NON C`È NULLA DA DIRE: C`È SOLO DA ESSERE, SOLO DA

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NON C`È NULLA DA DIRE: C`È SOLO DA ESSERE, SOLO DA
NON C’È NULLA DA DIRE:
C’È SOLO DA ESSERE, SOLO DA VIVERE.
CONVERSAZIONE CON ANTONIO SYXTY
FP (*) Perché Antonioni?
AS (**) Sono convinto che Antonioni abbia influenzato - a più riprese - il mio lavoro. Come è successo per l’arte, con personalità del
calibro di Joseph Beuys, Vito Acconci, Chris Burden, Marcel Duchamp e altri artisti della corrente concettuale e performativa.
FP Nel senso che per te l’arte è venuta prima del teatro.
AS Assolutamente sì. Il teatro è venuto di conseguenza all’art performance che avevo iniziato a praticare nei primi anni del mio
lavoro. Dal 1977 al 1979.
FP E dopo il ’79?
AS Ero convinto che il comportamento artistico che mi interessava indagare fosse quello che si snodava su un solo e unico
percorso: dal vero al falso e viceversa. Cosa era finto e cosa era vero.
FP E per questo hai scelto la via del teatro.
AS Il teatro era nella mia immaginazione il luogo in cui si praticava il falso, lo si ricostruiva, lo si metteva in pratica con l’intento
di raccontare qualcosa di vero. Totalmente assurdo! Una vera e propria macchina celibe - duchampiana - in grado di non
generare nulla se non se stessa.
FP E quindi dall’arte concettuale delle prime installazioni e performance sei passato al teatro?
AS L’ho studiato, da giovane allievo della Civica Scuola d’Arte Drammatica “Piccolo Teatro” di Milano. Ma nello stesso tempo
andavo modificando le mie performance coinvolgendo i miei compagni di corso e trasformandoli in performers invece che
in attori. Poi una volta espulso dalla scuola per incompatibilità con il metodo pedagogico teatrale, ho iniziato a lavorare
direttamente e sempre di più con gli attori e quindi lentamente a imparare da solo a fare teatro, diventando poi regista.
FP Ma torniamo ad Antonioni. Perché hai detto che ha influenzato il tuo percorso?
(*) Flora Pitrolo è ricercatore associato della School of Arts - Theatre and Drama dell’Università del Kent in Gran Bretagna ed è membro dell’European Theatre Research Network.
Attualmente sta scrivendo un libro sul lavoro artistico di Antonio Syxty dal 1978 al 1982.
(**) Antonio Syxty, nato a Buenos Aires, lavora a Milano dalla fine degli anni ‘70. Inizia come performer nelle gallerie d’arte e spazi “underground”, collaborando con altri artisti, designer,
architetti e musicisti di quel periodo. Dopo aver studiato in corsi di Art and Drama negli Stati Uniti tra il 1975 e il 1976, ha iniziato a realizzare alcune art-performance tra il 1977 e il 1984.
Negli anni ‘80, dopo aver frequentato la Scuola del Piccolo Teatro, la sua carriera si sposta progressivamente verso il teatro, che lui considera come un’arte comportamentale, “con
derive e slittamenti dovuti allo scambio di identità, e alla continua interpolazione dei concetti di verità e falsità”. Da allora il suo lavoro si sposta sulla professione di regista per il
teatro, il cinema, la televisione, la radio, con frequenti progetti di installazione video ed eventi live, sostenendo di essere un regista di spazi e comportamenti. Ha anche lavorato come
regista per la RAI e per il gruppo Mediaset, per la pubblicità, per i film istituzionali, per la moda, i concerti e qualsiasi altra forma di evento dal vivo. Attualmente è uno dei responsabili
artistici di Manifatture Teatrali Milanesi. Dal 2007 ha ripreso la sua attività di artista visivo con un progetto chiamato Money Transfer.
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AS Premetto che io non conoscevo il cinema di Antonioni prima di mettermi a lavorare su IDENTIKIT DI UNA DONNA. Avevo visto si e
no 3 o 4 fra tutti i suoi film. Credo che quella che io chiamo influenza sia invece una affinità sullo sguardo, sulla visione, e sul
modo di guardare la realtà e di lavorare su una forma di non-definizione. Sto parlando quindi dell’Antonioni artista - come lo
ebbe a definire Roland Barthes nella sua celebre orazione “Cher Antonioni” del 1980.
FP Allora non erano i film di Antonioni con cui sentivi affinità, ma quello che intuivi fosse il senso del suo lavoro.
AS In realtà io avevo in mente alcune immagini fotografiche tratte da fotogrammi dei suoi film. Con tutta probabilità da quelle
poche immagini, dalla loro composizione fotografica assorbivo e intuivo un modo affine di guardare, di raccontare. Un modo
distaccato, non emotivo, forse didascalico. Per carità non oso paragonarmi a lui, dico solo che sento istintivamente un’affinità.
FP Antonioni è stato spesso accostato all’école du regard francese.
AS Infatti. Io personalmente ne sono stato fortemente affascinato agli inizi del mio percorso. Il nouveau roman francese degli anni
’50-‘60 mi ha letteralmente elettrizzato proprio per quella componente legata all’occhio, allo sguardo, a un modo di raccontare
minuzioso, maniacale, totalmente de-drammatizzato, comportamentale e in qualche modo concettuale.
FP In effetti nei tuoi primi lavori c’è un certo esistenzialismo formale. E allora che cosa intendi fare con IDENTIKIT DI UNA DONNA?
AS Antonioni sostiene che la donna è un filtro sottile per raccontare la realtà. Quello che ho cercato di fare con l’aiuto di Valeria
Cavalli è utilizzare alcuni appunti tratti da un suo soggetto/racconto - dal titolo Il filo pericoloso delle cose - e comporre una
sequenza di azioni performative per avvicinarmi a una forma di identikit femminile legato alla poetica di Antonioni, al suo
modo di scomporre e ricomporre per rifrazioni e dettagli i personaggi femminili.
FP Mi sembra di capire che non c’è trama, quindi. O piuttosto, frammenti di trama senza risoluzione: il thriller senza assassino,
la storia di spionaggio senza dénouement, la storia romantica che non atterra. Una tua specialità, e anche una specialità di
Antonioni. Il tratto della storia senza la storia in sé.
AS Esatto, non c’è trama, ma c’è un filo pericoloso delle cose che lega le persone, i luoghi e gli oggetti. E poi è uno spettacolo/
performance, ha quindi una grammatica e una composizione più performativa. Espongo dei materiali, degli appunti, dei
frammenti narrativi, dei tentativi di interpretazione. Faccio tutto questo con l’aiuto degli attori, che sono stati invitati (o
costretti?) a non interpretare, a essere. A vivere, direi. In un’ottica in cui i sentimenti esistono solo se ci sono testimoni.
FP E allora il senso va forse ricercato in un ambito più ampio di quello del falso teatrale: torni a muoverti verso il
comportamentale...
AS Credo proprio di sì. In chiusura volevo suggerirti il titolo per questa nostra breve conversazione. Posso?
FP Ma certo! Perché no?
AS “Non c’è nulla da dire: c’è solo da essere, solo da vivere.” È di Piero Manzoni, un grandissimo dell’arte italiana. Mi sembra che
questa frase possa farci compagnia lungo il cammino. non credi?
FP Credo proprio di sì…
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LO SGUARDO INQUIETO
NOTE SU “IDENTIKIT DI UNA DONNA”
DI MARIA BARBUTO
Il testo, la regia e l’uso della scenografia, fanno di Identikit di una donna uno spettacolo particolare e insolito. Più che in una
storia siamo immersi dentro lo sguardo: la funzione dell’altro come specchio, il vuoto incolmabile tra l’uno e l’altro oltre che
tra le parole, sono i veri protagonisti sulla scena.
Seguendo i personaggi, lo spettatore è portato ad essere, nello stesso tempo, con loro e distaccato da loro. È uno spettacolo
che ci allena, attraverso un esercizio un po’ zen, a cogliere la realtà senza l’urgenza di definirla ma semplicemente nel suo
imporsi al nostro sguardo.
Sulla scena, le due figure femminili (le attrici Caterina Bajetta e Bruna Serina de Almeida) sono perfette nel dare forma alle
ossessioni del grande regista Michelangelo Antonioni. Poi c’è una terza che rimane sconosciuta ma che, in modo interessante
e certamente non casuale, è solo evocata attraverso un tratto, un indizio, una parola. Ognuna di queste donne diventa la
rifrazione della stessa immagine, una parte della stessa che si riproietta all’infinito come a rappresentare l’inafferrabilità del
femminile e, come direbbe Freud, l’enigma stesso della femminilità.
Identikit di una donna si compone di tanti frammenti, sparsi dentro una cornice fatta di evanescenze continue e di oggetti inafferrabili.
Ogni figura di donna è fissata attraverso un dettaglio, le scarpe, le mani, una sciarpa. Ognuna è una figura di puro sguardo.
Dentro questa cornice il regista Antonio Syxty e il testo di Valeria Cavalli, portano sulla scena teatrale la passione di Antonioni
per l’enigma che riguarda la donna, enigma di cui il suo linguaggio cinematografico si fa costantemente portavoce e che nello
spettacolo è interpretato dalla voce recitante del protagonista maschile (l’attore Guglielmo Menconi).
Ma chi è questo lui che, a tratti, entra sulla scena? È lui l’oggetto al centro del discorso? È lui l’oggetto perduto? È lui l’oggetto
del contendere? Difficile rispondere ma certamente a lui è affidato il compito di un’incarnazione, quella dell’Io del grande
Maria Barbuto, psicoanalista, membro di ALIpsi (Associazione Lacaniana Italiana di Psicoanalisi), docente presso l’IRPA (Istituto
di Ricerca in Psicoanalisi Applicata). Collabora da diversi anni con la Facoltà di Psicologia dell’Università Cattolica di Milano ed è
autrice di numerose pubblicazioni nel campo della psicoanalisi.
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regista. Ad un certo punto, sono le parole stesse di Antonioni che arrivano sul palco e raccontano dell’incontro con donne e
attrici importanti che hanno lasciato un’impronta nel suo cinema e nel suo modo di stare dietro la cinepresa.
In Identikit di una donna il filo conduttore è dunque lo sguardo, lo sguardo c’è dappertutto. Ed è proprio attraverso lo sguardo
che, la regia, fa prendere corpo al fantasma di Antonioni sul femminile.
In una sua intervista, Antonioni sosteneva che lo sguardo non è né suono, né immagine ma è qualcosa che mette in gioco il
tempo. La dimensione temporale lo introduce nell’ordine del già perduto. Lo sguardo non coincide con la visione, ma col suo
punto di assenza, con ciò che sfugge. Lo sguardo è mancanza e la psicologia femminile si sposa molto bene con l’evanescenza
dello sguardo proprio perché, nella sua essenza, la donna contorna sempre un punto di mancanza, un’inesistenza. “La donna
non esiste”, recita un noto e provocatorio aforisma di J. Lacan, non per cancellarla dalla realtà ma per imprimere in maniera
ancora più pregnante lo spessore del suo essere, in parte inafferrabile al senso.
L’idea che per creare sia necessario vivere la mancanza è, forse non a caso, anche il finale della pièce, finale molto azzeccato
per dire qualcosa del mondo di Antonioni e del suo cinema. In lui, il tentativo di raccontare e di superare la nevrosi compare
dietro una visione estetica dell’urto che ciascun essere umano sperimenta nell’incontro con la realtà. In fondo, la riproduzione
quasi fotografica del reale a cui Antonioni si aggancia viene riprodotta da Antonio Syxty anche sulla scena teatrale, a ribadire
un’idea di bellezza tutt’altro che compiuta, dove l’incontro, l’amore, il desiderio è sempre materia indecifrabile, sospesa,
afferrata per un istante nell’incrocio di un gioco di vuoti.
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