Non sottomesse - Provincia di Pesaro e Urbino

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Non sottomesse
Due storie islamiche al femminile
E’ innegabile che il pensiero islamico contemporaneo debba alla riflessione di alcune
donne le sue intuizioni più sconvolgenti. La marocchina Fatema Mernissi e l’egiziana
Nawal al Sa’dawi, di cui abbiamo già parlato, hanno posto negli ultimi anni con forza
la questione femminile al centro del dibattito socio-religioso. Si deve, tuttavia, a due
pensatrici africane, la somala Ayaan Hirshi Ali e l’ugandese Irshad Manji, il tentativo
più estremo di analizzare con tragica lucidità certi aspetti della cultura religiosa
islamica senza nascondersi dietro alibi o giustificazioni, ma col desiderio di avviare,
al contrario, un’autoanalisi capace di scarnificare fino all’osso le contraddizioni
presenti nei loro mondi. Pur con alcune differenze rilevanti, entrambe le scrittrici
fanno della denuncia la loro forza espressiva, con memoriali densi di vita, mai
compiaciuti eppure tragici, a tratti quasi lirici. Ed entrambe, per questo loro atto di
spoliazione, per questa loro analisi impietosa, per questo scandaglio graffiante, sono
state ostracizzate dagli ambienti più ortodossi e fondamentalisti.
Ayaan Hirsi Ali, figlia di Hirsi Magan, leader storico dell’opposizione contro il
dittatore somalo Mohamed Siad Barre, è divenuta oggetto dell’attenzione mediatica
in quanto sceneggiatrice del cortometraggio Submission, le cui riprese sono costate la
vita al regista olandese Theo Van Gogh, e come autrice del pamphlet Non
sottomessa 1 , pubblicato di recente anche in italiano. In questa raccolta di memorie e
riflessioni, la Hirshi Ali racconta di come la sua vita sia stata sempre contrassegnata
dalla fuga: da bambina, quando dovette lasciare con la sua famiglia la Somalia per le
persecuzioni politiche di Barre; da giovane donna, quando, per evitare di sposare
l’uomo scelto per lei dal padre, fu costretta a fuggire, rifugiandosi prima in Germania
e poi nei Paesi Bassi, dove si laureò in Scienze politiche e ha militato nel Partito
Socialdemocratico, di recente abbandonato per passare nelle file del Partito liberale.
Una vita da transfuga la sua, quindi, ma sempre in lotta contro un universo – quello
delle sue radici, della sua cultura e della sua religione – di cui Hirsi Ali avverte sul
suo corpo di donna le contraddizioni e le insensatezze. La critica della Hirsi Ali al
suo mondo è assoluta e senza ripensamenti, e verte intorno a tre grandi tesi che, a suo
dire, rendono illiberale e repressivo l’islam: in primo luogo, “(…) il musulmano ha
con il suo Dio un rapporto basato sulla paura”, perché Allah pretende una
sottomissione assoluta che non lascia spazio ad alcun dialogo; in secondo luogo, “la
morale dell’islam deriva da un’unica fonte: il profeta Maometto”, un uomo vissuto
nel VII secolo, dice la Hirsi Ali, e nel cui comportamento il pio musulmano pretende
ancora di trovare soluzioni valide per la vita nel mondo contemporaneo; in terzo
luogo, “l’islam subisce pesantemente il dominio di una morale sessuale derivata da
valori tribali arabi (…), una cultura nella quale le donne erano proprietà dei padri,
fratelli, zii, nonni e tutori” 2 . E’ chiaro che le tre tesi suonano come tre grandi capi
d’accusa che la Hirsi Ali lancia al suo mondo culturale e religioso, o meglio, come tre
grandi sentenze di colpevolezza che la costringono ad una sorta di abiura del suo
1
2
A. HIRSI ALI, Non sottomessa. Contro la segregazione nella società islamica, Einaudi, Torino 2005
Cfr. pp. 4-5.
mondo di origine, ritenuto incapace strutturalmente di aprirsi al rispetto, se non alla
valorizzazione, dei diritti individuali della donna. La Hirsi Ali non sembra credere
che sia possibile un reale o prossimo riscatto dell’islam sui temi dell’emancipazione
femminile e del rispetto della donna, ed anzi sottolinea quanto l’ossessione per la
verginità femminile nel mondo musulmano sia profondamente radicata, al punto da
essere individuata come causa del ritardo socio economico del medioriente e, più in
generale dell’orbe islamico 3 , mentre solo liberando il corpo della donna dalle
violenze e dalle sopraffazioni che su di esso sono legittimate sarebbe possibile un
riscatto “moderno” dell’islam 4 . E’ per questi motivi che la scrittrice invita il mondo
laico occidentale a non arretrare davanti all’obbligo della denuncia di certi
comportamenti islamici definiti “premoderni” in nome di un vago e, a suo avviso
deleterio, relativismo multiculturalista. La sua migrazione nel partito liberale, infatti,
viene spiegata proprio in questi termini, come scelta obbligata di fronte ad una
sinistra troppo prona e rispettosa davanti alle diversità culturali e troppo poco
orgogliosa dei diritti conquistati dall’occidente. Il multiculturalismo viene accusato
dall’autrice somala di essere un atteggiamento miope e pavido, quando non
addirittura pericoloso, perché pretende di attribuire pari dignità a culture che non
nutrono lo stesso livello di democratizzazione.
Come porsi davanti a queste parole dure come macigni della Hirsi Ali? Innanzitutto
occorre, a mio avviso, cercare di spogliarsi delle idee dogmatiche e preconcette,
cercando di intercettarne le ragioni. Vale a dire che, per un verso, si deve riconoscere
quanto davvero un certo multiculturalismo semplicistico sia frutto del compromesso
o dell’ingenuità; quanto davvero un certo relativismo culturale rischi di essere
ideologicamente critico con il modello occidentale e altrettanto pregiudizialmente
favorevole al mondo arabo, di cui si ignorano volutamente tutte quelle provocazioni
rilanciate dalla scrittrice somala. E’ necessario, cioè, evitare di diventare conniventi
con atteggiamenti culturali lesivi dei diritti individuali in nome di un generico rispetto
per la diversità culturale, troppo in odore di indifferenza o frutto di un pericoloso
amore per l’esotico che, in fondo, magari inconsapevolmente, rappresentano nuove
forme di imperialismo. Ma, dall’altro, è anche vero che la controparte del
multiculturalismo non può coincidere con una netta demarcazione tra buoni e cattivi,
e che il multiculturalismo, nel pensiero ad esempio di Habermas 5 , è qualcosa di molto
più complesso di quanto voglia sostenere la Hirsi Ali, venendo a coincidere con una
ricerca autentica della complessità e della ricchezza culturale, e con quell’imperativo
del dialogo capace di produrre profonde e salutari trasformazioni nelle culture stesse.
Ha ragione, quindi, Adriano Sofri quando, nell’introduzione al libro, sottolinea che,
purtroppo, “le violenze domestiche sono tutt’altro che un fenomeno musulmano” 6 ,
3
A. HIRSI ALI, op.cit., P. 30
Cfr. E. LOWENTHAL, Ayaan Hirsi Ali. La donna nella gabbia dell’Islam, “TTL - La Stampa”, 28 maggio 2005, p.
1.
5
Secondo Habermas “le culture restano in vita soltanto se traggono dalla critica e dalla secessione la forza per
autotrasformarsi”. Cfr. J. HABERMAS – C. TAYLOR, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Feltrinelli,
Milano 1998, p. 91.
6
A. SOFRI, Introduzione, in A. HIRSI ALI, op. cit., p. XLI
4
che il delitto d’onore è stato cancellato dal codice penale italiano solo nel 1981 7 , o,
aggiungiamo noi, quando si ricorda che il diritto di voto alle donne nella civilissima
Europa è, storicamente, un’acquisizione recente. In altre parole, la Hirsi Ali sembra
dimenticare che l’Occidente dei diritti si è costruito con molti scossoni ed ha ancora
molti scheletri negli armadi, anche se, ovviamente, molte conquiste sono state
fortunatamente, ma anche dolorosamente, conseguite; sembra ignorare che anche
l’Occidente cristiano ha dovuto – e deve – fare i conti con una visione mitica di un
Dio dispensatore di punizioni; che anche il cristianesimo ha attraversato fasi misogine
al punto che tuttora la questione del ruolo della donna all’interno della Chiesa è
lontana dall’essere risolta; che, infine, il fatto che il cristianesimo si sia aperto ad una
revisione ermeneutica, non impedisce il proliferare, all’interno della sua galassia, di
rigurgiti passatisti, di interpretazioni letteraliste delle scritture, di larvate e
democratiche, ma non meno forti, concezioni egemoniche. Ma, soprattutto, la Hirsi
Ali sembra dimenticarsi del fatto che esistono milioni e milioni di musulmani che non
sono affatto “premoderni”, arretrati culturalmente, violenti o pregiudizialmente
antifemministi, come giustamente sottolinea l’antropologo Mamdani 8 .
La lettura della Manji 9 , scrittrice ugandese residente in Canada, invece, pur
concordando sotto molti aspetti con quella della Hirsi Ali, risulta meno netta e
soprattutto meno attratta dal tentativo di contrapporre il mondo laico, democratico e
aperto dell’Occidente a quello arretrato e intrinsecamente malato dell’islam, ossia
meno propenso ad avvalorare la tesi di una sorta di scontro di civiltà. La Manji,
infatti, articola il suo discorso di critica alle culture musulmane rimanendo quasi
completamente all’interno di quel mondo, di cui critica molti aspetti, ma al quale non
intende rinunciare tout court.
In un’intervista rilasciata alla stessa Hirsi Ali, la Manji sottolinea con forza di sentirsi
musulmana e di credere possibile una riforma profonda dell’islam, che, in sé e per sé,
rimane una religione “meravigliosamente tollerante” 10 . Ciò che invece la Manji
condanna senza appello è l’imperialismo culturale di un certo islam, a suo avviso
troppo pronto a gridare contro l’aggressività culturale dell’Occidente, ma incapace di
rileggere la sua storia con onestà intellettuale, grattando via quelle incrostazioni che
piegano l’interpretazione del Corano verso orizzonti ristretti e antifemministi. “Se
non leviamo la nostra voce contro gli imperialisti in seno all’islam, alla fine saranno
loro a condurre il giogo”, dichiara senza mezzi termini la scrittrice ugandese. Per
imperialismo islamico, tuttavia, la Manji non intende soltanto le spinte al controllo
culturale e alla guerra santa contro la malattia occidentale di certa parte del
fondamentalismo 11 , quanto piuttosto la tendenza dell’islam a credersi l’unica
possibile interpretazione del mondo, divenendo sordo ad un dialogo autentico. La
Manji, quindi, sprona i musulmani a frantumare la corazza dell’imperialismo
culturale interno, a usare il libero pensiero come grimaldello contro ogni tentativo
7
Ib., p. XXIV
Cfr. MAHMOOD MAMDANI, Musulmani buoni e cattivi, Laterza, Roma-Bari 2005.
9
Cfr. I. MANJI, Quando abbiamo smesso di pensare. Un’islamica di fronte ai problemi dell’Islam, Guanda, Parma
2004.
10
A. HIRSI ALI, L’incubo di Bin Laden. Intervista a Irshad Manji, in id., op. cit., p.. 75
11
Cfr. a questo proposito il bel libro del tunisino A. MEDDEB, La malattia dell’Islam, Bollati Boringhieri, Torino 2003
8
autocratico della religione - intesa come struttura di potere - sulla coscienza e
sull’esercizio del proprio pensiero. Tuttavia, dimostrando una sensibilità
interpretativa più ricca di sfumature della Hirsi Ali, la Manji non ritiene che si
debbano necessariamente gettare a mare le identità collettive, le tradizioni, i
linguaggi, i simboli, gli atti di culto, le idee religiose e i valori tradizionali, ma è
profondamente convinta che l’islam possa affrontare i suoi fantasmi solo se,
dall’interno di quel mondo, si è disposti a mettersi in discussione. Se, quindi, per un
verso, non disconosce il valore del proprio mondo e della propria religione, per
l’altro, la Manji è capace di affermare che anche l’islam ha qualcosa da apprendere da
quell’occidente troppo corrivamente presentato come male assoluto. Ma perché
questo attraversamento scabroso - che coincide nel non cadere vittime di una retorica
che voglia dipingere l’altro come un nemico potenziale - possa sembrare meno
angosciante, è necessario che ogni musulmano non dimentichi di essere soggetto e di
avere valore in quanto essere pensante. Per questo, la scrittrice ugandese si scaglia
contro il metodo educativo della madrassa 12 , in cui non viene insegnato a pensare,
ma, al contrario, viene dimostrato quanto sia fondamentale sacrificare il pensiero in
virtù di una lettura calata dall’alto della verità. L’islam, dice la Manji, potrà salvarsi
solo se i musulmani non avranno paura di porre domande anche in apparente conflitto
con quanto viene insegnato ufficialmente, se sapranno porre interrogativi di senso
profondi che sappiano stanare quanto di ritualistico e mitologico esiste nella
costruzione storica dell’islam.
Ma quest’invito, così lucido, che la scrittrice rivolge al suo mondo religioso, è in
realtà estendibile ad ogni credente, che deve sempre farsi interprete delle
sollecitazioni provenienti dalla storia, cercando risposte sempre nuove e, insieme,
capaci di non azzerare il passato; che deve sempre lottare contro ogni forma di
religiosità assurdamente ingessata in formule e tradizioni consunte; che, soprattutto,
deve essere in grado di resistere ai tentativi di chi pretende di inquietare gli altri con
le sue piccole verità spacciate per assolute, piuttosto che farsi inquietare
dall’incommensurabilità dell’Assoluto.
12
La Madrassa è la scuola tradizionale dedicata soprattutto all’istruzione superiore, in cui si impartiscono lezioni per
approfondire i contenuti appresi nelle scuole craniche frequentate durante l’infanzia. Cfr. R. ELGER ( a cura di),
Piccolo dizionario dell’Islam. Storia, cultura e società, Einaudi, Torino 2002, pp. 210 e 311-312.