Fabio Belloni 1970-1974: temi, passaggi, contropartite
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Fabio Belloni 1970-1974: temi, passaggi, contropartite
Fabio Belloni 1970-1974: temi, passaggi, contropartite 32 “In ogni caso, a interrogarsi sopra le forze dell’arte, tra compiaciuti e disperati, i fabbricanti legittimi e brevettati non sono certo derelittamente soli: gran contorno di esegeti, più o meno scientificamente provveduti, fa corona ai loro monologhi perplessi, e si compiace di degnamente dissertare intorno agli efficaci effetti delle comunicazioni estetiche.” E. Sanguineti, La disoccupazione estetica, “Paese Sera”, Roma, 4 luglio 1974. 1. È una mostra dai tratti insoliti quella ordinata da Alberto Boatto a fine 1974 presso la bolognese Galleria de’ Foscherari. Ghenos, Eros, Thanatos non lancia tendenze e neppure ha il taglio ecumenico delle collettive che già da qualche tempo vanno facendo il punto sull’attualità. La dozzina di nomi a raccolta si presenta con opere importanti, quasi tutte rimarranno tra le più emblematiche di quell’inizio decennio. Figurano, tra le altre, Crisalide di Cintoli, l’epigrafe di De Dominicis, Motivo africano di Kounellis, Lo spirato di Fabro, Ebrea di Mauri, Odio di Zorio, Lo scorrevole di Pisani. Ciascuna serve a Boatto per affrontare il presente artistico secondo una angolatura inedita ma che gli ultimi sbocchi incoraggiano sempre più. La chiave d’indagine è spiccatamente antropologica. Da almeno un lustro – ecco la tesi – l’avanguardia ha preso a modello il flusso dell’esistenza: gli artisti hanno posto al centro i suoi temi supremi, quelli della nascita, dell’amore e della morte. E qui, allora, “si tenta di fare di questi tre incidenti che compendiano l’intera nostra esperienza, degli avvenimenti esemplari”1. Irrituale è anche la confezione del catalogo, e non solo perché ai soliti smilzi fascicoli di galleria – quando poi ci sono – stavolta si contrappone un volume suntuoso. Testi e 32 FABIO BELLONI / 1970-1974: TEMI, PASSAGGI, CONTROPARTITE immagini compongono un insieme coeso, gli uni spiegano le altre, diventano reciprocamente necessari. Boatto si sottopone a un esercizio di preferenza eluso dalla critica coeva: sceglie, rispetto alle opere, una posizione di frontalità. Non vuole essere didascalico, così è strategico nel sottrarre titoli e nomi. Di fatto però ogni sua riga è un corpo a corpo con il lavoro degli artisti. Ne ispeziona ragioni, rintraccia fili sotterranei, li annoda e infine congegna pagine dal tono saggistico dove la sequela di citazioni palesa i maestri ispiratori. Sono – e non poteva essere altrimenti – Freud, De Sade, Artaud, Bataille, Breton. Tempestivo a suo tempo nel riferire della pop americana, pioneristico in seguito con alcune letture duchampiane: non sorprendeva che adesso Boatto si misurasse con una simile prova. Le sue passioni letterarie e francofile lo rendevano il più attrezzato in materia. E poi quella temperie si sposava con una attitudine personale di cui già più volte si aveva avuto sentore. Non era forse stato lui – in controtendenza e nel lontano clima dell’euforia collettiva – a leggere gli animali di Pascali come emblemi di “castrazione”, attori in “un teatro d’azione amatorio-punitivo”?2 Di Ghenos, Eros, Thanatos si intese presto il valore. Si capì cioè che quella era una raffinata operazione intellettuale e nondimeno una fedele messa in quadro di come in effetti stavano le cose. Anche per questo la mostra divenne itinerante: da Bologna andò in trasferta, prima alla Vinciana di Milano poi a La Salita di Roma. Guadagnò ampie pagine di commento3, stimolò tra gli interpreti un nuovo ordine di confronti. Fece proseliti4. Si trattava, d’altra parte, di una emergenza su uno sfondo già molto connotato: il dialogo con quanto stava accadendo intorno era stringente – e, a ricostruirlo oggi, quasi impressionante. Da poco, la società Alberto Boatto, Ghenos Eros Thanatos, Bologna 1974 Le opere di Giosetta Fioroni alla mostra Ghenos Eros Thanatos, Galleria de' Foscherari, Bologna 1974 Foto Luciana Mulas. Archivio Galleria de' Foscherari, Bologna critica italiana pressoché al suo completo era stata mobilitata da un convegno di studi sul Surrealismo voluto dall’Università di Salerno5. A Milano, Palazzo Reale ospitava La ricerca dell’identità: da Géricault a Rainer andava in mostra il lato notturno dei pittori e degli scultori moderni. La prestigiosa, e di circolazione anche italiana, “Art Vivant” licenziava un fascicolo speciale, Un numéro sur la Mort 6. Si chiamava Eros la collettiva milanese nata per esaltare le pulsioni primarie degli artisti7: la curava Lea Vergine che inoltre dava alle stampe Il corpo come linguaggio, un primo referto della Body Art stilato con strumenti di marca psicanalitica. (Di lì a breve, a Venezia nel 1975, sembrerà una ratifica di tutto ciò Le macchine celibi: nella spettacolare mostra di Szeemann le paranoie degli artisti assumeranno un’evidenza tecnologica). 2. Nessuno tra i lavori di Ghenos, Eros, Thanatos lasciava insensibili; quasi tutti superavano le soglie del perturbante per insinuarsi in zone dal forte tasso emotivo. Innescavano nello spettatore uno stato d’allarme, nei casi più crudi e privi di ogni filtro si confinava con lo sconcerto. L’oggettività della tecnica – erano documenti, foto di azioni, prelievi, radiografie, calchi dal vivo – non sembrava attenuarne la iattanza, semmai la esaltava. È vero che lì si parlava di nascita, amore e morte: per numero e intensità di cimenti, era però l’ultima di quelle stazioni a dominare8. Tra i molti, un esempio può bastare. Prendiamo il trittico eseguito giusto nel 1974 da Giosetta Fioroni. È ciò che già il titolo dice: Foto da un atlante di medicina legale. Precisamente da Atlas der Gerichtlichen Medizin, un poderoso tomo di oltre ottocento pagine edito a Berlino una decade prima9. Vi si raccolgono foto di inusitata violenza, ogni specie di morte per causa cruenta: materiale per medici, o per necrofili. Eppure già da un pezzo gli artisti ne avvertono il fascino. È stata una sicura fonte per Renato Mambor che ha voluto cortocircuitarne le immagini al fianco di vignette stile “Settimana enigmistica”10. Così come per Daniel Spoerri i cui Criminal investigations sono appena stati reduci da un tour espositivo tra Parigi, Zurigo e Ginevra. L’identico repertorio, dal 1975, correderà abitualmente una strana rivista d’arte milanese, l’underground “a-beta”. Fioroni – sarà lei stessa a confessarlo – è attratta dall’urto di quegli scatti, e poi il fatto che essi risalgano ai tempi della Germania nazista le sembra un modo obliquo ma efficace per misurarsi con la Storia11. Così sceglie tre esempi, casi di travestitismo e di morti in pratiche autoerotiche. Li vira in seppia, verga alcune scritte a penna: infine assegna lunghe didascalie per spiegare i tragici epiloghi di ciascuno. È un cambio di registro rispetto al suo lavoro fin lì più noto, e non solo perché adesso le formule assomigliano a quelle che altrove sono già state battezzate “Narrative Art”. Non si tratta di un episodio: da quell’atlante, nei mesi e negli anni a venire, l’artista trarrà un ciclo intero. Giuliano Briganti saprà riassumerlo in modo fulmineo: “Dopo le fate ecco i mostri”12. Certo, temperature così surriscaldate toccano l’apice, ma sono comunque eloquenti del clima che a più latitudini 1970-1974: TEMI, PASSAGGI, CONTROPARTITE / FABIO BELLONI 33 Luciano Fabro, Lo Spirato. Io rappresento l'ingombro dell'oggetto nella vanità dell'ideologia. Dal pieno al vuoto senza soluzione di continuità, 1973 gesso e marmo in lavorazione a Carrara. Foto Luciano Fabro Amore mio, Montepulciano, giugno 1970. Gli artisti nel cortile di Palazzo Ricci, allestimento di Piero Sartogo. Foto Claudio Abate avvolge l’Italia artistica di metà Settanta. Quel clima, per la verità, aveva preso a diffondersi da tempo: più o meno – e non proprio fatalmente – in corrispondenza del nuovo decennio. A guardare anche solo di sguincio quanto si produce da allora in molti ambienti di punta, l’impressione di una sterzata è lampante. Cambiano iconografie, temi, riferimenti. Si ridisegnano percorsi finora sembrati i soli consentiti. Guadagnano campo attitudini diverse, insospettabili appena qualche stagione innanzi. Non è solo questione di assecondare le mode che intanto entrano in agenda dettando prescrizioni anticipate o riassetti sbrigativi: quel passaggio così delicato allinea gli esordienti ai protagonisti di ormai rodato corso. Ci sarà pure stata una ragione meno contingente, d’altro canto, se ora i libri di criminologia offrono spunti fino a ieri garantiti dalle patinate riviste glamour. È un cambio di scena che in retrospettiva appare nella stessa misura in cui già si era palesato ai contemporanei. “Un’arte di entusiasmo” l’aveva definita Filiberto Menna: a inizio 1969 il critico parlava di Arte Povera ma sottendeva molto di quanto si era fin lì sperimentato. “Esuberante vitalità”, “gesto gratuito”, “gioioso disordine”: questi e altri sintagmi di analogo tenore confortavano il suo discorso13. Passa qualche stagione, e il Tommaso Trini uscito dagli stati generali dell’avanguardia – ha visitato la labirintica Contemporanea – non può esimersi dal titolare Lo spettacolo della nevrosi14. Quell’infilata di opere così difficili, opache, abili a tenere a distanza lo spettatore diventa, per lui, la ratifica di uno strappo: scalzato il vitalismo a lungo imperante, è subentrata una vocazione introspettiva. Gli artisti, o almeno una quota tale da far sospettare un orientamento, si sono trasformati in figure crepuscolari. Indugiano negli 34 FABIO BELLONI / 1970-1974: TEMI, PASSAGGI, CONTROPARTITE anfratti della psiche. Danno fondo a fantasie cruente. Interrogano la storia, i miti e i riti dell’esistenza. “Immaginario”: ecco un lemma che si inizia a leggere di frequente. Nelle pagine di una critica spesso in affanno nel marcare stretto quanto va succedendo, ricorre ogniqualvolta ci si avvicina all’orbita di quella speciale attitudine. 3. Eppure in pochi o forse proprio nessuno si sarebbe atteso un simile approdo. Dinnanzi a tanti esempi, i segni di un conflitto acquistavano proporzioni ingombranti. Cosa aveva consumato lo slancio esibito solo un istante prima? Che ne era di quell’impegno nel presente cui si erano offerte adesioni corali? E come spiegare i gesti di quanti, in luogo dell’osmosi, stavano erigendo un muro tra loro e la realtà? Sul tema della socialità – quale ruolo per l’arte? abbracciare di petto la causa politica? come sostenere la lotta di classe? – le nostre consorterie artistiche si erano dilacerate, e ancora si mostravano afflitte. Le discussioni giungevano da lontano: il Sessantotto le aveva accelerate portando all’estremo il mito dell’intellettuale vocato ai fatti del proprio tempo. La “maturità politica dell’artista”15 – così riconobbe subito Pierre Restany – svelò una coscienza nuova, quella di integrati al sistema non meno di ogni altra categoria borghese. Sulle prime, le opzioni furono diverse. Ispirati dalle teorie marcusiane, per molti contestazione significò aprirsi alle forme dell’happening e dell’azione collettiva. Ai più infervorati parve necessario allontanarsi dalla pratica artistica per abbracciare la militanza extraparlamentare strictu sensu. In un caso o nell’altro, quello stato di tensione consentì finalmente di “portare l’arte alla vita, ma non più sotto metafora”16, come si era auspicato in un libricino che aveva fatto scuola. Nei circoli più avveduti, intanto, spiccavano argomenti intellettualmente impervi ma di facile seduzione. L’avanguardia – ci si iniziò a convincere – ispira il giusto modello di comportamento: occorre emulare gli artisti più giovani perché i loro gesti liberano le pulsioni del profondo, le energie represse o ancora latenti. “Esiste – infatti – una strettissima connessione tra operazione artistica e operazione psicanalitica nei limiti in cui quest’ultima non tende a una funzione puramente terapeutica di casi particolari, ma si pone come indagine e strumento liberatorio della società intera”17. Lo aveva spiegato la Scuola di Francoforte dai cui libri ormai si parafrasava a piene mani: prima l’uomo al completo della propria dimensione psicofisica, poi il Palazzo d’Inverno. Anche illuminati da tali certezze, ci si affrettò a compilare “profezie di società estetiche”18. Entra il nuovo decennio, e le discussioni continuano implacabili trascinando i medesimi rovelli. Ingiunzioni, requisitorie, profferte dominano ogni rivista almeno un po’ disposta a guadagnarsi la patente che serve: la congestionano chiose, interviste, tavole rotonde o nastri sbobinati per intero senza troppo badare al conformismo dei convitati. Non bisognerà farne molte, di simili letture, per capire che una tale logorrea è il surrogato di quell’azione diretta rivendicata a ogni piè sospinto. Un’arte che fa i conti con la politica nei modi meno mediati, poi, diventa tema per esposizioni non sempre trascurabili19. Nel frattempo però lo stato delle cose ha cambiato segno: tutti se ne mostrano avvertiti ed è questo che li mette in allarme. Se adesso si continua a vagheggiare l’utopia – e lo si fa ancora in gran copia – è più che altro a beneficio dell’editoria, per ingrossare il volume di inchieste e di almanacchi20. Le promesse disattese, il mancato sbocco rivoluzionario, la deriva terroristica impongono disamine urgenti. Non sono in pochi a vivere quel frangente alla stregua di un tradimento: querimonie e consuntivi in perdita fanno da basso continuo a tutto il dibattito di inizio decennio21. “L’impostura concimata dalla confusione cresce – sfogò Lea Vergine su “Ubu” – le soperchierie non si contano, la pratica dei rimestamenti dilaga a esclusivo vantaggio della restaurazione”22. E gli artisti al lavoro? Ancora una volta diventano sismografi eccellenti. Già nell’estate 1970, a qualche mese dalla strage di Piazza Fontana, il pubblico di Amore mio coglie un’atmosfera che di sicuro mancava a Lo spazio dell’immagine o ad Arte povera più azioni povere. A dispetto di un titolo così benevolo, gli esponenti di punta convenuti alla mostra di Montepulciano preferiscono lavorare in ambienti chiusi, allestendoli con opere cupe, poco rassicuranti, sinistre23. Achille Bonito Oliva, che aveva accompagnato ogni fase dell’uscita, spiegò così: “Se gli spazi risultano catacombali, ciò è dovuto alla lucida convinzione di esistere emarginati, quasi sotterranei, rispetto alle dimensioni della quotidianità alienante”24. Era la prima di molte letture di impronta sociologica da quel momento destinate a trovare fortuna tra gli interpreti. Proviamo a riassumere la tesi che, tra approfondimenti e continui rilanci (soprattutto a opera di Bonito Oliva25), diventa di largo dominio. A fronte dell’involuzione subìta dagli eventi, gli artisti rifiutano la spettacolarità, ricusano il pubblico: gli preferiscono la marginalità di chi si riconosce solo nei propri simili. Una politica attiva scalzata dalla politica della renitenza: questo lo sbocco per chi, adesso, vive uno stato di sfaldamento e trova riparo nell’autoemarginazione. Il che però non assomiglia affatto alle scelte del 1968: lo sdegnoso rifiuto del “Sistema” allora professato con orgoglio da molti è cosa ben diversa dal ripie- 1970-1974: TEMI, PASSAGGI, CONTROPARTITE / FABIO BELLONI 35 Claudio Cintoli, Crisalide, 1972. Foto Massimo Piersanti Achille Bonito Oliva, Il teatro della paralisi, in “Tempi moderni”, n. 9, inverno 1972. Sono riprodotte le opere di Vettor Pisani, Stampo virile [a sinistra] e Cielo greco [a destra] gamento impermeabile agli influssi del mondo. Ritornava l’iconografia dell’artista romantico e decadente alla quale, dopotutto, i diagrammi della storia avevano ciclicamente abituato: a memoria di cronaca, nessuno sembrò comunque trarne particolare conforto. Sostenuti da tali argomenti e ispirati in specie dalle pagine di Maurice Blanchot26, è di arte del “negativo” che si va sempre più parlando. I suoi esponenti vivono autoconfinati in “controsocietà”27, “comunità concentrate”28, “élites ermetiche”29. Agli occhi di chi di volta in volta ne dà conto, la loro scelta li marchia come personaggi insidiosi: “dandy”30, “Hercule sans emploi”31, “traditori”32. Forse allora non meraviglia troppo sapere che, a fine 1971, la rivista “Data” esordisca offrendo ai propri lettori un lungo ritratto – anzi una “patografia” – di Van Gogh. Con dispendio di lessico psicanalitico, è Menna a stilare quella che, invece, si svela come la nuova effige pubblica dell’artista contemporaneo. Un’effige segnata dallo “scacco”, dalla “vertigine”, dalla “stramberia”: in definitiva dall’”esistenza mancata”33. 36 FABIO BELLONI / 1970-1974: TEMI, PASSAGGI, CONTROPARTITE 4. Motivo africano di Jannis Kounellis esibisce una ignuda in avanzato stato di gravidanza. Un velo nero ne occulta le fisionomie, mentre una fila di insetti saldati con il miele attraversa il ventre ingigantito. Il cortocircuito è istantaneo e potente: alla vita in gestazione si oppone la putrescenza minacciata dalle mosche. L’insieme sottende ragioni autobiografiche (la gravidanza della moglie Efi) e volge in tre dimensioni motivi del repertorio surrealista (il volto bendato cita Magritte, gli insetti Dalì; ma forse c’è anche il ricordo delle bambole ipertrofiche di Bellmer). L’artista ha capovolto le sue scelte recenti perché alla modella prona avvolta in un panno di lana – quella appena vista ad Amore mio – adesso ne preferisce una spogliata e ben piantata sullo sgabello. Manca anche il fuoco benefico più volte incontrato: gli subentra la temperatura che può avvertire una nuda in inverno spersa in uno stanzone. Se in deroga a quanto finora per lui è sempre stato, stavolta Kounellis assegna un titolo è per rafforzare il senso di un’immagine che già di per sé si impone con la fissità e la simmetria di un idolo tribale. Vettor Pisani chiama invece Spazio delirante il suo pavimento in placche d’acciaio tirate a lucido. Vi dispone uova, pesi di piombo e una decina di tartarughe: di alcune rimane solo il guscio, mentre quelle vive vengono zavorrate con pesi da bilanciere cosicché alla loro usuale lentezza subentri la paralisi definitiva. Il lavoro si completa alla presenza dell’artista stesso: veste di nero e indossa una gobba posticcia con la scritta “Io non amo la natura”. Che alluda al fisico disgraziato di Leopardi, ovvero a colui che ha posto la “natura matrigna” a fondamento della propria filosofia?34 Poco prima, in occasione del Premio Pascali al Castello Svevo di Bari, Pisani aveva congegnato Malinconica Pot, la tartaruga più veloce del mondo: montato su un dispositivo con ruote e motore, il carapace si aggirava vorticosamente tra i piedi del pubblico35. Qui il meccanismo cambia segno, ma insiste ancora sull’effrazione alle regole naturali e quindi sul ribaltamento delle ormai consolidate retoriche poveriste. Qualunque sia la devianza, la tartaruga è l’antitesi della lepre: quella di Beuys, autore su cui Pisani sta iniziando a meditare36. Pericoloso morire è il titolo scelto da Gino De Dominicis a compendio di tre sue opere. Irriducibili tra loro per stile o espressione, ciascuna si presta alle congetture più varie. Lo spettatore che non voglia subirne solo il fascino provocatorio è costretto a un riassetto continuo: deve passare dal metro allegorico a quello tautologico sino al piano della pura percezione. Ecco dunque Il tempo, lo sbaglio, lo spazio, uno scheletro umano eccezionalmente munito di pattini e di un altrettanto scheletrito cane al guinzaglio.37 Poi Io sono sicuro che voi siete (e sempre sarete) all’interno o all’esterno di questo triangolo, un perimetro tracciato al suolo con nastro adesivo nero. Infine un ready made già descritto dal titolo estenuante: Come io vedo questo tavolo, questi piatti, questa bottiglia, queste posate, questo bicchiere e questa pianta. Stavolta si invoca un “qui e ora” che gli altri esempi sembrano invece ricusare; la chiave va cercata nell’ostentata referenzialità del titolo. Si tratta di una soggettiva: dinnanzi un così prosaico brano di vita l’osservatore si trasforma in De Dominicis stesso. L’invito, insomma, è a provare la vertigine. Risolto in ben altri termini, il discorso muove da quello analitico iniziato da Giulio Paolini, i cui fondamenti – da Giovane che guarda Lorenzo Lotto a Vedo (la decifrazione del mio campo visivo) – nel frattempo sono già direttamente transitati a Roma38. Insieme, e per la prima volta, questi lavori di Kounellis, Pisani e De Dominicis si incontrano negli ultimissimi giorni del 1970 a Fine dell’alchimia. È una mostra pensata da Maurizio Calvesi; la ospita L’Attico, la galleria che da almeno un triennio va dettando il corso sulla scena romana39. Non conosciamo i commenti a caldo dei contemporanei: può stupire a fronte di una simile prova, ma nessuno si è impegnato a tramandarceli. L’evento, d’altra parte, è fugace – dura appena dal 28 al 30 dicembre – e poi cade in un frangente in cui interpreti e cronisti sono troppo occupati a discettare su Vitalità del negativo con tutte le sue implicazioni. Fosse andata altrimenti, immagineremmo meglio come ci si è aggirati tra tanti rituali di sevizie; con quali occhi si sono guardati oggetti, figure e installazioni resi ancora più allucinati dalle luci bianche e dalle lunghe fughe dell’ex garage di via Cesare Beccaria; in che misura, per farla breve, si è tollerato un clima così emotivamente saturo. “Da un po’ di tempo entriamo nello spazio artistico come si entra nello spazio di uno psicodramma, o in quello allarmante di una sala operatoria”40. Quando di lì a non molto simili atmosfere diventeranno permeanti, acquisterà il valore di una ratifica la nota di un pur smaliziato osservatore: anche per il quale, c’è da credere, Fine dell’alchimia ha segnato uno snodo. Già comunque un assortimento del genere bastava per farne un’occasione: sono, Kounellis, Pisani e De Dominicis, i capifila nella coeva Roma d’avanguardia. Per qualche tempo, almeno sino al 1973, succede di leggere i loro nomi in sequenza41. Riassumono al meglio quell’”arte di comportamento” sulla quale va assestandosi l’ultima voga. Li accomuna la capacità di infondere una dimensione narrativa, per quanto ellittica, ad azioni e allestimenti dove essi stessi possono diventare attori. Si muovono di preferenza entro quel triangolo – L’Attico, La Salita, gli Incontri Inter- 1970-1974: TEMI, PASSAGGI, CONTROPARTITE / FABIO BELLONI 37 Vettor Pisani, Spazio delirante, 1970 Foto Claudio Abate Gino De Dominicis, Annuncio mortuario, 1970, da Ghenos, Eros, Thanatos, Bologna 1974 Il Revival, a cura di G.C.Argan, Milano 1974 nazionali d’Arte – in cui affiorano le poche ma decisive novità del momento. Aprono la strada a schiere di emuli. Ispirano le pagine dei critici e ne diventano i riferimenti impliciti specie quando, di tanto in tanto, si prova a guardare in prospettiva il panorama odierno. In una stagione in cui le esperienze di gruppo hanno di fatto perso attrattiva, i tre assumono un protagonismo che sovente inclina nel narcisismo. La teatrale fisicità di ciascuno si fa conoscere al pari dei loro lavori: ecco il torvo Pisani, l’ermetico – anche perché spesso in maschera – Kounellis, il beffardo De Dominicis (lo notò già nel 1970 Renato Barilli: “La tenuta di De Dominicis, sempre in nero come quella di un mimo, gioca una parte rilevante, a dispensarci e condirci le sue abili argomentazioni suasorie”42). 5. Fine dell’alchimia era un titolo strategicamente ambiguo, giocava sugli opposti significati della parola “fine”. Inoltre evocava riferimenti ancora condivisi nel pubblico del 1970: La fine dell’utopia, il libello edito un paio di anni prima da Laterza dove Marcuse presagiva l’imminente inverarsi della società utopica. Calvesi accompagnò l’uscita con un proprio testo: non da pubblicare in catalogo, ma da affiggere al muro, vicino allo scheletro di De Dominicis. Era un gesto desueto, ma non singolare nel tempo in cui i critici rivendicavano un posto a stretto fianco degli artisti: capita, in quel giro di anni, ne imitino i modi o ne invadano lo spazio. Contributo alla crisi avanzava pensieri suggestivi e nondimeno difficili. Niente affondi nelle opere, piuttosto un vaglio ad ampio raggio del presente. Toni severi, qualche passaggio interlocutorio. “Crisi”, “morte”, “utopia”, “palingenesi” le voci ricorrenti. Calvesi instituiva un parallelo tra 38 FABIO BELLONI / 1970-1974: TEMI, PASSAGGI, CONTROPARTITE il fare degli artisti e l’alchimia. È almeno dall’informale che l’avanguardia maneggia i materiali con il piglio dell’alchimista, spiegava. L’ultimissima generazione, poi, si è appropriata della natura manipolandola, stravolgendola, interferendo nelle sue sostanze più intime. Il richiamo però vale solo in superficie: manca, oggi, la progettualità di chi nell’antico esercitava quella pratica sapienziale. Ci si fa carico di “processi, concetti, equivalenza di fare e pensare, che tuttavia non producono trasmutazioni, né fuori, né dentro di noi”. L’arte, in effetti, esercita sulla vita un’incidenza minima, anzi nulla: lo hanno provato le avanguardie di inizio secolo, ribadito le più recenti. Si rimane – continuava Calvesi – nella metafora, nello spazio allegorico. Forse però ancora qualcosa apparenta arte e alchimia: entrambe hanno perso il loro ruolo, lo hanno ceduto ad altre discipline. “Scopo dell’arte – allora – potrebbe essere la propria morte. Come l’utopia aspira a morire per inverarsi e cessare così di essere utopica, l’arte aspira a morire per inverare la propria vocazione palingenetica”43. Il 30 dicembre Fine dell’alchimia chiuse con un incontro pubblico. Invitato da De Dominicis, il fisico Franco Rustichelli tenne una lezione sul tema dell’immortalità del corpo. Calvesi invece si dilungò sul coefficiente alchemico degli esempi in mostra: tutti – precisava – concepiti lontano dalla sua sfera diretta. Così, senza saperlo, Kounellis aveva fatto leva sul “principio alchemico della somiglianza tra gestazione e putrefazione: due momenti di indistinto organico in cui sono compresi vita e morte”. Erede di Dürer, Pisani aveva allestito uno spazio che potrebbe titolare Melancolia I : “un’immagine della fase nera, cioè della fase di angoscia e di meditazione pessimistica”. Era però De Dominicis a dare le soddisfazioni maggiori. Se alchimista è chi interviene nei processi naturali a beneficio dell’umanità, lui ne incarnava l’emblema perché “invita (...) a una soluzione ‘giusta’: quella che consenta di evitare la conseguenza o punizione della morte”44. Studioso di formazione venturiana, attivo in ambito accademico quanto museale, da inizio Sessanta Calvesi aveva fatto dell’alchimia – del suo linguaggio, delle sue categorie e implicazioni – uno strumento per affrontare anche le istanze più attuali45. Si trattava di un approccio originale, stimolato dalle letture psicanalitiche di Jung46: eppure non così eccentrico se posto in sintonia con i coevi studi di Eugenio Battisti sull’”Antirinascimento”, le passioni esoteriche di Emilio Villa o ancora le chiose di Arturo Schwarz all’opera duchampiana. Con quel filtro, Calvesi aveva già letto mostre cruciali (Fuoco, acqua, immagine, terra, 1967) o non di poco conto (Quatre artistes italiens plus que nature, 1969) insistendo sul valore primario, archetipico di tecniche e materiali. Fine dell’alchimia insinuò un dato pessimistico e ideologico ancora assente nelle precedenti occasioni. La mostra de L’Attico, inoltre, sarebbe rimasta per il suo autore uno dei rari impegni curatoriali accettati nel lungo periodo. Il Calvesi di inizio Settanta è infatti un critico che mantiene fisso lo sguardo sul contemporaneo, ma all’agone preferisce tribune – “L’Espresso” e il “Corriere della Sera” – utili a garantirgli una più mediata adesione ai fatti. Certo, nel mentre si avvicendano cambi della guardia e nuove primazie dominano il campo, specie quello romano: sulle sue scelte però agirono anche le personali resistenze verso un presente artistico di fatto poco amato. Calvesi lo ha ribadito in tempo reale e senza troppe perifrasi che per lui l’avanguardia aveva subìto i contraccolpi delle voghe ideologiche: ne avevano fiaccato il corso, compromesso l’originalità47. Quella, in ogni caso, era ormai diventata una risorsa per molti (“Voglio parlarti di una cosa di cui oggi parlano tutti: l’alchimia”, premette Boetti al suo interlocutore nel 197348). Attraverserà tutto il decennio, guadagnerà sempre più crediti in tempi di riletture surrealiste, eromperà in termini clamorosi nel successivo, quando sarà la pittura a tornare al centro. Affiora, intanto, nelle pagine definitive sull’Arte Povera (nel volume Mazzotta, Celant invoca “l’artista-alchimista”, il “produttore di fatti magici e meraviglianti”49). Infatua giovani studiosi ancora in bilico tra storia e militanza (il Maurizio Fagiolo che nel 1970 licenzia Il Parmigianino, un saggio sull’ermetismo nel Cinquecento). E può anche diventare un appiglio per i detrattori (Candidi naturalisti e apprendisti stregoni, titola Mario De Micheli su “L’Unità” demolendo la genìa poverista in carica a Gennaio 70 50). 6. Risaliamo parte del decennio scorrendo in velocità poco di quel molto che nel frattempo andò in scena. Assai lontane tra loro sul piano della scelta tecnica ed espressiva, le prove a seguire sembrano invece apparentabili per il dato esistenziale a tutte sotteso. È un’esistenza allusa, sublimata o interdetta: comunque sempre confinata entro lo spazio della metafora antropologica. Flaconcini con arsenico, stricnina, cianuro, nicotina e altre sostanze letali, ognuno munito di un avvertimento: “Aprire questa busta solo dopo la morte della persona che avrà assunto il veleno” (Sergio Lombardo, Progetto di morte per avvelenamento, 1971). Un percorso iniziatico allestito entro una piramide contenente una foresta di immagini e oggetti dal richiamo archetipico (Paul Thek, Ark, Pyramid : la si vede a Kassel nel 1972 in quella cruciale occasione che fu Documenta V). Calchi del corpo dell’artista ridotto a brani sui quali si proiettano diapositive dei particolari anatomici corrispondenti (Giuseppe Penone, 1970-1974: TEMI, PASSAGGI, CONTROPARTITE / FABIO BELLONI 39 1216 peli, 1972). Scheletri umani recuperati da scavi archeologici, in frammenti o ricomposti per intero (Carlo Maria Mariani, Iper/ri/cognizione II, 1973). Presenze mute ma cariche di risonanze interiori, private dello sguardo e calate nello spazio sacrale del rito (Ferruccio de Filippi, La sfinge, il tempio, il tabù dell’incesto, 1973; Eliseo Mattiacci, Pensare il pensiero, 1973). Foto di interni spogli e semibui abitati da figure parentali in uno stato di tensione latente. Le correda una sentenza: “L’uomo sa che prima di annullarsi non può esimersi dall’introspezione, questa presa di coscienza è l’unico suo alibi: la ragione esasperata porta al suicidio risolutore, l’’esperienza’ assoluta e definitiva”51 (Michele Zaza, Dissidenza ignota, 1973). Immagini dalla resa iperrealista, tanto quotidiane quanto minacciose (Michelangelo Pistoletto, La prigione, il suicidio, il pericolo della morte, l’agguato, il decadimento, gli escrementi, il cimitero, la cattura, 1974). Bacili di vetro allineati su una tovaglia bianca ricamata: ciascuno ospita un rottame di cristallo con il nome di un personaggio storico condannato per le proprie idee. Le iconografie dell’Ultima Cena e del Battista decollato hanno ispirato il loro autore, che vorrà precisare: “È farsesco ed è tragico, è caramelloso ed è truculento. Il senso sta anche nel fatto che esprime qualcosa di tremendo. Non ho mai fatto nulla di meno sublimato, di più greve pur in un guscio così frivolo”52 (Luciano Fabro, Iconografie, 1975). Nell’estate 1974, Colonia ospitò Projekt 74. Chi ne visitò la sezione più ampia, quella dedicata al Tempo riscoperto53, si imbattè in una evocazione della necropoli di Ostia a mezzo di foto, documenti e modellini in terracotta (Ann e Patrick Poirier, Documentation Isola Sacra, 1973), oppure in un museo autobiografico composto da lettere, foto e reperti di ogni sorta (Christian Boltanski, Pour mémoire, 1973) o ancora in sculture di uomini preistorici degne di un museo di storia naturale (Claudio Costa, Esercizi di antropologia, 1974). Usciva proprio in quell’anno Il Revival, una antologia di saggi dedicati alla ripresa del passato, dal neoclassicismo ai Rosa-Croce, dalla Roma fin de siècle alla Secessione viennese. Lo editava Mazzotta in contemporanea ai testi devoti alla linea dell’ultrasinistra; Giulio Carlo Argan ne era il curatore. Pochi e discontinui erano, allora, i contributi del professore riservati alla stretta attualità; in compenso, le incessanti ipoteche sull’arte e sulla sua morte rilanciate da tutti continuavano a trovare proprio in lui l’interprete più convinto e autorevole54. Nell’introduzione al volume, Argan vagliava le ragioni per le quali al presente si preferivano modelli già collaudati. La scrittura apodittica accompagnava il biasimo di chi mal tollerava un fenomeno che “pone la vita come un continuo che non può mai dirsi esperito” e, in definitiva, cercava la fuga nella storia. In più occasioni 40 FABIO BELLONI / 1970-1974: TEMI, PASSAGGI, CONTROPARTITE pagine di esibito impegno filologico sembravano assumere toni militanti. “Incapacità o non volontà di saper vivere”, “atteggiamento rinunciatario”, “insofferenza del presente”, “sgomento del futuro”55: si parlava del tempo passato per dire, in realtà, del proprio. 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 Ghenos, Eros, Thanatos, a cura di A. Boatto, catalogo della mostra (Galleria de’ Foscherari, Bologna, novembre-dicembre 1974), Bologna 1974, p. 4. A. Boatto, intervento senza titolo, in Pascali, nuove sculture, catalogo della mostra (L’Attico, Roma, dal 29 ottobre 1966), Roma 1966, p.n.n. Dello stesso autore, cfr. Dall’inerte al vivente, “Marcatre”, nn. 61-62, s.d. (ma inizio 1971), pp. 79-83; L’immaginario in Pascali e in Kounellis, “Qui arte contemporanea”, n. 12, novembre 1973, pp. 47-54; L’immaginario e la messa a morte, “Data”, n. 10, inverno 1973, pp. 46-49. T. Trini, Riprendere di nuovo a volgere la faccia d’Eros verso la nascita e la fondazione, “Data”, n. 14, inverno 1974, p. 87; E. Sanguineti, L’arte del corpo, “Paese Sera”, Roma, 5 dicembre 1974; M. Calvesi, Gli ex-bodyartisti a Milano, “Corriere della sera”, Milano, 12 gennaio 1975; L. Trucchi, Ghenos, Eros, Thanatos, “Momento Sera”, Roma, 19 febbraio 1975; I. Mussa, Ghenos, Eros, Thanatos, “Capitolium”, n. 11, 1975, p. 91. Ne è quasi un calco la chiosa di Maurizio Fagiolo dell’Arco (Amore, morte, illusione, “Paese Sera”, Roma, 3 febbraio 1975) alla coeva personale di Pistoletto da Sperone: “In questa mostra, troviamo quattro capitoli di un discorso che ha un tema preciso: la vita. Un grande reticolato con il classico ‘Pericolo di morte’, una lastra vuota con appeso un nodo scorsoio, l’artista che spara verso il pubblico, una serie di quadri con donne e vari atteggiamenti, una gabbia con una tigre imprigionata. Come dire tutti i passaggi dalla nascita, all’eros, alla costrizione, alla morte. Ed è qui la soluzione del vecchio problema esistenziale di Pistoletto: i diversi momenti di irrealtà si collegano in un’unica irrealtà (...). Una mostra come labirinto esistenziale, vissuto con la cerimonialità di un rito antichissimo come la vita (o la morte)”. Studi sul surrealismo, atti del convegno, a cura di F. Menna, (Salerno, marzo-maggio 1973), Roma 1977. Alcuni titoli: Sull’erotismo: Sade, Bataille, Breton di A. Boatto; Il linguaggio come comportamento mancato: il senso di colpa, la morte, il suicidio di A. Bonito Oliva; La tradizione esoterica in Duchamp e nel surrealismo di M. Calvesi, Artaud e il teatro della crudeltà di A. Mango. “Art Vivant”, n. 54, dicembre 1974-gennaio 1975. Cfr. 8 serate sotto il segno dell’Eros, “Le Arti”, n. 11-12, novembredicembre 1974, pp. 36-44. Sul tema: H. Belting, Antropologia delle immagini, Roma 2013. In dettaglio, cfr. il capitolo Immagine e morte, pp. 173-225. O. Prokop, W. Weimann (a cura di), Atlas der Gerichtlichen Medizin, Berlino 1965. Alcuni di questi lavori oggi si vedono in M. de Candia, P. Ferri (a cura di), Idee, processi e progetti della ricerca artistica italiana degli anni ‘60 e ‘70, Roma 2011, pp. 150-151. Cfr. l’intervista all’artista in Giosetta Fioroni. Foto da un atlante di medicina legale, a cura di A. Boatto, catalogo della mostra (Galleria Pan, Roma, maggio 1976), Roma 1976, p.n.n. G. Briganti, Dopo le fate ecco i mostri, “La Repubblica”, Roma, 25 maggio 1976. F. Menna, Un’arte di entusiasmo, in Arte povera più azioni povere, a 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 cura di G. Celant, catalogo della mostra (Amalfi, 4-6 ottobre 1968), Salerno 1969, pp. 85-88. T. Trini, Lo spettacolo della nevrosi, “Corriere della sera”, Milano, 10 febbraio 1974. P. Restany, Libro bianco, Milano 1969 [ma scritto nella primavera 1968], p. 22. Sul tema in generale, cfr. P. De Bruyne, P. Gillen (a cura di), Community Art. The Politics of trespassing, Amsterdam 2011. M. Pistoletto, Le ultime parole famose, Torino 1967, p.n.n. F. Menna, intervento senza titolo alla mostra Al di là della pittura a San Benedetto del Tronto, gli atti sono in “Op. Cit.”, n. 16, settembre 1969, p. 86. F. Menna, Profezia di una società estetica, Milano 1968. Sul critico, cfr. A. Trimarco, Filiberto Menna. Arte e critica d’arte in Italia, 1960/1980, Napoli 2008. Tra rivolta e rivoluzione a Bologna nel 1972 e la sezione La preposizione ideologica alla X Quadriennale di Roma nel 1973, per esempio. Cfr. “Nac”, n. 8-9, agosto-settembre 1971, dove l’inchiesta di Enzo Mari invitava a “enunciare la propria visione utopizzante dello sviluppo della società” oppure l’”Almanacco Letterario Bompiani 1974”, uscito nel 1973 e dedicato per intero all’”Utopia rivisitata”. I documenti di prima mano a riguardo sarebbero copiosi, qui bastino: G. Celant, Senza titolo, “Domus”, n. 496, marzo 1971, pp. 47-48; E. Battisti, Una funzione da riscoprire, “Marcatre”, nn. 6-7, s.d. [ma 1971], pp. 76-77; A. Natali, Linguaggio e crisi dell’arte, “L’uomo e l’arte”, n. 7, dicembre 1971, pp. 3-4; M. Fagiolo dell’Arco, Accademia, in Critica in atto, atti degli incontri (Roma, 6-30 marzo 1972), a cura di A. Bonito Oliva, “Centro d’Informazione Alternativa. Quaderno n. 2”, Roma 1973, pp. 70-73. Per una cornice storica, G. Panvini, Ordine nero, guerriglia rossa. Violenza politica nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta (1966-1975), Torino 2009 e A. Ventrone, “Vogliamo tutto”. Perché due generazioni hanno creduto nella rivoluzione 1960-1988, Bari-Roma 2012. L.Vergine, I chierici continuano a tradire, “Ubu”, n.4, marzo1971, p. 17. Sulla mostra, cfr. F. Belloni, Approdi e vedette. Amore mio a Montepulciano, “Studi di Memofonte”, n. 9, pp. 121-165, www.memofonte.it A. Bonito Oliva, Amore mio, “In. Argomenti e immagini di design”, n. 1, settembre-ottobre 1970, p. 96; il corsivo è di Bonito Oliva. Cfr. soprattutto: A. Bonito Oliva, Il territorio magico, Firenze 1971; A. Bonito Oliva, L’ideologia del traditore. Arte, maniera, manierismo, Milano 1976. M. Blanchot, Lo spazio letterario, Torino 1967; M. Blanchot, Il libro a venire, Torino 1969. A. Boatto, Dalla “simulazione” alla realtà, “Che fare”, n. 6-7, primavera 1970, p. 146. A. Bonito Oliva, Comportamento estetico e comunità concentrata, “Marcatre”, n. 56, s.d. [ma inizio 1970], pp. 72-73. M. Calvesi, intervento senza titolo, in Vitalità del negativo, a cura di A. Bonito Oliva, catalogo della mostra (Palazzo delle Esposizioni, Roma, novembre 1970-gennaio1971), Firenze 1970, p.n.n. A. Boatto, Sul comportamento nelle avanguardie storiche: il dandy. L’esibizione dell’esistente, “Che fare”, n. 10, maggio 1972, pp. 38-41. A. Boatto, Un Hercule sans emploi (sul comportamento), in Critica in atto, cit., pp. 26-27. A. Bonito Oliva, La citazione deviata: l’ideologia, in Critica in atto, cit., p. 157. F. Menna, Patografia di un artista, “Data”, n. 1, settembre 1971, pp. 50-53. M. Calvesi, Fine dell’alchimia [1970], in Album 9-68/2-71, Roma 1971, p.n.n. 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 46 47 48 49 50 51 52 53 54 55 Antonio Rossano, “Malinconica Pot”, tartaruga che “corre” fra gl’incubi di Pisani, “Gazzetta del Mezzogiorno”, Bari, 7 luglio 1970. Su Pisani, cfr. G. Dalla Chiesa, Il plagio di Vettor Pisani e Michelangelo Pistoletto interpretato. Il passaggio da Venere a Meret, da Meret a Maria, “Arte e critica”, n. 71, giugno-agosto 2012, pp. 7274. Il riferimento all’artista tedesco diventerà esplicito nella personale presso L’Attico nella primavera 1973: Vettor Pisani. L’Eroe da camera, tutte le parole dal silenzio di Duchamp al rumore di Beuys. Sulla fortuna italiana di Beuys resta importante G. Celant, Beuys, tracce in Italia, Napoli 1978. Sull’opera, le sue fonti visive e ideologiche, cfr. M. Dantini, Pattini a rotelle. De Dominicis laicizzato, in ID., Geopolitiche dell’arte, Milano 2012, pp. 117-134. Cfr. la storia espositiva di queste opere in: M. Disch (a cura di), Giulio Paolini, catalogo ragionato, II, Milano 2008, pp. 902 e 918. Entrambi i lavori, peraltro, guadagnarono un’ampia visibiltà dal momento in cui Tommaso Trini li scelse a corredo di un suo articolo – in “Domus”, n. 487, giugno 1970, p. 56 – dedicato alla XXXV Biennale di Venezia. Cfr. L’Attico di Fabio Sargentini, a cura di L. M. Barbero e F. Pola, catalogo della mostra (Macro, Roma, 26 ottobre 2010-6 febbraio 2011), Milano 2010. Dichiarazione di A. Boatto in Claudio Cintoli, Crisalide, a cura di A. Boatto, catalogo della mostra (Galleria Il Segno, Roma, primavera 1973), Roma 1973, p.n.n. Solo un esempio: A. Bonito Oliva, Comportamenti alternativi dell’arte a Roma, “Capitolium”, nn. 4-5, 1973, pp. 29-38. R. Barilli, Le persuasioni, “Nac”, n. 37, maggio 1970, p. 12. M. Calvesi, Contributo alla crisi [1970], in Album...cit., p.n.n. M. Calvesi, Fine dell’alchimia, cit., p.n.n. Sul critico, cfr. A. Monferrini, I contributi di Maurizio Calvesi all’arte contemporanea, in S. Valeri (a cura di), Sul carro di Tespi. Studi di storia dell’arte per Maurizio Calvesi, Roma 2004, pp. 267-274. M. Calvesi, testimonianza orale all’autore (Roma, 3 giugno 2013). Basti un passo della prefazione alla seconda edizione de Le due avanguardie: “La contestazione ha avuto, nei confronti della seconda avanguardia, quello stesso effetto dapprima esilarante e poi mortificante che nei confronti della prima avanguardia (...). In entrambi i casi, l’azione politica realizzando almeno apparentemente istanze già promosse dall’avanguardia, è sembrata sottolineare l’importanza di questa, ma subito dopo l’ha svuotata e ne ha messo in evidenza la perfetta superfluità del ruolo realizzativo, che è proprio della pura azione politica e non del suo vagheggiamento estetico” (M. Calvesi, Le due avanguardie [1966], Bari-Roma 1971, p. 14). Dichiarazione di Boetti del 1973 pubblicata in A. Bonito Oliva, Dialoghi d’artista, Milano 1984, p. 226. G. Celant, Arte povera, Milano 1969, p. 225. M. De Micheli, Candidi naturalisti e apprendisti stregoni, “L’Unità”, Roma, 26 febbraio 1970. Citato da Michele Zaza: spazio del verbo essere, “Domus”, n. 533, aprile 1974, p. 56. L. Fabro, Attaccapanni, Torino 1978, p. 96. Al tema, nel marzo 1974, la galleria Bertesca di Genova aveva già dedicato la mostra Tempo e ricognizione, con opere di B. e H. Becher, C. Boltanski, C. Costa, Gilbert & George, A. e P. Poirier, G. E. Simonetti, D. Von Windheim. C. Gamba (a cura di), Giulio Carlo Argan, intellettuale e storico dell’arte, Milano 2012; in dettaglio cfr. C. Subrizi, Giulio Carlo Argan negli anni Sessanta. Prospettiva critica, chiusure della storia, pp. 387395. Per un’utile sintesi sul tema della morte dell’arte, cfr. F. Vercellone, Dopo la morte dell’arte, Bologna 2013. G. C. Argan (a cura di), Il Revival, Milano 1974, pp. 7-33. 1970-1974: TEMI, PASSAGGI, CONTROPARTITE / FABIO BELLONI 41