagnati alla nostra causa Arsace e Meribane, sovrani dell’Armenia e dell’Iberia, i quali certamente avrebbero arrecato grave danno ai Romani se nella situazione ancora incerta fossero passati dalla parte dei Persiani.397 Ammiano riesce in poche parole a descrivere molto bene la situazione, a ulteriore dimostrazione dell’inestimabile valore della sua opera. Da questa parole deduciamo la consapevolezza romana del fatto che, dopo i recenti successi ottenuti nell’ambito dell’erosione del sistema fortificato romano in Mesopotamia, Shapur avrebbe senza dubbio cercato di infliggere un’ulteriore spallata. In una situazione così delicata, era, come di consueto, indispensabile per i Romani avere la certezza di non doversi guardare da minacce inattese e in aree ritenute “coperte”. Un voltafaccia armeno sarebbe stato estremamente pericoloso, per Costanzo. Da qui deriva la saggia e costante attenzione dell’Augusto al mantenere legate alla propria causa le principali variabili strategiche "umane" dell’area. Molto significativo il riferimento ai satrapi al di là del Tigri, che ci riporta ancora una volta a constatare quanto dovesse essere fluttuante e instabile la posizione delle satrapie transtigritane, legate a Roma dal trattato del 299, ma di fatto entità su cui il controllo romano era piuttosto debole. Un’altra azione “diplomatica” molto importante, questa volta sul fronte interno, fu l’invio del notarius Gaudenzio in Africa, regione da sempre fondamentale per qualunque imperatore, trattandosi di uno dei principali “granai” dell’impero, con lettere per il comes Crezione e per i governatori civili, allo scopo di istruirli sulle attività da intraprendere per impedire che la regione potesse cadere nelle mani di Giuliano. Furono concentrate, nelle aree prospicienti a quelle da cui Giuliano avrebbe potuto lanciare un invasione via mare398, truppe scelte tra le unità limitanee dell’Africa, che erano , appunto, sotto il comando del comes Africae; alcune vennero fatte giungere dalle due Mauretanie. In effetti, sottolinea Ammiano, l’iniziativa ebbe successo, poiché nemmeno un soldato nemico sbarcò in Africa, malgrado fosse riscontrabile una concentrazione di truppe di Giuliano in Sicilia, da capo Pachino al Lilibeo, pronte ad approfittare di eventuali occasioni, che non si presentarono mai.399 Costanzo, preparata la cornice strategica per la stagione, si trovava però di nuovo con un dilemma da risolvere: doveva infatti scegliere il fronte prioritario su cui agire direttamente tra quello interno e quello mesopotamico , cioè 396 AM XXI,5,7 AM XXI,5,8 398 AM XXI,7,4: territori prospicienti Italia ed Aquitania: la menzione dell’Aquitania (e in parte anche quello dell’Italia) è piuttosto sorprendente, ma il senso di ciò che Ammiano intende è comunque chiaro. 399 AM XXI,7,1-5 397 114 se dovesse prima assalire Giuliano e le legioni lontane, oppure respingere i Parti che minacciavano di attraversare l’Eufrate. Finalmente, dopo molte incertezze, e dopo essersi consigliato con i suoi generali, giunse alla decisione di porre fine alla guerra più vicina, o di mitigarne almeno la gravità. 400 Dopodiché, sostiene Ammiano, Costanzo avrebbe potuto con più tranquillità volgersi verso Illirico e Italia e stroncare sul nascere l’iniziativa di Giuliano. L’imperatore, dunque, mossosi con anticipo da Antiochia in seguito ai sentori dei preparativi persiani, varcò l’Eufrate a Capersana e si stabilì ad Edessa, il suo quartier generale avanzato, restando in attesa che la sua intelligence gli portasse notizie su dove Shapur avrebbe attraversato il Tigri.401 Le informazioni, però, tardavano, e Costanzo esitava sul da farsi, avendo di fatto, nel contesto mesopotamico, due fronti su cui agire: la difesa dall’incipiente invasione nemica, e l’eliminazione della testa di ponte persiana a Bezabde. Dalle parole di Ammiano sembra di poter dedurre che Costanzo ritenesse prioritario il prendersi cura dell'esercito di Shapur, e non intendesse distogliere risorse da ciò per eroderle in un assedio che già si era rivelato arduo l’anno prima. Allo scopo di non restare del tutto inattivo, egli inviò i suoi magistri peditum (Agilone, il successore di Ursicino nella carica) ed equitum (Arbizione) a porre presidi sul Tigri, in modo da osservare le intenzioni del nemico, con l’ordine però di non opporsi, ma di ritirarsi, qualora Shapur avesse cercato di varcare il fiume, chiaramente con lo scopo di non rischiare che il nemico scegliesse, a quel punto, di ritirarsi. Questa accortezza, che abbiamo già rilevato in occasione della campagna del 348, dimostra che l’attitudine di Costanzo a cercare lo scontro campale risolutivo non era cambiata, e Ammiano gliene dà atto.402 Probabilmente questa è la struttura strategica base che nell'ottica di Costanzo la campagna romana doveva assumere su questo fronte e in questo contesto: l'aveva attuata nel 348 con risorse ridotte, e aveva probabilmente cercato di attuarla, non riuscendovi per cause esterne, anche che nel 360, appena, cioè, ritornato in oriente. Finalmente tutto sembrava andare come doveva. A questo punto accaddero però due eventi che cambiarono del tutto le sorti della campagna: Costanzo ricevette la notizia che Giuliano, avanzato rapidamente, già minacciava la Tracia; subito dopo (ma questo dettaglio cronologico suggerito da Ammiano è da prendere con le pinze) egli venne a sapere che, poiché gli auspici erano sfavorevoli, l’esercito di Shapur era rientrato in patria rinunciando all’offensiva. L’Augusto allora si affrettò a riunire il suo esercito e a condurlo a Hierapoli, lasciando in Mesopotamia solo la sua guarnigione stabile403, cioè i limitanei e l’esercito mobile orientale. Costanzo pronunciò davanti a suoi il suo ultimo discorso, con cui annunciava l’imminente guerra civile. I suoi gli dimostrarono fedeltà e accolsero con entusiasmo le sue parole, come si compete ad un vero condottiero: ricordando i suoi inizi, con le truppe di suo padre che gli avevano dimostrato sfiducia e poco rispetto, questo episodio è un degno saluto all’imperatore che poco dopo, sulla strada per affrontare Giuliano, morirà. Vale la pena di soffermarsi sulla decisione di Shapur di ritirarsi: ovviamente è poco credibile che gli auspici fossero la vera causa di questa scelta; Costanzo stava aspettando, in forze, finalmente, 400 AM XXI,6,1 Ammiano, in linea con le convinzioni strategiche dimostrate nella sua narrazione dei fatti del 359, dà nuovamente per scontato che Shapur avrebbe cercato la penetrazione profonda in Siria, senza quindi agire su Nisibi. 401 AM XXI,7,7 402 AM XXI,13,1-3 403 AM XXI,13,6-8 115 l’esercito persiano, con l’evidente intenzione di cercare la battaglia campale; probabilmente questo era lo stesso obiettivo che Costanzo avrebbe voluto perseguire l’anno prima, se l’usurpazione di Giuliano non glielo avesse impedito. Shapur dovette valutare che in mancanza di condizioni di netto vantaggio strategico, come aveva avuto, in misura variabile, lungo tutti gli ultimi 25 anni, era meglio cercare di risolvere la questione mesopotamica per altre vie. Era la prima volta che Costanzo poteva usufruire contemporaneamente delle due condizioni fondamentali per avere equilibrio strategico con Shapur: le risorse indivise (seppure l’usurpazione di Giuliano limitò in parte questo fattore) e la possibilità di concentrarle in Mesopotamia. E alla prima prova dei fatti, Shapur si tirò indietro. Costanzo però era morto, e ora toccava ad altri gestire quest'area tribolata; l'Augusto lasciava dietro di sé un fronte mesopotamico intatto, senza aver ceduto, in 25 anni di lotta contro Shapur ma anche, o forse soprattutto, contro le limitazioni e i vincoli che lo avevano tormentato, un palmo di terreno ai Persiani, se si eccettua la città di Bezabde, il cui valore strategico, isolato dal contesto circostante, tuttora saldamente romano, era molto limitato. E, dopo più di due decenni di guerra contro Shapur, il più grande e il più leale tra i suoi nemici, l’ultima immagine che Costanzo ebbe del re persiano, ancora impressa nella retina quando chiuse gli occhi per sempre, era quella delle sua schiena. 21. UN BILANCIO Le fonti antiche, su cui spesso anche analisi moderne vengono acriticamente costruite, sono generalmente ostili a Costanzo, nonché fortemente critiche della sua politica estera e delle sue abilità militari. Si possono riscontrare due "linee d'accusa" ricorrenti, entrambe prevalentemente conseguenti agli eventi sviluppatisi sul fronte persiano. La prima, è volta a rimproverare Costanzo per la sua indolenza e mancanza d'iniziativa; è Libanio404 a portare l'attacco più violento secondo questa linea, e lo fa accusando l'imperatore di aver avuto immense risorse a disposizione, ma di aver, malgrado ciò, rinunciato a qualunque iniziativa offensiva, e di essere sempre stato impreparato nel difendere il territorio romano, venendo regolarmente anticipato da Shapur, ed essendo dunque colpevole della drammatica sorte delle città mesopotamiche espugnate dal re. Libanio arriva addirittura a concludere che è inevitabile pensare ad un accordo di Costanzo con Shapur atto a concedere a quest'ultimo mano libera in Mesopotamia. Naturalmente è facile riscontrare in queste accuse, contenute nell'orazione XVIII - quella in morte di Giuliano - un atteggiamento volto alla mera diffamazione di Costanzo; come abbiamo già avuto occasione di sottolineare, quest'orazione è infatti diffusamente considerata del tutto inattendibile in ambito storiografico; le considerazioni che essa contiene, però, per quanto evidentemente infondate, rappresentano la tipica critica che, anche in tempi moderni, viene mossa a Costanzo quando se ne osservano le vicende "persiane" senza una adeguata indagine sulla reale natura strategica delle stesse405; è, comunque, una critica di cui diverse recenti, autorevoli revisioni hanno mostrato tutta la debolezza406. Oltretutto, questo passo di Libanio è fortemente in contrasto con quanto scritto dallo stesso Libanio407 quindici anni prima a lode della strategia prudente di Costanzo nei suoi primissimi anni come Augusto (ved. cap. 8), nell'ambito di un'orazione che aveva sì intenti panegiristici, ma il cui 404 Lib. Or. XVIII,205-207 ad. es. Seeck 1919 406 ad. as. Andreotti 1938, Blockley 1989; Blockley 1992; Nicasie 1998 407 Lib. Or. LIX, 73-119 405 116 valore come fonte di informazioni per un'analisi storica attendibile è considerato notevolmente superiore rispetto ai lavori più tardi del retore. La seconda linea d'accusa è invece diretta a sottolineare i pessimi risultati ottenuti da Costanzo (o dai suoi generali) nella battaglie campali contro nemici dell’impero. Ammiano pone queste considerazioni in contrasto con gli esiti generalmente positivi ottenuti, invece, nelle battaglie combattute nell'ambito di guerre civili: Come la fortuna fu sempre avversa e infausta a questo principe nelle guerre esterne, così gli fu benigna nelle lotte civili, ove andò superbo dei successi ottenuti e si macchiò orrendamente del sangue sgorgato dalle piaghe dell'impero408 In realtà la scarsa obiettività di questo passo di Ammiano è chiaramente visibile, "a priori" ed indipendentemente da ogni considerazione relativa al fronte persiano, dal suo trascurare, nel suo giudizio, i notevoli successi ottenuti da Costanzo sul Reno e sul Danubio tra il 354 e il 359. Eutropio, invece, esprime così la sua critica: [Costanzo] ebbe a subire gravi calamità da parte dei Persiani, le sue città vennero spesso prese, le sue fortezze assediate, e i sui eserciti distrutti; né ottenne mai una singola vittoria sul campo con Shapur, se non a Singara, quando la vittoria avrebbe certamente potuto essere sua, ma fu persa a causa del l'eccessiva brama dei suoi soldati che contrariamente ai dettami della pratica militare , insubordinatamente e stupidamente cercarono la battaglia quando il giorno stava finendo409 La sensazione di un esito generalmente favorevole ai Persiani nei pochi scontri campali registrati dalle fonti è effettivamente piuttosto netta e riscontrabile in via più o meno diretta in diversi autori410: anche nel caso di Eutropio, però, è evidente la mancanza di obiettività a priori, in quanto una caratteristica basilare dell'atteggiamento di Costanzo fu proprio la sua accorta gestione delle risorse militari, e, per quanto possiamo dedurre da ciò che sappiamo, le perdite persiane globalmente superarono notevolmente quelle romane nell'ambito di questi venticinque anni: Costanzo non ebbe mai alcun esercito distrutto. Inoltre, nel rimarcare come caratteristica ricorrente del regno di Costanzo gli assedi alle città e le fortezze espugnate, Eutropio (come d'altronde Libanio, ved. sopra) cade, intenzionalmente o meno, nell'errore di estendere a tutta la durata dell'impero di Costanzo l'esito sfavorevole di due sole campagne, quelle del 359 e del 360.411 La critica di Eutropio, in definitiva, si regge unicamente su considerazioni relative all'esito tattico di eventi singoli, seppure relativamente vistosi nel contesto privo di episodi bellici rilevanti. Zonaras sostiene, infatti, concetti simili - anche se con più equilibrio - sottolineando come l’imperatore Costanzo spesso si scontrò coi Persiani, avendo la peggio e perdendo molti dei suoi uomini. Anche moltissimi dei Persiani caddero, e Shapur stesso fu ferito.412 Zosimo, nell’accusare Gioviano all’atto della cessione di Nisibi ai Persiani, ricorda che 408 AM XXI,16,15; analogo concetto è proposto in Epit.de Caes. XLII,18 Eutr. X,10,1 410 AM XVII,5,15; Fest. Brev. 27; Zonar. XIII,5,33; ved. cap. 11 e nota 195 411 Blockley 1989, p.466 nota questo aspetto soprattutto in relazione al passo di Libanio. 412 Zonar. XIII,5,33 409 117 Costanzo aveva sostenuto tre guerre contro i Persiani, ne era sempre uscito sconfitto, eppure si era tenuto Nisibi, e aveva fatto ogni sforzo per salvarla, anche quando la città era stata assediata in condizioni di estremo pericolo.413 Oltre alla possibile malafede per ragioni politiche e religiose, tutte queste critiche414 mostrano una forte limitazione che le accomuna: mancano completamente di visione strategica (o, in alternativa, ne offrono una distorta), e si limitano a valutazioni tattiche sugli eventi “puntuali”, avulsi dal loro contesto, un contesto che non viene percepito o viene intenzionalmente nascosto. Con questo articolo si è voluto mostrare che le critiche ostili alla gestione da parte di Costanzo II del fronte persiano si infrangono davanti ad una analisi che ne porti alla luce le caratteristiche strategiche. Nell'ottica di un bilancio delle guerre persiane di Costanzo, è assolutamente necessaria un'ulteriore premessa a proposito delle fonti. Delle loro rispettive attitudini nei confronti dei protagonisti dei fatti raccontati abbiamo già rapidamente discusso; ciò che va sottolineato ora, invece, è la diversa profondità ed estensione con cui esse descrivono gli eventi. Da una lettura superficiale delle fonti, si ricava inevitabilmente la sensazione che dopo vent’anni di stasi o poco più, gli ultimi tre anni prima della morte di Costanzo siano stati caratterizzati da un esponenziale incremento dell'intensità bellica sfociato in eventi drammatici per l'impero romano. Ebbene, questa è un'impressione ingannevole ed errata, generata dalla peculiare tipologia e dal punto di vista completamente diverso che una fonte come Ammiano vanta rispetto ai panegirici, alle opere agiografiche o alle cronache, su cui dobbiamo quasi esclusivamente basarci nello studio dei fatti accaduti prima del 354. Ammiano scrive un'opera storica, è un militare, e soprattutto vive gran parte di ciò che racconta in prima persona; la critica moderna si è in effetti chiesta se episodi come l'assedio di Amida del 359 siano realmente importanti, nel contesto generale, come si deduce dalla lettura di Ammiano, o se invece questo sia solo il risultato di una magnificazione eccessiva con cui lo storico, per scopi politici o per semplice punto di vista, tende a dipingerli. Nell'ambito stesso dell'opera di Ammiano si notano d'altronde rilevanti differenze, cui è già stato accennato, tra la descrizione della campagna del 359 e quella relativa al 360; quest'ultima appare, dalle pagine dello storico, nettamente meno sentita, drammatica e convulsa della precedente, ma mostra, oggettivamente, esiti strategici più significativi. Una sforzo da compiere, dunque, nell'ottica di un bilancio conclusivo, è senz'altro quello in direzione di un'analisi dei fatti più equilibrata rispetto alla loro dimensione apparente che le fonti ci mostrano dai loro rispettivi punti di vista. I tre assedi di Nisibi, ad esempio, furono certamente di entità, drammaticità, difficoltà paragonabili a quello di Amida, e non necessariamente la campagna del 359 fu la più grandiosa o la più complessa di questi anni. Con questa premessa, e se le ipotesi che abbiamo seguito nel corso di questo articolo sono corrette, si possono chiaramente individuare due linee strategiche ben precise, seguite fedelmente dall'imperatore dei Romani e dal re dei Persiani nel corso dei 25 anni che li videro fronteggiarsi sul Tigri. L'obiettivo di Shapur era notoriamente la restituzione di gran parte dei territori passati ai Romani nel 299, come da lui stesso dichiarato nell'ambito delle attività diplomatiche del 358-359 e come suggerisce il successivo trattato del 363 da lui strappato a Gioviano. 413 Zos III,33,3 Critiche di natura simile a quelle menzionate sono portate da: Socrat. HE II,25; Hyeron.Chron. a.2363; Ioann.Ant. fr. 172 414 118 Per ottenere questo risultato, egli alternò costantemente periodi di attività di disturbo a bassa intensità sulla frontiera ad offensive di scala maggiore finalizzate ad indebolire gradualmente la rete di fortificazioni che presidiava quei territori. Possiamo infatti plausibilmente supporre che tutte le maggiori offensive persiane di cui le fonti ci trasmettono informazioni sufficienti, avessero come obiettivo l'assedio e l'eliminazione (o la presa, se ritenuto strategicamente vantaggioso) dei capisaldi su cui tale rete difensiva si reggeva. Il raggiungimento di questo obiettivo avrebbe permesso a Shapur di riprendere progressivamente il controllo della Mesopotamia – o, meglio, della parte di essa di suo interesse strategico. Malgrado i Romani temessero molto (come Ammiano testimonia chiaramente nel raccontare la campagna del 359) un possibile tentativo di penetrazione diretta in Siria da parte di Shapur, il re persiano non sembra aver mai considerato una simile soluzione; non solo la Siria non era un suo obiettivo, ma evidentemente egli era saggiamente consapevole che, se anche lo fosse stato, si sarebbe trattato di un obiettivo necessariamente subordinato alla disabilitazione del sistema di difesa in profondità romano in Mesopotamia, in mancanza della quale qualunque puntata al di là dell'Eufrate, oltre ad essere enormemente rischiosa, avrebbe potuto assumere, nella migliore delle ipotesi, un valore puramente "dissuasivo", di dubbia utilità nel contesto strategico del momento. Dall'altra parte, Costanzo aveva invece come evidente obiettivo il mantenimento della situazione sancita nel 299. La costante di tutti i suoi 25 anni di impero furono le limitazioni con cui dovette convivere, e la sua strategia, inevitabilmente, ne risentì e dovette adeguarsi a ciò. Proprio per la variabile tipologia di vincoli e di restrizioni che egli dovette subire durante il suo impero, nell'ambito della sua generale strategia di conservazione territoriale egli dovette continuamente mutare le modalità di applicazione della medesima adattandola ai contesti in cui si veniva a trovare: una prudente tendenza a mantenere una bassa intensità bellica supportata da una sostenuta attività diplomatica nei primissimi anni in cui le risorse erano estremamente limitate; una maggior confidenza dal 340 in poi415 quando dovette dividere le risorse col solo Costante, e praticò una difesa attiva caratterizzata dal ricorrente tentativo di spingere Shapur ad una battaglia campale risolutiva che riconducesse la questione al tavolo delle trattative con Roma in posizione così vantaggiosa da poter confermare le linee generali del trattato del 299; un sistema di difesa passiva basato sulla rete fortificata mesopotamica e sulle relative truppe di guarnigione dal 350 al 353, quando dovette abbandonare il fronte mesopotamico per curarsi delle questioni dinastiche ed opporsi a Magnenzio, e dal 354 al 359 quando combattè vittoriosamente sui fronti del Reno e del Danubio416; una insistita ricerca dello scontro campale risolutivo in territorio mesopotamico negli ultimi 3 anni quando ebbe finalmente la possibilità di gestire le risorse imperiali indivise e, almeno in linea teorica, l'opportunità di concentrarle in oriente. Mantenendo il suo obiettivo ben fermo, dunque, egli seppe perseguirlo con strumenti strategici abilmente modificati a seconda delle circostanze. Quando ebbe la possibilità di dedicarsi in prima persona al fronte persiano, egli tenne costantemente un atteggiamento volto alla ricerca dello scontro risolutivo, confidando nella superiorità tattica dell'esercito romano; conoscendo però la ricorrente strategia difensiva persiana che consisteva nel non concedere uno scontro in campo aperto agli eserciti invasori, e nello sgretolarli gradualmente con una guerra d'attrito, Costanzo capì che le occasioni migliori per affrontare l'esercito di Shapur in una grande battaglia campale le avrebbe avute non con "provocatorie" penetrazioni profonde in 415 416 Le battaglie campali più significative elencate da Festo furono presumibilmente combattute in questi anni (cap. 11) Costanzo condusse campagne in Rezia dal 354 al 356 , e combattè in Moesia e Pannonia nel 358 e 359. 119 Persia, ma in territorio romano, attendendo quindi che fosse il re persiano a prendere l'iniziativa ed a varcare in forze il Tigri.417 Questa struttura strategica è quella che vediamo cercata in maniera ricorrente da Costanzo quando ne ebbe l'opportunità: la campagna del 348 che culminò nella maggiore tra le battaglie di Singara, fu probabilmente uno dei rari casi in cui Costanzo riuscì ad attuarla in pieno, anche se allora aveva risorse limitate e divise ( e proprio per questo probabilmente il re persiano accettò di assecondare Costanzo sfruttando anzi la su stessa strategia allo scopo di condurne l'esercito in trappola), e la conclusione della campagna, col ritorno di Shapur in Persia senza aver apparentemente avuto modo di porre assedio a Singara, è coerente con lo svilupparsi della campagna del 361, quando, in circostanze simili ma con Costanzo più "ricco" di risorse, Shapur non varcò nemmeno il Tigri. Indubbiamente anche nel 359 e nel 360, cioè nelle uniche due stagioni, oltre al 361, in cui l'Augusto riteneva di poter essere presente sul fronte mesopotamico con risorse indivise, il suo piano primario era questo, anche se le circostanze gli impedirono di applicarlo. Shapur, probabilmente, non solo era conscio di questa attitudine strategica di Costanzo, ma la temeva, e questo impedì a Costanzo di ottenere lo scontro che voleva: se proviamo a elencare le principali offensive persiane in Mesopotamia a noi conosciute (relative, naturalmente, a questi anni), questo concetto risalta con chiarezza. Tutti e tre gli assedi di Nisibi furono effettuati con perfetta puntualità quando le circostanze portarono Costanzo ad essere assente dall'area. Sappiamo che nel 348 Shapur invase la Mesopotamia, ma lo fece proprio allo scopo di sfruttare questa attitudine strategica di Costanzo e di attirarne l'esercito in trappola presso Singara, il che gli riuscì solo in parte, e condusse comunque la campagna ad una rapida conclusione con entrambi gli eserciti fortemente danneggiati.418 Nel 359 e 360 Shapur seppe che Costanzo, malgrado i suoi ottimistici piani, era, infine, forzatamente assente dalla zona d'operazioni: per questo assunse atteggiamenti diplomatici aggressivi e attuò le due invasioni; nell’ambito della seconda, probabilmente, tornò in Persia non appena ebbe sentore dell'arrivo imminente dell'imperatore; nel 361, con l'esercito praesentalis schierato in Mesopotamia, gli auspici di Shapur divennero provvidenzialmente negativi e la campagna fu abbandonata. E' evidente che Shapur non era disposto a concedere grandi battaglie potenzialmente risolutive, e considerava dunque inopportuno un atteggiamento aggressivo in presenza di Costanzo e del suo esercito: la sua strategia, in definitiva, fu un costante tentativo di sfruttare, ogniqualvolta si presentarono, le limitazioni di vario genere che Costanzo dovette subire, nella (rara) mancanza delle quali ebbe invece un atteggiamento chiaramente remissivo. Una critica frequentemente mossa a Costanzo è la di mancanza di iniziativa, ovvero la sua riluttanza a compiere, anche nell'ambito di una strategia generalmente difensiva, "spinte" offensive in territorio persiano, a scopo dissuasivo, o per puntare alla distruzione dell'esercito sassanide (considerato che quest’ultimo era un suo chiaro obiettivo), sul modello di quella poi organizzata da Giuliano nel 363. La critica risulta però infondata davanti ad una analisi approfondita e obiettiva dei suoi venticinque anni da Augusto. Progettare una simile impresa sarebbe stato insensato finché le risorse furono del tutto insufficienti ad un simile scopo, essendo suddivise tra lui e uno o due altri Augusti senza che vi fosse tra loro alcuna spinta a collaborare (sia Costantino che Giuliano poterono invece contare su risorse indivise 417 E' pertinente sottolineare ancora come questo fatto sia chiaramente riscontrabile nell'elencazione delle maggiori battaglie combattute su questo fronte durante l'impero di Costanzo da parte di Festo e altre fonti, in cui si nota che esse ebbero tutte luogo in territorio romano (cap. 11) 418 Vedasi, a proposito degli scontri avvenuti presso Singara durante il regno di Costanzo, la nota 128. 120 quando pianificarono le rispettive campagne offensive in Persia); sarebbe stato, oltre che insensato, anche impossibile finché le contingenze interne o su altri fronti esterni tennero Costanzo lontano dalla Mesopotamia; si arriva così al 360. Gli ultimi due anni sono gli unici in cui Costanzo avrebbe, volendolo, potuto pianificare (ma non attuare, per l'imprevedibile usurpazione di Giuliano) un'invasione della Persia. Ma non lo fece, e probabilmente non lo avrebbe fatto nemmeno prima, se anche (e non fu così) le condizioni avessero reso tale scelta praticabile. Per quanto discusso poche righe sopra, egli semplicemente non considerava questa un'opzione strategica adatta al risultato da perseguire: l'unica sua penetrazione profonda in territorio persiano a noi nota è quella del 343 in Adiabene, ma come già discusso le finalità furono probabilmente avulse dal perseguimento del suo obiettivo strategico, o lo riguardarono in maniera molto indiretta. Per valutare questa particolare scelta strategica di Costanzo, vale la pena di osservare brevemente ciò che accadde negli anni immediatamente successivi alla sua morte. Libanio419 riporta, per il 362, un'offerta da parte di Shapur a Giuliano, nuovo imperatore romano, al fine di intavolare trattative diplomatiche. Questo è di per sé un fatto significativo. Purtroppo, Libanio non dice nulla riguardo al contenuto di tale proposta: non sapremo mai se si trattasse di un'accettazione totale o quasi dello status quo esistente420 davanti al fatto, constatato durante l'abortita campagna del 361, che le risorse imperiali erano di nuovo indivise nelle mani di un solo uomo, e minacciosamente concentrate in oriente, o se fosse piuttosto un reiterato tentativo di imporre le proprie richieste territoriali al nuovo Augusto. Indubbiamente, l'atteggiamento remissivo mostrato da Shapur nei confronti di Costanzo ogniqualvolta egli era fisicamente presente sul fronte col suo esercito, soprattutto nel 361 quando egli era unico imperatore, farebbero pensare che la prima ipotesi sia la più plausibile. In questo caso, Costanzo, fosse stato in vita, avrebbe certamente accettato di trattare a quelle condizioni, e avrebbe forse coronato la sua lunga marcia verso la conferma, in linea generale, del trattato del 299. Giuliano, invece, rifiutate le offerte di trattativa da parte dei Persiani, lanciò nel 363 un'offensiva che raccolse ottimi risultati a livello tattico, giungendo fin sotto le mura di Ctesifonte, ove i suoi generali lo dissuasero a fatica da un assedio che sarebbe risultato vano e probabilmente letale, considerato che, come prevedibile, Shapur stava attuando la consueta strategia di rifiuto della grande battaglia campale, e sarebbe probabilmente intervenuto a schiacciare tra sé e le mura della capitale persiana l'esercito romano quando questo fosse stato ormai provato da un lungo assedio. Il fallimento strategico della campagna si ebbe quando, al suggerimento dei suoi consiglieri di ritirarsi lungo l'Eufrate, Giuliano che però era andato sempre più estraniandosi dai suoi consiglieri421 (secondo quel climax con cui Ammiano caratterizza l’evoluzione del temperamento del principe che finisce per venire inghiottito in una spirale di hybris e autoritarismo) oppose il suo rifiuto; ritenendo che in tale risoluzione [ritirarsi lungo l’Eufrate] non vi fosse ‘gloria’, decise di continuare verso il nord, lungo il Tigri, per ricongiungersi all’armata di Procopio: egli sognava il grande scontro in campo aperto con Shapur422 419 Lib.Or.12,76-77; 17,19; 18,164-165 Barcelò 1981, p.97 421 Anche questa impulsività e il conseguente rifiuto di seguire i suggerimenti dei suoi consiglieri sono in contrasto con la ricorrente attenzione posta da Costanzo alle opinioni dei suoi generali; vedansi AM XIV,11,14; XV,4,1; XVII,5,9; XXI,16,3 422 Tantillo 2001, p.112 420 121 Una corruzione nel testo di Ammiano ci impedisce di sapere perché la forza di Procopio non intervenne, ma indipendentemente da questo, la scelta di Giuliano di addentrarsi in Persia a stagione inoltrata bruciando le proprie navi fluviali che erano fondamentali come supporto logistico (altro episodio che andrebbe indagato molto più profondamente di quanto sia possibile fare in questa circostanza), segnò l'esito della campagna. Malgrado la vittoria di Maranga, in cui l'esercito romano sconfisse il nemico in uno scontro di entità relativamente superiore a quelli normalmente concessi dai Persiani, ma ove Giuliano morì, l'armata imperiale si trovò a 100 miglia dal territorio amico, senza aver danneggiato l'esercito nemico in maniera risolutiva, in balia della "terra bruciata" di Shapur, e continuamente tartassata da improvvisi attacchi e ritirate nemici che, parallelamente alla fame, al caldo e agli stenti, la erodevano gradualmente in maniera inarrestabile. Shapur non avrebbe potuto sperare di meglio: si trattava della perfetta applicazione della tipica strategia difensiva persiana. Una situazione disastrosa per i Romani, su cui Gioviano, il successore di Giuliano, poté influire, nel bene o nel male a seconda della critica, solo in maniera estremamente limitata, e nemmeno Ammiano si azzarda, in effetti, a sostenere il contrario.423 Egli si trovò costretto, per salvare ciò che restava dell'esercito (evitando così di lasciare campo completamente libero ai Persiani nelle stagioni successive), ad un patto in cui Shapur otteneva le sue rivendicazioni territoriali424, anche se di fatto egli non reclamò tutto ciò che era stato perso nel 299425 : il trattato del 363 prevedeva infatti (per una durata di 30 anni - e la definizione di una durata temporale era una parziale innovazione, cessando solitamente questi accordi alla morte dei contraenti) la cessione di Nisibi, Singara e Castra Maurorum, previo ritiro di militari e civili romani; la cessazione delle intromissione romane nelle questioni tra Persia e Armenia, e la restituzione di territori transtigritani che però non erano sovrapponibili a quelli passati ai Romani nel 299. Shapur lasciò infatti ai romani i territori ad ovest del fiume Nymphus, cioè Ingilene e Sophene, che pur erano state persiane, e si riprese solo quelli a est e sud-est, disegnando dunque un confine molto razionale. Il Nymphus segnò così il primo tratto del nuovo confine, fino alla sua confluenza nel Tigri; dopodiché il Tigri costituiva il limes per un breve tratto, finché la ideale linea di separazione tra le due potenze riprendeva a scendere verso sud, attraverso il Tur'Abdin, in modo che Rehimene (di cui non conosciamo l'esatta collocazione, probabilmente a ovest del Tigri) e Zabdicene fossero separate dalla porzione di Mesopotamia ancora romana.426 423 Ammiano si limita a rimpiangere il fatto che Gioviano non cercò di raggiungere la Corduene prima di cedere e di venire a patti con Shapur; oltre che un "consiglio" probabilmente molto difficile da applicare in pratica, e che in caso di un non improbabile esito negativo avrebbe potuto portare davvero all'annichilimento dell'esercito romano, resta la fondamentale questione della dubbia posizione diplomatica della Corduene, che Ammiano stesso, come abbiamo già mostrato (cap. 5), non riesce a descrivere in maniera univoca; rimane dunque qualche solido dubbio sul fatto che un tentativo di raggiungere la Corduene - il che costituisce in ogni caso l'unico sostanziale oggetto dei rimproveri di Ammiano a Gioviano - sarebbe stata una scelta caratterizzata da reale applicabilità. 424 AM XXV,7,9 425 Blockley 1992, pp. 27-30 426 Blockley 1992, p. 27 122 Fig. 5: Gli effetti del trattato del 363: la linea punteggiata descrive il nuovo confine. (Blockley 1992) Shapur, con queste richieste tutto sommato ragionevoli, volte ad eliminare il minaccioso saliente romano in Persia, dimostrò che anche per la Persia, come per Roma, la questione dei confini mesopotamici era generalmente un'urgenza più difensiva che offensiva: per entrambi il controllo di quei territori contesi dava, oltreché vantaggi economici legati soprattutto alla gestione di Nisibi, una posizione di vantaggio strategico utilizzata fondamentalmente come deterrente nei confronti dell'altra potenza, e permetteva la costituzione di una sorta di solido cuscinetto difensivo davanti a quelli che molto probabilmente erano percepiti come i reali confini: il Tigri per la Persia e l'Eufrate per Roma. In effetti va detto che questa sistemazione portò a un lungo periodo di stabilità in Mesopotamia427: Valente si rifiutò di considerare il trattato decaduto alla morte di Gioviano, e ne onorò i termini; i Persiani non utilizzarono mai le loro conquiste territoriali per minacciare la Siria, dimostrando che i timori romani in questo senso erano infondati. Nessuna fonte riporta le motivazioni di Giuliano nel lanciare la sua offensiva, seppure persino in Ammiano428 si riscontri un clima tutt'altro che di unanime approvazione alla sua vigilia. L'ipotesi più plausibile è anche quella più ovvia, cioè che un tale atteggiamento fosse semplicemente in linea con la sua mentalità strategica. Difficilmente Giuliano cercava una conquista territoriale, più probabilmente la sua era da intendersi come una singola campagna; non è questa la sede per discuterne le attitudini, ma dalla sua vincente gestione del fronte renano, si deduce come la sua prioritaria scelta strategica fosse sempre stata quella di imporre la pace alle condizioni di Roma con campagne offensive "dissuasive" tanto 427 Vi furono comunque contrasti tra Roma e Persia nei decenni successivi, ma generalmente riguardarono l'Armenia, forse anche in seguito al fatto che la sua condizione dopo il trattato del 363 rimase piuttosto vaga. 428 AM XXIII,1,6-7; AM XXIII,5,4 123 violente da fungere per molto tempo da deterrente a qualunque tentativo di rialzare la testa da parte dei popoli sconfitti. Egli, e qui potrebbe riscontrarsi una sua prima errata valutazione, cercò forse di trasportare sul fronte persiano un tipo di atteggiamento strategico che era risultato vincente altrove, ma che non necessariamente era "esportabile" ovunque, e non era probabilmente applicabile alla Persia come lo era stato per i regni degli Alamanni o dei Franchi. In quest'ottica la sua iniziativa può forse, in senso generico, essere intesa come "difensiva", nel senso che il suo scopo era presumibilmente il porre fine per molto tempo e con molta chiarezza alle richieste territoriali dei Persiani, e riconfermare un trattato nettamente favorevole a Roma tramite una significativa prova di forza. Si potrebbe dunque arrivare a considerare questa di Giuliano come una prosecuzione, con attitudine marcatamente più aggressiva, di quella difesa attiva ideata e portata avanti per anni da Costanzo. Così fu, perlomeno, finché la distruzione dell'esercito persiano restò, anche per Giuliano, finalizzata ad un più alto obiettivo strategico - che inevitabilmente poneva vincoli per poter essere cercato e raggiunto (come, ad esempio, la conservazione delle risorse militari). Egli, invece, dopo il mancato assedio a Ctesifonte, perse apparentemente di vista il livello strategico della sua offensiva, e cominciò a cercare lo scontro campale con Shapur in maniera ossessiva, come obiettivo fine a se stesso, sacrificando al suo raggiungimento qualunque vincolo strategico. Lo perseguì, infatti, mettendo un esercito che probabilmente sentiva ormai come "suo" e non più come una preziosissima risorsa di Roma, in una situazione - per usare un eufemismo estremamente rischiosa, il che era un gravissimo pericolo non solo nell'ambito della campagna in corso, ma anche, e soprattutto, nell'ottica della difesa strategica dell'impero negli anni successivi. In questo si riscontra una differenza radicale e fondamentale nel suo approccio alla gestione delle risorse rispetto a quello mantenuto fino a due anni prima da Costanzo. Costanzo, e qui sta uno dei suoi meriti maggiori, non perse mai di vista, parallelamente alle vicende della singola campagna, l'obiettivo strategico generale fissato nell'interesse dello Stato: conservazione territoriale e delle risorse militari. Oltre a ciò, la campagna del 363, a parte ogni altra considerazione specifica, dimostrò come, a parità di obiettivo (la distruzione dell'esercito nemico per imporre un trattato vantaggioso), la scelta di Costanzo di privilegiare l'attesa dell'iniziativa nemica per dare battaglia in territorio romano a scapito di offensive su larga scala in territorio nemico, pagò ampiamente: gli enormi vantaggi logistici e la considerazione che, in questo contesto, un rifiuto di accettare battaglia da parte dei Persiani sarebbe sfociato nel fallimento della loro campagna senza che l'esercito romano fosse minimamente intaccato, sono elementi significativi, in quanto proprio quelli che decretarono le disastrose conseguenze strategiche della campagna di Giuliano. In un certo senso, con l'avvento di Giuliano si invertirono i ruoli strategici: l'aggressivo Shapur restò sulla difensiva, in attesa dell'iniziativa del nuovo imperatore, come Costanzo aveva sempre fatto con lui; come tutte le offensive persiane si erano esaurite senza risultati strategici davvero rilevanti e con una significativa erosione delle proprie forze , così quella di Giuliano, se anche egli si fosse ritirato lungo l'Eufrate salvando così se stesso e il proprio esercito, non avrebbe comunque portato ad alcun risultato dal punto di vista strategico, in quanto lo sfuggente esercito persiano sarebbe rimasto intatto e la situazione generale sul fronte mesopotamico completamente immutata, e il tutto sarebbe probabilmente di nuovo passato al vaglio della diplomazia con le due potenze in posizioni equilibrate. L'esito dell'invasione di Giuliano, dunque, è in un certo senso un'ulteriore conferma sia della bontà dell'attitudine strategica generale messa in atto da Costanzo, sia, o forse soprattutto, dell'abilità con cui egli seppe metterla in pratica nei diversi contesti che si trovò a vivere con modalità variabili ma sempre pragmaticamente e realisticamente ancorate all'obiettivo ultimo, il bene dello Stato, ovvero la conservazione delle sue risorse militari e del suo territorio. 124 Definiti i contorni strategici della gestione di Costanzo sul fronte persiano, non ci resta che esaminarne rapidamente i risultati oggettivi. Dal punto di vista della conservazione del territorio, l'esito delle guerre persiane di Costanzo è senza dubbio positivo. In condizioni generalmente sfavorevoli, egli riuscì comunque a mantenere il limes del Tigri immutato, senza cedere una sola spanna di terra a Shapur, con l'unica eccezione della testa di ponte di Bezabde. Questa però costituiva un'entità del tutto priva di rilevanza strategica nel contesto in cui si trovava, tanto che lo stesso Costanzo, dopo aver cercato di riprenderla nella fase terminale della stagione del 360, probabilmente più per attenuare l'esito negativo di quella stessa stagione che per altro, scelse di non mettere a rischio risorse preziose rinunciando ad assediare Bezabde nel 361. Singara e Amida furono smantellate; la loro perdita come centri fortificati indebolì localmente e temporaneamente il sistema difensivo mesopotamico, ma complessivamente le conseguenze di ciò furono trascurabili. Operazioni di questo tipo da parte dei Persiani, prese singolarmente, non avevano infatti rilevanza strategica, nemmeno se coronate da successo. Si trattava di singoli passi nell'ambito di un vasto piano di progressiva eliminazione dei cardini difensivi romani che, per risultare strategicamente rilevante, richiedeva un'azione ed un'erosione continuative, e presupponeva il raggiungimento di un livello di completezza tale da impedire alla rete di funzionare come sistema di difesa in profondità e, a maggior ragione, di essere gradualmente rigenerata dai Romani: tale, insomma, da costituire, sotto questo aspetto, un punto di non ritorno. Come abbiamo avuto occasione di constatare, la presenza di Costanzo, o comunque di rilevanti forze mobili nell'area, aveva però sempre costituito un forte deterrente per Shapur nella progressione di questo piano. Qualora la rinnovata presenza dell'esercito praesentalis (o di un esercito mobile d'Oriente riportato ad un livello adeguato) in Mesopotamia si fosse consolidata, dunque, non solo Shapur avrebbe difficilmente fatto progressi nella riduzione (ancora estremamente parziale e limitata, al momento della morte di Costanzo) del sistema difensivo romano, ma i danni che aveva già arrecato sarebbero stati, gradualmente ma inesorabilmente, riparati dai Romani: come abbiamo visto, nel 363 Singara era già una città abitata, probabilmente sulla strada per tornare ad assumere il suo ruolo strategico429, quando fu ceduta ai Persiani; Amida, che rimase, al contrario, romana anche dopo il 363, riassunse la sua funzione strategica già sotto Valente. Questo, sebbene non si possa assumere nessuna ipotesi come una certezza, fa pensare che col ritorno in Mesopotamia dell'imperatore all'inizio del 361, fosse di fatto cessato per Roma, perlomeno temporaneamente, il reale pericolo di perdite territoriali nell'area o di vedere il proprio sistema di fortificazioni seriamente minacciato da parte di Shapur; l'immediato ricorso del re persiano alla diplomazia nel 362, menzionato da Libanio, per quanto poco conosciuto nei suoi contenuti, pare una significativa conferma in tale direzione. In quest'ottica, l'effettiva rilevanza strategica assunta dalla distruzione di Amida e Singara appare dunque pressoché nulla: i due episodi rimasero eventi fini a se stessi a carattere locale e temporaneo.430 In definitiva, dunque, Costanzo riuscì a ottenere il suo scopo "di fatto", nel senso che "restituì" la Mesopotamia così come la aveva avuta, anche se non ebbe successo nel costringere Shapur ad una accettazione formale dello status quo (a meno che, naturalmente, proprio questo fosse il senso della proposta diplomatica di Shapur nel 362, dopo la sua fallita campagna del 361). 429 Ved. nota 128 Sulla scarsa rilevanza strategica delle distruzioni delle due città e della presa di Bezabde concordano generalmente, con diversi argomenti, i commenti moderni: vedansi ad es. Nicasie 1998, p.167; Andreotti 1938, p.6; Blockley 1989, p.488 430 125 Per quanto riguarda la gestione delle risorse militari, Costanzo fu sempre molto attento e cauto, abituato a convivere con forti limitazioni in questo senso e dunque dotato di una marcata attitudine a rifuggire l'impulsività e a rischiare solo quando strettamente necessario: questo concetto risalta anche nelle istruzioni inviate nel 359 a Sabiniano di cui si è già discusso a lungo. Se fossimo in grado di esprimere numericamente le perdite romane sul fronte persiano in questi venticinque anni, probabilmente noteremmo una loro netta esiguità di fronte a quelle persiane ed ai risultati strategici ottenuti. Questo è un aspetto raramente sottolineato, ma estremamente importante: in un periodo come il tardo impero, la perdita di un esercito di grandi dimensioni poteva produrre conseguenze anche peggiori per lo Stato, in senso globale, rispetto ad una perdita territoriale, e di questo aspetto la gestione di Costanzo mostrò di essere pienamente consapevole: un merito ed una lungimiranza che pochi imperatori tardo-imperiali possono vantare, come gli eventi successivi alla sua morte dimostrano. Il bilancio, nettamente favorevole a Costanzo, nell' "erosione comparata" delle risorse militari delle due potenze, costituisce una voce di primaria importanza nel giudizio strategico globale sul suo operato, ed in questo ambito Costanzo restituì una situazione più favorevole di quella che aveva ricevuto. Complessivamente, dunque, tenuto conto di tutti i fattori, l'impero romano, alla morte di Costanzo, era in una posizione strategica migliore, sul fronte persiano, di quella che egli aveva ereditato. Costanzo fu dunque uno stratega realista, pragmatico, flessibile, abile nell'adattarsi a mutevoli scenari, spesso limitanti, restando fedele ai suoi obiettivi, prudente ma intraprendente e deciso quando ne ebbe la ragionevole occasione; seppe dare il giusto peso all'attività diplomatica, che risultò un fattore costantemente prioritario dal punto di vista strategico; la sua gestione del fronte persiano, in definitiva, fu decisamente positiva e insolitamente finalizzata all'utilità dello Stato (e naturalmente, contestualmente, della dinastia costantinide): anche questo è un aspetto di grande importanza in un periodo come quello tardo-imperiale. Lasciamo dunque che siano le significative parole di Ammiano, cioè di una voce certamente non favorevole, a offrire l'ultima, ma chiarissima, immagine di Costanzo II: Evitò sempre con cura di esporre i soldati ai pericoli e fu quanto mai scrupoloso nell'esaminarne i meriti, così che nel concedere le dignità di palazzo si attenne a rigide norme [...] Assai di rado avvenne che un militare fosse destinato a incarichi civili, mentre solo coloro che si erano temprati nella polvere delle battaglie erano assunti al comando delle truppe.431 Allora Sabino [ “voce” dei cittadini di Nisibi costretti ad abbandonare la loro città, rivolto all'imperatore Gioviano che l'aveva ceduta ai Persiani], cittadino insigne per ricchezza e nobiltà, con prontezza di parola gli disse che Costanzo, pur essendo stato alcune volte vinto dai Persiani nell'infuriare delle guerre, e costretto anche a ritirarsi con pochi uomini nel malsicuro presidio di Hibita nutrendosi di un po' di pane ottenuto con preghiere da una vecchia contadina, non aveva tuttavia perduta nessuna parte dell'impero fino all'ultimo giorno della sua vita.432 431 432 AM XXI,16,3 AM XXV,9,3 126 Bibliografia Andreotti 1938: Andreotti, R. 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Vale la pena ricordare che il concetto di "uniforme" come identificativo di un reparto, di un esercito o di una nazione, è un'idea che si concretizza nel XVII-XVIII secolo, ma che è ben lontana dal mondo romano, dove, per la grande dispersione geografica delle legioni, l'equipaggiamento doveva necessariamente fare riferimento alle caratteristiche (tipologia di tessuti, reperibilità e qualità di forgiatura dei metalli) dei fornitori locali dell'esercito, spesso anche fornitori civili . E' lecito quindi immaginare, all'interno di specifiche tipologie (tunica, elmo, corazza, ecc.), l'esistenza di diversificazioni proprie di un armaiolo o di una fabbrica, o delle particolari richieste della committenza. E' il caso di un tipo di elmo, quello frigio, la cui presenza nell'iconografia (ma anche, come si vedrà in seguito, nell'archeologia) potrebbe segnalare proprio la mancanza di "uniformità" nell'equipaggiamento militare romano. L'elmo nasce (al di là di possibili "progenitori" nel mondo assiro e ittita) in ambiente ellenico, e particolarmente in quello Trace, quasi come evoluzione del copricapo a punta, e con due falde laterali, tipico delle popolazioni di origine Scita. Guerriero Trace, bassorilievi di Persepolis, Iran Bassorilievo assiro da Ninive 1 Sumner 2002; Sumner 2003 130 Bassorilievo Hittita Elmo Trace in stile frigio di età ellenistica Proprio le due caratteristiche falde laterali hanno fatto immaginare che il copricapo venisse ricavato dal pellame, zampe comprese, di un animale di piccola taglia. Usate come sciarpa intorno al mento, queste falde avrebbero protetto in battaglia, a caccia e contro la polvere. La genesi dell'elmo frigio, dal copricapo, sembra però avvenuta non prima della conquista Macedone della Tracia (346-336 a.C.). E' stato anche ipotizzato2 che la sua grande diffusione nel IV sec. a.C. fosse dovuta, principalmente, alla maggiore protezione offerta dalla "cresta frigia" ai formidabili fendenti della spada dei Celti, che proprio in quei tempi invadevano la Grecia. Successivamente l'elmo comincia a diffondersi anche in Italia, nel mondo Campano, Apulo ed Etrusco e, con le campagne di Alessandro Magno, anche in Oriente, da cui peraltro la foggia proveniva. Sarcofago di Alessandro, Museo di Istanbul Un elmo in bronzo in stile frigio, finemente cesellato a losanghe e rosette (conservato al Museum of Fine Arts di Boston), viene riferito al mondo partico. Elmo Partico, M.F.A. di Boston 2 Connolly 1998 131 Una statuetta di oplita (di manifattura non greca), armata di elmo frigio, venne ritrovata in una tomba del III sec.a.C. sulle montagne di Thian Shan (Cina), segno della diffusione dell'elmo anche al di là dei confini dei regni ellenistici più orientali. Statuetta da Thian Shan, Museo di Xinjang, Cina Il mondo romano invece non sembra interessarsi, almeno inizialmente, a questo tipo di elmo, preferendo, per i suoi primi eserciti, mutuare modelli desunti dalla cultura celtica ("Montefortino" e "Gallico"), anche se sul Monumento dei Giulii a Glanum (I sec.a.C., St. Remy, Francia) alcuni soldati di Giulio Cesare sembrano calzare un elmo con una tipica cresta in stile frigio. Monumento dei Giulii a Glanum, Francia E' stato ipotizzato3 che questa foggia volesse alludere alle origini troiane di Roma, che proprio nell'età di Cesare (e soprattutto di Augusto) venivano scoperte. Ma la somiglianza con noti modelli ellenistici (come l' Elmo di Vergina, ritrovato nel corredo tombale attribuito a Filippo II di Macedonia) sembrerebbe confermare anche l'ipotesi4 che i rilievi di Glanum fossero desunti da "cartoni" ellenistici, e che non corrispondessero quindi alla realtà dell'equipaggiamento legionario. Elmo di Vergina, Museo di Tessalonica 3 4 Antonucci 1996 Bianchi Bandinelli 1970 132 Il problema del rapporto tra le armi raffigurate sui rilievi scultorei e quelle reali, frutto di ritrovamento archeologico, è però ancora lontano dall'essere risolto. E' stato giustamente osservato5 che i fregi d'arme romani nascevano dalla stratificazione tra rappresentazione realistica, adozione di significati simbolici e continue variazioni (o fraintendimenti) operate dagli scalpellini. Il risultato però non era mai un prodotto di "fantasia" (come potremmo definirlo oggi, guardandolo con occhi moderni) ma conservava un livello di leggibilità che consentiva, ad un osservatore del passato, di cogliere sempre una "cifra" simbolica, come un'etnia di appartenenza, un simbolo di status o una caratterizzazione geografica. Questa attenzione al significato simbolico finì per investire, con la "pacificazione" avvenuta in età imperiale, anche il mondo dei munera : gli splendidi elmi "traci" dei gladiatori romani conservavano infatti il tipico "aggetto" frigio, decorato questa volta con una testa di grifone, chiara allusione al mondo orientale. E probabilmente alle campagne militari in Oriente (forse quelle contro Mitridate) alludono gli elmi frigi raffigurati negli affreschi dell'atrio della Villa dei Misteri (I sec.a.C. Pompei). Elmo di gladiatore Trace Villa dei Misteri, Pompei Una protome di grifone si ritrova anche su un elmo "attico" in bronzo, da Nemi, datato all'età di Caligola (già Collezione Lipperheide, Antikenmuseum, Berlino). Per il suo inconsueto decoro, l'elmo è catalogato "da parata" o "da cerimonia", ma la presenza di un elmo simile sui bassorilievi di Marco Aurelio (II sec.d.C., Arco di Costantino, Roma) potrebbe far riconsiderare il suo significato. Elmo di Nemi, già Coll. Lipperheide, Berlino 5 Polito 1998 133 Bassorilievi di Marco Aurelio, Roma Proprio al II sec.d.C. è datato un elmo in stile frigio ritrovato nella necropoli romana di Dorustorum (Romania) e conservato, sempre in Romania, al Museo di Costanza. L'elmo, finemente cesellato, presenta alla sommità una testa di avvoltoio, mentre due serpenti cingono orizzontalmente la calotta. Sulla fronte è raffigurato il dio Marte circondato da due Vittorie. Sulle paragnatidi i Dioscuri. E' stato ipotizzato6 che la particolare foggia dell'elmo potesse riflettere una specificità etnica locale, ovverossia la committenza di un ufficiale imperiale originario del basso Danubio, anche se non è da escludere (per la delicatezza della lavorazione metallurgica e i rimandi alla tradizione ellenistica) l'intervento di una bottega in Italia. L'elmo rientrerebbe nella tipologia degli Hippika Gymnasia, la cavalleria sportiva romana che, al pari dei cavalieri medievali, organizzava tornei in cui esibire splendenti armature riccamente decorate. L'utilizzo di elmi frigi tra i popoli danubiani è peraltro confermato, almeno nella scultura, sia dal trofeo delle armi dei Daci sul basamento della Colonna Traiana, sia da un elmo "barbarico" con protome animale sul Sarcofago del Portonaccio (II sec.d.C. Museo Nazionale Romano). Elmo di Dorustorum, Museo di Costanza, Romania Basamento della Colonna Traiana, Roma 6 Mattesini 2004 134 Sarcofago del Portonaccio, Museo Nazionale Romano Si arriva così all'Arco di Settimio Severo (III sec.d.C. Roma) dove, accanto all'imperatore, è raffigurato un gruppo di soldati che calzano un elmo in stile frigio. La vicinanza di questi soldati a Settimio Severo farebbe escludere che si tratti di semplici ausiliari orientali, caratterizzati quindi da un equipaggiamento di tipo "etnico". Si potrebbe ipotizzare che si tratti della "Guardia del Corpo Danubiana" dell'imperatore7 o forse di ufficiali della II Legione Parthica, composta, quest'ultima, in massima parte da soldati provenienti dalla Tracia e dalla Pannonia8. Entrambe le ipotesi potrebbero trovare una conferma in Cassio Dione9, testimone dello "shock" prodotto negli abitanti di Roma alla vista delle legioni danubiane (descritte come ...una folla variopinta e dall'aspetto molto selvaggio... !) quando la Città Eterna fu occupata militarmente da Settimio Severo (193 d.C.). Viene da chiedersi se "qualcosa" nell'equipaggiamento di quei legionari non potesse aver rimandato, nell'immaginario iconografico dell'epoca, al mondo e alla cultura "barbarica", tanto da giustificare un così grande sconcerto. Arco di Settimio Severo, Roma Ma gli elmi frigi sull'Arco di Severo potrebbero anche alludere, simbolicamente, alla diffusione dei nuovi modelli culturali provenienti dall'Oriente Ellenizzato: un "mix" di tradizioni mesopotamiche, iraniche ed ellenistiche che influenzavano, nella Roma di quei tempi, le arti figurative, la filosofia e il sentimento religioso. E che trovavano il loro principale "sponsor" proprio nella famiglia e nella corte imperiale severiana. Verosimilmente a questo contesto culturale andrebbero ascritte le "contaminazioni ellenistiche" nell'armamento romano del III secolo, testimoniate soprattutto della creazione del reparto dei Falangiarii ad opera di Caracalla, grande ammiratore di Alessandro Magno: ... organizzò a falange, composta integralmente di Macedoni, sedicimila uomini, chiamandoli la ‘Falange di 7 SHA, Max.duo 3,5 Balty-Van Rengen 1993 9 Dio Cass. 75,2 8 135 Alessandro’, e li equipaggiò con le stesse armi di quegli antichi guerrieri: un elmo di cuoio grezzo, una corazza a tre strati di lino, uno scudo di bronzo, una lunga picca, un giavellotto, stivali e spada …10 E' lecito interrogarsi sulla reale efficienza di un simile armamento: si può ipotizzare infatti sia che i Falangiarii fossero stati tali solo nominalmente, equipaggiati quindi come il resto delle legioni11, sia che fossero stati soltanto un "battaglione da parata", utilizzati da Caracalla al solo scopo di trasmettere il proprio messaggio simbologico. D'altra parte anche oggi non ci si stupisce se molti Capi di Stato vengono scortati, nelle cerimonie ufficiali, da militari che indossano uniformi ispirate alle tradizioni del passato come, in Italia, è il caso dei Corazzieri. Una traccia importante di interpretazione può essere ritrovata in Sesto Giulio Africano che, quindici anni dopo Caracalla, consiglierà, ancora, all'imperatore Alessandro Severo, in procinto di condurre una guerra contro i Persiani, l'adozione di un armamento di tipo "macedone" per la forza d'invasione della Mesopotamia12. Ma Sesto Giulio Africano non è uno sprovveduto in campo militare, né un oscuro intellettuale in cerca di facili compiacenze dall'imperatore. In gioventù ha combattuto in Oriente durante le "Guerre Partiche", e nel 230 d.C. (anno di edizione dei Kestoi) è il sovrintendente alla Biblioteca del Pantheon. Eppure si preoccupa di motivare il suo suggerimento non sulla base della consapevolezza di un vantaggio "tecnologico", bensì su quella di una semplice "equazione", utilizzando il dato storico che i Persiani erano stati vinti dai Greci, e i Greci dai Romani. Quindi, secondo Africano, se i Romani avessero adottato le stesse armi degli antichi Greci avrebbero sicuramente sconfitto i Persiani (sic). Un evidente "intellettualismo" che ben si sposa col programma ideologico, iconografico e propagandistico voluto della dinastia dei Severi. E d'altra parte le fonti storico-letterarie (Cassio Dione 77,18; Erodiano 6,3,3) ci confermano che l'imperatore creò realmente un reparto di Falangiarii, ma che questi erano ...dotati di armamento ordinario...13. Forse, quindi, non è casuale se proprio nel III secolo sembrano moltiplicarsi, nell'arte romana, le presenze di elmi frigi o in stile frigio, come ad esempio sul Sarcofago della Caccia a Palazzo Mattei, sul mosaico della Casa delle Ninfe (Nabeul, Tunisia), sul Sarcofago degli Ammendola o nel mosaico del Mitreo di Felicissimus ad Ostia. Sarcofago della Caccia, Palazzo Mattei, Roma 10 Dio Cass. 77,7 Cowan 2003 12 Jul.Afr. Kest. VII, 1, 85 13 SHA, Alex.Sev. 50,5 11 136 Mosaico della Casa delle Ninfe, Nabeul, Tunisia Sarcofago degli Ammendola, Musei Capitolini Mosaico dal Mitreo di Felicissimus, Ostia Sarà solo dal IV-V sec.d.C. che l'elmo frigio ritornerà ad essere una peculiarità orientale, associata, nell'iconografia, a popoli antagonisti di Roma, ed anche della Cristianità. E' il caso del tema biblico del Passaggio del Mar Rosso, dove l'esercito del Faraone viene raffigurato con elmi frigi sia nelle Catacombe di Via Latina, sia sui mosaici di Santa Maria Maggiore. Passaggio del Mar Rosso, catacombe di Via Latina Passaggio del Mar Rosso, basilica di S.Maria Maggiore 137 Scomparso definitivamente dall'Occidente, l'elmo frigio riapparirà in Europa solo nel XII secolo, calzato da quei cavalieri Normanni di ritorno dalle Crociate. In Medio-Oriente infatti l'equipaggiamento dei guerrieri dei nuovi Principati Cristiani sarà caratterizzato da un melange di stili e fogge sia occidentali che orientali. E sarà per una breve ultima volta. Guardiani del Santo Sepolcro, Coll. Burrell, Glasgow ( XII sec.) Codice miniato ( XII sec.) 138 Bibliografia: Sumner 2002: Sumner, G. Roman Military Clothing 100 BC-AD 200, Vol.1, 2002 Sumner 2003: Sumner, G. Roman Military Clothing AD 200-400, Vol.2, 2003 Connolly 1998: Connolly, P. Greece and Rome at war, 1998 Antonucci 1996: Antonucci, C. L'esercito di Cesare, 1996 Bianchi Bandinelli 1970: Bianchi Bandinelli, R. Roma, la fine dell'arte antica, 1970 Polito 1998: Polito, E. 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Imperial Roman Legionary, 2003 139 MORTE E FERITE SUI CAMPI DI BATTAGLIA NELL’ERA DELLE ARMI BIANCHE Davide Dall’Angelo “Mi vergognerei, in questo funerale del mondo, se piangessi le morti innumerevoli e, tenendo dietro al destino di ciascuno, cercassi di sapere chi abbia avuto le viscere attraversate da una ferita mortale, chi abbia calpestato i suoi organi fuoriusciti, chi morendo abbia rigettato con il suo respiro la spada dalla gola, in cui era stata spinta, chi sia piombato a terra sotto i colpi, chi sia riuscito a rimanere in piedi, nonostante il suo corpo tendesse a stramazzare, chi abbia avuto il petto trapassato dalle frecce o chi una lancia abbia inchiodato al suolo, da chi sia stato lanciato attraverso l'aria il sangue che sprizzava dalle vene squarciate e ricadeva sulle armi del nemico, chi abbia ferito il petto del fratello e ne abbia mozzato il capo, gettandolo lontano, per poter poi depredare il cadavere a lui ben noto, chi abbia fatto scempio del volto del padre ed abbia voluto dimostrare - accanendovisi con furore - a chi lo osservava che non era il suo genitore la persona, che stava sgozzando.” Lucano, Farsalia E’ difficile, a tanti secoli di distanza, immaginare la natura dell’uccidere e del ferire nelle epoche in cui spada, lancia, picca ed arco erano le armi a disposizione dell’uomo. Ancora più difficile visualizzare a che tipo di sofferenze andavano incontro i feriti e gli agonizzanti, e le difficoltà dei medici pre-moderni che quelle lesioni dovevano curare. Questo articolo si propone di dare un quadro sintetico, ma spero sufficientemente esauriente, al lettore sugli argomenti sopra esposti; per fare ciò uscirò dai confini temporali normalmente trattati da questa rivista arrivando fino all’inizio dell’età moderna. Quello che mi spinge a trarre le mie fonti anche da epoche successive all’antichità sono due considerazioni: • • Molte evidenze archeologiche, ma anche letterarie, importanti sono successive alla fine dell’impero romano. La sostanziale continuità tecnologica tra queste epoche permette di trarre delle informazioni valide nel medioevo come al tempo degli Egizi. Possiamo senz’altro credere che la spada di acciaio di damasco del Saladino fosse un’arma più perfezionata di quella di bronzo di Achille, ma ci troviamo sostanzialmente di fronte allo stesso strumento che causava le stesse ferite. Limiterò comunque la mia area di ricerca (tranne qualche eccezione) agli eserciti europei dall’antichità fino all’era moderna ed a quelli mediorientali medievali. Eviterò anche di trattare alcuni particolari casi di ferite, come le ustioni, i danni da schiacciamento (massi durante gli assedi o proiettili di artiglieria) o l’avvelenamento, concentrandomi invece su quelle più canoniche. L’articolo sarà organizzato in tre sezioni: • • • Nella prima raccoglierò e commenterò una parte delle molte evidenze (archeologiche, letterarie ed artistiche) riguardanti le ferite in battaglia; le rapporterò quando possibile alle tecniche di combattimento ed alle armi usate. Nella seconda discuterò sugli effetti diretti ed indiretti delle armi bianche e delle ferite da queste causate sul corpo umano, analizzati partendo dall’anatomia e dalla patologia moderne. Nella terza infine vedremo che cure potevano aspettarsi i feriti dai medici dell’epoca dopo uno scontro. 140 Conoscere come gli uomini usavano le armi a disposizione per colpire i propri simili e l’effetto di questi colpi sul fisico delle vittime, ci permetterà di ricostruire una parte della natura del combattimento antico. Comprendere le sofferenze che le armi bianche causavano all’essere umano, e le sfide che i medici antichi si trovavano ad affrontare, forse renderà un po’ meno asettiche e più reali le descrizioni delle battaglie riportate nelle cronache storiche. L’EVIDENZA ARCHEOLOGICA Punto di partenza importante per questo studio sono proprio i cimiteri di guerra; lo studio delle ossa ( osteoarcheologia ) e quello sulle malattie presenti sui resti ( paleopatologia ) hanno fatto grandi progressi negli ultimi decenni, anche grazie all’impiego di tecniche e tecnologie di analisi avanzate. Si possono fare osservazioni interessanti sugli effetti che l’addestramento militare prolungato poteva avere su alcune tipologie di militi: una vita passata a cavallo irrobustiva i muscoli adduttori delle cosce e questo lasciava un area prominente dove questi ultimi si attaccavano al femore, gli arcieri addestrati fin dall’infanzia acquisivano un’asimmetria tra le ossa della parte sinistra e destra ( disparità nella superficie di giuntura dei gomiti, spalla sinistra più sviluppata della destra ), i lanciatori di giavellotto, come le loro controparti sportive moderne, sviluppavano cambiamenti dal gomito fino alla spalla1. L’analisi chimica delle ossa degli scheletri dei gladiatori ci ha permesso di individuare la loro dieta, lo studio delle ossa dei piedi ci ha mostrato che combattevano scalzi2. Ci sono, naturalmente, anche dei limiti rispetto all’impiego di queste tecniche: non sempre è possibile sapere se le ossa appartenessero ad un soldato o ad una vittima civile, se non sono presenti segni anatomici come quelli di cui sopra ( oltre che, naturalmente, il sesso o l’età ) od oggetti come armi o armature; le ferite che non arrivano ad intaccare le ossa ma che feriscono solo le parti molli ( muscoli o cavità addominale ) non lasciano traccia. Per questo cercherò di dare un quadro più completo nel prossimo capitolo confrontando i dati che ci vengono dai resti dei combattenti con le fonti letterarie o pittoriche. Maiden Castle Il cosiddetto Castello Maiden, è in realtà una fortificazione collinare in legno, roccia e terra battuta della Britannia celtica ( in inglese “hillfort” ), nel Dorset nella regione del Wessex. Abitato fin dal neolitico, e più volte rioccupato, fu oggetto di scavi negli anni trenta da parte di M.Wheeler3; questi trovò tracce di un assalto violento alla porta orientale del forte, ed un cimitero con numerosi scheletri sepolti in parte ritualmente anche se con una certa fretta, tra cui alcuni che presentavano ferite da taglio sulle ossa. Il ritrovamento di un dardo di balista conficcato in uno di questi scheletri, fece ritenere a Wheeler che le tracce dell’assalto risalissero all’anno dell’invasione romana nel 43 d.C. quando la II legione guidata da Vespasiano sottomise le tribù della regione. Oggi le supposizioni di Wheeler sono in parte contestate, il forte infatti fu abitato con continuità per altri 20-30 anni dopo l’invasione romana e la sepoltura rituale fa ritenere che non ci fu occupazione del luogo e sterminio totale degli abitanti, forse solo un temporaneo spostamento. Molto probabilmente ci fu sì un breve assalto con un’altrettanto rapida resa; scopo di Vespasiano potrebbe essere stato solo abbattere le fortificazioni di ingresso, per rendere militarmente inerme il forte. Si può quindi immaginare un breve scontro di fronte alla porta orientale dopo un attacco con le baliste. Altri forti nella Britannia meridionale mostrano tracce di una breve resistenza, stroncata 1 (Mitchell, 2004), pag.109-110 (Guidi, 2006), pag. 122-123; si trattava di una dieta ricca di vegetali ed orzo che rendeva massicci i gladiatori 3 (Wheeler, 1935-1937) 2 141 dall’inutilità di queste fortezze di fronte all’artiglieria romana (erano stati infatti progettate per proteggere contro le normali armi da lancio)4. Dei circa 38 scheletri originariamente ritrovati da Wheeler, 34 sono ben conservati (23 maschi e 11 femmine, tra i 20 e 40 anni di età): 10 presentano estese ferite da taglio sul cranio nella parte superiore, frontale e posteriore; oltre al già citato scheletro con un dardo di balista nelle vertebre, un teschio mostra una ferita da perforazione di forma quadrata, opera di un dardo o di un pilum. Indubbiamente queste ultime due sono ferite di guerra e molte di quelle da taglio sono perimortem. Altre ossa mostrano segni di fratture e dislocazione. Uno scheletro in particolare presenta almeno 9 segni di taglio sul teschio. Uno degli scheletri ritrovati al Maiden Castle: la punta del dardo della ballista romana si trovava ancora vicino alla colonna vertebrale della vittima Wisby Wisby, sull’isola di Gotland in Svezia, è senz’altro uno dei siti di battaglia pre-moderna più studiati e meglio conservati; sottoposto a scavi nella prima metà del XX secolo, i dati furono pubblicati in due volumi nel 1939 da B. Thordeman (E. Ingelmark ha tratto le conclusioni sugli scheletri). Lo scontro, avvenuto nel 1361 tra un esercito di Danesi invasori ed un’armata della milizia dell’isola, lasciò numerosi reperti ma soprattutto un migliaio di scheletri sepolti in tre grandi fosse comuni. Di questi corpi, appartenenti all’esercito sconfitto dei Gotlanders, circa il 5% appartiene a donne probabilmente aggregate all’esercito e vittime della furia dei vincitori; il 60% degli uomini è in età per portare le armi, un’indicazione che la leva popolare aveva mobilitato tutta la forza maschile comprese le classi più anziane. 456 scheletri presentano ferite da taglio, 126 da dardo di cui 60 combinate con lesioni da lama; alcuni teschi mostrano fino a 10-15 tagli. Quello che ha colpito di più i ricercatori è la terribile potenza di alcuni colpi: se molti tagli sono solo segni lasciati sulle ossa, alcuni le hanno invece troncate di netto, cosa estremamente difficile data la durezza di un osso vivo; questi colpi hanno attraversato prima i vestiti (ed in alcuni casi l’armatura) e poi i muscoli, mantenendo intatta la loro energia. Un colpo ha attraversato obliquamente la fibula, la tibia, fermandosi nella parte superiore dell’astragalo; un altro fendente obliquo è penetrato per due terzi nella gamba in una zona estremamente dura come la parte distale del femore. Sono stati trovati molti crani attraversati 4 (Konstam, 2006), pag.33 142 parzialmente, coperti con i cappucci di maglia anch’essi penetrati dalla lama della spada e dell’ascia; interi pezzi di cranio sono stati staccati da una serie di colpi multipli. Il più impressionante è sicuramente lo scheletro di un poveretto che ha avuto entrambe le gambe tagliate a livello della tibia da un unico colpo.5 Il gran numero di scheletri ha permesso di fare una statistica delle ferite ed ipotizzare una ricostruzione della situazione in cui si sono verificate; uno schema di combattimento plausibile, che emerge dalla disposizione delle lesioni, è stato proposto da Ingelmark: ogni guerriero tiene lo scudo nella mano sinistra e la spada nella destra, la gamba sinistra è leggermente in avanti rispetto alla destra. Al momento dell’attacco il soldato fa un passo o salta in avanti; il primo colpo di solito è verticale o alla destra del bersaglio e normalmente viene parato facilmente spostando lo scudo per intercettarlo o deviarlo. Questo effetto è sfruttato per sferrare subito un secondo colpo sul lato sinistro del difensore, verso la testa o le gambe ( in quest’ultimo caso può colpire, anche se difficilmente, la gamba destra nella sua parte interna ), molto più difficile da parare se non si è preparati a riceverlo. Contando i colpi ricevuti dai vari crani, vediamo che solo il 31% dei teschi ha ferite sul lato destro, conseguenza di primi colpi non parati o colpi dati in situazioni di combattimento non ordinato; la percentuale sale al 42% quando si considerano tutte le ossa. Solo il 15% delle estremità superiori ha ricevuto ferite, percentuale dovuta all’ottima protezione fornita dalla scudo, molto elevati invece i colpi agli arti inferiori: di questi il 65% è sulla tibia, il 14,3% sul femore, il 19,3% sulla fibula; la prevalenza della tibia si spiega con il fatto che è più esposta del femore ed è più robusta della fibula (che tende a frammentarsi) per cui i segni dei colpi permangono. Analizzando le ferite su questo osso, si possono trarre statistiche interessanti: • • • • • Nei tagli profondi, il rapporto di colpi da destra e sinistra è quasi uguale, così come per le ferite singole, mentre per i colpi multipli il rapporto sinistra-destra è più elevato. Ossa completamente tagliate, presentano una preponderanza di colpi singoli, così come le ferite superficiali; i colpi di media potenza invece hanno una maggior percentuale di colpi multipli. I colpi obliqui dall’alto verso il basso sono i più numerosi, seguiti da quelli obliqui dal basso verso l’alto Nei colpi dati dal basso è più numerosa la categoria “colpo singolo” ed il lato destro I colpi fronto-sagittali hanno una percentuale più alta nelle categorie colpi multipli e direzione sinistra, mentre quelli frontali o sagittali presentano statistiche inverse. Ingelmark, sulla base di questi dati, concluse che nel caso delle ferite agli arti inferiori: • • 5 Le ferite più devastanti ( taglio completo ) sono inflitte in condizioni anomale rispetto al combattimento ordinato descritto prima, probabilmente con il nemico a terra. L’attaccante può sferrare un colpo con tutta la forza senza prevalenza della direzione sinistra sulla destra. In alternativa tali ferite possono essere state inflitte usando armi pesanti a due mani, come uno spadone da guerra, il cui impiego combacia male con lo schema destra-sinistra di Ingelmark. Le ferite superficiali dovrebbero essere state provocate da colpi mirati male o con poca forza in una fase piatta dello scontro; al contrario quelle di media gravità dovrebbero essere conseguenza di una fase estremamente intensa e feroce quando i guerrieri si scagliano addosso una serie di colpi. (Thordeman, 1939), pag.164 143 • • • • Le ferite singole possono essere conseguenza di colpi casuali scagliati in una situazione di caos durante il combattimento, mentre in una situazione di combattimento ordinato i guerrieri si scambiano serie di colpi. Le ferite singole sulla tibia destra date dal basso, quasi certamente appartengono a cavalieri feriti da fanti, dato che in combattimento presentano all’avversario il lato destro, e se feriti possono allontanarsi facilmente. I colpi orizzontali dovrebbero essere stati inflitti ad avversari caduti, spesso in successione I colpi ben mirati sembrano arrivare sempre in serie mai singolarmente Osservando le ferite ai crani si può vedere come il 44% copre una superficie estesa del teschio, il 55% solo una piccola zona dello stesso; nel 25% dei casi il colpo di taglio è associato con una ferita da dardo. Sono molto poche le lesioni nella zona temporale e alle ossa del viso (fatto dovuto alla facilità con cui lo scudo lo protegge e alla fragilità di queste ossa). I colpi singoli sono il 54% del totale, e, diversamente dai dati per la tibia, in questo caso è nettamente prevalente il lato sinistro sul destro, mentre i colpi multipli, forse dati ad uomini inermi, presentano una distribuzione uniforme sui due fianchi. La zona parietale ha ricevuto un numero elevato di colpi, mentre le ferite nella zona occipitale dovrebbero appartenere ad uomini raggiunti dall’arma mentre stavano fuggendo. I colpi diagonali dall’alto hanno la prevalenza seguiti da quelli verticali; nei primi predomina la categoria “colpi multipli” nei secondi i “colpi singoli” ( 80% del totale ). I dardi scagliati da balestre (ma ricordiamo che è difficile distinguere un colpo di lancia o morning star da una di freccia o quadrello; inoltre le frecce lasciano pochissimi segni sulle ossa delle estremità) sembrano aver causato direttamente o indirettamente il 10% delle vittime. Alcuni crani presentano da 5 a 7 ferite di dardo, a testimonianza della saturazione di colpi scagliati in una determinata zona del campo di battaglia; alcuni quadrelli hanno perforato completamente il cranio uscendo dall’altro lato. Per i dardi c’è una preponderanza di ferite sul lato sinistro delle vittime: questo si può spiegare solo con il fatto che in battaglia i soldati tenevano leggermente più avanzato il lato sinistro, esponendolo di più a dardi che arrivavano da quel fianco. Un buon numero di frecce ha colpito la parte superiore della testa, situazione che poteva presentarsi quando il guerriero, per proteggere il volto, abbassava la testa dietro lo scudo, esponendo la zona superiore a tiri leggermente a parabola. Le ferite da perforazione associate a quelle di taglio sono probabilmente successive al danno causato dalla lama, data la mortalità della ferita da quadrello6. 6 Le statistiche fornite da Ingelmark per le ferite sono molto più complesse, qui io ho presentato un sunto dei dati più interessanti 144 Teschio da Wisby: il cappuccio di maglia è stato ridotto a pezzi così come il volto Eccles Scheletri del periodo anglosassone sono stati trovati nel cimitero (non datato) di Eccles nel Kent; non si sa quale evento abbia scatenato l’azione che ha portato alla morte violenta, ma i segni lasciati sugli scheletri sono quelli di un massacro7. 4 teschi mostrano un'unica ferita subita nella parte frontale del cranio, indubbiamente ricevuta mentre si stavano difendendo. I rimanenti teschi invece presentano una serie multipla di ferite sul cranio ed in altre parti del corpo: senz’altro gli individui sono stati colpiti mentre stavano fuggendo; una di queste ferite è un taglio di 96 mm nella zona occipitale dato con una lama perfettamente tagliente ( nessuna frattura terminale sui bordi della ferita )8. Un caso particolarmente crudele è rappresentato dallo scheletro di un uomo che aveva evidentemente alzato le mani per autoprotezione, con il risultato che le braccia gli vennero troncate da tagli tremendi, e subito dopo venne finito da almeno 8 colpi diversi sul corpo. La carenza di misure protettive delle vittime è mostrata dalla presenza di segni di lama nelle ossa del torace e dell’addome: costole, vertebre, pelvi, sono tutte segnate da tagli o affondi di spade o lance9. 7 (Halsall, 2003), pag.211 (Cox, 2000), pag.369 9 (Mitchell, 2004), pag.112 8 145 Towton Towton fu la battaglia decisiva della guerra delle Due Rose (1461): fu un massacro per gli uomini della fazione dei Lancaster e aprì la strada del potere agli York. Fu anche una delle più grandi battaglie combattute su suolo inglese ( probabilmente la somma totale dei combattenti delle due parti superò i 50000 ) ed una delle più sanguinose. Nel 1996 venne scoperto, in seguito a lavori in una casa di campagna, un cimitero di guerra dove erano sepolti una parte dei combattenti di questo grande scontro. Si trattava di 51 scheletri tutti appartenenti ad uomini deceduti di morte violenta, con un’età variabile da 16 a 50 anni, ed un’altezza compresa tra 158 e 183 cm, con una media di 171. Due degli uomini più alti presentavano precedenti ferite di guerra perfettamente guarite, e potrebbero quindi essere stati soldati professionisti di qualche seguito nobiliare con altre campagne alle spalle. Tre scheletri portavano deformazioni tali alle ossa da far pensare ad un intenso addestramento da arcieri fin dalla giovinezza; una buona parte dei resti mostrava comunque i segni di un’intensa attività fisica nella zona superiore del corpo, se ciò fosse dovuto ad addestramento militare o lavoro nei campi non è dato saperlo.10 Il numero delle ferite alla testa è impressionante, e, almeno per quelle nella parte posteriore del cranio, si pensa che i fuggitivi possano aver gettato l’elmo per scappare più velocemente; su alcuni crani sono presenti anche incisioni di coltello, forse dovute al taglio delle orecchie attuato sui cadaveri come segno di spregio. 13 scheletri mostrano ferite anche sul corpo, e per metà di loro si tratta di ferite multiple ( 2 o 3 ), nel caso invece del corpo numero 41 ci troviamo di fronte ad almeno 9 differenti colpi alla testa, alle spalle, al collo, alle braccia. Le braccia e le mani hanno subito la maggioranza dei colpi, in particolare l’ulna destra, che, impugnando l’arma, era un bersaglio privilegiato al fine di rendere innocuo l’avversario11. I tagli su collo e clavicola sono in prevalenza nella zona sinistra. Non ci sono ferite sulle costole, segno di una buona protezione al corpo, o del passaggio della lama tra le ossa senza scalfirle; ovviamente non abbiamo nessuna traccia di eventuali danni alle parti molli del corpo. Ferite alla testa sono presenti su 28 crani, di cui 9 mostrano ferite precedenti alla battaglia, tutte perfettamente guarite ( un teschio ne portava ben 5 ); solo un cranio non presentava colpi, sugli altri il loro numero arrivava fino a 13, con una media di 4. Il 65% delle ferite era dovuto ad armi da taglio, nella zona frontale o posteriore (leggermente superiori le prime); le lesioni frontali erano sia verticali che nella zona sinistra. Il 32% erano ferite da taglio nella parte inferiore del cranio (mandibola, mascella, ecc.). Il 25% erano danni causati da armi da botta sulla mascella o nella parte sinistra del cranio; per quanto meno numerose, questa tipologia di ferite è estremamente grave in più della metà dei casi, con una rottura del cranio e suo conseguente collasso. Gli effetti dei danni da taglio potevano comunque essere altrettanto crudeli: il teschio numero 25 presenta una ferita diagonale al volto che ha distrutto l’occhio sinistro, il naso e perforato la mandibola, mentre il numero 16 mostra una ferita precedentemente guarita senza infezione, che aveva distrutto una parte dell’osso della mandibola. 8 teschi avevano 12 segni di perforazione, metà nella zona posteriore e metà ai fianchi; 3 sono stati causati da punte di spada, gli altri da armi d’asta ( mazzapicchi ) o martelli da guerra come ad esempio nel teschio numero 9. I crani 40 e 21 mostrano ferite da frecce bodkin. 10 (Gravett, 2003), pag.85 Si può notare, quindi, una differenza notevole rispetto a Wisby, dove le ferite alle braccia sono invece rare; ciò si spiega con il fatto che lo scudo di grandi dimensioni che proteggeva buona parte della parte superiore del corpo, non era più in uso (specialmente per gli arcieri, che dovevano rappresentare la maggioranza delle vittime), poiché ormai ci si affidava totalmente alla corazza di piastre e tutt’al più a piccole targhe portate sul braccio sinistro. 11 146 Moltissimee lesioni sonno sul lato sinistro s del corpo, come ci si aspettterebbe durrante un combattim mento regolaare, mentre un u certo num mero sono posteriori p e inflitte da ccolpi scagliaati dall’alto, probabilmen p nte da cavalieri su fantii fuggitivi. Uno dei d crani di Towton T T Teschi Dalla Germaniaa Medievale Una serie di d teschi dallla Germaniia medievalle, apparsi in n due mostrre negli annni ’80 e ’90, sono stati 12 catalogati da d Alfred Czarnetzki C . Questi craani presentan no tutti ferite da armi dda taglio: • • • • • • • 12 Casso 1: teschioo di un uom mo di 40-50 anni del XIIV-XVI secolo; il craniio presenta il segno di unaa ferita fronntale nella paarte superioore-destra. Casso 2: uomo di 50-60 annni del XII-X XIV secolo; il soggettoo ha ricevuto due colpi nella parte supperiore sinisstra. Il più alto a ha causaato la rottura di un pezzzo rettangollare di osso (proobabilmentee come connseguenza deel tentativo di estrarre la lama dal cranio), il secondo s invvece ha solo staccato unn frammentoo superficiaale. Casso 3: Uomoo di 30-40 annni del XII--XIV secolo o; ferita quaasi verticale nella zona posteriore siniistra del craanio. Il colpo è penetratto obliquam mente nel craanio, rompeendo l’osso in un’’ampia zonaa. Incredibillmente l’uom mo è soprav vvissuto allaa ferita, com me dimostraa la ricalccificazione del cranio. Casso 4: Uomoo di 30-40 annni del XII--XIV secolo o; profonda ferita verticcale nell’osso frontale, pennetrata nellaa parte sinistra. L’osso mostra traccce di un proocesso infiaammatorio, ma m ancora i frammenti soono guariti e risaldati coon il resto del d cranio, segno della gguarigione dell’uomo. Casso 5: Uomoo di 40-50 annni; presentta un framm mento sovrappposto nell’’osso frontaale, causato da un u colpo di taglio peneetrato da sinnistra. L’uom mo guarì coompletamennte. Casso 6: Uomoo di 20-30 anni; a fendituura verticalee nella partee frontale, ppenetrata paarzialmente all’’interno. Ferrita guarita completam mente senza infezione. i Casso 7: Uomoo di 40-50 annni; grossa fenditura neella parte frrontale destrra del cranio o che ha pennetrato l’ossso e la dura mater lasciando scoperrto il cervelllo. L’osso ppresenta seg gni di (Ambergerr, 1996), pag.1108 147 • • • inizio guarigione, ma la morte è sopravvenuta poche settimane dopo come conseguenza di infiammazione ed infezione. Caso 8: Uomo di 30-40 anni; taglio nella parte frontale del cranio e nella parte posteriore sinistra. Morte immediata. Caso 9: Uomo di 30-40 anni; ferita alla mandibola sinistra che ha lasciato scoperte le radici dei molari; all’estremità della mandibola sono presenti i segni di un colpo che penetrando fino al collo deve aver ucciso l’individuo. Caso 10: Uomo di 40-50 anni; ferita alla tempia sinistra e alla parte posteriore sinistra del cranio, causate da due fendenti che hanno rimosso grosse parti di osso, penetrando profondamente. Jakob’s Ford I recenti scavi attorno a questa fortificazione templare in Palestina, conquistata dal Saladino nel 1179, hanno riportato alla luce diversi resti. I primi studi sui soldati franchi mostrano diverse ferite non fatali perimortem alla spalla sinistra, alla mandibola e alla faccia, assieme a ferite mortali al cranio causate da armi da penetrazione ed amputazioni del braccio sinistro. Punte di freccia sono state trovate dove c’erano i tessuti molli: probabilmente gli uomini sono stati feriti da queste prima del colpo ravvicinato13. I Gladiatori Di Efeso14 Il recente ritrovamento di un “cimitero di gladiatori” presso Efeso ( Turchia ) ha permesso un esame accurato sulle eventuali ferite presenti sui crani. I resti di circa 68 individui ( di cui 66 sono uomini tra i 20-30 anni altezza media 1.68 ) sono stati esaminati; mancano in questi ritrovamenti i segni di traumi multipli trovati nelle ossa di scontri “non sportivi”, a dimostrazione della natura rigidamente regolamentata di questi duelli, dove non era permesso lasciare libero sfogo alla furia accanendosi su un uomo già ferito. In questa sede ci interessano i resti di ferite antemortem ( 16 in totale distribuite su 11 individui ) e quelle perimortem ( 10 su 10 individui ). Quasi tutte le categorie di gladiatori portavano un ottimo elmo che offriva una copertura praticamente totale a testa e viso, perciò non è sempre facile capire in che contesto si sia generato il trauma. Due delle ferite antemortem sembrano essere precedenti all’inizio della carriera gladiatoria degli individui, le altre 14 si sono probabilmente generate durante l’addestramento ( dove era probabilmente usato un equipaggiamento difensivo di minor valore ) oppure in combattimenti dove la vittima è comunque sopravvissuta. Di queste 14, 5 sono dovute a corpi contundenti ( probabilmente lo stesso metallo dell’elmo che piegatosi sotto un urto ha colpito il cranio ), 5 sono ferite causate da armi da taglio ( un gladio od una sica ), due probabilmente provocate dal tridente di un retiarius, 1 da penetrazione ( forse di un gladio ) ed una di forma circolare non bene identificata. Delle 10 ferite perimortem, probabilmente 5 sono colpi di grazia inflitti dagli inservienti dell’arena ai crani dei feriti a morte con martelli, 3 traumi da impatto sono forse la conseguenza di un danno inflitto con lo scudo, infine abbiamo una ferita perforante da spada, una da giavellotto ed una da tridente. Nei combattimenti gladiatori, quindi, solo una piccola percentuale di decessi sembra 13 14 (Mitchell, 2004), pag.119 (Head Injuries of Roman Gladiators, 2005) 148 potenzialmente causata da ferite al cranio ( 5 su 66 ); questo dato non coincide con le ferite inflitte nelle vere battaglie e si spiega con la diversa natura dello scontro, dove non si cerca la morte rapida ed immediata dell’avversario ( andrebbe contro le esigenze di spettacolarità ), non si infliggono selvagge ferite al nemico inerme per finirlo, e si usa un ottimo equipaggiamento difensivo a protezione del cranio. Ferite dovute alle armi gladiatorie ( la corta spada, il tridente ed una sorta di punteruolo a quattro punte ) hanno lasciato il segno anche su altre ossa ( cosa rara nelle battaglie normali per armi da penetrazione ) e ci sono segni di spalle rotte, forse come conseguenza dei colpi dati con il grande scudo15. Sedgeford I crani degli scheletri trovati nel cimitero anglosassone di Sedgeford sono stati recentemente sottoposti ad un esame delle ferite. Su 134 resti esaminati, 12 riportavano ferite antemortem e perimortem; il totale delle lesioni su questi 12 crani era di 29, 24 causate da armi da taglio e 5 da armi contundenti. 22 delle 24 ferite da taglio erano riuscite a penetrare il cranio. I colpi taglienti sono rispettivamente: 11 nella parte frontale del cranio, 6 in quella laterale sinistra, 1 in quella laterale destra e 5 nella parte posteriore della testa. Dei colpi contundenti invece 3 sono stati dati frontalmente e 2 posteriormente. Almeno tre individui presentano ferite multiple profonde e almeno uno sembra essere stato colpito anche dopo essere caduto a terra. La seax è probabilmente la spada usata per infliggere queste lesioni16. Altri Ritrovamenti • • • • Un cranio di un giovane dell’epoca merovingia ritrovato a Chassemy in Francia mostra una sezione netta longitudinale della parte superiore del teschio. Il taglio sembra essere stato causato da un colpo di spatha dato orizzontalmente17. In un altro cimitero anglosassone a Dover, un cranio presenta una ferita da spada di 98 mm di lunghezza e 36 di larghezza nella parte parietale sinistra18. I resti di circa 400 individui morti nella battaglia di Aljubarrota, avvenuta nel 1385 tra Portoghesi e Castigliani, furono trovati nel 1958; purtroppo le ossa erano mischiate tra di loro e non è stato possibile differenziare gli individui. Le lesioni più comuni sono agli arti, grossi tagli o amputazioni nette, e danni alla parte frontale del cranio. Le ferite sono state causate da armi da taglio (spade, asce) ma si trovano anche molti danni da frecce e lance. Un buon numero di lesioni sono antemortem, si tratta quindi di danni di battaglie precedenti, perfettamente guariti prima del decesso. In particolare una di queste ferite appartiene ad uomo che aveva avuto un braccio amputato in uno scontro precedente, probabilmente come conseguenza del tentativo di parare un colpo al viso, aveva quindi combattuto a Aljubarrota con un braccio solo19. Una serie di 300 crani di villaggi della Germania meridionale, datati dal VI all’VIII secolo d.C, presenta un 10 percento di fratture al cranio dovute a colpi di spada, di cui il 76% risulta perfettamente guarito. Il colpo è maggiormente fatale quando ha colpito nella zona 15 (Guidi, 2006), pag.123 (Stillwell, 1999) 17 (Lebedynsky, 2001), pag.109 18 (Stillwell, 1999) 19 (Mitchell, 2004), pag.111 16 149 • • • • • • del seno sagittale, un’area dove sono concentrati un gran numero di vasi del cervello. Solo il 12% delle ferite presenta segni di infezione, ed il 10% fu curato con la trapanazione20. Ad Evora in Portogallo sono state trovate una serie di tombe, appartenenti probabilmente a cavalieri di un ordine militare spagnolo, databili tra il XII e XIV secolo. Uno degli scheletri presenta una grande ferita perimortem da spada allo sterno; altri tre ( su un totale di nove ) presentano lesioni traumatiche21. Una serie di corpi è stata ritrovata sul fondo di un pozzo dell’epoca della Corinto franca; si tratta probabilmente di abitanti della città, massacrati durante il sacco da parte dei mercenari catalani nel 1312. I resti presentano ferite alla zona inferiore-posteriore delle gambe (inflitte a gente in fuga), agli avambracci (ferite da difesa) ed ai crani22. Il corpo di un cavaliere (identificato come tale dallo sviluppo delle ossa attorno ai punti di contatto con i muscoli adduttori) ritrovato nella medievale Cox Lane ( Ipswich, Inghilterra ), mostra come poteva morire un soldato montato attaccato da fanti. Ferite da lama alla fibula sinistra, al femore destro ed alle pelvi, sono state probabilmente inflitte mentre l’uomo era ancora a cavallo. A causa di queste non deve essere stato più in grado di mantenersi in sella, ed è stato trascinato a terra; qui ha subito una lesione alla spalla destra e l’amputazione dell’avambraccio destro ( un ultimo tentativo di difesa sollevando la spada? ), poi un fendente al cranio, che lo ha reso incosciente. Infine tagli alle costole stanno ad indicare, un colpo di grazia dato affondando la spada nel petto23. Nel 2001 ad Uppsala furono trovate una serie di sepolture che la datazione al radiocarbonio fece ritenere appartenenti a soldati che avevano combattuto nella battaglia del Buon Venerdì, avvenuta nel 1520 tra la guarnigione danese della città e la milizia popolare svedese. Su 52 crani trovati, 31 presentano 85 ferite da lama, una media di 2,7 per teschio: il 48% si trova nella parte sinistra, il 43% nella parte destra, l’8% sono state inflitte sagittalmente. Le ferite su altre parti del corpo sono meno numerose solo 11 su 9 differenti tipi di ossa, si tratta comunque di colpi dati con grande violenza: un taglio in una vertebra del collo indica che il suo possessore fu quasi completamente decapitato. L’alto numero di lesioni alla testa e la mancanza di danni alle costole ci suggerisce che le vittime potevano avere una buona protezione frontale (scudo) ma erano carenti in quanto ad elmi, offrendo quindi un buon bersaglio agli attaccanti. Altro dato interessente è la mancanza di ferite da difesa, di fronte ad una grande maggioranza di ferite posteriori alle gambe e colpi di taglio orizzontali alla testa, indice che le vittime non stavano affrontando i loro assassini quando furono colpiti, ma fuggivano24. A Safed, una cittadina a 12 km nord del mare di Galilea, nel 1912, venne scoperto un cimitero usato in continuazione dal XIII al XVII secolo. Uno dei teschi scavati mostra chiaramente quale fosse l’effetto di una pioggia di frecce su un capo scoperto: una ferita, poi guarita, a forma di diamante si trova nella parte superiore del cranio. Un altro teschio riporta un chiaro danno causato da un colpo di mazza o da un proiettile di fionda: una lesione depressa nella parte frontale-sinistra del cranio a forma di ovale, che ha causato la morte dell’individuo, provocando un’emorragia extradurale. Alcune tombe della Britannia romana permettono di visualizzare una serie interessante di lesioni25: 20 (Mitchell, 2004), pag.112 (Mitchell, 2004), pag.112 22 (Mitchell, 2004), pag.112 23 (Mitchell, 2004), pag.112 24 (The Battle of Good Friday) 25 (Cox, 2000), pag.368 21 150 • • • • Ritrovamento Zona della lesione Sesso Tipo di lesione Snell’s Corner Dunstable Parietale sinistro Zigomo, mascella M Cirencester Frontale sinistro M Cirencester Parietale sinistro F Cirencester Frontale Cirencester Frontale M Cirencester Parietale M Cirencester Parietale destro M Cirencester Omero destro M Cirencester Omero destro M Cirencester Femore sinistro M Ancaster Frontale sinistro Baldock Poundbury Parietale Parietale e occipitale Depressione guarita Taglio da spada non guarito Taglio da spada guarito Ferita da pugnale guarito Abrasione guarita da freccia o lancia Penetrazione guarita da pugnale Taglio da spada guarito Ferite da taglio e botta guarite Taglio da spada non guarito Due ferite da spada non guarite Taglio di spada non guarito Colpo di spada non guarito Trapanazione guarita Due colpi di spada non guariti M F Sui 250 corpi riportati alla luce sul sito della battaglia di Grunwald (1410) sono stati ritrovati sia colpi di armi da taglio, che parecchie ferite da dardo di balestra26. Nel secolo scorso vennero riesumati i corpi delle vittime della battaglia di Sempach, avvenuta nel 1386. Quasi tutte le vittime dell’esercito degli Asburgo presentavano il cranio spaccato di netto da un colpo di alabarda svizzera27. Scavi condotti ad Atene, hanno portato alla luce i cadaveri di tredici spartani, morti probabilmente nel 403. Uno degli scheletri portava ancora la punta della lancia piantata tra le costole28. Una serie di ferite è stata trovata su crani della popolazione celtica dell’oppida pre-romano di Danebury: un cranio presenta quattro ferite perimortem, due fratture causate da corpo contundente e due buchi. Un osso frontale mostra un chiaro danno da arma da taglio e due ferite da arma contundente29. 26 (Settia, 2002), pag.275 (Carey, 2006), pag.192 28 (Hanson, 1994), pag.227 29 (Cox, 2000), pag.366 27 151 Qui di seguito un elenco di lesioni su scheletri della Britannia celtica dell’età del ferro30: Località Danes Graves Danes Graves Burton Fleming Burton Fleming Burton Fleming Garton Slack Gussage All Saints 30 Berwick Saint John Eggington Zona lesione Parietale sinistra Frontale Torace Pelvi Vertebre Cranio Cranio ed avambraccio sinistro Zona posteriore del cranio Tibia destra St.Merryn Wetwang Slack Wetwang Slack Testa e faccia Occipitale destro Frontale destro Wetwang Slack Danebury Regione dello stomaco Frontale Danebury Danebury Danebury Orbitale destro Osso iliaco sinistro Frontale destro e parietale (Cox, 2000), pag.367 152 Tipo di lesione Taglio di 1-2 pollici 2 pollici di taglio antemortem Punta di lancia Danno da arma incastrata Danno da arma incastrata Foro di 6 mm guarito Strumento tagliente Ferita guarita Danno da spada parzialmente guarito ma infettatosi Danno da spada non guarito Incisione da spada Frattura depressa parzialmente guarita Punta di lancia in ferro Tre colpi contundenti non guariti Colpo contundente guarito Taglio da spada non guarito Colpo contundente non guarito, incluse due fratture depresse Combattimento tra coppie di guerrieri, da una tomba di Paestum. Notare la posizione delle ferite. Coincidono perfettamente con la descrizione del combattimento teatrale di Eteocle e Polinice ( vedere più avanti ) L’EVIDENZA LETTERARIA ED ARTISTICA Lo studio dei cimiteri di guerra ci mostra molti dati interessanti sugli effetti delle armi bianche sui combattenti, ma non ci può dire tutto: ad esempio, come ho già detto in precedenza, non ci permette di studiare i danni sulle parti molli, corrose dal tempo, e le lesioni di alcuni tipi di armi, come le lance, non sono facilmente distinguibili da quelle inflitte da altre, come le frecce. Dobbiamo perciò integrare le informazioni con i dati letterari e le evidenze artistiche dei vari periodi; la mole delle informazioni è enorme e non è pensabile raccoglierla tutta, cercherò comunque di selezionare ciò che di più interessante ho raccolto nella mia ricerca su questo argomento. L’Iliade di Omero offre senz’altro un’ampia panoramica di ferite inflitte al corpo umano in combattimento; il mitico cantore sembra provare piacere nel descrivere le lesioni ed i dettagli anatomici. Durante i 24 libri dell’opera sono descritte 147 ferite di cui 31 alla testa, queste ultime tutte letali: il tasso di mortalità complessivo è del 77,6%31. L’arma omicida per eccellenza è la lancia ( scagliata o impugnata ) cui vanno attribuiti buona parte dei decessi ( 106 lesioni in tutto, 80% di mortalità ), ma ci sono anche ferite e morti causate da spade ( 17 tutte mortali ), frecce ( 12, 42% di letalità ) e rocce ( 12, 66% ). A parte la testa, buona parte dei colpi cade nella zona inferiore del corpo (dallo stomaco in giù, i fianchi) o superiore (spalle, collo, scapole), certi colpi vengono descritti come capaci di trapassare lo scudo e colpire il torace, ma non è sempre chiaro se la vittima stia indossando una corazza o quanto ampia sia la superficie del corpo protetta: nel caso della ferita di Odisseo al passo 11.435, invece, non sussiste dubbio: la lancia di Soco passa scudo e corazza, penetra nel fianco ma non perfora il peritoneo, lacerando probabilmente solo i muscoli e la pelle, abbastanza, comunque, da causare dolore ed una perdita di sangue che indebolisce l’eroe. Interessante la descrizione della ferita mortale di Arpalione (13.645-650): una freccia lo colpisce alla natica destra, evita tutte le ossa del bacino e và a trafiggere la vescica. 31 (Majno, 1991), pag.142 153 Le ferite agli arti non si rivelano di solito mortali, solo molto dolorose; fa eccezione la brutale fine di Ipsenore (5.86), che, colpito “al volo” da un fendente di spada alla spalla, perde di netto l’intero braccio: non c’è accenno ad un eventuale colpo di grazia dato al ferito, che potrebbe essere morto per effetto dello shock provocato dal grave trauma emorragico32. Brutale anche la fine di Ippoloco, ucciso da Agamennone (11.143): incapace di difendersi dalla furia del re di Micene, gli vengono troncate le braccia (e qui probabilmente Omero vuole dare l’immagine di inutile difesa del corpo alzando gli arti) e poi mozzato il collo. Lo stesso Agamennone viene più avanti (11.251) ferito al braccio da una lancia che lo trapassa da parte e parte; il sangue continua a scorrere dalla ferita finché l’Atride combatte, ma al cessare dell’emorragia iniziano a manifestarsi dolori atroci (probabile conseguenza della fine della condizione di stress da combattimento), non è da escludere che la lancia sia arrivata a toccare l’osso. Molte sono le morti di eroi e semplici soldati, colpiti con facilità alla schiena durante la fuga: una scena che doveva essere comune sui campi di battaglia antichi. Ci sono anche casi di evidente stordimento, causati da un colpo molto violento: Paride viene stordito da un fendente di Menelao che colpisce l’elmo: il colpo non si rivela mortale, ma, anche se Omero non ne fa cenno, il guerriero troiano deve rimanerne stordito vista la facilità con cui viene trascinato dal re spartano. Molto più chiaro il danno subito da Ettore dopo che la lancia di Diomede colpisce la cima del suo elmo (11.350): l’eroe troiano sentendosi mancare corre in mezzo ai compagni, ha una perdita di equilibrio e abbassamento della vista, tutti sintomi del colpo alla testa ricevuto, forse addirittura una leggera commozione celebrale33. L’ultima morte in battaglia è quella di Ettore, trafitto da un colpo preciso al collo, l’unica zona lasciata scoperta dalla corazza sottratta a Patroclo, della lancia di Achille, mentre tenta un inutile assalto con la spada cercando di “farsi sotto” la più estesa kill-zone del Pelide. Diversamente da Omero negli scontri reali tra due falangi, un soldato poteva ricevere un numero elevato di ferite non mortali anche attraverso la corazza, come Agesilao a Coronea34 o come Pelopida a Mantinea35, dove il Tebano ricevette 7 lesioni frontali prima di perdere conoscenza; nella stessa battaglia Epaminonda subisce una ferita da lancia al petto e una da spada al braccio. Altri colpi invece sono così forti da penetrare la corazza ed uccidere, e per ferite di questo genere trovarono la morte i due grandi generali tebani. Anche i tipici giavellotti di corniolo usati dai persiani potevano arrivare a trapassare le corazze, come succede ad Artaserse ferito dal fratello Ciro36, il quale a sua volta viene ucciso da un colpo di giavellotto sotto l’occhio37. Subiscono invece il tremendo potere perforante delle frecce carduche due degli spartani compagni di Senofonte: una freccia trapassa lo scudo e la tunica, conficcandosi nel fianco del primo oplita, l’altra colpisce in pieno il cranio del secondo, perforandolo38; anche Alessandro Magno viene ferito quasi a morte in India a causa di una freccia che trapassa la sua corazza e penetra nelle carni al di sopra della mammella; secondo Plutarco39 il dardo si era conficcato nell’osso, Arriano invece riporta di una consistente perdita di sangue dalla ferita che 32 Gli studi dopo la Seconda Guerra Mondiale, dimostrarono che il 65% delle ferite risultava mortale più per effetto del trauma provocato dalla lesione che per la ferita in sé. Ciò portò all’istituzione delle cosiddette MASH (gli ospedali chirurgici mobili) il cui compito era di curare il trauma e stabilizzare la ferita, prima di avviare il ferito negli ospedali fissi nelle retrovie. 33 Uno stordimento simile, causato da un oggetto scagliato da una casa di Argo, segnò la fine di Pirro (Vita di Pirro) 34 Vita di Agesilao 35 Vita di Pelopida 36 Anabasi, 1.8.26 37 Anabasi, 1.8.27 38 Anabasi, 4.1.18-19 39 Vita di Alessandro 154 porta allo svenimento il re macedone40. Sempre per colpa di una freccia, suo padre Filippo aveva perso un occhio all’assedio di Metone41. Non sempre però una corazza cedeva facilmente: Dione42 subisce sull’armatura l’urto di diversi colpi di lancia e giavellotto che trapassano il suo scudo e lo colpiscono; la protezione di metallo ne risulta ammaccata, e poco dopo il fisico di Dione cede per effetto della stanchezza e dei ripetuti shock da urto43. Erodoto ricorda la resistenza della corazza a squame d’oro del persiano Masistio, che non cedeva agli affondi delle lance ateniesi, perciò il suo possessore venne alla fine trafitto in un occhio44. Le ferite alle estremità dovevano essere numerose in battaglie dove buona parte del tempo il torace era coperto dal grande scudo, e i soldati si trovavano a distanze ravvicinate: ferite al braccio45, alla mano, al piede46 o alla coscia47; una serie di lesioni non letali poteva provocare lo svenimento per l’eccessiva perdita di sangue48. D’altro canto un uomo poteva combattere per diverso tempo pur con ferite letali (ma non disabilitanti) e riuscire a ritirarsi prima di morire, come lo spartano Phillio49. Ma un colpo ben mirato era in grado di arrivare a colpire nella zona delle viscere anche negli scontri tra opliti50, come spesso capita nell’Iliade, e provocare una morte dolorosa e non immediata. Una battaglia simulata, presentata nella Ciropedia51, mostra la differenza di zone colpite tra le armi da lancio, usate per un tiro diretto, rispetto a quelle per il combattimento ravvicinato: le zolle scagliate a distanza come fossero sassi, colpiscono in prevalenza lo scudo e la corazza o le cosce ed i gambali52; le canne, usate come lance, impattano in prevalenza gambe e braccia, mentre il dorso e la testa diventano bersagli accessibili nel momento in cui i lanciatori di zolle si scoprono per raccogliere altri “proiettili”. Gli effetti di un tiro diretto di giavellotto scagliato corto, li sperimenta Filopemene in Plutarco53 a Sellasia, quando un giavellotto gli attraversa entrambe le cosce; evidentemente, per buona fortuna del generale acheo, l’arma non tocca ne ossa, ne tendini, ne arterie. Alcune iscrizioni dedicate da soldati guariti nei templi di Asclepio aggiungono informazioni reali ai dati letterari: Gorgia venne ferito da una freccia alla coscia, Timone da una lancia sotto l’occhio, Anticrate da una lancia negli occhi54, Euhippos da una lancia alla mascella55. Alcune monomachie ( reali o teatrali ) della letteratura greca ci presentano dettagli interessanti sia sul modo di combattere che sulla tensione dello scontro ravvicinato: • Nelle Fenicie56 lo scontro tra Eteocle e Polinice mostra chiaramente differenti stili di lotta con diverse armi: il duello inizia con entrambi i contendenti armati di lancia e scudo ed ambedue cercano di colpirsi a vicenda il volto quando questo esce dalla protezione offerta 40 Anabasi di Alessandro, 6.10.2 Epitome delle Storie Filippiche, 7.6 42 Vita di Dione 43 Dione aveva già una certa età in questo episodio 44 Storie di Erodoto, 9.22 45 Biblioteca Storica, 16.12.4, 17.61.3 46 Vita di Dione, Moralia 241 F 151 47 Vita di Arato 48 Biblioteca Storica, 12.62.3 49 Vita di Pirro 50 Tirteo,7.21-25 da Hanson pag.228 51 Ciropedia 2.3.17-20 52 Evidentemente i “bersagli” umani, per proteggere il volto, tenevano alti gli scudi, perciò i tiri alti colpivano questo o la parte inferiore della corazza, lasciata scoperta, mentre quelli bassi colpivano le gambe egualmente scoperte. 53 Vita di Filopemene 54 (Majno, 1991), pag.201-203 55 (Chaniotis, 2005), pag.96 56 Fenicie, righe 1380-1420 41 155 • • dallo scudo: in posizione di difesa totale ( scudo che copre volto e torace ) sembra impossibile assestare una ferita ad una zona del corpo dell’avversario ( nemmeno alla gamba sinistra che dovrebbe essere in posizione avanzata, se ne deduce quindi che lo scudo doveva trovarsi in posizione obliqua rispetto alla perpendicolare del corpo con il bordo inferiore sollevato verso l’alto, come si vede in numerose immagini di opliti ). Un errore di Eteocle, che scopre una gamba calciando un sasso, permette a Polinice di trapassargliela con la lancia, subendo però a sua volta un affondo alla spalla rimasta scoperta durante l’attacco ( con tutta probabilità la spalla destra, portata in avanti assieme a quella zona del corpo, per sferrare l’attacco della lancia ). L’arma di Eteocle però si spezza nell’impatto con il corpo di Polinice, il quale poi perde la propria a causa di un masso scagliato da Eteocle. A questo punto si arriva allo scontro con le spade: gli scudi dei due guerrieri cozzano ripetutamente uno contro l’altro ( nel tentativo di sbilanciare l’avversario all’indietro, costringendolo a scoprire le gambe o a perdere l’equilibrio ), finché Eteocle esegue la “finta dei Tessali”, cioè porta indietro la parte sinistra del corpo ed avanza con la destra mentre Polinice attacca con lo scudo. Questa mossa sbilancia l’avversario di Eteocle, e permette a quest’ultimo di penetrare nella sua guardia superando lo scudo, affondando la spada nell’ombelico, fino alle vertebre: una ferita sicuramente letale, ma che non sembra provocare la morte immediata. Avvicinatosi incautamente al morente Polinice, senza difesa, Eteocle viene colpito al fegato dall’ultima reazione disperata del fratello, perdendo anch’egli la vita. Il duello a cavallo tra Eumene e Neottolemo57 è un teatrale e drammatico esempio di combattimento ravvicinato tra cavalieri antichi e privi di staffe; armati di spade e senza scudo i due generali si scagliano uno contro l’altro, si afferrano a vicenda cercando di strapparsi l’elmo o la corazza, per colpire poi con la spada. Cadono entrambi da cavallo e continuano a lottare stesi al suolo; Neottolemo cerca di rialzarsi, ma Eumene ( non è specificato come da Plutarco, ma potrebbe anche essere stato per mezzo di una presa di lotta o di pancrazio che Eumene praticava da giovane in Cardia ) riesce a rompergli un ginocchio ed a rialzarsi; costretto a terra, Neottolemo deve difendersi dai colpi scagliati dall’alto, finché viene finito da un colpo di spada al collo. Ma come per Polinice, il colpo non è istantaneamente letale, ed il morente riesce a ferire Eumene poco sopra l’inguine, anche se si tratta di una ferita leggera. Pur vincitore il generale di Cardia ha subito numerose ferite alle braccia ed alle cosce. Il duello tra Pirro e Pantauco, generale di Demetrio58, avviene nel mezzo di una battaglia; come nelle Fenice, lo scontro inizia con le lance e poi si passa alle spade. Pirro subisce una ferita ( non specificata la posizione ), ma ne assesta due all’avversario, una alla coscia e una vicino al collo. Pantauco arretra e cade, venendo salvato dall’intervento dei commilitoni. Lo scontro di cavalleria al Granico offre una buona visuale sul caos che si generava durante una lotta tra gruppi di cavalieri; nella versione di Plutarco Alessandro viene sfiorato dal lancio di un giavellotto, ed aggredito da Resace e Spitridate. Alessandro evita il secondo, e colpisce il primo sulla corazza con la lancia, che però non riesce a penetrare e si spezza; i due cadono da cavallo avvinghiati lottando con le spade. Spitridate ne approfitta e con la scure colpisce Alessandro sull’elmo, che viene quasi attraversato, fino a sfiorare i capelli del re macedone. Il persiano viene subito trafitto con una lancia da Clito il Nero prima di poter sferrare un secondo fendente, mentre Alessandro finisce Resace con la spada. Nello stesso episodio narrato da Arriano, Alessandro individua nella mischia Mitridate, il genero di Dario, lo raggiunge e lo uccide trafiggendogli il volto con la lancia; Resace colpisce alle testa con la 57 58 Vita di Eumene Vita di Pirro 156 spada il maacedone, sppezzandogli l’elmo, maa Alessandro o subito doppo trafigge aanche lui perforandoogli la corazzza. Spitridaate cerca di fendere il re con la spaada sorprenddendolo da dietro, ma Clito lo anticipa ampuutandogli il braccio chee impugna l’arma. Non viene evidenziatoo, da nessunno dei due autori, a alcun n effetto neggativo del coolpo alla tessta che distrugge l’elmo, l sul fisico f di Aleessandro, mentre m ci si aspetterebbe a e almeno quualche attim mo di stordimentto ed impoteenza; ma pootrebbe anchhe essere un na prova dellla qualità ddi fabbricaziione dell’elmo del d re. L’immagiine qui di fian nco mostra ch hiaramente una u casistica di colpo orrizzontale. Dii fronte all’avvversario ineerme l’attaccante sferra un colpo c caricatoo che probab bilmente colpirà il lato l destro deel cranio o deel volto. Al prrimo colpo se ne succedeeranno molti altri. Un fante maacedone sferrra un fendentte ad un persiiano; con tuttta probabilità il i colpo andrà a cadere o sulla s testa o sulle s spalle. Facile notarre come l’attaaccante porti in avanti la parte p destra del coorpo, carican ndo il colpo coon il peso del prooprio corpo. I più devastan nti tra colpi di d taglio trovati a Wiisby dovrebb bero essere laa conseguenzaa di questa modalità di colpire. Si può altressì vedere com me questo movvimento scopra tuttoo il lato destroo del macedon ne; probabilm mente il difensore noon avrà mai l’occasione di d sfruttare questo q varco, sembra infatti che il i persiano ab bbia alzato lo scudo in mod do anticipato o, forse per efffetto di una fiinta o di un prim mo colpo del suo s avversariio. Come già deetto a proposiito di Wisby, i colpi mirati di sollito venivano sferrati in seerie, lasciandoo poche possibilità di d contrattaccchi rapidi sullle parti scopeerte dell’attaccan nte. 157 La raffigurazzione di questto vaso mostrra una ferita alla coscia L i inflitta dall’asta di un opliita. Si nota su ubito come il colpo venga d dato da sotto lo scudo mirrando alle gam mbe; al contrrario il colpo s scagliato dall’alto verso il basso dal ferrito, pur perfforando lo s scudo non rieesce a raggiun ngere il corpoo. E’ quindi ben b e evidenziata l’’importanza di d tenere incllinato lo scud do, creando u spazio dii sicurezza traa questo ed ill corpo. uno D Difficile capirre in che situaazione avvenga l’attacco: il guerriero d destra sem di mbra essere stato colpito m mentre fuggiva a, ma il fatto c sferri un attacco lo ren che nde poco proobabile. Forsee viene ferito m mentre sta ceercando di esttrarre la prop pria lancia da allo scudo d dell’avversar rio: il corpo è scoperto com me conseguen nza dello in avanti del peso del corp s spostamento po (altrimentti avrebbe potu d difficilmente uto perforaree lo scudo). Situazione analoga a qui a destra in queesta raffigurazione dello scon ntro tra Achillle e Memnone. La L lancia del secondo perffora lo scudo ma si ferma nello spazio s tra lo scudo s ed il corpo, lasciando l Achille libero di affondare daall’alto versoo il corpo scop perto di Memnone. Qu uest’oplita ro otta la propriaa lancia, cercca di afferrarre la spada, maa sta per esseere colpito (seembrerebbe n nel fianco) prroprio nella fasse di rotazion ne del corpo. 158 Immagini dii posture difeensive: nella prima p lo scud do è tenuto peerpendicolaree al suolo meentre il corpo è spostato all’indietro. Nella second da il rapportoo tra scudo e corpo è inverrtito. In entraambi i casi l’oobiettivo è meettere più spazio possib bile tra sé e le armi dell’avvversario. Si può altresì notare n come si s può passaree facilmente dalla d prima te spostando in avanti ed indietro la gaamba destra. alla secondaa e viceversa semplicemen s Nell’immaggine a sinistra a si vede l’usoo di un telo atttaccato alla parte p inferiore dello scudo. Lo scopo probaabile era proteggere le parrti inferiori del corpo daalle armi da lancio, l che, coome abbiamoo visto, cadev vano spesso sulle gambee. Qui soprra un arciere ferito al bracccio viene bendato da un compagno; a causare la ferita è sta ata probabilm mente una freeccia scagliata a da un avversarrio. 159 Passando all’evidenza del periodo romano, non si può non cominciare con il mitico combattimento tra Manlio Torquato ed il suo avversario celta59. Indubbiamente la ricostruzione dell’avvenimento è basata su stereotipi ed anacronismi ( come l’armamento di Torquato ), ma è comunque interessante perché ci permette di vedere qual’era per i Romani60 la tecnica ideale in un combattimento con le spade. Il celta comincia per primo il suo attacco proiettando in avanti il suo scudo con la sinistra contro il romano avanzante, scagliando contemporaneamente un fendente che però va a vuoto; Torquato, solleva e sfrutta il proprio scudo per spostare quello avversario, colpendone la parte inferiore, entra nella guardia del gallo, e scaglia due potenti e fatali affondi nel ventre e nell’inguine. La sequenza dello scontro appare più chiara se, invece di dividere le azioni del celta e del romano come Livio, le consideriamo parallele una all’altra: • • • • • Il gallo vedendo venire contro di lui il romano, alza di scatto il bordo inferiore dello scudo in diagonale per colpirlo in volto o sbilanciarlo mentre si muove. Torquato, che doveva aspettarsi la mossa, usa il proprio scudo e lo stesso movimento dello scudo celtico, per deviarlo verso l’alto. Il celta muove la parte destra del corpo in avanti per sferrare un fendente con la massima forza. Torquato si butta nel varco creatosi tra il corpo e lo scudo dell’avversario, facendo andare a vuoto il fendente (probabilmente anche a causa dello sbilanciamento causato dallo spostamento dello scudo). I due potenti affondi concludono lo scontro. Livio non parla esplicitamente delle spostamento in avanti della zona destra del corpo del Gallo, ma è evidente dalla posizione delle ferite, che ciò sia avvenuto: se la parte destra fosse rimasta indietro, la mano destra di Torquato non avrebbe mai potuto arrivare a colpire ventre ed inguine. La velocità con cui si conclude l’incontro ( pochi secondi ), è dovuta in parte alla baldanza ed aggressività con cui combattono i due; il movimento del romano è magnifico, come dicevo sopra ideale61, ma non bisogna dimenticare che è anche estremamente rischioso: una frazione di secondo di ritardo nel deviare lo scudo o a muoversi in avanti avrebbe significato la fine. Improbabile che l’esempio fosse seguito da molti legionari ( come vedremo nella descrizione dell’esercizio al palo narrato da Vegezio ). Interessante è anche notare che il romano non si accontenta di 2 pollici di penetrazione nelle viscere, ma assesta due potenti colpi nelle parti molli, ed indubbiamente la morte quasi immediata dell’avversario è dovuta in buona parte al trauma della violenza delle lesioni con probabile rottura delle arterie addominali; la spada deve essere stata spinta parecchio in fondo: decisamente Torquato era più prudente di Eteocle! E’ dunque la spada, e non la lancia, a rappresentare l’arma omicida nell’immaginario romano: le ferite lasciate dalle spade di cavalleria romane sui corpi dei compagni (braccia e teste tagliate, intestini lacerati) sgomentano i cavalieri macedoni abituati a vedere ferite da perforazione62. 59 Storia di Roma, 7.10.9 Per lo meno nell’epoca di Livio (vedi dopo) 61 Ed infatti, lo stesso episodio narrato da Quadrigario, l’annalista fonte dello stesso Livio, riportato da Aulo Gellio nelle Notti Attiche (9.13.6-19), presenta differenze. Qui Torquato non appare più l’abile e freddo schermidore presentato da Livio, ma un irruento poco tecnico guerriero. Il romano colpisce di peso, a ripetizione, con lo scudo quello dell’avversario, sbilanciandolo ripetutamente e ferendolo in modo non letale varie volte prima di riuscire ad assestare un colpo mortale. Livio deve aver abbellito l’episodio prendendo forse spunto da qualche tecnica gladiatoria. 62 Storia di Roma, 31.34.1-5 60 160 Ma anche i greci erano colpiti dalle terribili lame a doppio taglio dei soldati romani: famosa la descrizione di Polibio63, ma anche la narrazione di Plutarco della battaglia di Pidna64, dove le pesanti spade romane trapassano i piccoli scudi e le armature dei falangiti. Nonostante questo la lancia resta l’arma principale negli scontri di cavalleria, ed un cavaliere riusciva a colpire con molta forza nonostante la mancanza di staffe: Marcello, durante il duello che gli permise di vincere gli spolia opima, riuscì a perforare la corazza del comandante dei galli, buttarlo giù da cavallo, e finirlo con tre affondi di lancia dati al corpo steso al suolo65; anche il giovane Pompeo vince un duello a cavallo contro un guerriero celtico, trapassandolo con la sua lancia66. Ma nella battaglia romana c’era anche un notevole scambio di dardi: legionari e veliti portavano con sé un certo numero di giavellotti pesanti o leggeri, che si sommavano agli archi e le frombole fornite dai fanti ausiliari o mercenari67. E se la spada uccide, il dardo ferisce dolorosamente: i Galati scoprono a loro spese, durante la campagna del console Manlio Vulso68, quanto sia pericoloso affrontare un tiro intenso di armi da lancio, senza armatura e scudi larghi. Frecce ed aste penetrano nella carne ed i guerrieri non riescono ad estrarli ( probabilmente a causa della punta uncinata ). Ma anche i Romani fanno un’amara esperienza delle ferite causate dalle frecce, nonostante le armature di ferro: a Carre i dardi dei Parti trapassano lo scudo colpendo il braccio che lo regge, inchiodano i piedi al suolo, penetrano in profondità nella carne causando atroci dolori69. Tito Balvenzio in Gallia subisce la perforazione di entrambe le cosce a causa di un giavellotto, mentre Aurelio Cotta, nello stesso scontro, viene colpito alla bocca da un tiro di fionda70. Plutarco riporta che Cassio Sceva a Durazzo, perse un occhio per colpa di una freccia, fu ferito alla spalla ed alla coscia da due giavellotti, ma riuscì a colpire con la spada due dei suoi aggressori, uno alla spalla e l’altro al volto; probabilmente la perdita dell’occhio fu causata da una ferita di striscio o una penetrazione superficiale fermata dall’osso, un colpo diretto sarebbe arrivato al cervello provocando quasi certamente la morte immediata71. Nel Bello Africo vediamo Labieno vittima di un tiro corto di giavellotto72, che va a colpire il suo cavallo. Vespasiano riceve una freccia al piede all’assedio di Iotapata, dolorosa ma non grave73. Meno fortunato Giuliano, che cadde vittima di un giavellotto, che andò a perforargli il fegato ( emorragia ), probabilmente nella zona dove quest’ultimo è coperto da pleura e polmone ( ebbe infatti difficoltà respiratorie )74. Arrivando a Vegezio, malgrado la sua affermazione circa la letalità degli affondi nelle viscere75, vediamo che ai legionari era insegnato a colpire in zone più facili da raggiungere quando si combatteva contro un avversario dotato di scudo: fianchi, testa e gambe, di taglio e di punta; i legionari imparavano a balzare in avanti e colpire, ed a tornare a ripararsi dietro lo scudo76. Una schema simile a quello ricostruito a Wisby. Sicuramente una buona corazza rendeva problematico all’attaccante cercare di colpire zone vitali, anche su soggetti non in grado di difendersi al meglio, 63 Storie di Polibio, 6.23 Vita di Emilio Paolo 65 Vita di Marcello 66 Vita di Pompeo 67 Alexander Zhmodikov in un suo articolo ipotizza un ruolo offensivo primario allo scambio di dardi, rispetto al combattimento corpo a corpo (Roman Republican Heavy Infantrymen in Battle). 68 Storia di Roma, 38.21.7-15 69 Vita di Crasso 70 De Bello Gallico 5.35 71 Vita di Cesare, circostanza che però, come vedremo, non è sempre vera. Ma se Sceva avesse combattuto con una freccia nell’occhio, la circostanza eccezionale sarebbe stata riportata dal cronista. 72 Bello Africo16 73 Guerra Giudaica, 3.7.22 74 Storie di Ammiano, 25.3 75 Epitoma Rei Militaris, 1.13 76 Epitoma Rei Militaris, 2.23 64 161 come il centurione Giuliano77 all’assedio di Gerusalemme, che caduto a terra subisce l’amputazione degli arti, ma non colpi alla parte centrale del corpo perché protetta da scudo, armatura ed elmo. Germanico considera l’uso di protezioni solide da parte dei Romani un grande vantaggio sugli avversari che ne sono privi78. Dionigi di Alicarnasso, parlando delle tecnica di spada romana, afferma che se il petto è coperto, allora si cerca di tagliare i tendini delle gambe79. Ma nemmeno la migliore protezione possibile poteva garantire contro un colpo dato con forza o con un’arma pesante: questa amara scoperta la fecero i Crupellari, che, coperti completamente di piastre di ferro, vennero finiti dai legionari a colpi di scure e dolabre80. Alcuni colpi potevano perforare corazza ed abiti, ma non conservare abbastanza forza per arrivare agli organi interni, lasciando solo cicatrici sulla vittima e i comandanti romani andavano fieri di queste “medaglie al valore”81: Manlio Capitolino fu ferito alle spalle ed al femore, M.Sergio Silo, antenato di Catilina, perse di netto la mano destra82 e fu ferito così tante volte da avere difficoltà nell’uso del piede, M. Aquilio ricevette una ferita alla testa durante la guerra servile in Sicilia83. La testa, abbiamo già notato nelle evidenze archeologiche, era un bersaglio privilegiato ed il solo sporgerla da dietro lo scudo per vedere il proprio avversario, poteva rivelarsi letale se quest’ultimo era pronto, come accade a Crastino a Farsalo, quando viene trafitto al volto da un gladio84. Sempre Germanico consiglia ai suoi legionari di colpire i Germani, impacciati dalle lunghe lance nelle foreste, al viso85. Publio Orazio infilza la gola del suo avversario passando sopra lo scudo, forse usando la spada come un pugnale o ruotando il polso86. Lo stesso scudo poteva anche diventare un’arma offensiva contundente, come abbiamo già visto nel combattimento di Torquato contro il celta; Tacito narrando dello scontro al Monte Grapius, parla dei colpi dati dai Batavi con l’umbone dello scudo87. Luciano nel dialogo “Toxaris” crea un combattimento romanzato tra gladiatori, probabilmente basato su situazioni comuni negli scontri che avvenivano quotidianamente nelle arene del mondo romano. Toxaris uno scita, si offre volontario per uno combattimento contro un gladiatore per vincere un premio di 10000 dracme, che gli consentirebbe di tornare in patria; il gladiatore suo avversario, è armato con una spada ricurva e potrebbe quindi essere un Trace, mentre Toxaris, pur indossando la corazza, rifiuta di mettersi l’elmo. Lo Scita riceve per primo una ferita alla parte posteriore della coscia (probabilmente come conseguenza di una finta alla testa): una lesione ai tendini di questa zona compromette gravemente il movimento, oltre che essere dolorosa e sanguinare parecchio: in caso di taglio netto la gamba può collassare. Fortunatamente per Toxaris, i muscoli non sono recisi ma solo danneggiati, si trova però in una situazione poco allegra, praticamente alle mercé del suo avversario; il gladiatore deve però aver commesso un errore, forse dovuto alla troppa sicurezza: probabilmente cerca di colpire con un fendente verticale, invece che diagonale od orizzontale, permettendo a Toxaris di schivare usando gli unici movimenti che poteva fare ( una rotazione sulla gamba sana, o uno spostamento laterale del corpo ), sbilanciando così per un istante il gladiatore, e affondando la spada nel suo petto, spingendo poi la lama completamente dentro con tutto il peso del corpo, provocando la morte immediata. La scelta del bersaglio ( zona alta del torace ) non è causale, malgrado l’opinione diffusa che ogni affondo sia letale, solo pochi 77 Guerra Giudaica, 6.1.8 Annali, 2.14 79 Antichità Romane, 14.10.2 80 Annali, 3.46 81 Storia di Roma, 45.39.18-19, vedere anche (Cowan, 2007) 82 Historia Naturalis, 7.29 83 Contro Verre, 2.5 84 Vita di Cesare 85 Annali, 2.14 86 Storia di Roma, 1.25 87 Agricola, 36.2 78 162 punti vitali producono la morte istantanea: Toxaris deve aver colpito il cuore o un’arteria maggiore, distruggendola completamente spingendo la spada nel corpo88. Anche le armi dei nemici di Roma potevano rivelarsi letali: Ammiano descrive la testa di un soldato spaccata in due da una spada sassanide89, mentre Plutarco narra del terribile potere perforante del contus partico90 ( forse con un po’ di esagerazione retorica ). Nel De Beneficiis Seneca91, riporta il caso di un veterano di Cesare, cui, a Munda, un colpo di falcata iberica ruppe l’elmo, le ossa del cranio e strappò un occhio. Le sarisse macedoni fanno strage di soldati italici, perforando scudi e corazze92. Ritornando un momento ad Ammiano, notiamo che lo scrittore tardo-romano è particolarmente abile nel descrivere l’orrore di un campo di battaglia; nella sua storia troviamo: schiene falciate da colpi di spada93, fianchi trapassati da lame perché lasciati scoperti dallo scudo94, teste spaccate da colpi di giavellotto95, petti squarciati, tendini delle gambe recisi, arti destri amputati96 e morti per dissanguamento97. Celso fa un classifica della mortalità delle ferite; l’autore romano considera incurabili le lesioni alla base del cranio, al cuore, all’esofago, alla vena porta, alla parte mediana del polmone, all’intestino digiuno e tenue, stomaco, reni e le grandi arterie e vene. Quasi impossibili da guarire sono le ferite alle altre parti del polmone, dell’intestino, ed alla meninge; molto pericolose le lesioni che recidono i vasi sotto l’ascella o dietro il ginocchio. 88 La ricostruzione del combattimento sulla base del testo di Luciano è di (Amberger, 1996), pag.170-173 Storie di Ammiano, 18.8.12 90 Vita di Crasso 91 De Beneficiis, 5.24.3.2-8 92 Vita di Emilio Paolo 93 Storie di Ammiano, 16.12.52, 17.13.10 94 Storie di Ammiano, 16.12.49 95 Storie di Ammiano, 16.12.53 96 Storie di Ammiano, 17.13.10 97 Storie di Ammiano, 19.2.15 89 163 A sinistra: un legionario trafigge un guerriero dace con la lancia. Qui sotto: un altro dace viene colpito nel fianco o nelle viscere assieme ad un potente colpo di scudo al volto dato con il peso della parte sinistra del corpo. Una penetrazione del genere nelle viscere, era praticamente sempre letale (oltre che dolorosa), ma non garantiva la morte immediata dell’avversario. Contro avversari privi di scudo ed armatura simili attacchi risultavano più “facili”. 164 A sinistra: fendente dato ad un nemico inginocchiato (forse scivolato sul corpo del compagno). Con tutta probabilità il colpo andrà a colpire sulla parte sinistra del cranio, con la forza data dal movimento in avanti della parte destra del corpo. Qui sotto: due ferite da perforazione inflitte ad avversari in posizione inferiore, una con la spada l’altra con il pilum. Un colpo del genere può facilmente recidere l’arteria sub-clavicolare causando un grossa emorragia che porta rapidamente alla morte, ma può penetrare anche nella cavità toracica, danneggiando polmoni cuore ed arterie maggiori. 165 Qui di d fianco: scen na di cura di feriti dalla co olonna Traia ana. L’uomo a destra è chiiaramente sta ato ferito alla coscia; meno sicuro s il tipo di lesione chee l’uomo sulla sinistra vuol rappresentarre: il fatto ch he debba esseree tenuto drittto da un comp pagno alle su ue spalle e dal medico, m che siaa senza elmo,, la testa pieg gata in avantii fanno o pensare ad una u qualche ferita al cran nio o ad una comm mozione cereb brale dovuta ad un forte colpo. c Questa idea sembra s confeermata dal fatto che il med dico sembra osserv vare la parte superiore deel cranio. Qui a sinistrra: da Durazzzo un rilievo che mostra un u raro esemp pio di combattentee mancino. Il colpo dato da sopra lo scu udo in questo o modo, doveva esserre sferrato molto m vicino alll’avversario data la manccanza di movimento in i avanti dellla parte del corpo che reggge l’arma. Probabilmen nte veniva attuato quandoo l’avversarioo copriva completameente il volto dietro d lo scudoo ed era percciò irraggiung gibile da un colpo più ù diretto. Un attacco simile poteva perfforare il collo o con la punta della spada oppure infliggere una u lesione daa taglio alla parte p posteriore del d collo, dann neggiando an nche la colonn na vertebralee, se l’avversarioo teneva la tessta bassa diettro lo scudo. Figura da riilievo palmireeno: ancora una u rappreseentazione di una”potenzial u le” ferita da d difesa. 166 Se spostiamo il nostro sguardo al periodo medievale e rinascimentale, vediamo che la lancia, e poi tutta una serie di armi d’asta, sostituiscono la spada come arma principale della fanteria; la lunga spatha tardo-romana, diventa l’arma delle elite combattenti. Restano comunque in uso per i fanti forme corte di armi da taglio: un esempio tipico è la scramasax, impiegata in varie tipologie dall’epoca delle invasioni fino al periodo carolingio; si trattava di una lama ad un solo taglio lunga da 50 a 70 cm. Il fatto che fosse un’arma secondaria rispetto alla spatha non pregiudicava la sua efficacia: nel Waltharius, opera epica del X secolo basata su una tradizione visigota di 5 secoli prima, l’eroe, perduta la spatha e la mano destra, impugna con la sinistra quella che dovrebbe essere una sax ( o comunque un lungo coltello ), riuscendo a ferire gravemente al volto e alla mascella il suo avversario98. La spada lunga, anche se perde la punta rispetto ai modelli romani, mantiene ancora un tremendo potere nei colpi di taglio: famosa la fine di Odoacre, ucciso da Teodorico, con un fendente che attraversa il corpo dalla scapola fino alla gamba, una cosa così straordinaria che lo stesso uccisore affermò che lo Sciro non aveva ossa99. Anche le spade arabe erano armi efficaci: Giovanni di Joinville nella sua storia di San Luigi, racconta che ad AlMansurah due nobili furono trafitti al volto ripetutamente da affondi lancia mentre un terzo ricevette un fendente al volto che gli fece cadere il naso sulla bocca, causando in seguito la sua morte100. Nella stessa battaglia il Conte di Bretagna, subisce una lesione da spada al volto, tanto che il sangue gli finisce anche in bocca, andando comunque avanti a combattere. Alla battaglia del Campo di Sangue (1119) Ruggero di Salerno morì per il colpo di una lama al viso, in mezzo al naso, che gli penetrò fino al cervello101. Le asce, da lancio o impugnate, erano armi più a portata del normale fantaccino, semplici ma efficaci, anche contro nemici dotati di corazza: Procopio102 ci informa di come la fanteria franca scagliasse la francisca all’unisono, sfondando scudi ed uccidendo uomini, ad Hastings Guglielmo di Poitiers riporta il lancio di asce contro i normanni avanzanti103, probabilmente si trattava di armi leggere. Le più famose asce a due mani degli Huscarls sassoni dovevano infliggere ferite tremende sia agli uomini che ai cavalli. Il tipico attacco con l’ascia ad una o due mani avveniva con fendenti verticali od obliqui, per cui la testa e le parti superiori del corpo, erano le zone più minacciate da quest’arma. Molti guerrieri nelle saghe nordiche subiscono mutilazioni terribili per effetto delle armi da taglio impiegate104. Nella descrizione fatta da un mercante tedesco, che aveva osservato nel 1471, un esercito di ritorno da una battaglia, le ferite si concentrano sul volto e nella parte bassa del corpo degli sventurati feriti105. Gregorio di Tours racconta come durante uno scontro contro gli uomini della regina che lo vogliono arrestare, il comes Leudast venga ferito al cranio da un colpo che “gli portò via capelli e pelle da una gran parte della testa”106. Froissart parlando della già citata battaglia di Aljubarrota, descrive come i cavalieri francesi, appiedati, dessero colpi tremendi con le asce da guerra sugli elmi dei loro avversari, che restavano uccisi o feriti. Un passo della saga di Knytlinga narra delle lesioni ai piedi ed alle gambe subite dai Danesi in battaglia, mentre 150 anni più tardi i soldati di Riccardo Cuor di Leone infliggono ai difensori turchi di una nave abbordata, ferite a piedi, mani e alla testa107. Ancora a Fornovo, nel 1495, Alessandro Beneditti, osservando i chirurghi all’opera sui feriti parla di mani e piedi amputati, 98 (Lebedynsky, 2001), pag. 148 Giovanni di Antiochia, frammento 214 a; colpi di questo genere diventavano leggendari, e questo dovrebbe dare l’idea della loro rarità: Pirro, Goffredo di Buglione, l’imperatore Corrado, il conte d’Angouleme detto Tagliaferro e persino il generale napoleonico Dumas, sono tutti accreditati di simili performance 100 (Mitchell, 2004), pag. 154, Vita di San Luigi 101 (Mitchell, 2004), pag. 164 102 Guerra Gotica 2.25 103 (Gravett, 2000), pag. 67 104 (Griffith, 1995), pag. 207 105 (Bartlett, et al., 1995), pag.51 106 Storia dei Franchi, 6.32 107 (Mitchell, 2004), pag.153, Itinerarium Peregrinorum et Gesta Regis Ricardi 99 167 intestini fuoriusciti, crani aperti. Dei morti che aveva osservato molti avevano una ferita da perforazione a gola o volto ( probabilmente date ai cavalieri con pugnalate attraverso i varchi dell’armatura ) mentre pochi portavano ferite da lacerazione provocate dai colpi di artiglieria108. Ma come abbiamo detto la lancia resta l’arma più usata dalla gran massa della fanteria, ed anche un re come Teia, nella sua ultima battaglia, combatte con lancia e scudo, uccidendo con la prima e respingendo con il secondo109. Dalle raffigurazioni la postura con cui veniva tenuta l’arma non ha subito grossi cambiamenti rispetto agli opliti della Grecia classica. Man mano che il potere della cavalleria cresce, la lancia viene sempre più usata come arma difensiva dietro muri di scudi, per proteggersi dalle cariche; punte arrotondate avevano più potere perforante mentre punte a lama larga potevano servire anche come armi da taglio. Con il ritorno in auge della fanteria nel tardo medioevo, l’arsenale a disposizione si fa più vario, complesso e letale: picche, alabarde e goededag diventano il terrore della cavalleria nobile. Se la picca è usata come arma da perforazione, l’alabarda è terribile anche come arma da taglio. I manuali tardo-medievali illustrano varie tecniche di impiego. Carlo il Temerario è la vittima più illustre della nuova fanteria e delle sue tremende armi: dopo la battaglia di Nancy, il suo corpo venne ritrovato, spogliato delle armi e dei vestiti, con tre ferite in diverse parti del corpo110. Ma è la cavalleria a subire l’evoluzione più brusca nel medioevo; prima dell’anno mille vediamo ancora i cavalieri battersi in modo non diverso da Claudio Marcello, testimone un passo di Procopio che descrive lo scontro tra due cavalieri, Coca e Anzala, dove uno scarto sul fianco con il cavallo, permette al secondo di evitare un affondo di lancia al ventre e di colpire il fianco sinistro dell’avversario111. Uno scontro, quindi, fatto di manovre di aggiramento dell’avversario, in cui si fa scherma di lancia112. Dalla seconda metà del XI secolo, però, la nuova tecnica della lancia d’urto ( tenuta sotto l’ascella ) cambia le cose: bersaglio dell’arma diventa la parte frontale dell’avversario, l’obbiettivo è penetrare e rompere lo scudo, sbalzarlo da cavallo, il combattimento ravvicinato diventa un lavoro di spada, usata con miglior efficacia e stabilità grazie alle staffe. Un simile uso della lancia, in precedenza, era associato ai cavalieri contarii, sarmati o persiani, che però tenevano la lunga lancia con le due mani poggiandola al ginocchio113; i Longobardi, forse influenzati dalla cavalleria avara, continuavano questa tradizione ancora nel VII secolo: Paolo Diacono ci racconta di come un contario porta-stendardo di questo popolo, trafigga un cavaliere greco e riesca sollevarlo in aria114. Indubbiamente la punta della lancia doveva essere penetrata parecchio in profondità nel corpo della vittima. Caricando frontalmente il bersaglio principale è il torace dell’avversario: la violenza del colpo può essere tale da perforarlo completamente; ma poteva anche cadere sul fianco con effetti meno gravi. Se la punta colpiva la parte superiore dello scudo, potevano venire lesionati braccia e spalle. Combattendo con la spada, invece, la testa era il bersaglio principale, assieme al volto e alla mascella; se il colpo mancava il cranio, spalle e braccio destro erano comunque esposti al pericolo di lesioni115. Gli effetti di simili danni potevano dipendere dall’organo o tessuto colpiti o dal fatto che si generasse o no un’infezione: Filippo da Novara nel 1229 sopravvisse ad un colpo di lancia che trapassò completamente il braccio, lasciando la punta spezzata nella ferita, mentre un cavaliere di Parma, perforato al fianco da una lancia corta scagliatagli contro, in modo apparentemente non mortale, morì più tardi, forse come conseguenza del fatto che, una volta estratta la lancia, l’acqua del fosso dove stava combattendo, evidentemente non troppo pulita, era penetrata nella ferita 108 Diaria de Bello Carolino 1.56 Guerra Gotica 4.35 110 Memorie di Commynes 111 Guerra Gotica 4.31 112 Ancora nel X secolo, Liuptrando da Cremona, nel Antaposodis 1.21 descrive uno scontro di cavalleria di questo tipo 113 Punica 15.683-685; Argonautica libro VI 114 Storia dei Longobardi 5.10 115 (Settia, 2002), pag. 274 109 168 causando un’infezione116. Senza dimenticare la morte terribile di Enrico II di Francia, che durante un torneo venne ferito mortalmente da una scheggia di lancia spezzata, che, penetrata attraverso l’occhio fino al cervello, gli procurò un’agonia dolorosa117. Anche gli avversari musulmani dei Crociati adottavano a volte le stile degli occidentali: Usama racconta di come la sua lancia fosse penetrata per quasi un cubito nel corpo di un cavaliere franco, solo più tardi venne a sapere che l’uomo era sopravvissuto: il colpo era passato attraverso due strati di maglia, gli abiti ed aveva attraversato la vita dell’uomo; quest’ultimo doveva essere parecchio sovrappeso, e la lancia si era fermata nello strato di grasso, senza penetrare nella cavità addominale118. Andò meno bene al nobile descritto da Joinville, che ricevette un colpo di lancia in mezzo alle spalle, iniziando a perdere sangue in modo massiccio; probabilmente l’arma aveva reciso un‘arteria maggiore, forse l’aorta119. Non sempre però la lancia aveva abbastanza forza o la giusta angolazione per penetrare la maglia: Usama racconta di un suo cugino fatto cadere da cavallo da fanti cristiani e ripetutamente colpito di punta con le lance, che se la cavò grazie alla bontà della sua armatura; in un'altra occasione lui stesso colpì un cavaliere franco che indossava una sovracotta sopra la maglia: il colpo fu così terribile da sbalzare quasi l’avversario da cavallo e fargli perdere elmo e scudo, ma la punta non riuscì ad attraversare la corazza120. Un cavaliere isolato poteva diventare facile preda anche di un gruppo di fanti; in particolare le estremità inferiori erano i bersagli privilegiati perché più esposte ai colpi dal basso. Procopio narra la vicenda del massageta Boca, che, circondato da fanti goti, viene colpito ripetutamente dalle lance: i colpi vengono tutti respinti dalla corazza, finché un lanciere non lo centrò in un punto scoperto sotto l’ascella vicino all’omero, mentre un altro gli recise il muscolo della coscia sinistra con un colpo obliquo121. Usama racconta di un cavaliere arabo ferito alla coscia da un fante cristiano durante una fuga122; ed ancora Joinville narra di un suo compagno di prigionia che aveva avuto i muscoli dietro al ginocchio completamente recisi e non riusciva nemmeno ad alzarsi da solo123. Guglielmo il Maresciallo subì una ferita alla coscia durante un’imboscata perché la maglia non era stata ben allacciata124. Varie anche le testimonianze sull’efficacia delle frecce, Procopio si diletta a riportare dei casi straordinari di ferite da dardo durante l’assedio di Roma da parte dell’esercito goto di Vitige: • • • Cutila, colpito da una freccia un mezzo alla fronte, continua a combattere, senza risentirne, con il dardo, tentennante sulla testa. La freccia che invece colpisce Arze, trapassa la zona tra l’occhio destro ed il naso, arrivando, senza uscire, al collo. Anche lui sembra non risentirne125. Traiano venne invece colpito dal dardo sotto l’occhio destro; la punta rimase infissa in profondità dentro il viso, mentre l’asta di legno di staccò da sola. Al bizantino non sembrò venirne alcun danno126. 116 (Settia, 2002), pag. 274 Commentari di Monluc 118 (Mitchell, 2004), pag. 159, Memorie di Usama 119 (Mitchell, 2004), pag. 159 120 (France, 1999), pag. 19 121 Guerra Gotica 2.2; Boca morì in seguito dopo tre giorni di agonia, o per effetto del dissanguamento o per l’infezione della ferita 122 (Mitchell, 2004), pag. 159 123 (Mitchell, 2004), pag. 154 124 (France, 1999), pag. 19 125 Guerra Gotica 2.2 126 Guerra Gotica 2.5 117 169 Diversi però i decorsi clinici dei tre: Traiano, visse per 5 anni con la punta della freccia nel viso, finché la stessa cominciò ad uscire lentamente da sola dal corpo (forse spinta dalla calcificazione delle ossa del viso o dalla cicatrizzazione dei tessuti intorno al ferro127). Arze venne operato dal medico Teoctisto, il quale premendo dietro al collo, individuò il punto in cui la freccia era vicino alla pelle; questo gli permise di incidere ed estrarre la punta da dietro, salvando il suo paziente. A Cutila venne estratta la freccia, ma perì comunque per l’infiammazione della meninge. Un caso analogo a quello di Cutila ed Arze lo abbiamo nell’Alexiade: il comandante Giorgio Paleologo, a Durazzo, continua a combattere con il ferro di una freccia nella testa128. Ai dardi di arco e balestra vanno attribuite alcune morti eccellenti: Re Aroldo ad Hastings, Riccardo Cuor di Leone, Ezzelino da Romano. Nelle cronache delle Crociate numerosi sono i casi di cavalieri uccisi perché trafitti da un numero elevato da dardi che avevano perforato la corazza: il cavaliere Walter di Penniless ricevette a Nicea ben sette frecce nel petto che penetrarono l’armatura129, un altro cavaliere morì per un colpo diretto al cranio. L’estrazione di una freccia a punta uncinata fatta frettolosamente, poteva portare ad una morte rapida anche quando la ferita non sembrava mortale: nella saga dei Re di Norvegia, Thormod prova ad estrarre da solo una freccia conficcatasi nella parte sinistra del petto, non sapendo che è uncinata, lacerandosi così una parte del cuore e causando la propria morte130. Ferite non dirette a zone vitali, potevano permettere di continuare a combattere sotto l’effetto dell’adrenalina, ma dolore e stanchezza venivano pagati in seguito, come accadde a Riccardo a Jaffa e Joinville a Mansurah131, i quali, al termine delle rispettive battaglie, avevano il corpo coperto di dardi. L’adozione della corazza a piastre rese più difficile il lavoro alle armi offensive sia da getto sia da corpo a corpo. Una armatura bianca ben fatta poteva resistere sia a frecce che a quadrelli alle normali distanze; ci si orientò quindi verso due tipi diversi di armi, quelle abbastanza pesanti e potenti da infliggere un danno all’uomo scaricando l’energia cinetica sull’armatura, e quelle leggere ed acuminate in grado di penetrare nei punti vulnerabili della corazza. Vediamo precursori di quest’ultima scelta i francesi alla battaglia di Benevento (1266): di fronte alla maggiore robustezza della armature ed alle spade lunghe tedesche, smisero di fendere ed iniziarono ad affondare con pugnali e spade corte nelle zone vulnerabili delle armature sotto le ascelle132 in uno scontro ravvicinato che doveva sembra più un incontro di lotta che d’armi. Un destino simile lo subì Eustacchio di Malenghin a Bouvines: un cavaliere francese lo bloccò al collo e gli strappò l’elmo, mentre un altro lo trapassava passando dalla gola verso il cuore usando un pugnale133. Quanto ai danni al cranio, anche quando non si rivelavano mortali potevano causare conseguenze a lungo termine: all’assedio di Falaise nel 1106, Robert Fitzhamon ricevette un forte colpo sull’elmo che lo lasciò idiota fino alla morte134; danno neurologico subì anche Al-Ghazi signore da Aleppo nel 1121, in seguito ad una ferita alla testa, che gli procurò una forma di paresi135. Ma il tardo medioevo ci ha tramandato anche una fonte di informazioni in più rispetto all’antichità: una serie di manuali di scherma con la spada, con le altre armi cavalleresche, ma anche prese di lotta e combattimento a cavallo. Il Codex Wallenstein, il Talhoffer, il Gladiatoria ed altri sono una 127 Analoga storia di fuoriuscita miracolosa di un dardo la troviamo su un’iscrizione votiva lasciata da un soldato greco in un tempio di Asclepio (Chaniotis, pag.96); Guglielmo da Saliceto afferma che questa uscita spontanea non era infrequente 128 Alexiade 4.98.104 129 (Mitchell, 2004), pag. 156. Storia Gerosolimitana 130 Heimskringla, 247 131 (Mitchell, 2004), pag. 156-157 132 (Nicolle, 1996), pag. 126, France, pag 179 133 (France, 1999), pag.179 134 (France, 1999), pag. 19 135 (Mitchell, 2004), pag. 165 170 vera e propria enciclopedia grafica delle tecniche guerriere e delle ferite che queste potevano causare136. Qui sopra: varie scene di combattimenti tra cavalieri; si può notare come la lancia di solito sia puntata verso il torace dell’avversario (sia nella parte frontale o posteriore se quest’ultimo sta scappando), la zona che forniva il bersaglio più grande, differente l’ultimo caso in cui viene mostrata una lancia che si spezza dopo aver trapassato la gola del cavaliere. I colpi dati con spade ed asce cadono sempre su testa o volto, conseguenza della tendenza al fendente quando si era a cavallo. 136 Per la descrizione di queste opere rimando direttamente ai testi interessati, che si possono trovare facilmente su internet 171 Qui sopra: rilievo del XII secolo; si noti il colpo dato, con la spada puntata verso il basso, passando sopra lo scudo per passarne le difese. Molto simile ai precedenti esempi romani. Qui sopra: fendente al cranio ed affondo nelle viscere; i entrambi i casi i colpiti sembrano essere stati anticipati mentre stavano sferrando i loro colpi. 172 Qui di fianco: soldati impugnano armi d’asta e trattengono avversari su un ponte. Per gli spadaccini il rischio di venire trafitti è alto. Qui sotto: dipinto della battaglia di Arbedo; notare come vengano impiegate le alabarde. I morti di Sempach subirono colpi di questo tipo. Qui sotto: impiego della picca; come si vede volto, gola, gambe e torace erano tutti bersagli possibili quando due falangi di picchieri si scontravano. Si trattava di una vera e propria scherma di picca, che poteva essere impugnata in diversi modi. Come per le armi d’asta della precedente immagine, la spinta congiunta data dalle due mani aumentava il potere perforante. Probabilmente le lesioni inflitte dalla sarissa dei macedoni non dovevano essere molto diversi. 173 Qui sopra: si vedono i danni inflitti dalle frecce dell’arco lungo sui cavalieri e sui cavalli; si può notare come i cavalli ricevano molti più dardi dei loro padroni. Solo un tiro diretto ravvicinato poteva avere abbastanza potere perforante da trapassare una corazza di piastre. Indubbiamente le fonti archeologiche, letterarie e raffigurative che ho elencato, sono solo una piccola parte del totale conosciuto, ma per esigenze di spazio ho dovuto scegliere tra molte. Facciamo quindi una breve sintesi della tipologia delle ferite principali: ¾ Cranio e volto: o Ferite da taglio nella parte frontale o parietale del cranio o sulle ossa e muscolatura del volto o della mandibola, dovute a lame di spade, asce o armi simili (es. alabarde). o Ferita da penetrazione al volto, parte frontale o laterale del cranio e gola dovute ad affondi di spade, lance o armi simili, oltre che tiri diretti di armi da lancio. o Ferite da botta con mazze e altre armi contundenti, anche usando il bordo o l’umbone dello scudo su parte superiore del cranio, viso o mascella. Colpi di armi da impatto (mazze, sassi, proiettili di fionda, bordi ed umboni di scudo) possono causare zone depresse nel cranio con pressione sul cervello; se l’arma possiede anche punte ( morning star ), possono presentarsi anche zone di penetrazione simili a danni da freccia. o Armi da lancio che cadono con tiro indiretto possono colpire la parte superiore del cranio, cosa che può capitare se il soggetto abbassa la testa (ma non abbastanza) per ripararsi. o Colpi a nemici in fuga possono cadere sulla zona occipitale, mentre i colpi con direzione orizzontale vanno attribuiti buona parte delle volte ad attacchi su avversari 174 a terra o inermi. Fendenti dati verticalmente sono attacchi tipici dei cavalieri. Attacchi mancanti il cranio o il volto possono cadere sulla zone delle clavicole o del collo. ¾ Arti superiori: Pochi colpi in combattimento sull’arto sinistro se la vittima è armata di scudo; Colpi sul braccio che impugna l’arma per disarmare l’avversario Ferite da difesa su uomini inermi che cercano di proteggersi dai colpi. Principalmente lesioni da taglio, a volte fino all’amputazione dell’arto. Ferite da perforazione da freccia e lancia sul braccio sinistro se viene trapassato lo scudo. o Forte colpo da botta può rompere le ossa del braccio; sulla spalla, può disabilitare l’arto. o Un colpo penetrante dato all’ascella può danneggiare nervi e legamenti dell’arto oltre che causare parecchio dolore. Se spinto abbastanza in profondità può recidere l’arteria ascellare. o o o o o ¾ Arti inferiori: o Seconda zona maggiormente colpita se il combattente è armato di scudo; principalmente colpi di taglio sulla gamba sinistra su un avversario in combattimento. Si può andare dal fendente violento, che può anche amputare la gamba, fino all’incisione dei tendini per farla cedere. o La tibia è più esposta, specialmente in cavalieri attaccati da fanti, mentre un colpo alla coscia può recidere l’arteria femorale e causare morte per dissanguamento. Pericolo di dissanguamento anche con taglio dietro il ginocchio. o Ferite da perforazione principalmente da arma d’asta o da armi da lancio (frecce o giavellotti) cadute corte. ¾ Parte centrale del corpo: o Ferite da perforazione per mezzo di spade, armi d’asta o dardi, nella zona alla cassa toracica o in basso alle viscere e all’inguine. o Se l’avversario è protetto da scudo il colpo può essere una conseguenza del cedimento della protezione dello stesso, di una finta, di un anticipo sul colpo dell’avversario, o essere stato scagliato su un avversario inerme al suolo. o Fendenti molto forti possono trapassare la zona delle clavicola ed arrivare agli organi interni. o Colpi perforanti possono colpire i fianchi, o penetrare dalla zona del collo nella cassa toracica o recidere l’arteria subclavicolare. o Un forte colpo da botta può incrinare le costole causando la perforazione dei polmoni o provocare lacerazioni agli organi interni. o Colpi dati superando lo scudo dall’alto possono ferire la zona del collo e toccare la colonna vertebrale. o Naturalmente i colpi dati a nemici in fuga cadono, siano ferite da perforazione o da taglio, sulla schiena del fuggitivo. Possiamo concludere questa sezione con una considerazione di Amberger sulla letalità delle varie tecniche: 175 “Mentre la decapitazione è probabilmente il solo modo di fermare un avversario uccidendolo sul posto, persino fendenti con uno spadone non erano garanzia di successo istantaneo... d’altra parte, mettere un avversario hors-de-combat non sempre richiede che il nemico venga ucciso o fatto a pezzi. …. Il concetto di a-priori “letalità” di un sistema di combattimento sembra avere un valore limitato nel determinare quanto efficacemente e quanto velocemente un avversario possa essere neutralizzato. Né affondo né fendente – in ogni caso certamente pericolosi e potenzialmente letali per i combattenti - possono reclamare il monopolio di essere il più efficace mezzo per neutralizzare un avversario. Di fatto, sembra quasi che il credere nella superiorità di una particolare tecnica contenga in sé il pericolo della presunzione, che può dimostrarsi più letale per il guerriero dell’acciaio nemico.” (Amberger, 1996) Misureremo nella sezione successiva la letalità o l’efficacia dei colpi nelle varie zone del corpo umano, e ne prenderemo in esame gli effetti diretti. REAZIONE DELL’ORGANISMO AL COMBATTIMENTO E CONSEGUENZE DELLE FERITE Un uomo, in una situazione di combattimento, in cui viene percepita una minaccia letale, si trova in una condizione di stress particolare, che riceve risposta immediata dall’organismo; questa risposta viene chiamata “Fight or flight response” (combattere o fuggire). La percezione di una minaccia, induce la reazione del sistema nervoso simpatico, la “messa in pausa” del sistema parasimpatico e l’adattamento dell’organismo in preparazione del combattimento o della fuga, con il rilascio di adrenalina, noradrenalina e cortisolo. Questo adattamento causa nel fisico umano numerose alterazioni137: • • • • • • • • • • • • • Accelerazione del battito cardiaco e dell’azione polmonare Inibizione dell’azione dello stomaco e dell’intestino Contrazione dei vasi sanguigni in buona parte del corpo Liberazione di nutrienti nel sangue Dilatazione dei vasi sanguigni nei muscoli Inibizione della lacrimazione e della saliva Dilatazione della pupilla Rilassamento della vescica Inibizione dell’erezione Riscaldamento dei muscoli mediante il rilascio di acido lattico Soppressione del sistema immunitario Coagulazione più rapida Tendenza ad agire in modo spontaneo ed istintivo, non calcolato L’organismo si trova quindi in una condizione particolare di preparazione all’azione fisica e, se troppo prolungata, potenzialmente dannosa per fisico e psiche ( sindrome da stress post traumatico, berserkismo138 ). Le modifiche organiche indotte dallo stress si articolano su vari livelli definibili 137 (Amberger, 1996), pag. 104 Come non ricordare l’episodio di Orazio Publio (Storia di Roma, 1.26) e della sua reazione omicida verso la sorella dopo il suo terribile duello 138 176 dalla frequenza del battito cardiaco: una frequenza tra i 115 e i 145 bpm è indice della condizione rossa, uno stato in cui l’organismo si trova nello stato migliore per un combattimento (tempi di reazione e visivi migliori, ancora possibili movimenti complessi); tra i 145 e i 175 si passa nella condizione grigia, dove l’organismo entra in una fase di “pilota automatico”, per cui sono possibili solo movimenti semplici o ripetuti spesso, ad esempio in addestramento; inizia anche a manifestarsi la “simmetria bilaterale”, un fenomeno per cui un movimento di un braccio genera automaticamente un movimento non voluto con l’altro139. Infine oltre i 175 il fisico si trova in condizione nera: il mesencefalo prende il completo controllo, portando ad azioni puramente istintive molto semplici (correre, caricare, ecc.), si perde la visione periferica e ravvicinata, il senso della profondità, si raggiunge la massima vasocostrizione e si ha un completo isolamento uditivo rispetto all’ambiente140. Con la fine della condizione di stress il sistema parasimpatico prende il sopravvento, causando un vero e proprio contraccolpo, che provoca una grande spossatezza141. Anche questo tremendo impatto appare nelle nostre fonti: nel Waltharius, l’eroe, che torna dopo una campagna ed una grande battaglia, respira affannosamente (anhelo), ha il corpo esausto (lassus), e chiede vino non diluito (di solito dato ai feriti)142, Riccardo Cuor di Leone dopo un duro combattimento a Jaffa, cadde malato per “l’esaurimento provocato dalla battaglia ed il fetore dei corpi”143; il papiro P.Ross Georg III.1 di epoca romana, cita accanto ai morti e feriti, anche i colpiti da debolezza (chalaston). Indubbiamente la perdita di sangue, l’indebolimento del sistema immunitario, l’enorme consumo di elementi nutritivi ed ossigeno, la condizione quasi anaerobica del combattimento, contribuivano a tutto questo. 139 Prendendo come esempi la metope di Adamklissi dove il legionario trafigge il dace contemporaneamente al colpo di scudo o la descrizione di Quadrigario del combattimento di Torquato, questi episodi potrebbero essere esempi di simmetria bilaterale, più che di azioni ragionate. Il guerriero colpisce con lo scudo e per movimento riflesso anche il braccio con la spada scatta in avanti. 140 (Grossman, 2004) 141 (Grossman, 2004), pag.16 142 (Bachrach, 2001), pag. 134 143 (Mitchell, 2004), pag.157 177 Vaso italico del IV secolo a.C.: dopo una battaglia la cura dei feriti ed il riposo degli stremati Le ferite tipiche della armi bianche possono provocare cinque tipi di morte in un soggetto in questo stato: • • • • • Emorragia massiccia (dissanguamento) Aria nei vasi sanguigni (embolia gassosa) Soffocamento (asfissia) Collasso del polmone (pneumothorax) Infezione La vasocostrizione generata dallo stress del combattimento, impedisce la perdita di grandi quantità di sangue per ferite sulla parte esterna del corpo, ma anche quando un’arteria maggiore è recisa ( sicuramente il danno immediatamente più letale assieme alla decapitazione o un colpo distruttivo alla testa ), la vittima può rimanere cosciente dai 2 ai 30 secondi, e restare in vita per un periodo che và dai tre secondi ai 2 minuti; questo indubbiamente deriva dalla condizione psico-fisica particolare del combattente. Frank Lurz, in un suo studio su scherma e ferite, sintetizza dicendo che uomini, che hanno appena ricevuto affondi o fendenti letali, sono potenzialmente in grado di continuare a combattere abbastanza da uccidere i propri assassini144. Di questo fatto abbiamo trovato testimonianze negli esempi enumerati in precedenza ma ne esistono anche altri; in uno scontro del XIV secolo in Scozia, una testimonianza diretta riporta l’episodio di un uomo trafitto da una lancia nel corpo che si rialza ed uccide il nemico prima di collassare definitivamente145. Nel 1613 durante un duello contro lord Edward Bruce, l’Earl di Dorset, secondo 144 145 (Amberger, 1996), pag. 105 (Amberger, 1996), pag. 105 178 la sua stessa testimonianza, ricevette un affondo diritto nel capezzolo destro che penetrò in profondità; il nobile non solo andò avanti a combattere fino a sconfiggere il suo avversario, ma riuscì a sopravvivere alla ferita ricevuta146. Durante il duello tra Lagarde e Bazanez (XVII secolo), il racconto dell’avvenimento descrive come entrambi i duellanti si infliggessero vicendevolmente numerose ferite da affondo con la spada ed il pugnale (Lagarde prese almeno 14 pugnalate147 tra la gola e l’ombelico); lo scontro si concluse quando Lagarde mise fuori combattimento l’avversario fratturandogli il cranio con il pomello della sua arma. Entrambi comunque sopravvissero. Un altro duello descritto da un testimone attendibile, ma di cui non si conoscono i nomi dei duellanti, vide uno dei due, trafitto da un affondo alla gola in modo mortale, uccidere comunque l’avversario con un affondo al cuore, mentre quest’ultimo teneva la lama nella gola del primo148. Niente descrive meglio l’imprevedibilità della reazione del fisico umano di questa testimonianza di epoca napoleonica: “Alla battaglia di Talavera, nel 1809, vidi [Harry Wilson] impegnato corpo a corpo con un dragone francese; lo vidi dare e ricevere più di uno scambio, con eguale abilità e coraggio. Proprio allora un ufficiale francese scagliò un affondo al corpo del povero Harry Wilson e affondò efficacemente. Credevo fermamente che Wilson sarebbe morto all’istante; tuttavia, benché sentisse la spada nel suo procedere, egli, con caratteristico autocontrollo, mantenne ancora gli occhi sull’avversario di fronte a lui, ed alzandosi sulle staffe lasciò cadere sull’elmetto del Francese un tale colpo, che il metallo ed il cranio si aprirono, e vidi la testa dell’uomo dividersi a metà fino al mento. Fu il colpo più tremendo che vidi mai scagliare; ed entrambi, sia chi lo scagliò che il suo avversario che lo ricevette, caddero morti assieme” (Amberger, 1996)149. Facciamo quindi un po’ di ordine e cataloghiamo ciò che idealmente avremmo potuto trovare esaminando i corpi dopo una qualunque battaglia pre-moderna. Iniziamo a fare una prima suddivisione: ho enumerato 5 principali cause di morte dovute a ferite, le prime 4 sono una diretta conseguenza dell’azione meccanica dell’arma, mentre l’ultima, le infezioni, sono indirette. Inizieremo quindi a trattare le prime 4, lasciando al capitolo successivo la quinta. Innanzitutto vediamo il tipo di lesioni che ci troveremmo di fronte: • • • Zone di perforazione, di varia dimensione a seconda dell’arma, con poco sanguinamento verso l’esterno data la tendenza di questo genere di ferita a chiudersi una volta ritratta l’arma. Tagli più o meno profondi (da superficiali fino ad amputazioni) dovuti a lame, con perdita di sangue verso l’esterno (più o meno consistente a seconda della zona colpita) Incisioni nella carne, dovute ad armi con lama, che vengono mosse lateralmente dopo essere penetrate nel corpo. 146 (Lurz, 2006), pag. 2 Su questo punto come non ricordare che, secondo il medico Antisio che eseguì l’autopsia sul cadavere di Cesare, delle 23 pugnalate che colpirono il dittatore (di cui una alla gola e una all’inguine) solo la seconda al petto fu mortale. Conferma del fatto che non è facile centrare un punto vitale con un colpo potente su una vittima che si difende e si muove (Svetonio, Cesare 82; Plutarco, Vita di Cesare). 148 (Lurz, 2006), pag. 3 149 Grossman in “On Combat” riporta molti casi di combattimenti proseguiti anche dopo che il soggetto aveva ricevuto una ferita gravissima da arma da fuoco, come un agente di polizia donna che mise in fuga i suoi assalitori dopo un colpo di .357 Magnum in mezzo al cuore. L’autore suggerisce che la focalizzazione sull’obbiettivo dello scontro, l’abitudine allo stress del combattimento e un atteggiamento aggressivo e “vincente”, permettono di portare il fisico umano al limite massimo. Nei casi di Grossman solo il raggiungimento del limite fisico di sopportazione emorragica mise KO i colpiti. 147 179 • • • • Abrasioni, cioè perdite di tessuto epiteliale a causa di un colpo. Lacerazioni dei tessuti della pelle o addirittura degli organi interni. Contusioni: lesioni traumatiche dei tessuti molli che non provocano discontinuità nei tessuti (come invece fanno i tagli), di solito conseguenza di armi contundenti; possono svilupparsi in emorragie o necrosi. Fratture delle ossa del corpo o dislocazioni In alcuni casi queste lesioni sono combinate tra di loro; fratture alle ossa con contusioni, tagli con rottura o scheggiatura di ossa anche come conseguenza di una torsione dell’arma in fase di estrazione, ecc. La gravità della ferita è diretta conseguenza di fattori meccanici oltre che della locazione colpita: • • • La profondità di una perforazione è in gran parte dipendente dalla formula dell’energia cinetica, dove la massa è un fattore minore rispetto alla velocità; rilevanti sono invece forma e lunghezza dell’arma. Si può dire che l’energia necessaria a perforare i tessuti umani che non siano ossa o cartilagini ossificate, è tremendamente bassa150. La profondità di un taglio da fendente invece dipende da una formula più complessa: la velocità radiale della lama, la sua massa e forma (una lama larga e piatta è migliore per i fendenti perché acquisisce più velocità), la forza di chi scaglia il colpo, il modo con cui viene scagliato, la superficie sopra cui la forza del colpo si concentra. Se la lama presenta un certo grado di curvatura, come una sciabola o una scimitarra, mentre affonda tende anche a scivolare nella ferita, creando lo stesso effetto di un coltello da cucina che taglia una bistecca151. L’efficacia di un’arma da botta è diretta conseguenza dell’energia cinetica scaricata sulla superficie di contatto. Compensa il maggiore attrito nell’aria rispetto ad una lama, con una superiore massa nella zona colpita e con una superficie lesa superiore. L’effetto non è diverso da quello che si subisce venendo investiti da un’onda d’urto; spesso vi sono gravi lesioni interne anche con pochi segni esterni. In questa categoria di danno entra facilmente anche lo scudo del guerriero, il cui uso offensivo con bordi ed umbone appare numerose volte nelle fonti. Queste lesioni possono essere attenuate o annullate da buone protezioni, cui vanno sommati anche gli strati del vestiario; test sull’effetto delle varie armi su vari tipi di armatura sono stati fatti in buon numero, ma non sempre il risultato è conclusivo, le stesse fonti descrivono effetti contrastanti. La verità è che le variabili dell’”equazione” in un vero combattimento sono troppo numerose per ottenere un risultato valido a priori: possiamo dire che un combattente per sopravvivere doveva avere uno strato di buona fortuna sopra il metallo della propria corazza. Per esigenze di semplicità noi qui partiremo dall’assunto che il colpo abbia superato totalmente o parzialmente la protezione dei soldati feriti o uccisi sul nostro immaginario campo di battaglia152. Lasciamo per ultime le ferite alla testa, in quanto è un’area dalle caratteristiche diverse dalle altre, e partiamo il nostro “scanning” del corpo del ferito dal collo per arrivare agli arti inferiori. Abbiamo già detto che un’emorragia massiccia è il modo più rapido per mandare ko l’avversario in tempi rapidi, solo la decapitazione o un colpo distruttivo al cervello sono sistemi più efficaci. Un uomo adulto robusto deve perdere da 2,5 a 3 litri di sangue prima di collassare, e solo pochi organi o vasi, quando colpiti, causano una perdita del genere rapidamente. 150 (Clemens, 2001), (Read, 2003), (Lurz, 2006) (Clemens, 2001), (Read, 2003), (Lurz, 2006) 152 I dati qui di seguito riportati sono presi principalmente da Lurz e da DiMaio 151 180 Cominciamo dal collo, un’area estremamente vulnerabile del corpo, sono infatti qui concentrati numerosi punti vitali. Un taglio o una penetrazione ( ma anche un colpo diretto di mazza ad esempio ) che incida una delle arterie della carotide, causa in 15-30 secondi la perdita di coscienza, dato che si tratta di arterie ad alta pressione ed il sangue uscirebbe molto rapidamente privandone l’organismo ed il cervello. Diverso il pericolo se viene tagliata la vena giugulare: si tratta infatti di un vaso dove la pressione, non solo è praticamente a zero, ma nelle fasi inspiratorie arriva a pressioni negative; ne consegue che attraverso una ferita possono entrare nel sistema circolatorio bolle d’aria ( embolia gassosa ) che arrivate al cuore ne arresterebbero il battito. Altre zone vulnerabili non legate al sistema circolatorio sono la trachea, la laringe e la colonna cervicale: con un taglio a trachea e laringe il sangue della ferita cadrebbe copioso all’interno del sistema respiratorio causandone il blocco e quindi la morte per asfissia. La colonna cervicale è sicuramente la meno vulnerabile ad un affondo, in virtù della protezione offerta dalle ossa, ma un buon fendente può inciderla o tagliarla, mentre un colpo da arma da botta alla testa può causare fratture alle vertebre provocando una paralisi all’altezza della ferita o la lacerazione dell’arteria vertebrale. Rappresentazione Micenea del XVI secolo a.C.: uno spadaccino trafigge al collo un lanciere passando sopra il suo scudo La cavità toracica contiene importanti organi vitali; il pericardio è la sacca che ricopre il cuore e la parte finale dei grandi vasi che vi confluiscono come l’aorta, mentre le cavità pleuriche racchiudono i polmoni. Un danno al cuore o ad una delle arterie maggiori è sicuramente letale perché il sangue ad alta pressione esce velocemente dagli organi riversandosi nel pericardio ( emopericardio ), causando un tamponamento pericardico ( il sangue uscito comprime il cuore provocandone l’arresto ) ed il crollo della pressione sanguigna per emorragia153. Ma anche qui la morte quasi immediata dipende dalla dimensione della ferita e dal punto colpito: una ferita al ventricolo sinistro è meno rapida nel causare la morte, rispetto ad una nel ventricolo destro; questo perché nella parte sinistra il muscolo è più spesso e la maggiore pressione tende a mantenere chiusa la ferita. Ci sono stati casi accertati di uomini rimasti attivi per parecchi minuti e vivi per ore percorrendo centinaia di metri con ferite di 2 cm nel ventricolo sinistro154. Anche una “pugnalata” nella zona delle clavicole può portare ad una massiccia emorragia. 153 Peraltro a volte il tamponamento può avere un effetto positivo, dato che la pressione esercitata sull’organo può spingere la ferita a chiudersi e rallentare la perdita di sangue (Naclerio, 1964) 154 (DiMaio, et al., 2001); Galeno, nell’opera “Sui diversi tipi di Pleurite”, affermava, sulla base delle osservazioni sui gladiatori, che la morte è più immediata se è colpita la parte sinistra; questa affermazione, apparentemente in contrasto 181 Diversa la natura di una ferita al sistema respiratorio: il funzionamento della respirazione si basa sulla differenza di pressione tra i polmoni e le due cavità pleuriche che li contengono; quando l’aria entra nel polmone questo si espande per effetto della minore pressione della pleura. Se la cavità pleurica viene incisa o perforata l’aria esterna entra nella pleura155 ed il polmone non è più in grado espandersi e funzionare (pneumothorax). Se la lama raggiunge anche il polmone, perforandolo, non solo l’aria all’interno di esso confluisce nella pleura, ma, essendo un organo altamente vascolarizzato, il sangue inizia a defluire senza riuscire ad uscire (se la ferita non è sufficientemente grande come quella di un fendente), comprimendo il polmone (hemothorax). Né la pneumothorax né la hemothorax sono morti rapide (ore per la pneumo, più di un ora per la hemo), oltretutto, a meno che un colpo non ferisca entrambe le cavità pleuriche contemporaneamente, l’altro polmone continuerà a funzionare correttamente. Gli organi della cavità toracica sono senz’altro più facili da colpire con un affondo di lancia o spada, rispetto ad un fendente che deve avere abbastanza forza per trapassare la protezione delle ossa che la racchiudono, però anche una ferita da penetrazione deve essere abbastanza larga da non richiudersi da sola all’estrazione della lama, ma, allo stesso tempo, una lama larga deve colpire con più precisione o con più forza per poter passare la protezione delle costole. Un colpo da arma contundente, anche se raro al petto, può rivelarsi ugualmente letale; una mazza o un martello da guerra che colpissero il torace, potrebbero fratturare le costole che andrebbero a perforare le pleure ed i polmoni o anche il cuore; più raramente un colpo molto forte può lacerare pericardio o aorta o eccezionalmente portare ad un arresto cardiaco. Esiste anche il pericolo di una rottura del diaframma con riflusso delle viscere nella cavità toracica con conseguente pressione su polmoni e cuore. con l’osservazione moderna ha in realtà una spiegazione molto semplice: Galeno non sezionava i corpi umani quindi la sua “autopsia” era praticata dall’esterno osservando dal varco della ferita e traendo conclusioni dalla sua posizione, ma il medico di Pergamo credeva che il cuore fosse al centro del torace non spostato verso sinistra com’è in realtà. E’ quindi facile capire che osservando il punto della ferita con questa visione anatomica, scambiasse una lesione alla zona destra del cuore con una alla parte sinistra. 155 Per (Grimes, 1965) l’aria che entra dall’esterno a seguito della penetrazione di una lama è troppo poca nella maggior parte dei casi per generare una pneumo, quando questa avviene l’aria arriva dal polmone la cui parete esterna è stata incisa. 182 Qui sopra “Il Galata Morente”; la ferita ha sicuramente trapassato il fegato, con conseguente lenta emorragia interna. La cavità addominale racchiude gli organi dell’apparato digerente, circondati dal peritoneo; un colpo scagliato in questa zona si rivela efficace in tempi brevi solo se causa una massiccia emorragia interna. Questo può accadere solo colpendo uno dei grandi vasi dell’addome ( aorta addominale, vena cava inferiore, arterie e vene iliache, ma anche i reni che sono i ricettacoli di due grandi arterie ), questi però si trovano dietro le viscere vicino alla colonna vertebrale e solo un affondo in profondità può raggiungerle e deve essere ben mirato dato che non si tratta comunque di bersagli molto grandi. Un fendente richiederebbe molta meno precisione ma più forza per passare la resistenza di pelle, muscoli, organi ed ossa ( abbiamo visto che comunque la forza dei fendenti dati da sopra la spalla è elevata ). Anche una ferita al fegato o alla milza provoca un’emorragia interna, ma l’effetto è comunque meno rapido rispetto all’incisione di un vaso sanguigno maggiore. Il pericolo principale di un colpo diretto agli altri organi addominali (stomaco, intestino, pancreas) è il rilascio dei fluidi o del cibo digerito nel peritoneo, circostanza che provoca la peritonite (vedi paragrafo sulle infezioni), ma che non causa la morte immediata; il dolore fortissimo di uno “sbudellamento” può essere disabilitante all’istante, ma le condizioni psico-fisiche del combattimento non danno la certezza che il sistema nervoso periferico stimoli i centri del dolore con la stessa efficacia (e questo vale per ferite anche in altre parti del corpo), è molto probabile (ma dipende dal livello di adrenalina) che ci si accorga di aver ricevuto una ferita grave o anche mortale solo a combattimento finito, rendendo un affondo all’intestino un potenziale attacco suicida se non c’è anche una dose elevata di energia cinetica che venga scaricata nel punto di impatto ( ad esempio come con la lancia in resta o un colpo di scudo al volto come abbiamo visto fare al legionario romano ad Adamklissi ). Invece il dolore di una perforazione dei reni risulta essere così intenso da essere paralizzante per la vittima, ma come abbiamo visto è estremamente difficile colpire questi due organi. 183 Scene di guerra micenee da Pilo (XIII secolo a.C.) – Perforazioni di addome (a destra) ed inguine (sinistra) Un particolare interessante è che solo da piena la vescica può causare la peritonite quando perforata, versando l’urina all’interno dell’addome, mentre da vuota è protetta dalle ossa pelviche (e probabilmente è uno dei motivi per cui il rilassamento della vescica è uno degli effetti dello stato di combattimento). I colpi da arma contundente possono causare le stesse lacerazioni agli organi interni di una lama di spada, assieme alla frattura delle ossa pelviche (con possibile lacerazione della vescica), che danneggerebbe gravemente la capacità motoria degli arti inferiori. La colonna vertebrale, sia per la parte nel torace che nell’addome, è un bersaglio poco esposto ( è un punto vulnerabile solo in caso di fuga ), ma il cui danneggiamento ( con forte colpo con lama o con arma contundente ) può paralizzare istantaneamente dal punto della ferita verso il basso. Distanza dei principali punti vitali dalla pelle (in mm)156 Organo Pleura Pericardio Fegato Milza Reni Aorta toracica Aorta addominale Arteria femorale Minima 10 15 9 12 19 31 65 13 Massima 48 45 36 39 79 93 102 25 Media 22 31 19 23 37 64 87 18 Le ferite agli arti superiori non sono di norma mortali, ma la loro efficacia ai fini di un combattimento può essere sicuramente superiore a molte di quelle inflitte al petto. L’arteria brachiale (già ascellare), che arriva fino al gomito, ha una pressione quasi identica a quella dei vasi arteriosi del torace, ma è ben protetta dall’omero, solo vicino al gomito è vulnerabile anche a colpi non troppo violenti. Nell’avambraccio la brachiale si divide nelle arterie ulnare e radiale: queste possono provocare la morte per emorragia solo se non recise completamente, dato che in caso di amputazione le pareti dei vasi tendono a ritrarsi arrestando l’uscita del sangue; sono comunque troppo piccole per provocare la morte in tempi rapidi. Un modo veloce per mettere fuori combattimento un braccio è infliggere danno ai muscoli e tendini; data la natura fibrosa dei muscoli solo un taglio trasversale alle fibre può essere risolutivo, un affondo o un taglio parallelo alle stesse semplicemente passerebbe tra una e l’altra. Solitamente la parte dorsale dell’avambraccio è la più esposta ai colpi, ma la presenza dell’osso può prevenire il taglio completo della muscolatura; la 156 (DiMaio, et al., 2001), pag.204 184 parte palmare invece è meno facile da colpire, ma più vulnerabile data la presenza nel polso di molti tendini, soprattutto quelli che controllano il movimento delle dita. Teoricamente anche il taglio dei nervi dell’arto dovrebbe portare all’immobilità dello stesso, ma le fibre nervose sono troppo ramificate perché il danno in un singolo punto possa sperare di causare un effetto disabilitante. La rottura delle ossa del braccio a causa di un forte colpo da arma contundente ( frattura da urto ) o un violento fendente ( frattura penetrante ) è sicuramente un mezzo efficace per concludere un combattimento, perché rende impossibile usare ancora l’arto per impugnare l’arma o lo scudo, oltre al fatto che in caso fratture scomposte si possono lacerare sia i tessuti che i vasi sanguigni della zona colpita (emorragia). Anche la muscolatura può essere gravemente danneggiata da un forte colpo da arma da botta. Inoltre non bisogna scordare l’estrema efficacia di una ferita penetrante all’ascella, precedentemente menzionata, che può recidere nervi e legamenti del braccio157, mentre una frattura della spalla disabilita completamente l’arto. Dal Talhoffer: amputazione del braccio destro dell’avversario Molte delle considerazioni fatte per gli arti superiori restano valide anche per gli arti inferiori; l’arteria femorale scende dall’anca fino al ginocchio, ma non è facile da raggiungere con un colpo diretto; alla fine del femore compie una spirale dietro il ginocchio e si divide nelle due arterie tibiali. Anche in caso di incisione di questi vasi, l’emorragia sarebbe troppo lenta per causare una morte rapida. Decisamente più efficace è puntare al taglio dei muscoli; la tibia è però un osso particolarmente duro e protegge parzialmente i muscoli della gamba, solo un colpo molto violento può arrivare a fenderlo. Eguale difficoltà presentano i muscoli della coscia, i quadricipiti femorali che, assieme ai femorali posteriori, permettono il movimento dell’arto: si tratta di un gruppo di grossi muscoli che condividono funzioni comuni, per cui è particolarmente arduo infliggere un danno immobilizzante con un unico colpo. Una tecnica di scherma, entrata nella storia come “colpo di Jarnac”, dal famoso duello Jarnac-Chastaigneray del 1547, ma che abbiamo visto già all’opera in 157 Con anche la possibilità di recidere l’arteria ascellare, che diventa brachiale nel braccio 185 Luciano, consiste nel recidere i tendini dei femorali posteriori dietro il ginocchio: questo causa il collasso immediato della gamba, e l’avversario cade come un burattino; purtroppo, data la posizione, il bersaglio non è facilmente raggiungibile, anche se è estremamente premiante: solo sfruttando finte o errori dell’avversario (e prendendosi una dose di rischio) è possibile raggiungerlo. Se il danno al sistema nervoso è altrettanto inefficace quanto quello ai nervi delle braccia, la rottura di un osso causato da fendenti o armi contundenti, può ottenere lo stesso effetto del colpo di Jarnac; ma le ossa portanti delle gambe sono tra le più dure del corpo umano, e sono necessari colpi di notevole forza per romperle. Abbiamo visto come la testa sia uno dei bersagli principali in un combattimento; essa offre infatti la possibilità di colpire l’organo principale del corpo umano, l’encefalo (cervello, mesencefalo, cervelletto, ponte di Varolio, bulbo). La scatola cranica ed il massiccio facciale (ossa del viso) lo racchiudono. Le ossa craniche sono robuste, ma esistono punti vulnerabili, come le tempie e punti del viso (cavità oculari, zona della mascella, naso). Il cervello, la parte più grande, importante e vulnerabile dell’encefalo è circondato dalla corteccia cerebrale (materia grigia) che riveste la materia bianca; aderenti alle ossa del cranio ed al cervello ci sono tre membrane (meningi) che fungono da ulteriore protezione: (dalla più esterna) dura mater, aracnoide e pia mater. Lo spazio tra aracnoide e pia mater si chiama subaracnoide e contiene il liquido cerebrospinale. Le ferite alla testa possono essere divise in due categorie di gravità: quelle che arrivano a colpire il cervello e quelle che danneggiano solo i muscoli e ossa di cranio e volto. La prima categoria è senz’altro la più letale; la morte può essere causata da tre fattori: lesione cerebrale che danneggia una zona vitale del tessuto (mesencefalo e rombencefalo, zone dell’encefalo che controllano le funzioni vitali), emorragia cerebrale, infezione. Mentre l’infezione è una causa indiretta e la vedremo più avanti, le prime due sono una diretta conseguenza dell’azione meccanica; un affondo abbastanza violento al volto può raggiungere facilmente l’encefalo: le ossa del volto sono meno dure di quelle del cranio (la fronte invece può limitare molto la penetrazione, o in caso di lame piccole come quelle di rapier o coltelli, addirittura arrestare o rompere l’arma, al contrario un affondo nella zona sub-mandibolare dove il tessuto è molle può penetrare fino all’encefalo, anche se la zona è difficile da raggiungere in combattimento) e la lama può penetrare dagli occhi ( più difficile arrivarci dalla bocca, ma un affondo qui può comunque recidere i vasi che arrivano al cervello o l’arteria vertebrale ), oppure nel più sottile osso nella zona delle tempie. Non è sempre detto che una penetrazione nel cranio sia mortale in modo diretto158, specialmente se non profonda o la lama/punta non è grande, la morte può sopravvenire dopo ore e giorni per effetto di un’emorragia o di una infezione (vedere casi riportati da Procopio), in pochi casi la morte non sopravviene anche con il penetratore ancora nella testa. I fendenti o i colpi di mazze o martelli da guerra in combattimento se ben mirati cadono sulla parte frontale o parietale del cervello. Non c’è dubbio che un fendente talmente forte da penetrare in profondità nel cervello causa un danno così grave da essere immediatamente letale, ma non sempre la forza è sufficiente per simili colpi, data la resistenza della scatola cranica e la presenza di un eventuale elmo, più spesso il danno si limita a ledere più o meno gravemente il cranio, oppure arriva a danneggiare le meningi e la materia grigia. Una caduta da cavallo o un colpo violento potevano provocare la rottura della base del cranio, con perdita di fluido cerebrospinale e sangue dal naso e dalle orecchie, ed in seguito la morte, come successe al Re Fulco di Gerusalemme159. Anche per la testa l’emorragia si rivela come il principale killer: come conseguenza della rottura di un vaso o della lacerazione del tessuto causato dalla botta o dalla lama, o perché i frammenti delle ossa del cranio penetrano nel tessuto cerebrale, oppure perché si crea una frattura depressa nel 158 Il prosencefalo, la parte anteriore del cervello non è vitale per la sopravvivenza. Un danno in questa zona non blocca le azioni istintive del mesencefalo né le funzioni vitali. 159 (Mitchell, 2004), pag.164 186 cranio che comprime i vasi sanguigni. La pressione generata dalla fuga di sangue nell’ambiente chiuso della scatola cranica danneggia in modo irreparabile il tessuto cerebrale; a seconda della posizione in cui si genera l’ematoma questo può essere epidurale (nello spazio tra la dura e il cranio), subdurale (tra la dura e l’aracnoide), subaracnoide (tra l’aracnoide e la pia), intracerebrale (all’interno del cervello). Anche colpi molto forti che non causano danni ai tessuti (magari per la protezione offerta da un elmo robusto), possono provocare effetti negativi al fisico della vittima: un violento scuotimento può generare una lesione assonale diffusa che provoca coma e a volte la morte, ma c’è anche il rischio di una commozione cerebrale. Le ferite alla testa che non coinvolgono l’encefalo sono meno letali ma possono essere comunque premianti in un combattimento: una ferita agli occhi danneggia in modo grave la capacità di combattere, mentre un taglio all’arcata sopraccigliare o alla fronte fa colare sangue in abbondanza negli occhi e nella bocca, causando problemi alla vista e alla respirazione, oltre a provocare un panico sproporzionato al danno reale, la rottura dell’osso del naso provoca un dolore acuto e la lacrimazione degli occhi. Abbiamo visto dai ritrovamenti archeologici come armi da taglio o da botta possano rompere/danneggiare le ossa o la muscolatura del volto, in particolare quelle della mandibola e della mascella. Abbiamo dunque osservato come il corpo umano sia meno vulnerabile, considerando il breve termine, rispetto a quanto si possa credere. Ottenere una morte immediata, che metta l’attaccante al sicuro da un contrattacco, non era affatto semplice; un colpo disabilitante ( taglio di un tendine, di un arto, sangue negli occhi ) anche se non mortale poteva rivelarsi molto più efficace ai fini della positiva conclusione di uno scontro, rispetto ad affondi e fendenti in punti apparentemente più letali. EFFETTI INDIRETTI DELLE FERITE D’ARMA Abbiamo visto un quadro sintetico ma esauriente dello scempio che avremmo trovato percorrendo il campo di battaglia dopo la conclusione di uno scontro. Consuetudine comune da Omero fino alle guerre d’Italia, era seppellire i propri morti (i greci organizzavano tregue per permettere anche agli sconfitti la sepoltura dei propri uccisi), raccogliere i propri feriti e finire quelli avversari (a parte quelli da cui si poteva ottenere un riscatto). Quali erano le conseguenze indirette a medio/lungo termine di ferite che non si rivelavano troppo gravi da causare la morte entro una o due ore? Il primo problema che dovevano affrontare i medici al seguito degli eserciti erano le ferite infette; potenzialmente anche una lesione non letale poteva complicarsi a causa di un infezione; non tutte le ferite devono per forza infettarsi, ed in questo caso il processo di guarigione naturale può creare il tessuto connettivo, rigenerare i vasi danneggiati e chiudere la ferita. Se invece i batteri riescono ad aggredire i tessuti ed iniziano a riprodursi a loro spese, il sistema immunitario reagisce in modo massiccio. Alte concentrazioni di globuli bianchi arrivano nella zona lesa, in tale numero da formare una crema biancastra comunemente chiamata pus; i globuli bianchi che muoiono durante lo scontro rilasciano sostanze chimiche, non usabili dai batteri, che consumano il tessuto morto ma che rallentano anche la formazione del tessuto connettivo. Se il flusso di globuli è molto elevato abbiamo una suppurazione ed un versamento all’esterno. Il tipo di pus fornisce un’indicazione sul procedere dell’infezione: se bianco e cremoso è un buon segno (pus bonum et laudabile), mentre se è acquoso e maleodorante indica che i globuli non sono presenti in numero sufficiente. Un’infezione superficiale causa la caratteristica infiammazione attorno ai bordi della ferita, provocata dalla reazione vascolare; un’infezione in profondità causa gonfiore nella zona ( tumor per i Romani ). 187 Se i batteri hanno la meglio sulle difese, sempre più tessuto viene ucciso provocando un’ulcera, e la cicatrizzazione diventa più difficile se non impossibile; la morte massiccia di tessuto viene chiamata gangrena (melasmos per i greci), che si manifesta con il caratteristico annerimento della zona colpita160. L’ infezione terrore dei campi di battaglia del XIX secolo era la gangrena gassosa: questa forma di gangrena è provocata da un batterio del tipo clostridium (perfringens principalmente), batteri anaerobi che si trovano nel terreno, nella vegetazione, nella polvere e nei tratti intestinali di uomini ed animali (e quindi nelle feci). Il clostridium aggredisce i tessuti danneggiati della ferita dando inizio ad un’azione necrotica, che genera gas con caratteristico odore putrescente. Parente della gangrena gassosa è il tetano (clostridium tetani), che si trova negli stessi ambienti (terreno, feci, vegetazione), ma che, tramite il rilascio di una tossina, provoca convulsioni (in media dopo 5-10 giorni) che portano al coma e alla morte. Se i batteri, dalla ferita, riescono a penetrare nel flusso sanguigno (di solito un grande vaso deve essere vicino alla lesione), si può generare un’infezione del sangue, o setticemia (detta anche sepsi161), che porta i microrganismi in tutto il corpo; si manifestano ascessi multipli ed una febbre molto elevata. Se la ferita è così profonda da arrivare all’osso (o anche nel caso di fratture esposte), e dei batteri piogeni (cioè che provocano la generazione di pus, di solito stafilococchi o streptococchi) riescono a penetrare, si ha un’infezione conosciuta come osteomielite cronica, con continua emissione di pus dall’osso verso l’esterno, anche quando il tessuto molle ha cicatrizzato. La penetrazione di batteri attraverso una ferita al cranio fino alle meningi, può provocare l’infiammazione delle stesse, o meningite, dalle conseguenze spesso letali, ma lo stesso risultato può avvenire tramite una setticemia; stesse conseguenze mortali, in caso di infiammazioni all’encefalo (encefaliti). Le ferite all’addome, con perforazione dei visceri, causano quasi sempre la peritonite, uno stato infiammatorio del peritoneo, dovuto alla fuoriuscita dei fluidi dagli organi lacerati e della flora batterica dall’intestino162. La peritonite causa ipovolemia (diminuzione della parte liquida del sangue) e sepsi; gli affetti da peritonite soffrono di forti dolori addominali, tanto da restare in posizione fetale, ed hanno nausea, vomito e febbre. Come per la meningite, la peritonite può essere causata anche dalla setticemia. Altre conseguenze post-combattimento delle ferite sono la rabdomiolisi ed i danni neurologici: la prima si verifica quando viene danneggiata una grossa porzione di tessuto muscolare (ad esempio per effetto di un danno da arma contundente o da schiacciamento), le cellule colpite rilasciano nel sangue sostanze chimiche che possono danneggiare in modo irreparabile i reni con le conseguenze che ne derivano163. I traumi al cervello quando non letali possono comunque compromettere le funzionalità del soggetto: l’epilessia è spesso una delle conseguenze, ma anche i danni al sistema motorio non sono rari (la parte di cervello che controlla il movimento si trova proprio esposta ai colpi dall’alto). Ma quanto era alto il rischio di infezione dopo una battaglia antica o medievale? I resoconti ottocenteschi sono pieni di amputazioni per eliminare il pericolo di gangrene: le statistiche fino alla prima guerra mondiale parlano di un 5,5% di infezioni da tetano, un altro 5% di ferite che diventano cancrenose e 1,7% di ferite causanti la setticemia164. Durante la guerra civile americana quasi tutte le ferite infettavano, la mortalità da colpo di arma da fuoco al petto era del 62% quella all’addome dell’87%. La percentuale di mortalità per le amputazioni alle gambe era 160 (Majno, 1991), pag.1-6 In realtà con sepsi si indica più correttamente la risposta sistematica all’infezione e non l’infezione in se. 162 Ippocrate ne descrive un caso nell’Epidemico (5.21): si tratta di un uomo che aveva subito una penetrazione di lancia sotto l’ombelico 163 (Mitchell, 2004), pag.167 164 (Rosenstein, 2004), pag.127 161 188 dell’83%, del 24% considerando anche gli arti superiori (negli ospedali della Parigi del 1830, la mortalità media delle amputazioni era del 39%, con un 62% per quelle alle gambe165). Dobbiamo aspettarci dati simili anche in tempi più lontani con pratiche mediche più primitive? Apparentemente no. Il tasso di infezioni dovuto a ferite, esaminabile dai resti ossei, sembra molto meno alto di quanto ci si potrebbe aspettare. Il tasso di sopravvivenza sui crani neolitici che hanno subito una o più trapanazioni del cranio sfiora il 100% con pochissime tracce di infezione batterica, comunque non letale; nell’800 per operazioni analoghe era la mortalità ad essere quasi del 100%166. Abbiamo già visto come su 300 crani della Germania altomedievali solo il 12% di quelli che subirono una ferita presenta segni di infezione. Naturalmente le infezioni e la gangrena non erano assenti, ma non appaiono così frequentemente nelle cronache come ci si potrebbe aspettare, considerando che ferite anche gravi erano coperte con bendature e suturate con materiali non sterili. A cosa è dovuta questa differenza? I motivi sono diversi: ¾ Ambiente esterno: I batteri clostridia, tra i più letali per le ferite, sono virtualmente presenti in ogni suolo del pianeta (tranne che nel deserto del Sahara). Non sono presenti dappertutto nella stessa percentuale: i suoli intensamente fertilizzati ne contengono una quantità molto più elevata. Questi tipi di terreni erano molto più rari prima dell’età moderna con l’aumento della concimazione e del terreno messo a cultura. Anche la minore densità umana e di animali domestici rendeva inferiore l’impatto dei batteri nell’ambiente. ¾ Fattore chirurgico: Buona parte delle infezioni che colpiva i feriti nell’800 era trasmessa dagli stessi chirurghi che operavano in ambienti non sterili. I batteri passavano da un paziente all’altro attraverso le mani dei dottori. Le infermerie da campo erano luoghi artificiali creati dall’uomo dove la concentrazione batterica era molto più alta dell’ambiente circostante. Gaebel ricorda che gli animali vengono abitualmente castrati anche oggi su letti di paglia ed in caso di fuoriuscita di intestini, questi sono lavati con acqua sterile, con pochissima possibilità di infezione167. ¾ Natura delle armi: Le ferite causate dai proiettili delle armi da fuoco causano lesioni molto diverse rispetto a quelle delle armi bianche. In una lettera a Filippo II di Spagna, Luis de Requesens, governatore dei Paesi Bassi nel 1575 scrive che la maggior parte delle ferite era causata da picche e spade, e queste guarivano bene, ma molte erano anche quelle da moschetto ed in genere portavano alla morte168. Un proiettile da moschetto che penetra nel corpo, spesso segue una traiettoria eccentrica che lacera tessuti e rompe ossa, causando un danno molto più esteso ed orribile169, che lascia la ferita aperta ed esposta e con parecchio tessuto necrotico che favorisce la proliferazione batterica, rendendo necessaria l’amputazione dell’arto colpito. Perché il batterio della gangrena o del tetano possa svilupparsi le condizioni sono due170: gli agenti patogeni debbono penetrare nella ferita e la tensione dell’ossigeno nei tessuti lesi non deve essere superiore al 30%. L’arma stessa può essere il veicolo di ingresso o l’entrata di terreno molto ricco di batteri nella ferita; il crollo della tensione dell’ossigeno può essere causato dalla necessità di bloccare una forte emorragia premendo per lungo tempo la ferita o usando a lungo un laccio emostatico. Questi fattori sono più comuni con le armi da fuoco rispetto alle armi bianche: le palle da moschetto non sono sicuramente sterili (ma in realtà è difficile stabilire con certezza se i batteri eventualmente presenti possano sopravvivere allo scoppio nella canna), allo stesso tempo la carica cinetica del colpo può portare il colpito a cadere in terra portando il terriccio 165 (Mitchell, 2004)l, pag.153 (Majno, 1991), pag.28 167 (Gaebel, 2002), pag.27 168 (Hale, 1985), pag.121 169 (Rosenstein, 2004), pag.126 170 (Revis, 2006) 166 189 in una ferita più larga di quelle da spada; i proiettili possono raggiungere più facilmente grossi vasi sanguigni, costringendo chi curava i feriti ad usare sistemi drastici per bloccare le emorragie, ma favorendo l’infezione. Al contrario spade e lance venivano costantemente pulite e ribattute a caldo per mantenere efficiente ed affilata la lama, lasciate in foderi per proteggerle dall’ossidazione, e difficilmente un colpo aveva l’energia per buttare a terra un uomo e quando accadeva la morte seguiva subito dopo perché l’avversario dava il colpo di grazia. Buona parte delle ferite non letali erano tagli superficiali dalla forma regolare (meno tessuto necrotizzante, meno possibilità di setticemia), ma anche in caso di penetrazioni la pelle tendeva a chiudersi una volta estratta la lama, proteggendo da ingressi dall’esterno; Keegan descrivendo Azincourt ipotizza che le penetrazioni da parte di lance o altre armi d’asta portassero all’interno del corpo umano frammenti di tessuto o metallo sudicio come fanno i proiettili171, ma nelle fonti questo non appare, le armi trapassano o tagliano gli abiti senza spingerli nella lesione. Ma, come ho già affermato, questo non vuol dire che le infezioni fossero assenti dai campi di battaglia o dalle operazioni chirurgiche172; è comunque molto interessante notare che spesso siano legate a ferite causate da dardi, piuttosto che da armi impugnate. Spesso i sintomi sono scambiati con quelli di un avvelenamento; un’infezione potrebbe essere stata la causa della morte dell’imperatore bizantino Giovanni II, che feritosi a caccia con una propria freccia, si dice sia morto dopo una settimana: alcune cronache incolpano il veleno sulla punta dell’arma, ma una settimana sembra un tempo esagerato per qualunque veleno173. L’uso di frecce avvelenate è un topos letterario fin dai tempi della Grecia antica, e se in parte può essere vero, molto spesso probabilmente più che di veleno si trattava di batteri all’opera nella ferita174; le complicazioni causate dalle frecce degli archi lunghi inglesi durante la Guerra dei Cent’Anni fecero pensare a molti francesi che gli inglesi usassero frecce avvelenate175. Usama racconta di un certo Shihab-al-Din che ferito da un dardo al braccio e medicato, morì tre giorni dopo con il braccio completamente nero, un caso evidente di gangrena176. Una ferita da dardo poteva causare un’infezione più spesso rispetto a quella da spada, perché: • • • • Le frecce erano meno pulite: essendo armi usa e getta, erano trattate con più trascuratezza, ammucchiate e infilate al suolo o lasciate esposte alla polvere. Penetravano in profondità con molta forza (setticemia, osteomielite) Per estrarre quelle a punta uncinata era necessario spesso l’intervento chirurgico del medico, che doveva allargare la ferita con attrezzi non sterili, facendosi veicolo di infezioni. La punta poteva rimanere nella ferita dopo che l’asta si era spezzata, impedendo a volte la guarigione. Ma anche dopo queste considerazioni, non possiamo comunque misurare l’impatto delle infezioni a seguito di ferite da arma bianca nella realtà della guerra pre-moderna. Sappiamo però che quando la lesione infettava le opzioni a disposizione del medico erano molto poche. 171 (Keegan, 1976), pag.117 Infatti Celso afferma che dopo un’operazione il pericolo più immediato è la gangrena della ferita (De Medicina 7.27); il già citato comes Leudast morì per la “putrefazione “ delle ferite ricevute (conputriscentibus plagis) nonostante le cure dei medici del re dei Franchi. Ippocrate riporta casi evidenti di tetano. 173 (Mitchell, 2004), pag.157-158 174 Non a caso “tossico” deriva dal greco “Toxon”, che vuol dire arco 175 (Bartlett, et al., 1995), pag.51 176 (Mitchell, 2004), pag.158 172 190 CURE PRESTATE AI FERITI La necessità di alleviare la sofferenza dei feriti dopo una battaglia, è un’esigenza antica come la guerra. Figure di guaritori o guerrieri esperti di medicina al seguito degli eserciti, appaiono anche in società dove la figura del medico professionista non esisteva. Davanti a Troia, Macaone e Podalirio i due figli di Asclepio, prestano la loro opera di guaritori oltre che di guerrieri. Dopo la battaglia di Hlyrskorg’s Heath non essendoci abbastanza dottori per tutti i feriti, il re Magnus, incarica 12 uomini, dalle mani più delicate, della cura delle ferite: benché non avessero esperienza di queste cose, impararono molto rapidamente e da alcuni di loro discesero molte importanti famiglie di medici177. All’altro estremo, passando dai medici non militari che accompagnavano gli eserciti greci e medievali, abbiamo il servizio medico professionista al seguito della legioni romane imperiali, con medici in ogni coorte, con infermerie negli accampamenti stabili (valetudinaria)178. In questa sede non voglio fare una storia della medicina fino al 1500179, ma brevemente enumerare le opzioni che avevano i medici, dopo uno scontro, di fronte alle ferite ed alle loro conseguenze. Fratture ossee e lussazioni Rompersi un osso in battaglia doveva essere abbastanza comune: un colpo violento o una caduta da cavallo erano eventi tutt’altro che remoti. La cura delle fratture sembra un’operazione in cui i medici ottenevano un’ottima percentuale di successo, almeno giudicando dai ritrovamenti ossei. Leggendo le leggi del regno di Gerusalemme in epoca medievale, osserviamo come un medico poteva essere considerato responsabile per la cattiva guarigione di un osso lungo come il femore: evidentemente la cura di tali fratture non era considerata un’operazione complessa, ed il suo fallimento era attribuito alla trascuratezza180. La procedura usata consisteva nel riportare in sede l’osso (con modalità diverse a seconda della zona), quando necessario, e tenerlo in posizione fino alla guarigione usando bende e stecche. Ippocrate e Celso dedicano un intero libro delle loro opere alla cura delle fratture; il medico greco insiste molto sul verificare il corretto allineamento delle ossa e sul modo di bendare. Più gravi erano le fratture multiple e quelle che ledevano i tessuti, oltre a quelle in zone particolarmente vitali come la colonna vertebrale od il cranio. Anche la riduzione delle lussazioni era un procedura di routine: le ossa, dove necessario, venivano rimesse in sede anche con l’ausilio di lacci e tiranti. Galeno per la lussazione al femore usava un apparecchio chiamato glossocomion, impiegato anche per la sistemazione delle fratture allo stesso osso. Cura delle lesioni esterne Le lesioni esterne (plaga exstrinseca in latino), soprattutto tagli, erano numerose alla fine di una battaglia. La pratica comune consisteva nell’applicare bendaggi o suturare181 (usando capelli umani, peli animali o seta, per chi se la poteva permettere, aggiungendo anche pinzette di metallo o fibulae) per favorire la chiusura della ferita, dopo averla lavata con acqua, vino o aceto. Il bendaggio poteva essere ripetuto più volte e varie tipologie di impiastri applicate. Alcune delle sostanze (enemi per i greci) contenute in questi preparati avevano effettivamente un valore antisettico o batteriostatico, così come alcuni dei liquidi impiegati nei lavaggi: il vino contiene un polifenolo, la malvoside, che 177 Heimskringla 29, (Griffith, 1995), pag.207 (Cosmacini, 2003), pag.91, (Majno, 1991), pag.390 179 Fortunatamente la tradizione ippocratica filtrata da Galeno, passò intatta al medioevo fino all’età moderna. Quindi, a parte qualche miglioramento o peggioramento, non esiste una grande differenza tra le tecniche mediche dei vari periodi 180 (Mitchell, 2004), pag.173 181 (Mitchell, 2004), pag.152, (Penso, 2002), pag.465 178 191 è 33 volte più potente del fenolo contro i batteri182, l’aceto è ugualmente efficace, l’olio non permette ai batteri di crescere, il miele era usato fin dall’epoca egizia come forte antisettico, così come la mirra (un batteriostatico). Molto più crude erano le varie polveri metalliche usate fin dai tempi dei greci: ossido di piombo, di zinco, di rame, solfato di rame183, che uccidono i batteri, ma anche le cellule dei tessuti e possono causare un avvelenamento da metalli pesanti ( in particolare il piombo, cui i romani erano già grandemente esposti nella vita di tutti i giorni184 ). Anche la cauterizzazione era usata per combattere le infezioni fin dai tempi di Ippocrate. Arresto dell’emorragie ed amputazioni La morte per emorragia era un pericolo molto più immediato dell’infezione. Il principio del laccio emostatico era già conosciuto da Ippocrate, ma quest’ultimo non applicava il metodo della legatura dei vasi, così dopo qualche ora con il laccio l’alternativa era tra il rischio di gangrena e la ripresa dell’emorragia185. I medici alessandrini conoscevano sia la legatura dei vasi che il laccio emostatico, ma l’errata comprensione dell’anatomia del sistema sanguigno faceva si che il laccio venisse applicato a tutti gli arti tranne a quello in cui si verificava l’emorragia186, ed alla radice invece che sopra la ferita. Galeno praticava la legatura dei vasi e ci sono indizi che il laccio emostatico fosse impiegato anche in età romana, ma per una corrente di pensiero esso favoriva l’emorragia non la contrastava187. La tecnica della legatura, come il laccio emostatico, venne dimenticata nel medioevo, e per arrestare l’emorragia si impiegava la cauterizzazione188, con ferri o versando olio bollente nella ferita. Laccio e legatura dei vasi si incontrarono finalmente nel XVI secolo grazie ad Ambroise Paré. Entrambe le tecniche erano molto utili in caso di amputazioni; Ippocrate non conosceva come amputare, ma in alcuni casi la gangrena diventava secca (non batterica) prima di poter diventare gassosa portando alla perdita naturale dell’arto. La tecnica deve essere apparsa in età ellenistica, e da Celso viene da data per scontata. Albucasis la descrive: legature erano posizionate sopra e sotto il punto di incisione per tenere fermi i tessuti molli una volta tagliati; dopo aver arrestato l’emorragia, l’osso doveva essere segato in punto abbastanza alto in modo da essere sicuri di non lasciare parti malate. Simile la procedura di Celso: si incide la carne fra la parte malata e quella sana, fino ad arrivare all’osso; una volta che lo si è raggiunto, si scolla il tessuto sano, in modo da lasciare un certo spazio. A questo punto con un seghetto si taglia il più vicino possibile alla zona sana e poi si deterge la superficie della zona ossea tagliata. Infine si ricopre l’osso con la pelle precedentemente scollata e che adesso è abbastanza “laxa” per ricoprire completamente la zona189. Galeno consiglia, in caso di gangrena, di praticare prima delle scarificazioni per far uscire il sangue nero. Estrazione delle frecce Estrarre i dardi è sempre stato un problema, specialmente per le frecce a punta uncinata che rimanevano infisse nei tessuti. Se la freccia era entrata in profondità una soluzione poteva essere di spingerla e farla uscire dall’altra parte dopo aver inciso, oppure allargare chirurgicamente la ferita ed estrarla. 182 (Majno, 1991), pag.188, il problema con il vino è che il polifenolo si lega rapidamente con le proteine della carne, e quindi va impiegato in grosse dosi 183 (Majno, 1991), pag.185 184 (Penso, 2002), pag.577 185 (Majno, 1991), pag.150-152 186 (Majno, 1991), pag.336 187 (Majno, 1991), pag.404, Compositiones di Scribonio 188 (Mitchell, 2004), pag.150; Albucasis viene considerato un punto di riferimento per questa tecnica 189 De Medicina, VII, 33 192 Celso parla del cucchiaio di Diocle che permetteva di estrarre lama e freccia assieme senza lacerare i tessuti. Tubi scorrevoli o aste erano impiegati nel Medioevo per ottenere lo stesso effetto190. Alternativa estrema era aspettare qualche giorno ad estrarre, lasciando che i tessuti attorno alla punta imputridissero, permettendo una facile fuoriuscita; ma anche lasciare la punta nella ferita poteva essere un’opzione quando questa era troppo in profondità o in una zona troppo rischiosa per poter intervenire. Anche i sassi delle fionde potevano restare infissi nella carne o nelle ossa: nel primo caso era necessario incidere profondamente la ferita ed estrarre il proiettile con una pinza, nel secondo caso dapprima si cercava di estrarlo con l’aiuto di uno strumento, altrimenti si era costretti a praticare un foro nell’osso vicino al sasso191. Qui di fianco lo strumento di Ambroise Paré per l’estrazione delle frecce. La cannula inserita nella verga allargava il becco di quest’ultima ed i tessuti attorno alla punta di freccia. Quest’ultima, privata dell’asta, veniva presa dalla cannula e fatta uscire. Trapanazione ed asportazione di frammenti del cranio Una frattura al cranio poteva richiedere un’operazione per estrarre frammenti di osso pericolosi per la materia cerebrale sottostante, oppure per togliere una zona d’osso depressa. I medici erano ben consci che alcune ferite alla testa erano curabili ed altre letali. Guglielmo da Saliceto consiglia di analizzare i sintomi per capire se il cranio è fratturato o no: vomito, scurirsi degli occhi, vertigini, depressioni nella testa e rigonfiamenti. La pratica normale consisteva dapprima nell’individuare la zona fratturata: si poteva usare la palpazione della zona, oppure la manovra di Valsalva per sentire le fuoriuscite d’aria, oppure allargare la ferita ritraendo lo scalpo. Per distinguere le fratture troppo piccole dalle giunzioni del cranio, si arrivava ad impiegare sostanze coloranti sulla zona192. Una volta trovato il punto, le parti prominenti venivano staccate inserendo uno strumento piatto nelle fessure, i frammenti mobili con una pinza, le parti depresse praticando fori con il trapano in modo da creare frammenti asportabili. 190 (Mitchell, 2004), pag.156 De Medicina, 7.5 192 (Majno, 1991), pag.168 191 193 Osteomielite Per curare l’osteomielite, Celso consiglia un intervento chirurgico: bisogna asportare tutti i tessuti malati intorno all’osso fino a lasciare solo quelli sani, poi sarà necessario cauterizzare l’osso infetto fino a provocarne l’esfoliazione, oppure raschiare fino a quando non compaia un po’ di sangue. Inutile dire che, con una procedura come questa, il dolore doveva essere incredibile. Usama racconta di un trattamento meno doloroso applicato ad un nobile cristiano nel XII da un medico franco: questi versò nelle ulcere intorno all’osso dell’aceto (che, come abbiamo visto, è un potente antisettico), il liquido doveva essere penetrato fino all’osso uccidendo abbastanza batteri da permettere al fisico di vincere l’infezione. Embolia gassosa I medici antichi non potevano conoscere l’embolia, né capirne le cause193. E’ però interessante notare la pratica seguita dai Mongoli in caso di ferite da freccia al collo: quando sia Gengis Khan che Ogodei vennero feriti al collo da frecce, chi li assisteva succhiò via il sangue dal collo per ore fino a quando fu possibile cauterizzare la ferita. Un simile trattamento aveva due vantaggi: impediva a bolle d’aria di entrare e puliva contemporaneamente la zona colpita; naturalmente questa “cura” era una conseguenza dell’osservazione e dell’empirismo, non di una reale comprensione della natura del problema194. Fuoriuscita e perforazione dell’intestino Celso afferma che se ad essere perforato è l’intestino tenue non c’è nulla da fare, mentre conviene tentare se ad essere danneggiato è quello crasso. Se la carne risulta già alterata nel suo colore naturale, non c’è più cura possibile. Se la carne è ancora in buono stato, bisogna suturare l’organo molto in fretta, eventualmente asportare parti annerite, lavare con acqua e olio se la carne è secca, divaricare i bordi della ferita, reinserire intestino ed omentum, suturare peritoneo e cute. Galeno si vanta di aver asportato completamente l’omentum ad un gladiatore ferito all’addome e che questi guarì rapidamente195, ma il fatto che si vanti indica che generalmente questo tipo di operazione non aveva successo. Per gli altri organi addominali Celso dice che l’unica cosa da fare è asportare la parte fuoriuscita. Galeno suggerisce di osservare le sostanze che escono dalla ferita per capire che tipo di organo sia stato leso. Ferite al torace Guglielmo da Saliceto consiglia di verificare dapprima se l’arma, penetrando, ha leso qualche organo importante come quelli respiratori: aria che esce dalla ferita, senso di peso sul diaframma, sputare sangue dalla bocca, difficoltà respiratoria sono tutti sintomi che indicano l’avvenuta perforazione dei polmoni. Pur essendo ferite spesso mortali, Guglielmo consiglia di tentare comunque: il chirurgo può provare ad allargare la ferita e far spurgare il sangue all’esterno anche per due giorni, pulire l’interno dai grumi usando teli di lino imbevuti d’olio in modo da rendere visibile la profondità della lesione. Infine versare nella ferita un lavaggio contenente vino ed altre 193 Guglielmo di Saliceto, di fronte ad un probabile caso di embolia causato da una freccia al collo ritiene che la morte in meno di un’ora del paziente, non vada attribuita al veleno ma ad una qualche sorta di “danno” comunicato dal sangue e dallo “spirito” (contenuto nelle arterie) ai polmoni ed al cuore. 194 (Turnbull, 2003), pag.50 195 Anche Guglielmo da Saliceto narra di aver curato una fuoriuscita di intestini, lavandoli con il vino e suturandoli, (Settia, 2002), pag.281 194 sostanze, bendare la piaga e farla spurgare ad ogni visita con la suppurazione, ripetendo l’operazione finché il vino non uscirà di colore chiaro dalla lesione, segno dalla guarigione interna. Ferita alla gola Le ferite alla gola che non toccano parti vitali ( vasi sanguigni e trachea ) possono essere curate come le altre lesioni. Albucasis descrive come bloccare un’emorragia da un’arteria della gola: fermare dapprima con un dito l’uscita del sangue, usare quindi delle “olive cauterizzanti” ( di diversa dimensione a seconda della grandezza della lesione ), preventivamente rese roventi, per bruciare il punto dell’arteria prima coperto dal dito. Gangrena La gangrena presa in ritardo portava inevitabilmente alla morte. Se presa in tempo, si potevano cauterizzare i tessuti tra la parte malata e quella sana, in modo da bloccarne l’avanzata, oppure passare direttamente all’amputazione della zona colpita. Celso consiglia, nel caso il chirurgo dopo un’operazione si accorga che la ferita inizia ad andare in gangrena, di provare ad arrestarla tramite decotti e lavaggi fatti con diverse sostanze (vino, marrubio, cipresso, mirto, ecc.)196. Sostanze anestetiche Molte delle cure enumerate qui sopra richiedevano un intervento chirurgico estremamente doloroso, per cui la necessità di lenire la sofferenza durante e dopo l’operazione era un esigenza sentita fin dall’antichità. Varie le sostanze usate: Plinio suggerisce di somministrare un ciato (40 ml.) di succo di mandragola197, ma veniva usato anche l’oppio (impiegato in Europa fin dall’età Minoica) ed il giusquiamo. Celso consiglia pillole fatte con tutte e tre le sostanze198. Nei testi arabi medievali, ne appaiono anche di altre: cicuta, papavero, siero di papavero, belladonna, semi di lattuga e fumaria; tutte queste sostanze hanno un effetto narcotizzante o analgesico, ma alcune possono essere letali in dosi eccessive199. Oltre alla somministrazione diretta ed in pillole, potevano essere mischiate al vino, o fatte assorbire da una spugna, messa poi sotto le narici fino a che non facevano effetto. Le procedure mediche qui sopra elencate non sono a priori lesive della vita del paziente, anzi spesso aiutavano la guarigione, ma bisogna ricordare che molte pratiche post-operatorie che, in teoria, dovevano farlo riprendere, in realtà erano estremamente lesive per la sua salute. Parlo in particolare di salassi inflitti ad uomini che avevano subito gravi emorragie come rimedio per le infiammazioni, diete post-operatorie al limite della fame con elementi nutritivi sbagliati (per gli ippocratici frutta e verdura, ma soprattutto la prima, erano da evitare, la carne era la dieta ideale, e tutto ciò portava ad una carenza vitaminica), trapanazioni del cranio non necessarie, somministrazione di elleboro per generare vomito e diarrea, pus e suppurazioni provocati apposta. 196 De Medicina 7.27 Historia Naturalis 25.94; (Penso, 2002), pag.458 198 De Medicina, 5 199 (Mitchell, 2004), pag.199-200 197 195 Queste pessime cure erano generate dalla cattiva conoscenza dell’anatomia umana (un esempio su tutti era l’idea che le arterie contenessero aria) e dal persistere nei secoli delle teoria ippocratica dei fluidi corporei. CONCLUSIONI Abbiamo visto come, durante uno scontro regolare, protezioni come scudo ed armatura limitino la possibilità di colpire le zone vitali del torace e dell’addome. La testa e gli arti (in particolare le gambe) diventano quindi i bersagli privilegiati, perché più esposti; ma non solo: si dimostrano anche bersagli premianti, se ben colpiti, cioè in grado di mettere fuori combattimento un avversario anche senza infliggere un colpo letale. Il taglio di un tendine, l’amputazione di un arto, il sangue negli occhi, lo stordimento di un colpo molto violento, possono dare un vantaggio decisivo. Allo stesso tempo un colpo andato a segno in una zona apparentemente vitale e, teoricamente, immediatamente mortale poteva creare una falsa sicurezza potenzialmente letale: nelle cronache storiche abbiamo visto casi di guerrieri colpiti a morte che feriscono i propri assassini, ed analizzando l’anatomia del corpo umano abbiamo visto come ciò sia possibile. Frecce, quadrelli e giavellotti saturavano il campo di battaglia, penetrando in profondità nelle carni e causando dolori atroci; anche in questo caso arti e testa erano i più esposti, sia per effetto di tiri a parabola che per lanci caduti corti. Ma al crollo degli schieramenti, alla fuga o alla caduta del proprio avversario, gli attacchi prudenti e mirati lasciavano il posto a colpi scagliati senza prendere la mira e senza tecnica, da uomini preda di emozioni violente. I cavalieri inseguivano i fanti spaccando i crani con le spade o trafiggendo le schiene con le lance. Gli sconfitti, nei primi metri della zona di contatto tra le fanterie, subivano serie multiple di ferite sul corpo, spesso non immediatamente letali, alcune sulle braccia, alzate in un estremo tentativo di difesa dalla furia dei loro assassini: gli ultimi istanti erano segnati da paura e dolore. Abbiamo infine visto quali sono le principali cause, dirette o indirette, che provocavano la morte in una battaglia pre-moderna, e quali possibilità di cura avevano i soldati rimasti feriti nello scontro. I chirurghi al seguito degli eserciti ottenevano una buona percentuale di successo su alcune tipologie di lesioni, ma per altre la loro possibilità di intervento era minima se non addirittura inesistente. Un campo di battaglia antico o medievale poteva produrre morte e sofferenza in modalità e quantità molto diverse da uno scontro moderno, ma non per questo, a livello del singolo soldato (che è poi la prospettiva di questo articolo), l’ordalia da affrontare era minore, né lo erano il terrore e la sofferenza. Ma quest’azione empia, che ho descritto in versi, io Angelberto vi assistetti e combattendo con altri solo rimasi tra i molti della prima fila. …. Invero dalla parte di Carlo, e parimenti da quella di Ludovico, i campi si imbiancano con le vesti di lino dei morti, come sono soliti imbiancarsi in autunno con gli uccelli. … O lutto e pianto! Spogliati sono i morti, le loro carni l’avvoltoio, il corvo, il lupo divorano accanitamente, si irrigidiscono, privi di sepolture, senza speranza giace il cadavere Versus de bella quae fuit acta Fontaneto 196 • • Un ringraziamento alla gentilissima Svenja alias Medusa, per le informazioni sui Gladiatori Le bellissime metope di Adamklissi possono essere visionate al sito http://www.dirtyredcommie.com/gallery/v/lisa/Romania/album62/ Bibliografia Albucasis. Sulla chirurgia e gli strumenti. Alicarnasso, Dionigi di. Antichità Romane. Amberger, J. Christoph. 1996. The Secret History of the Sword, Adventures in Ancient Martial Arts. Burbank : Hammerterz Forum, 1996. Anonimo. Heimskringla, Saga dei Re di Norvegia. —. Saga di Knytlinga. —. Waltharius. Antiochia, Giovanni di. Storia. 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LEPPER Ripubblicazione a cura di : Ares Publishers Inc, Chicago, 1993 Lingua : Inglese Argomento : Saggio storico di storia romana Edizione originale : 1948, Oxford, Inghilterra, pagg. i - 263 1.- E’ assai singolare (e spiacevole) che di due episodi bellici di portata epocale avvenuti nel secolo “aureo” dell’impero, il II, vale a dire le guerre daciche e le guerre partiche, entrambe condotte in prima persona dall’imperatore Traiano, non sia sopravvissuto un resoconto redatto da autore coevo ai fatti, magari lo stesso imperatore (che è storicamente accertato avesse scritto i “Commentarii de bello dacico”), o uno dei suoi generali, come potrebbe essere Flavio Arriano, che ha scritto ΤΑ ΠΑΡΤΗΙΚΑ, una storia della guerra tra Romani e Parthi, alla quale - secondo taluni – avrebbe preso parte di persona. Se, quantomeno, le imprese delle due guerre daciche sono state eternate sul marmo attraverso le raffigurazioni sceniche della Columna Traiani, situata a bella posta nel foro omonimo (un monumento, per dirla con il Connolly, che fornisce il “video” della guerra, privo però del sonoro), questa fortuna non è stata replicata per la campagna partica, della quale restano solamente, preziosi, alcuni piccoli rilievi in avorio custoditi presso il Museo archeologico di Efeso, che ritraggono l’imperatore a capo scoperto durante la marcia, assieme alle coorti pretorie. Le fonti antiche sono scarse e frammentarie, per cui ci si affida ai reperti epigrafici ed ai resti di scavi o di ritrovamenti (miliari; diplomi militari; ecc.). In sostanza, a volere essere obiettivi, una miseria, se paragonata ad esempio al resoconto della guerra gallica di Giulio Cesare. La storiografia del XX secolo ha cercato di colmare questa lacuna mediante corposi articoli o saggi dedicati all’argomento : nel 1931 l’inglese Longden ha steso un robusto articolo apparso sul Journal of Roman Studies (cfr. Appendice a pag. 5) ed è stato affiancato poco dopo dal Guey, francese, con un'altra pubblicazione del 1937 (Essai sur le guerre Parthique de Trajan, 114-117, Bucarest). 2.- E’ quindi particolarmente positivo che un allievo del Longden all’Università di Oxford, F.A. Lepper, abbia deciso di occuparsi della materia e di compendiare i suoi studi in un testo specifico dedicato alla guerra partica dell’imperatore Traiano. L’opera è totalmente dedicata alla descrizione del conflitto, iniziato nel 114 d. C. (con la conquista dell’Armenia) e terminato nel 117 d. C. (a seguito della soppressione della controffensiva partica), al quale hanno preso parte sette legioni a ranghi completi e le vexilationes di altre dieci, oltre ad un numero imprecisato ma equivalente di truppe ausiliarie e di numeri. L’opera, data alle stampe nel 1948, pochissimo tempo dopo la fine del secondo conflitto mondiale, ha fornito da subito un insostituibile apporto per gli studiosi e gli esperti di un conflitto bellico e strategico che aveva manifestato sin dall’inizio un’importanza che trascendeva l’ambito puramente militare, per divenire un confronto tra i due maggiori Stati dell’antichità mediterranea durante l’età del Principato. Comprensibile quindi l’elenco di positive recensioni all’opera, a partire dal maestro Longden, per proseguire con il Guey, l’Henderson e financo con il nostro A. Momigliano nel 1949 (oltre ad 201 Andreotti nel 1952), onde per cui il saggio è divenuto un’imprescindibile e solidissima base di partenza per tutti coloro che hanno deciso di dedicare attenzione alle guerre partiche di Traiano (cfr. Angeli Bertinelli, Gonzàlez, in Appendice; in precedenza, tra gli altri, Stark nel 1969). Al di là di occasionali ritrovamenti archeologici o epigrafici (tra questi ultimi spicca l’epigrafe di Ti. Claudius Maximus, apparsa a Gramneni, a nord-ovest di Filippi in Macedonia negli anni ’60, che menziona il nome del primo consularis al quale fu affidato il governo della “provinciae no(vae) (Mesopotamiae)” Terentius Scaurianus di cui il Lepper ignorava il nome) e il restauro dei Fasti Ostienses (cfr. Fraschetti, in Appendice), poco è cambiato rispetto allo stato dell’arte all’epoca in cui il Lepper dava alle stampe la sua opera; di certo, purtroppo, nulla è cambiato per le fonti antiche, sicchè ancora oggi il testo rimane insostituibile per un approccio specialistico alle campagne di Traiano. 3.- A leggerla oggi, è evidente che l’opera tradisce ….. l’età : non già per il linguaggio utilizzato, quanto per l’impostazione prettamente speculativa che contraddistingue(va) quei saggi storici. Ecco quindi che l’autore inserisce una sola cartina geografica a fine testo, oltretutto minuscola e troppo estesa (di fatto comprende tutto il settore orientale dell’impero romano); ecco quindi l’assenza di riferimenti fotografici ai resti o ai monumenti relativi alla guerra, o di collegamenti con le risultanze archeologiche, che sono state condotte nell’Irak e in Siria da discontinue campagne di scavo e di documentazione aerea, nel periodo compreso tra i due conflitti mondiali. Da questo punto di vista spicca subito la differente impostazione di quest’opera rispetto ad un contemporaneo e recente studio sulle guerre daciche degli imperatori Domiziano e Traiano, che ha visto le stampe nel 2005 in Francia. In quest’ultimo l’autore (A.S. Stefan) utilizza i più recenti ritrovati dell’analisi archeologica, sul campo o aerea, coadiuvando ciascuna ipotesi o tesi con cartine o diagrammi dei territori sotto osservazione. Il Lepper rimane invece fedele al metodo divulgativo e di approccio proprio degli anni ’30, di cui in Italia abbiamo validissimi esempi con il Paribeni, proprio nel testo su Traiano (Optimus Princeps, III, Messina, 1927). Ciò tuttavia non priva il saggio storico di un’accuratezza nella ricostruzione delle fonti, nell’elaborazione dei concetti e nell’esposizione degli avvenimenti che vanno dall’ottobre 113 d. C., quando l’imperatore lascia Roma diretto in Armenia, fino alla morte di Traiano nell’agosto 117 d. C. a Selinunte, in Cilicia, durante il viaggio di ritorno a Roma. 4.- Il saggio è suddiviso in : Introduzione, Parte I, Parte II, Parte III e le Conclusioni. Nell’Introduzione si affrontano i problemi “classici” connessi alla ricostruzione delle guerre partiche, dalla mancanza di fonti, alla loro inconciliabilità (spesso per ragioni ideologiche di fondo); dall’assenza di ricerche archeologiche uniformi condotte sui luoghi degli eventi, alla necessità di affidarsi ad elementi extrastorici in senso stretto (monete; epigrafi; fasti, ecc.). Pregevole la catalogazione di tutte le fonti antiche che hanno affrontato l’argomento : Ammiano Marcellino, Appiano, F. Arriano, Aurelio Vittore, Dione Cassio, Dione Crisostomo, Eusebio, Eutropio, Festo, Frontone, Jordanes, Giovanni Malala, Mosè di Chorene, Fozio, l’Historia Augusta, Temistio e Zosimo, di ciascuna delle quali si evidenziano i pregi e le utilità, così come i difetti. La Parte I è dedicata alla ricostruzione del “problema cronologico” della campagna. La Parte II, che racchiude il fulcro dell’analisi dello storico britannico, affronta l’aspetto strategico e topografico della campagna bellica ed è quella nella quale maggiormente risalta l’impostazione, fortemente militare, che lo storico attribuisce alle intenzioni delle offensive traianee. La Parte III esamina le cause della guerra, smontando in maniera rigorosa la vulgata di Dione Cassio secondo il quale l’imperatore avrebbe aperto le ostilità per accrescere la propria fama di gloria. Infine, nelle Conclusioni, si traccia un bilancio della guerra, partendo dagli obiettivi di Traiano per arrivare al ridimensionamento adrianeo, causa del quale, per l’autore, è stata l’esigenza di ottenere 202 in fretta una base della propria investitura, contando sull’appoggio e la vicinanza delle legioni siriane, che dovevano pertanto essere avvicinate dai lontani confini per essere adoperate con celerità, in caso di esigenze interne. Conclude il saggio la minuscola quanto inutile cartina dell’intero settore orientale, quando per la minuziosità descrittiva sarebbe stata molto efficace una suddivisione delle singole zone interessate dall’avanzata romana. 5. – L’impostazione del Lepper è spiccatamente strategica, in aperta e consapevole contrapposizione con il Guey, per il quale le campagne partiche traianee erano motivate da interessi di natura economica. Lo storico britannico prende le mosse sia dalla sistemazione del confine ad opera dei Flavi (creazione della Provincia di Commagene; rete stradale militare; presidi in Armenia), sia dalle iniziative organiche dello stesso Traiano a seguito dell’annessione dell’Arabia Petrea, culminate nella creazione di un vero e proprio limes orientale sorto a fianco della strada che congiungeva Aila (mod. Eilat in Israele) sul Mar Rosso, a Damasco in Syria, fatta costruire proprio dall’imperatore. Peraltro per il Lepper la campagna non sarebbe stata predeterminata da Traiano, il quale avrebbe compreso la necessità di dare una definitiva sistemazione al confine orientale, a seguito della rottura in Armenia, per iniziativa dei Parthi, dell’accordo stipulato ai tempi di Nerone e per effetto del quale il sovrano era sì insediato dai Parthi, ma con il consenso (gradimento) dei Romani. E’ quindi l’Armenia l’iniziale causa della ennesima discordia tra Romani e Parthi nel 113 d. C., a dimostrazione di un mai sopito conflitto tra le due potenze per il controllo della regione. La tesi principale dell’autore, assolutamente verosimile per come viene motivata, è che Traiano abbia impostato per primo un limes in Mesopotamia seguendo la direzione Circesium-KhabourSingara-Tigri-Lago Van fino in Armenia, ovvero creando per la prima volta quel saliente incuneato nel territorio partico che Settimio Severo avrebbe reso definitivo poco meno di un secolo più tardi, adoperando le basi (castella fortificati; strade, ecc.) fatte costruire durante la conquista di Traiano. Ciò egli afferma alla luce dei ritrovamenti di miliari nei pressi di Singara, dove si attesta che Traiano stesse costruendo una strada che conducesse dal Mar Rosso fino a nord-est. Ed è perseguendo questa tesi che l’autore motiva la carenza di eventi per l’anno 115 – il quale per la verità vede Traiano insignito di quattro salutationes imperatoriae (delle sette totali che riceve durante la guerra : la prima, VII in generale, nel 114 dopo la conquista dell’Armenia; le ultime due, XII e XIII, nel 116 per la presa di Ctesifonte e (?) per la sconfitta di Sanatruce, il principe ribelle) dalla VIII alla XI -, nel corso del quale, occupate l’Osrhoene e la Mesopotamia settentrionale, l’imperatore romano avrebbe fortificato il saliente, costruendo accanto alla strada militare castella e forti avanzati. Il tutto senza disdegnare le puntate oltre il Tigri, in Gordyene, Adiabene e Atropatene, utilizzando il preziosissimo apporto del generale Lusius Quietus e dei suoi cavalieri Mauri. 203 Sesterzio raffigurante la nona salutatio imperatoria di Traiano da parte dell’esercito, avvenuta nel 115 d. C., in seguito alla (?) presa di Singara (collezione privata). 5 bis.- Il Lepper è consapevole delle obiezioni che si possono muovere alla sua tesi, in primis come conciliare la fortificazione del limes con la successiva invasione del 116, a seguito e per effetto della quale i Romani hanno acquisito ed occupato in successione la Mesopotamia meridionale, Seleucia, Ctesifonte, fino a raggiungere Charax sul Golfo Persico. Lo storico però è in grado di dare una spiegazione plausibile, ovvero che l’ulteriore offensiva verso sud nel 116 si spiegherebbe con un’avanzata strategica volta, appunto, a consolidare il confine, penetrando in territorio nemico per disorientare l’avversario e costringerlo alla difensiva. Egli ritiene questo tipo di iniziativa fisiologico della strategia romana e tipico dell’età flavia, specialmente avendo in mente l’avanzata di Agricola nel nord della Britanna, senza con ciò volere per forza dovere pensare ad una nuova acquisizione territoriale : del resto non è ancora sopita la dibattuta questione dell’effettiva estensione (e dell’esistenza) della Provincia di Assyria, di cui gli storici non riescono a chiarire una volta per tutte se si tratti del territorio occupato nel 116 e compreso tra il Tigri e l’Eufrate, o se si tratti dei territori transtigritani occupati dopo l’attraversamento del fiume, sempre nel 116 d. C.. Ad ogni modo, la conquista di Ctesifonte (anche in tal caso la prima ad opera dei Romani) ha costretto i Parthi a confrontarsi con un’avanzata che rischiava di divenire fatale per il loro Regno, scatenando quindi la controffensiva nel 116 d. C., facilitata dall’eccessiva estensione del fronte lungo il quale erano distese le legioni romane impiegate per la campagna e dal fatto che (forse) Traiano si era concesso una distrazione, seguendo un percorso “turistico” per visitare le antiche città imperiali persiane. Inestimabile l’apporto dell’onnipresente Lusius Quietus e di altri valenti generali (Erucius Clarus, Julius Alexander, Terentius Scaurianus in Mesopotamia; Catilius Severus in Armenia) nello spezzare la controffensiva, riconquistare e piegare le città riottose (Edessa, Seleucia, Nisibis), mantenere le posizioni (in Armenia), a dimostrazione della tempestiva reazione romana e della capacità di Traiano di affrontare con concreta rapidità gli imprevisti nel corso del conflitto. 6.- Nell’esaminare le cause della guerra partica, il Lepper non trascura alcun orientamento, ma predilige l’aspetto militare, vale a dire la necessità in primo luogo di risolvere una volta per tutte la “questione armena” ed in secondo luogo di definire meglio un confine meno esteso di quello 204 rappresentato dal corso del fiume Eufrate, che al tempo stesso comportasse l’apertura di rotte commerciali più favorevoli agli interessi romani. La contrarietà dello storico britannico alla tesi di Dione Cassio - ancora oggi ripresa dal Bennet, si veda in Appendice – che vede la guerra scatenata da un desiderio di gloria da parte dell’imperatore, non lo porta però a negare che Traiano non sia stato tentato nel corso della impresa dal seguire le orme di Alessandro il Macedone (del quale subiva il fascino, al pari di quasi tutti gli imperatori romani), ma solo a ritenere errato che questa sia stata la sola causa di questa guerra. Il Lepper intravvede in questa postuma versione dominante durante la tarda romanità un’influenza del pensiero di Adriano, a seguito della presa del potere da parte di quest’ultimo. Dovendo giustificare un’azione – la ritirata delle legioni al di qua dell’Eufrate – che ha vanificato in un colpo solo tre anni di avanzate romane in Parthia, Adriano avrebbe presentato le imprese partiche del padre adottivo Traiano come le azioni ambiziose di un sovrano spinto dalla fama di gloria, in tal modo dando alla sua ritirata il valore di una scelta ispirata dalla necessità di tutelare gli interessi dello Stato, rispetto ad avventate e costose operazioni belliche (che lo storico britannico invece vede con estremo favore). Anche l’analisi della malattia di Traiano – esaminata alla luce delle conoscenze mediche del XX secolo - aiuta a comprendere l’atteggiamento dell’imperatore nell’ultimo anno di guerra, il 116-117 e la sua (probabile) paranoia finale, per effetto della quale si riteneva perseguitato dalle persone che gli erano più vicine. 7.- In conclusione, è un testo basilare per i conoscitori e gli appassionati della storia dei rapporti tra Roma e la Parthia, al quale tutti coloro che si sono cimentati sull’argomento debbono qualcosa. Se è vero che nella seconda metà del 1900 altri storici hanno marcato l’attenzione ora sugli aspetti commerciali delle iniziative traianee, ovvero sulla motivazione economica, giungendo a sostenere, fondatamente, che la guerra partica di Traiano è stata generata da più cause tra loro collegate, è senz’altro esatta l’intuizione del Lepper secondo cui l’impostazione militare del conflitto, che non è stato premeditato dai Romani, ha finito per divenire prevalente mano a mano che le legioni romane si spingevano nella loro avanzata in territorio nemico. Sotto questo profilo il contributo del Lepper è fondamentale e tale resterà anche per le generazioni future. Si segnala infine che nella parte finale del saggio sono riportati i frammenti (invero scarsi) dei Parthika di Arriano, con le glosse del commentatore bizantino Suda, accompagnati da note esplicative. Bibliografia Si riportano riferimenti ad articoli o testi, per approfondire le campagne partiche di Traiano e gli eventi immediatamente successivi. LONGDEN, Notes on the Parthians campaigns of Trajan, Journal of Roman Studies, 1931, n. XXI, 135; M.A. ANGELI BERTINELLI, I Romani oltre l’Eufrate nel II secolo d.C., A.N.R.W., 1976, II, 1-22; M.A. ANGELI BERTINELLI, Roma e l’Oriente, Roma, 1979, 70-102; C.S. LIGHTFOOT, Trajan’s Parthian War and the Fourth Century perspective, The Journal of Roman Studies, 1990, n. LXXX; J. BENNET, Trajan, 1997, 161-163; 172-182; 183-204; J. ARCE, Muerte, consecratio y triunfo del emperador Trajano, Trajano Emperador de Roma, Roma, 2000, 55-70; M.G. ANGELI BERTINELLI, Traiano in Oriente : la conquista dell’Armenia, della Mesopotamia e dell’Assiria, ibidem, 25-55; 205 S. ENSOLI, Divus e Parthicus : un ritratto di Traiano con copricapo orientale, ibidem, 103-140; A. FRASCHETTI, Traiano nei Fasti Ostienses, ibidem, 141-152 J. GONZÀLEZ, Reflexiones intorno a la cronologia de las campanas particas del emperador Trajano, ibidem, 203-225. 206