Un dibattito su Tangentopoli

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Un dibattito su Tangentopoli
Tangentopoli in prospettiva storica
(con l’aiuto della fiction)
di Marco Gervasoni
1. La fiction 1992 – trasmessa sul circuito Sky nel marzo 2015 – non poteva che rispettare una delle
regole fondamentali della narrazione popolare, la contrapposizione tra heroes and villains, tra buoni
e cattivi, i magistrati contro i politici, solleticando quel populismo di cui le reti di Murdoch,
soprattutto negli Stati Uniti e nel Regno Unito, si fanno spesso portatrici. Ha però colto un nucleo di
verità storica: ci ricorda che, a distruggere il sistema dei partiti, se non furono solo i giudici, furono
soprattutto loro.
Qualcosa che la storiografia, rara e alquanto silente, sembra aver dimenticato. Se, nella pigra e
conformistica mentalità dello storico accademico medio italiano, ventitré anni sono ancora pochi, e
se è pur vero che non si dispongono di carte d’archivio, lo scarso interesse degli storici sul quel
periodo rivela qualche cosa di più. Mostra un’incomprensione grave del turning point radicale che
quegli eventi hanno rappresentato. Larga parte degli storici in età matura, cresciuti con il marxismo
e con l’idea della superiorità etica della politica, faticano infatti ad ammettere che il crollo della
Repubblica dei partiti non sia avvenuta per mano della classe operaia, delle “masse” e della politica,
ma per un concorso di forze impersonali e personali, tra cui in primo piano vi è stata la
magistratura.
Da qui la necessità di rimuovere il ruolo esercitato dai giudici. Tale rimozione ha enfatizzato gli
effetti dei processi impersonali, economici, politico-internazionali, sociali, lasciando all’operato
della magistratura il semplice ruolo di pistolettata di Sarajevo. Della funzione della magistratura si è
fornita così una lettura puramente tautologica, essenzialistica e burocratica: poiché i reati esistevano
la magistratura non avrebbe fatto altro che il proprio dovere. Una beata ingenuità, di cui uno storico
per mestiere dovrebbe essere immune, che non ha impedito tuttavia di caricare l’operato dei giudici
di significati anche morali e palingenetici.
L’imbarazzo è comprensibile. È tuttavia venuto il momento di interrogarsi seriamente, da un punto
di vista storico, sul ruolo dei giudici nell’abbattimento del sistema politico repubblicano: è il tema
della seconda parte di questo intervento, mentre la prima sarà dedicata a una rapida messa a fuoco
delle interpretazioni di Tangentopoli.
2. I lavori storici su quel momento storico sono non solo scarsi, ma prevalentemente narrativi e
poco interpretativi, vuoi perché si tratta di sintesi su periodi più vasti, vuoi perché la pregnanza
degli eventi ha portato inevitabilmente a privilegiare il racconto. Senza poter entrare nella
complessa questione del rapporto tra narrare e interpretare, ogni messa in intreccio ha tuttavia dietro
di se un’interpretazione, che emerge da come lo storico dispone i personaggi e le storie. La lettura
prevalente su Mani pulite è quella che potremmo dire del châtiment: il 1992-1994 è il prevedibile,
scontato e meritato castigo delle colpe della classe politica e del paese nel suo complesso. Così
come per i controrivoluzionari il 1789 fu la meritata punizione imposta da Dio alla Francia
miscredente di Luigi XVI, così Tangentopoli sarebbe il necessario sbocco di un paese caratterizzato
da “familismo amorale” e più in generale da scarsa tenuta etica. Il paradigma del “familismo
amorale” predomina nella letteratura britannica sull’Italia di questo periodo, di cui il più noto
esponente è Paul Ginsborg. Nel suo Italia del tempo presente, uscito da Einaudi solo pochi anni
dopo Tangentopoli, nel 1998, la magistratura diventa quindi portatrice di istanze di giustizia,
popolata com’è da individui eccezionali: Borrelli, allievo di Piero Calamandrei dotato di una
«volontà d’acciaio», Colombo «intrepido e integerrimo intellettuale urbano», Di Pietro, contadino
che «ha studiato la notte per diventare magistrato». Il pool, «una squadra formidabile», ha
ingaggiato una «titanica lotta per riportare la vita pubblica italiana alla legalità», con l’«umanità
travolgente» di Di Pietro, evidente nella «abilità negli interrogatori» (pp. 482-484) Sembra la
sceneggiatura di 1992 invece è un saggio storico: nessun dubbio muovono all’autore i suicidi degli
indagati e i nessi con i metodi adottati dagli interrogatori di “calda umanità”. Nonostante Ginsborg
descriva i giudici come soldati della moralità, la sua interpretazione rimane tuttavia essenzialistica e
tautologica: i reati esistevano, i magistrati hanno agito.
Quasi un quindicennio dopo, e le disillusioni provocate dall’entrata in politica di alcuni di questi
magistrati, come Antonio Di Pietro, Guido Crainz non può che tracciare un ritratto più inquieto
della marcia trionfale delle toghe (Il paese reale, Donzelli, 2012). Per quanto Crainz avanzi ancor
meno di Ginsborg sul terreno ermeneutico, quello che pensa lo si deduce dall’incastro delle
numerose citazioni da articoli di giornale, soprattutto di «Repubblica». Anche in Crainz infatti
prevale l’idea che Tangentopoli fosse un esito annunciato, anche se «imprevisto», di un
quarantennio di storia repubblica, la meritata fine di una storia oscura e fallimentare. Nel 2012
tuttavia, il crollo del regime dei partiti non è però più accolto, alla Ginsborg, come inizio di una
nuova era felice ma come una «catastrofe morale» (p. 295). E se quella dei suicidi è anche per
Crainz come per Ginsborg una tragedia personale – e non invece la possibile conseguenza dei
metodi investigativi fondati sull’uso della detenzione a fine di confessione – nelle pagine dello
storico si trovano persino accenti critici sulle manifestazioni popolari a sostegno delle toghe. In
Crainz, ancora più che in Ginsborg, prevale poi il sempiterno topos della “rivoluzione mancata”,
che ha generato quello che, agli occhi dei due storici, è stato un rimedio assai peggiore del male:
Silvio Berlusconi.
Crainz non arriva certo a suggerire che la magistratura sia stata l’apprendista stregone del Cavaliere:
anche qui, le toghe non avrebbe fatto che il proprio dovere. Non a caso, rispetto alla narrazione di
Ginsborg, i giudici passano in Crainz in secondo piano. Una tendenza, quella di far sparire dal
proscenio uno degli attori principali della “rivoluzione”, che sembra accentuarsi con gli anni, se in
una recente sintesi di Alberto De Bernardi sull’Italia dagli anni Ottanta a oggi (Un paese in bilico,
Laterza, 2014) non compare mai la magistratura e Tangentopoli, novella invasione degli Iksos,
sembra venuta da fuori, dagli effetti meccanici dei mutamenti economici e delle relazioni
internazionali.
Le toghe come convitati di pietra? Sembrerebbe di si, e l’impressione è confermata anche dai lavori
dedicati espressamente alla magistratura Un rimando fugace a Tangentopoli nel saggio di un
magistrato (futuro capo della procura milanese) Edmondo Bruti Liberati nella collettanea Storia
dell’Italia repubblicana Einaudi uscita nel 1997 e addirittura solo un rapidissimo accenno alla
«legittimazione concorrente» della classe politica acquisita dalle procure dopo Tangentopoli, nella
pur ricca e valida storia della magistratura di Antonella Meniconi (il Mulino, 2014).
Gli autori citati, in un modo o nell’altro, appartengono a una cultura storiografica vicina al mondo
“progressista”, ex o post comunista, che, almeno nell’immediato, ha tratto maggior vantaggio dalla
distruzione della classe politica di governo da parte della magistratura. Non a caso altre culture
storiografiche dimostrano minori remore a fare emergere il ruolo attivo delle procure: per Simona
Colarizi, ad esempio, l’azione dei giudici è stata «deflagrante», soprattutto nel suo intreccio con la
«piazza mediatica convertita in tribunale del popolo» (Politica e antipolitica dalla Prima alla
Seconda Repubblica in L’Italia contemporanea dagli anni Ottanta a oggi, a cura di S. Colarizi-A,
Giovagnoli-P. Pombeni, Carocci, 2014, pp. 338-339). E tuttavia si tratta solo di un accenno: per
ricostruire, anche sul piano fattuale, il ruolo esercitato dalla magistratura e i suoi rapporti con alcune
forze politiche, finiscono per essere assai più utili i giornalisti, da quelli direttamente apologetici
delle toghe come Marco Travaglio, Gianni Barbacetto e Peter Gomez, a quelli esplicitamente
indirizzati contro il pool, come Filippo Facci e Giancarlo Lehner. Un libro scritto da un altro
giornalista, Eutanasia di un potere (Laterza, 2012) di Marco Damilano, ricco anche di rilevi critici
nei confronti del ruolo della magistratura, è in tal senso il testo più riuscito, almeno sul piano della
narrazione, della stagione di Tangentopoli.
3. Eppure basta leggere con attenzione un “pamphlet”, come lo chiamò l’autore, in realtà una delle
interpretazioni più profonde e penetranti della crisi di Tangentopoli, La Grande Slavina, (Marsilio,
1993) di Luciano Cafagna, in cui lo storico presentava Tangentopoli sì come conseguenza di
mutamenti economici, politico-internazionali e sociali, ben conscio però che a decapitare il sistema
fosse stata la magistratura, con «una vera e propria guerra civile fra i poteri dello Stato», non certo
destinata a finire a breve e a comando. Del resto, il ruolo e le funzioni dei giudici stavano mutando
con una progressiva invadenza della magistratura e più in generale delle istanze giuridiche sugli
spazi decisionali fino a quel momento riservati alla politica. Lo colse già, a pochi anni da
Tangentopoli, Alessandro Pizzorno: la magistratura si trovava ormai ad esercitare un «controllo di
virtù» sul comportamento dei politici, un ruolo svolto in precedenza, nel regime rappresentativo, da
«un partito politico sull’altro» ma ora demandato dalla politica ai giudici (Il potere dei giudici,
Laterza, 1998, p, 63). Un fenomeno non certo italiano: negli stessi anni di Mani Pulite, la
magistratura francese prese di mira prima i socialisti e poi, tornata al governo dopo il 1993, la destra
repubblicana di Chirac. Analoghi fenomeni si diffusero in Spagna, in Belgio e persino in Germania,
dove Helmut Kohl fu eliminato dalla leadership del suo partito in seguito a inchieste.
In nessun altro paese come in Italia tuttavia gli scandali portarono alla distruzione di un sistema
politico. Le risposte sarebbero molte ma una deve per forza di cose riguardare la magistratura. Negli
altri sistemi forse le forze politiche erano più solide, ma certo è che in nessun ordinamento come in
quello italiano la magistratura gode di una così ampia autonomia che, come misero in guardia
diversi costituenti (soprattutto della sinistra), avrebbe potuto, un giorno, contrapporsi, in quanto
potere burocratico dello Stato, a quello legittimato dal popolo, cioè il parlamento. L’autonomia
assoluta della magistratura è stata poi all’origine della sempre più ampia divisione in correnti del
suo corpo, una divisione che può ben essere detta politicizzazione. Anche se le diverse correnti non
facevano riferimento ai partiti politici, una di esse, Magistratura democratica, non nascondeva
chiare collocazioni politiche, negli anni settanta addirittura leniniste e operaistiche (si leggano gli
atti dei suoi primi congressi). Un effetto del Sessantotto, che da noi fu lungo laddove altrove fu
breve. In nessun altro paese come in Italia, poi, la magistratura aveva acquisito un grado di
legittimazione di fronte all’opinione pubblica così elevato. La repressione del terrorismo e della
criminalità organizzata avevano portato in prima linea le toghe, che acquisirono un capitale di
consenso non indifferente. A questa legittimazione simbolica delle procure concorsero le stesse
forze politiche. Molto stretti e ancora tutti da studiare furono i rapporti tra il Pci e la magistratura, e
in particolare Md, che nel frattempo aveva dismesso gli abiti rivoluzionari e acquisito sempre più
potere all’interno del Csm. Dal canto suo, con l’abbandono del marxismo il vertice dirigente del Pci
cominciò a pensare che l’alternativa sarebbe potuta giungere dall’azione giudiziaria, un’idea che
suonava come una bestemmia per la generazione togliattiana di un Gerardo Chiaromonte e che
invece parve sempre più auspicabile ai “ragazzi di Berlinguer”. Ma fu anche la classe politica di
governo a dividere sempre più lo scettro con la magistratura, attraverso la legislazione di
emergenza. Legislazione necessaria ma che avrebbe dovuto essere accompagnata da riforme, da
quelle istituzionali a quelle riguardanti la vita dei partiti, rimaste invece sulla carta. Così facendo Dc
e Psi finirono per confermare una tradizione italiana presente fin dalla unificazione, risolvere le crisi
politiche unicamente per via repressiva, allargando così il potere del livello giudiziario.
Ma la domanda cruciale è: quanto nel 1992-1994 la magistratura ha esondato nei propri poteri? La
storiografia come si è visto è silente. Dobbiamo allora rifarci alle pubblicazioni di giuristi o di
magistrati per capire meglio. Se già qualche anno fa un importante esponente di Md, Francesco
Misiani, aveva denunciato il progressivo politicizzarsi della magistratura, di recente un altro
procuratore, Piero Tony, anch’egli di Md, ha spiegato come Tangentopoli fece emergere, all’interno
delle toghe, nuovi gruppi di potere, convinti che la loro missione fosse quella di contrapporsi alla
politica. I diversi abusi, sul piano soprattutto dell’uso della carcerazione preventiva che, secondo
Tony, furono commessi, furono perciò tutt’altro che una svista. (Io non posso tacere, Einaudi,
2015). Ancora più lontano si spinge il giurista Giovanni Fiandaca, in un contributo di un volume di
autori vari da leggere con molto interesse: Mani pulite avrebbe segnato l’irruzione di una «politicità
endogena» della magistratura, prodotto un «populismo giudiziario» e la nuova figura del
«magistrato tribuno» (G. Fiandaca, Uno schizzo diagnostico con prognosi incerta in Processo e
legge penale nella Seconda Repubblica, a cura di A. Apollonio, Carocci, 2015, p. 16). E persino un
Luciano Violante, certo molti anni dopo Tangentopoli, ha denunciato, in un volumetto di grande
interesse, «la nascita di un legame ideale, assai pericoloso per la democrazia» tra cittadini e
magistrati, facendo sentire queste ultimi «interpreti della volontà popolare prima che della legge»
(Magistrati, Einaudi, 2009, p. 31). Certo è che i giudici svolsero un ruolo fondamentale in quella
che Craxi chiamò «falsa rivoluzione». A ricordarcelo, ben vengano allora le fiction.
Marco Gervasoni (Milano, 1968) insegna Storia contemporanea all’Università degli studi del Molise e Storia
comparatadeisistemipoliticieuropeiallaLuissGuidoCarlodiRoma.Collaboraconil«CorrieredellaSera»edè
presidente del Comitato scientifico della Fondazione Craxi. Tra i suoi ultimi lavori La Tela di Penelope. Storia
dellaSecondaRepubblica(conSimonaColarizi,Laterza,2012),Laguerradellesinistre.Socialistiecomunistidal
’68 a Tangentopoli (Marsilio, 2013) e Le armate del Presidente. La politica del Quirinale nell’Italia repubblicana
(Marsilio,2015).
L’articolo di Marco Gervasoni è apparso sul trimestrale “Rivista di Politica” (www.istitutodipolitica.it) diretto
da Alessandro Campi nel numero 3/2015, pp. 5-8.