Fabio Belloni 1970-1974: temi, passaggi, contropartite

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Fabio Belloni 1970-1974: temi, passaggi, contropartite
Fabio Belloni
1970-1974: temi, passaggi, contropartite
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“In ogni caso, a interrogarsi sopra le forze dell’arte, tra compiaciuti
e disperati, i fabbricanti legittimi e brevettati non sono certo derelittamente soli: gran contorno di esegeti, più o meno scientificamente provveduti, fa corona ai loro monologhi perplessi, e si compiace di degnamente dissertare intorno agli efficaci effetti delle comunicazioni estetiche.”
E. Sanguineti, La disoccupazione estetica, “Paese Sera”,
Roma, 4 luglio 1974.
1. È una mostra dai tratti insoliti quella ordinata da
Alberto Boatto a fine 1974 presso la bolognese Galleria de’
Foscherari. Ghenos, Eros, Thanatos non lancia tendenze e
neppure ha il taglio ecumenico delle collettive che già da
qualche tempo vanno facendo il punto sull’attualità. La
dozzina di nomi a raccolta si presenta con opere importanti,
quasi tutte rimarranno tra le più emblematiche di quell’inizio
decennio. Figurano, tra le altre, Crisalide di Cintoli, l’epigrafe di De Dominicis, Motivo africano di Kounellis, Lo
spirato di Fabro, Ebrea di Mauri, Odio di Zorio, Lo scorrevole
di Pisani. Ciascuna serve a Boatto per affrontare il presente
artistico secondo una angolatura inedita ma che gli ultimi
sbocchi incoraggiano sempre più. La chiave d’indagine è
spiccatamente antropologica. Da almeno un lustro – ecco
la tesi – l’avanguardia ha preso a modello il flusso dell’esistenza: gli artisti hanno posto al centro i suoi temi supremi,
quelli della nascita, dell’amore e della morte. E qui, allora,
“si tenta di fare di questi tre incidenti che compendiano l’intera nostra esperienza, degli avvenimenti esemplari”1.
Irrituale è anche la confezione del catalogo, e non solo
perché ai soliti smilzi fascicoli di galleria – quando poi ci
sono – stavolta si contrappone un volume suntuoso. Testi e
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immagini compongono un insieme coeso, gli uni spiegano
le altre, diventano reciprocamente necessari. Boatto si sottopone a un esercizio di preferenza eluso dalla critica coeva:
sceglie, rispetto alle opere, una posizione di frontalità. Non
vuole essere didascalico, così è strategico nel sottrarre titoli
e nomi. Di fatto però ogni sua riga è un corpo a corpo con il
lavoro degli artisti. Ne ispeziona ragioni, rintraccia fili sotterranei, li annoda e infine congegna pagine dal tono saggistico dove la sequela di citazioni palesa i maestri ispiratori. Sono – e non poteva essere altrimenti – Freud, De
Sade, Artaud, Bataille, Breton. Tempestivo a suo tempo nel
riferire della pop americana, pioneristico in seguito con
alcune letture duchampiane: non sorprendeva che adesso
Boatto si misurasse con una simile prova. Le sue passioni
letterarie e francofile lo rendevano il più attrezzato in
materia. E poi quella temperie si sposava con una attitudine
personale di cui già più volte si aveva avuto sentore. Non
era forse stato lui – in controtendenza e nel lontano clima
dell’euforia collettiva – a leggere gli animali di Pascali come
emblemi di “castrazione”, attori in “un teatro d’azione amatorio-punitivo”?2
Di Ghenos, Eros, Thanatos si intese presto il valore. Si
capì cioè che quella era una raffinata operazione intellettuale e nondimeno una fedele messa in quadro di come in
effetti stavano le cose. Anche per questo la mostra divenne
itinerante: da Bologna andò in trasferta, prima alla Vinciana
di Milano poi a La Salita di Roma. Guadagnò ampie pagine
di commento3, stimolò tra gli interpreti un nuovo ordine di
confronti. Fece proseliti4. Si trattava, d’altra parte, di una
emergenza su uno sfondo già molto connotato: il dialogo
con quanto stava accadendo intorno era stringente – e, a
ricostruirlo oggi, quasi impressionante. Da poco, la società
Alberto Boatto, Ghenos Eros Thanatos, Bologna 1974
Le opere di Giosetta Fioroni alla mostra Ghenos Eros
Thanatos, Galleria de' Foscherari, Bologna 1974
Foto Luciana Mulas. Archivio Galleria de' Foscherari,
Bologna
critica italiana pressoché al suo completo era stata mobilitata da un convegno di studi sul Surrealismo voluto dall’Università di Salerno5. A Milano, Palazzo Reale ospitava La
ricerca dell’identità: da Géricault a Rainer andava in mostra
il lato notturno dei pittori e degli scultori moderni. La prestigiosa, e di circolazione anche italiana, “Art Vivant” licenziava un fascicolo speciale, Un numéro sur la Mort 6. Si chiamava Eros la collettiva milanese nata per esaltare le pulsioni primarie degli artisti7: la curava Lea Vergine che inoltre
dava alle stampe Il corpo come linguaggio, un primo referto
della Body Art stilato con strumenti di marca psicanalitica.
(Di lì a breve, a Venezia nel 1975, sembrerà una ratifica di
tutto ciò Le macchine celibi: nella spettacolare mostra di
Szeemann le paranoie degli artisti assumeranno un’evidenza tecnologica).
2. Nessuno tra i lavori di Ghenos, Eros, Thanatos
lasciava insensibili; quasi tutti superavano le soglie del
perturbante per insinuarsi in zone dal forte tasso emotivo.
Innescavano nello spettatore uno stato d’allarme, nei casi
più crudi e privi di ogni filtro si confinava con lo sconcerto.
L’oggettività della tecnica – erano documenti, foto di azioni,
prelievi, radiografie, calchi dal vivo – non sembrava
attenuarne la iattanza, semmai la esaltava. È vero che lì si
parlava di nascita, amore e morte: per numero e intensità
di cimenti, era però l’ultima di quelle stazioni a dominare8.
Tra i molti, un esempio può bastare. Prendiamo il trittico
eseguito giusto nel 1974 da Giosetta Fioroni. È ciò che già
il titolo dice: Foto da un atlante di medicina legale. Precisamente da Atlas der Gerichtlichen Medizin, un poderoso
tomo di oltre ottocento pagine edito a Berlino una decade
prima9. Vi si raccolgono foto di inusitata violenza, ogni
specie di morte per causa cruenta: materiale per medici, o
per necrofili. Eppure già da un pezzo gli artisti ne avvertono
il fascino. È stata una sicura fonte per Renato Mambor che
ha voluto cortocircuitarne le immagini al fianco di vignette
stile “Settimana enigmistica”10. Così come per Daniel
Spoerri i cui Criminal investigations sono appena stati
reduci da un tour espositivo tra Parigi, Zurigo e Ginevra.
L’identico repertorio, dal 1975, correderà abitualmente una
strana rivista d’arte milanese, l’underground “a-beta”.
Fioroni – sarà lei stessa a confessarlo – è attratta dall’urto
di quegli scatti, e poi il fatto che essi risalgano ai tempi
della Germania nazista le sembra un modo obliquo ma
efficace per misurarsi con la Storia11. Così sceglie tre
esempi, casi di travestitismo e di morti in pratiche autoerotiche.
Li vira in seppia, verga alcune scritte a penna: infine
assegna lunghe didascalie per spiegare i tragici epiloghi di
ciascuno. È un cambio di registro rispetto al suo lavoro fin
lì più noto, e non solo perché adesso le formule assomigliano
a quelle che altrove sono già state battezzate “Narrative
Art”. Non si tratta di un episodio: da quell’atlante, nei mesi
e negli anni a venire, l’artista trarrà un ciclo intero. Giuliano
Briganti saprà riassumerlo in modo fulmineo: “Dopo le fate
ecco i mostri”12.
Certo, temperature così surriscaldate toccano l’apice,
ma sono comunque eloquenti del clima che a più latitudini
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Luciano Fabro, Lo Spirato. Io rappresento
l'ingombro dell'oggetto nella vanità
dell'ideologia. Dal pieno al vuoto senza
soluzione di continuità, 1973
gesso e marmo in lavorazione a Carrara.
Foto Luciano Fabro
Amore mio, Montepulciano, giugno 1970.
Gli artisti nel cortile di Palazzo Ricci,
allestimento di Piero Sartogo. Foto Claudio
Abate
avvolge l’Italia artistica di metà Settanta. Quel clima, per la
verità, aveva preso a diffondersi da tempo: più o meno – e
non proprio fatalmente – in corrispondenza del nuovo decennio. A guardare anche solo di sguincio quanto si produce
da allora in molti ambienti di punta, l’impressione di una
sterzata è lampante. Cambiano iconografie, temi, riferimenti. Si ridisegnano percorsi finora sembrati i soli consentiti. Guadagnano campo attitudini diverse, insospettabili
appena qualche stagione innanzi. Non è solo questione di
assecondare le mode che intanto entrano in agenda dettando prescrizioni anticipate o riassetti sbrigativi: quel passaggio così delicato allinea gli esordienti ai protagonisti di
ormai rodato corso. Ci sarà pure stata una ragione meno
contingente, d’altro canto, se ora i libri di criminologia
offrono spunti fino a ieri garantiti dalle patinate riviste
glamour.
È un cambio di scena che in retrospettiva appare nella
stessa misura in cui già si era palesato ai contemporanei.
“Un’arte di entusiasmo” l’aveva definita Filiberto Menna: a
inizio 1969 il critico parlava di Arte Povera ma sottendeva
molto di quanto si era fin lì sperimentato. “Esuberante vitalità”, “gesto gratuito”, “gioioso disordine”: questi e altri
sintagmi di analogo tenore confortavano il suo discorso13.
Passa qualche stagione, e il Tommaso Trini uscito dagli stati
generali dell’avanguardia – ha visitato la labirintica Contemporanea – non può esimersi dal titolare Lo spettacolo
della nevrosi14. Quell’infilata di opere così difficili, opache,
abili a tenere a distanza lo spettatore diventa, per lui, la ratifica di uno strappo: scalzato il vitalismo a lungo imperante,
è subentrata una vocazione introspettiva. Gli artisti, o
almeno una quota tale da far sospettare un orientamento,
si sono trasformati in figure crepuscolari. Indugiano negli
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anfratti della psiche. Danno fondo a fantasie cruente. Interrogano la storia, i miti e i riti dell’esistenza.
“Immaginario”: ecco un lemma che si inizia a leggere
di frequente. Nelle pagine di una critica spesso in affanno
nel marcare stretto quanto va succedendo, ricorre ogniqualvolta ci si avvicina all’orbita di quella speciale attitudine.
3. Eppure in pochi o forse proprio nessuno si sarebbe
atteso un simile approdo. Dinnanzi a tanti esempi, i segni
di un conflitto acquistavano proporzioni ingombranti. Cosa
aveva consumato lo slancio esibito solo un istante prima?
Che ne era di quell’impegno nel presente cui si erano
offerte adesioni corali? E come spiegare i gesti di quanti,
in luogo dell’osmosi, stavano erigendo un muro tra loro e
la realtà?
Sul tema della socialità – quale ruolo per l’arte? abbracciare di petto la causa politica? come sostenere la lotta
di classe? – le nostre consorterie artistiche si erano dilacerate, e ancora si mostravano afflitte. Le discussioni giungevano da lontano: il Sessantotto le aveva accelerate portando
all’estremo il mito dell’intellettuale vocato ai fatti del
proprio tempo. La “maturità politica dell’artista”15 – così riconobbe subito Pierre Restany – svelò una coscienza nuova,
quella di integrati al sistema non meno di ogni altra categoria borghese. Sulle prime, le opzioni furono diverse. Ispirati dalle teorie marcusiane, per molti contestazione significò aprirsi alle forme dell’happening e dell’azione collettiva.
Ai più infervorati parve necessario allontanarsi dalla pratica
artistica per abbracciare la militanza extraparlamentare
strictu sensu. In un caso o nell’altro, quello stato di tensione
consentì finalmente di “portare l’arte alla vita, ma non più
sotto metafora”16, come si era auspicato in un libricino che
aveva fatto scuola. Nei circoli più avveduti, intanto, spiccavano argomenti intellettualmente impervi ma di facile seduzione. L’avanguardia – ci si iniziò a convincere – ispira il
giusto modello di comportamento: occorre emulare gli artisti
più giovani perché i loro gesti liberano le pulsioni del profondo, le energie represse o ancora latenti. “Esiste – infatti
– una strettissima connessione tra operazione artistica e
operazione psicanalitica nei limiti in cui quest’ultima non
tende a una funzione puramente terapeutica di casi particolari, ma si pone come indagine e strumento liberatorio
della società intera”17. Lo aveva spiegato la Scuola di Francoforte dai cui libri ormai si parafrasava a piene mani: prima
l’uomo al completo della propria dimensione psicofisica, poi
il Palazzo d’Inverno. Anche illuminati da tali certezze, ci si
affrettò a compilare “profezie di società estetiche”18.
Entra il nuovo decennio, e le discussioni continuano implacabili trascinando i medesimi rovelli. Ingiunzioni, requisitorie, profferte dominano ogni rivista almeno un po’ disposta a guadagnarsi la patente che serve: la congestionano
chiose, interviste, tavole rotonde o nastri sbobinati per
intero senza troppo badare al conformismo dei convitati.
Non bisognerà farne molte, di simili letture, per capire che
una tale logorrea è il surrogato di quell’azione diretta rivendicata a ogni piè sospinto. Un’arte che fa i conti con la politica nei modi meno mediati, poi, diventa tema per esposizioni non sempre trascurabili19. Nel frattempo però lo stato
delle cose ha cambiato segno: tutti se ne mostrano avvertiti
ed è questo che li mette in allarme. Se adesso si continua
a vagheggiare l’utopia – e lo si fa ancora in gran copia – è
più che altro a beneficio dell’editoria, per ingrossare il
volume di inchieste e di almanacchi20. Le promesse disattese, il mancato sbocco rivoluzionario, la deriva terroristica
impongono disamine urgenti. Non sono in pochi a vivere
quel frangente alla stregua di un tradimento: querimonie e
consuntivi in perdita fanno da basso continuo a tutto il dibattito di inizio decennio21. “L’impostura concimata dalla
confusione cresce – sfogò Lea Vergine su “Ubu” – le soperchierie non si contano, la pratica dei rimestamenti dilaga a
esclusivo vantaggio della restaurazione”22.
E gli artisti al lavoro? Ancora una volta diventano sismografi eccellenti. Già nell’estate 1970, a qualche mese
dalla strage di Piazza Fontana, il pubblico di Amore mio
coglie un’atmosfera che di sicuro mancava a Lo spazio dell’immagine o ad Arte povera più azioni povere. A dispetto
di un titolo così benevolo, gli esponenti di punta convenuti
alla mostra di Montepulciano preferiscono lavorare in ambienti chiusi, allestendoli con opere cupe, poco rassicuranti,
sinistre23. Achille Bonito Oliva, che aveva accompagnato
ogni fase dell’uscita, spiegò così: “Se gli spazi risultano catacombali, ciò è dovuto alla lucida convinzione di esistere
emarginati, quasi sotterranei, rispetto alle dimensioni della
quotidianità alienante”24. Era la prima di molte letture di
impronta sociologica da quel momento destinate a trovare
fortuna tra gli interpreti. Proviamo a riassumere la tesi che,
tra approfondimenti e continui rilanci (soprattutto a opera
di Bonito Oliva25), diventa di largo dominio. A fronte dell’involuzione subìta dagli eventi, gli artisti rifiutano la spettacolarità, ricusano il pubblico: gli preferiscono la marginalità
di chi si riconosce solo nei propri simili. Una politica attiva
scalzata dalla politica della renitenza: questo lo sbocco per
chi, adesso, vive uno stato di sfaldamento e trova riparo nell’autoemarginazione. Il che però non assomiglia affatto alle
scelte del 1968: lo sdegnoso rifiuto del “Sistema” allora professato con orgoglio da molti è cosa ben diversa dal ripie-
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Claudio Cintoli, Crisalide, 1972. Foto Massimo Piersanti
Achille Bonito Oliva, Il teatro della paralisi, in
“Tempi moderni”, n. 9, inverno 1972.
Sono riprodotte le opere di Vettor Pisani,
Stampo virile [a sinistra] e
Cielo greco [a destra]
gamento impermeabile agli influssi del mondo. Ritornava
l’iconografia dell’artista romantico e decadente alla quale,
dopotutto, i diagrammi della storia avevano ciclicamente
abituato: a memoria di cronaca, nessuno sembrò comunque
trarne particolare conforto.
Sostenuti da tali argomenti e ispirati in specie dalle
pagine di Maurice Blanchot26, è di arte del “negativo” che
si va sempre più parlando. I suoi esponenti vivono autoconfinati in “controsocietà”27, “comunità concentrate”28, “élites
ermetiche”29. Agli occhi di chi di volta in volta ne dà conto,
la loro scelta li marchia come personaggi insidiosi:
“dandy”30, “Hercule sans emploi”31, “traditori”32. Forse
allora non meraviglia troppo sapere che, a fine 1971, la
rivista “Data” esordisca offrendo ai propri lettori un lungo
ritratto – anzi una “patografia” – di Van Gogh. Con dispendio di lessico psicanalitico, è Menna a stilare quella che,
invece, si svela come la nuova effige pubblica dell’artista
contemporaneo. Un’effige segnata dallo “scacco”, dalla
“vertigine”, dalla “stramberia”: in definitiva dall’”esistenza
mancata”33.
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4. Motivo africano di Jannis Kounellis esibisce una
ignuda in avanzato stato di gravidanza. Un velo nero ne
occulta le fisionomie, mentre una fila di insetti saldati con il
miele attraversa il ventre ingigantito. Il cortocircuito è istantaneo e potente: alla vita in gestazione si oppone la putrescenza minacciata dalle mosche. L’insieme sottende ragioni
autobiografiche (la gravidanza della moglie Efi) e volge in tre
dimensioni motivi del repertorio surrealista (il volto bendato
cita Magritte, gli insetti Dalì; ma forse c’è anche il ricordo
delle bambole ipertrofiche di Bellmer). L’artista ha capovolto
le sue scelte recenti perché alla modella prona avvolta in un
panno di lana – quella appena vista ad Amore mio – adesso
ne preferisce una spogliata e ben piantata sullo sgabello.
Manca anche il fuoco benefico più volte incontrato: gli subentra la temperatura che può avvertire una nuda in inverno
spersa in uno stanzone. Se in deroga a quanto finora per lui
è sempre stato, stavolta Kounellis assegna un titolo è per
rafforzare il senso di un’immagine che già di per sé si impone
con la fissità e la simmetria di un idolo tribale.
Vettor Pisani chiama invece Spazio delirante il suo pavimento in placche d’acciaio tirate a lucido. Vi dispone uova,
pesi di piombo e una decina di tartarughe: di alcune rimane
solo il guscio, mentre quelle vive vengono zavorrate con pesi
da bilanciere cosicché alla loro usuale lentezza subentri la
paralisi definitiva. Il lavoro si completa alla presenza dell’artista stesso: veste di nero e indossa una gobba posticcia con
la scritta “Io non amo la natura”. Che alluda al fisico disgraziato di Leopardi, ovvero a colui che ha posto la “natura matrigna” a fondamento della propria filosofia?34 Poco prima, in
occasione del Premio Pascali al Castello Svevo di Bari, Pisani
aveva congegnato Malinconica Pot, la tartaruga più veloce
del mondo: montato su un dispositivo con ruote e motore, il
carapace si aggirava vorticosamente tra i piedi del pubblico35.
Qui il meccanismo cambia segno, ma insiste ancora sull’effrazione alle regole naturali e quindi sul ribaltamento delle
ormai consolidate retoriche poveriste. Qualunque sia la devianza, la tartaruga è l’antitesi della lepre: quella di Beuys,
autore su cui Pisani sta iniziando a meditare36.
Pericoloso morire è il titolo scelto da Gino De Dominicis
a compendio di tre sue opere. Irriducibili tra loro per stile o
espressione, ciascuna si presta alle congetture più varie. Lo
spettatore che non voglia subirne solo il fascino provocatorio è costretto a un riassetto continuo: deve passare dal
metro allegorico a quello tautologico sino al piano della pura
percezione. Ecco dunque Il tempo, lo sbaglio, lo spazio, uno
scheletro umano eccezionalmente munito di pattini e di un
altrettanto scheletrito cane al guinzaglio.37 Poi Io sono
sicuro che voi siete (e sempre sarete) all’interno o all’esterno di questo triangolo, un perimetro tracciato al suolo
con nastro adesivo nero. Infine un ready made già descritto
dal titolo estenuante: Come io vedo questo tavolo, questi
piatti, questa bottiglia, queste posate, questo bicchiere e
questa pianta. Stavolta si invoca un “qui e ora” che gli altri
esempi sembrano invece ricusare; la chiave va cercata nell’ostentata referenzialità del titolo. Si tratta di una soggettiva: dinnanzi un così prosaico brano di vita l’osservatore si
trasforma in De Dominicis stesso. L’invito, insomma, è a
provare la vertigine. Risolto in ben altri termini, il discorso
muove da quello analitico iniziato da Giulio Paolini, i cui fondamenti – da Giovane che guarda Lorenzo Lotto a Vedo (la
decifrazione del mio campo visivo) – nel frattempo sono già
direttamente transitati a Roma38.
Insieme, e per la prima volta, questi lavori di Kounellis,
Pisani e De Dominicis si incontrano negli ultimissimi giorni
del 1970 a Fine dell’alchimia. È una mostra pensata da Maurizio Calvesi; la ospita L’Attico, la galleria che da almeno un
triennio va dettando il corso sulla scena romana39. Non conosciamo i commenti a caldo dei contemporanei: può
stupire a fronte di una simile prova, ma nessuno si è impegnato a tramandarceli. L’evento, d’altra parte, è fugace –
dura appena dal 28 al 30 dicembre – e poi cade in un frangente in cui interpreti e cronisti sono troppo occupati a discettare su Vitalità del negativo con tutte le sue implicazioni. Fosse andata altrimenti, immagineremmo meglio
come ci si è aggirati tra tanti rituali di sevizie; con quali
occhi si sono guardati oggetti, figure e installazioni resi
ancora più allucinati dalle luci bianche e dalle lunghe fughe
dell’ex garage di via Cesare Beccaria; in che misura, per
farla breve, si è tollerato un clima così emotivamente saturo.
“Da un po’ di tempo entriamo nello spazio artistico come si
entra nello spazio di uno psicodramma, o in quello allarmante di una sala operatoria”40. Quando di lì a non molto
simili atmosfere diventeranno permeanti, acquisterà il
valore di una ratifica la nota di un pur smaliziato osservatore: anche per il quale, c’è da credere, Fine dell’alchimia
ha segnato uno snodo.
Già comunque un assortimento del genere bastava per
farne un’occasione: sono, Kounellis, Pisani e De Dominicis,
i capifila nella coeva Roma d’avanguardia. Per qualche
tempo, almeno sino al 1973, succede di leggere i loro nomi
in sequenza41. Riassumono al meglio quell’”arte di comportamento” sulla quale va assestandosi l’ultima voga. Li
accomuna la capacità di infondere una dimensione narrativa, per quanto ellittica, ad azioni e allestimenti dove essi
stessi possono diventare attori. Si muovono di preferenza
entro quel triangolo – L’Attico, La Salita, gli Incontri Inter-
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Vettor Pisani, Spazio delirante,
1970
Foto Claudio Abate
Gino De Dominicis,
Annuncio mortuario, 1970,
da Ghenos, Eros, Thanatos,
Bologna 1974
Il Revival, a cura di G.C.Argan,
Milano 1974
nazionali d’Arte – in cui affiorano le poche ma decisive
novità del momento. Aprono la strada a schiere di emuli.
Ispirano le pagine dei critici e ne diventano i riferimenti impliciti specie quando, di tanto in tanto, si prova a guardare
in prospettiva il panorama odierno. In una stagione in cui
le esperienze di gruppo hanno di fatto perso attrattiva, i tre
assumono un protagonismo che sovente inclina nel narcisismo. La teatrale fisicità di ciascuno si fa conoscere al pari
dei loro lavori: ecco il torvo Pisani, l’ermetico – anche
perché spesso in maschera – Kounellis, il beffardo De Dominicis (lo notò già nel 1970 Renato Barilli: “La tenuta di
De Dominicis, sempre in nero come quella di un mimo,
gioca una parte rilevante, a dispensarci e condirci le sue
abili argomentazioni suasorie”42).
5. Fine dell’alchimia era un titolo strategicamente
ambiguo, giocava sugli opposti significati della parola
“fine”. Inoltre evocava riferimenti ancora condivisi nel pubblico del 1970: La fine dell’utopia, il libello edito un paio di
anni prima da Laterza dove Marcuse presagiva l’imminente
inverarsi della società utopica. Calvesi accompagnò l’uscita
con un proprio testo: non da pubblicare in catalogo, ma da
affiggere al muro, vicino allo scheletro di De Dominicis. Era
un gesto desueto, ma non singolare nel tempo in cui i critici
rivendicavano un posto a stretto fianco degli artisti: capita,
in quel giro di anni, ne imitino i modi o ne invadano lo
spazio.
Contributo alla crisi avanzava pensieri suggestivi e nondimeno difficili. Niente affondi nelle opere, piuttosto un
vaglio ad ampio raggio del presente. Toni severi, qualche
passaggio interlocutorio. “Crisi”, “morte”, “utopia”, “palingenesi” le voci ricorrenti. Calvesi instituiva un parallelo tra
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il fare degli artisti e l’alchimia. È almeno dall’informale che
l’avanguardia maneggia i materiali con il piglio dell’alchimista, spiegava. L’ultimissima generazione, poi, si è appropriata della natura manipolandola, stravolgendola, interferendo nelle sue sostanze più intime. Il richiamo però vale
solo in superficie: manca, oggi, la progettualità di chi nell’antico esercitava quella pratica sapienziale. Ci si fa carico
di “processi, concetti, equivalenza di fare e pensare, che
tuttavia non producono trasmutazioni, né fuori, né dentro di
noi”. L’arte, in effetti, esercita sulla vita un’incidenza
minima, anzi nulla: lo hanno provato le avanguardie di inizio
secolo, ribadito le più recenti. Si rimane – continuava
Calvesi – nella metafora, nello spazio allegorico. Forse però
ancora qualcosa apparenta arte e alchimia: entrambe hanno
perso il loro ruolo, lo hanno ceduto ad altre discipline.
“Scopo dell’arte – allora – potrebbe essere la propria morte.
Come l’utopia aspira a morire per inverarsi e cessare così
di essere utopica, l’arte aspira a morire per inverare la
propria vocazione palingenetica”43.
Il 30 dicembre Fine dell’alchimia chiuse con un incontro
pubblico. Invitato da De Dominicis, il fisico Franco Rustichelli
tenne una lezione sul tema dell’immortalità del corpo. Calvesi
invece si dilungò sul coefficiente alchemico degli esempi in
mostra: tutti – precisava – concepiti lontano dalla sua sfera
diretta. Così, senza saperlo, Kounellis aveva fatto leva sul
“principio alchemico della somiglianza tra gestazione e putrefazione: due momenti di indistinto organico in cui sono
compresi vita e morte”. Erede di Dürer, Pisani aveva allestito
uno spazio che potrebbe titolare Melancolia I : “un’immagine
della fase nera, cioè della fase di angoscia e di meditazione
pessimistica”. Era però De Dominicis a dare le soddisfazioni
maggiori. Se alchimista è chi interviene nei processi naturali
a beneficio dell’umanità, lui ne incarnava l’emblema perché
“invita (...) a una soluzione ‘giusta’: quella che consenta di
evitare la conseguenza o punizione della morte”44.
Studioso di formazione venturiana, attivo in ambito accademico quanto museale, da inizio Sessanta Calvesi aveva
fatto dell’alchimia – del suo linguaggio, delle sue categorie
e implicazioni – uno strumento per affrontare anche le
istanze più attuali45. Si trattava di un approccio originale,
stimolato dalle letture psicanalitiche di Jung46: eppure non
così eccentrico se posto in sintonia con i coevi studi di
Eugenio Battisti sull’”Antirinascimento”, le passioni esoteriche di Emilio Villa o ancora le chiose di Arturo Schwarz
all’opera duchampiana. Con quel filtro, Calvesi aveva già
letto mostre cruciali (Fuoco, acqua, immagine, terra, 1967)
o non di poco conto (Quatre artistes italiens plus que nature,
1969) insistendo sul valore primario, archetipico di tecniche
e materiali. Fine dell’alchimia insinuò un dato pessimistico
e ideologico ancora assente nelle precedenti occasioni. La
mostra de L’Attico, inoltre, sarebbe rimasta per il suo autore
uno dei rari impegni curatoriali accettati nel lungo periodo.
Il Calvesi di inizio Settanta è infatti un critico che mantiene
fisso lo sguardo sul contemporaneo, ma all’agone preferisce
tribune – “L’Espresso” e il “Corriere della Sera” – utili a garantirgli una più mediata adesione ai fatti. Certo, nel mentre
si avvicendano cambi della guardia e nuove primazie dominano il campo, specie quello romano: sulle sue scelte però
agirono anche le personali resistenze verso un presente artistico di fatto poco amato. Calvesi lo ha ribadito in tempo
reale e senza troppe perifrasi che per lui l’avanguardia
aveva subìto i contraccolpi delle voghe ideologiche: ne
avevano fiaccato il corso, compromesso l’originalità47.
Quella, in ogni caso, era ormai diventata una risorsa per
molti (“Voglio parlarti di una cosa di cui oggi parlano tutti:
l’alchimia”, premette Boetti al suo interlocutore nel 197348).
Attraverserà tutto il decennio, guadagnerà sempre più crediti
in tempi di riletture surrealiste, eromperà in termini clamorosi nel successivo, quando sarà la pittura a tornare al centro.
Affiora, intanto, nelle pagine definitive sull’Arte Povera (nel
volume Mazzotta, Celant invoca “l’artista-alchimista”, il
“produttore di fatti magici e meraviglianti”49). Infatua giovani
studiosi ancora in bilico tra storia e militanza (il Maurizio
Fagiolo che nel 1970 licenzia Il Parmigianino, un saggio sull’ermetismo nel Cinquecento). E può anche diventare un appiglio per i detrattori (Candidi naturalisti e apprendisti stregoni, titola Mario De Micheli su “L’Unità” demolendo la
genìa poverista in carica a Gennaio 70 50).
6. Risaliamo parte del decennio scorrendo in velocità
poco di quel molto che nel frattempo andò in scena. Assai
lontane tra loro sul piano della scelta tecnica ed espressiva,
le prove a seguire sembrano invece apparentabili per il dato
esistenziale a tutte sotteso. È un’esistenza allusa, sublimata
o interdetta: comunque sempre confinata entro lo spazio
della metafora antropologica. Flaconcini con arsenico, stricnina, cianuro, nicotina e altre sostanze letali, ognuno munito
di un avvertimento: “Aprire questa busta solo dopo la morte
della persona che avrà assunto il veleno” (Sergio Lombardo,
Progetto di morte per avvelenamento, 1971). Un percorso
iniziatico allestito entro una piramide contenente una
foresta di immagini e oggetti dal richiamo archetipico (Paul
Thek, Ark, Pyramid : la si vede a Kassel nel 1972 in quella
cruciale occasione che fu Documenta V). Calchi del corpo
dell’artista ridotto a brani sui quali si proiettano diapositive
dei particolari anatomici corrispondenti (Giuseppe Penone,
1970-1974: TEMI, PASSAGGI, CONTROPARTITE / FABIO BELLONI
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1216 peli, 1972). Scheletri umani recuperati da scavi archeologici, in frammenti o ricomposti per intero (Carlo Maria
Mariani, Iper/ri/cognizione II, 1973). Presenze mute ma
cariche di risonanze interiori, private dello sguardo e calate
nello spazio sacrale del rito (Ferruccio de Filippi, La sfinge,
il tempio, il tabù dell’incesto, 1973; Eliseo Mattiacci,
Pensare il pensiero, 1973). Foto di interni spogli e semibui
abitati da figure parentali in uno stato di tensione latente.
Le correda una sentenza: “L’uomo sa che prima di annullarsi
non può esimersi dall’introspezione, questa presa di coscienza è l’unico suo alibi: la ragione esasperata porta al
suicidio risolutore, l’’esperienza’ assoluta e definitiva”51
(Michele Zaza, Dissidenza ignota, 1973). Immagini dalla
resa iperrealista, tanto quotidiane quanto minacciose (Michelangelo Pistoletto, La prigione, il suicidio, il pericolo
della morte, l’agguato, il decadimento, gli escrementi, il cimitero, la cattura, 1974). Bacili di vetro allineati su una tovaglia bianca ricamata: ciascuno ospita un rottame di cristallo con il nome di un personaggio storico condannato per
le proprie idee. Le iconografie dell’Ultima Cena e del Battista decollato hanno ispirato il loro autore, che vorrà precisare: “È farsesco ed è tragico, è caramelloso ed è truculento. Il senso sta anche nel fatto che esprime qualcosa di
tremendo. Non ho mai fatto nulla di meno sublimato, di più
greve pur in un guscio così frivolo”52 (Luciano Fabro, Iconografie, 1975). Nell’estate 1974, Colonia ospitò Projekt 74.
Chi ne visitò la sezione più ampia, quella dedicata al Tempo
riscoperto53, si imbattè in una evocazione della necropoli di
Ostia a mezzo di foto, documenti e modellini in terracotta
(Ann e Patrick Poirier, Documentation Isola Sacra, 1973),
oppure in un museo autobiografico composto da lettere, foto
e reperti di ogni sorta (Christian Boltanski, Pour mémoire,
1973) o ancora in sculture di uomini preistorici degne di un
museo di storia naturale (Claudio Costa, Esercizi di antropologia, 1974).
Usciva proprio in quell’anno Il Revival, una antologia di
saggi dedicati alla ripresa del passato, dal neoclassicismo
ai Rosa-Croce, dalla Roma fin de siècle alla Secessione
viennese. Lo editava Mazzotta in contemporanea ai testi
devoti alla linea dell’ultrasinistra; Giulio Carlo Argan ne era
il curatore. Pochi e discontinui erano, allora, i contributi del
professore riservati alla stretta attualità; in compenso, le
incessanti ipoteche sull’arte e sulla sua morte rilanciate da
tutti continuavano a trovare proprio in lui l’interprete più
convinto e autorevole54. Nell’introduzione al volume, Argan
vagliava le ragioni per le quali al presente si preferivano
modelli già collaudati. La scrittura apodittica accompagnava
il biasimo di chi mal tollerava un fenomeno che “pone la
vita come un continuo che non può mai dirsi esperito” e, in
definitiva, cercava la fuga nella storia. In più occasioni
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FABIO BELLONI / 1970-1974: TEMI, PASSAGGI, CONTROPARTITE
pagine di esibito impegno filologico sembravano assumere
toni militanti. “Incapacità o non volontà di saper vivere”,
“atteggiamento rinunciatario”, “insofferenza del presente”,
“sgomento del futuro”55: si parlava del tempo passato per
dire, in realtà, del proprio.
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Ghenos, Eros, Thanatos, a cura di A. Boatto, catalogo della mostra
(Galleria de’ Foscherari, Bologna, novembre-dicembre 1974), Bologna
1974, p. 4.
A. Boatto, intervento senza titolo, in Pascali, nuove sculture, catalogo
della mostra (L’Attico, Roma, dal 29 ottobre 1966), Roma 1966, p.n.n.
Dello stesso autore, cfr. Dall’inerte al vivente, “Marcatre”, nn. 61-62,
s.d. (ma inizio 1971), pp. 79-83; L’immaginario in Pascali e in Kounellis,
“Qui arte contemporanea”, n. 12, novembre 1973, pp. 47-54; L’immaginario e la messa a morte, “Data”, n. 10, inverno 1973, pp. 46-49.
T. Trini, Riprendere di nuovo a volgere la faccia d’Eros verso la nascita
e la fondazione, “Data”, n. 14, inverno 1974, p. 87; E. Sanguineti,
L’arte del corpo, “Paese Sera”, Roma, 5 dicembre 1974; M. Calvesi,
Gli ex-bodyartisti a Milano, “Corriere della sera”, Milano, 12 gennaio
1975; L. Trucchi, Ghenos, Eros, Thanatos, “Momento Sera”, Roma,
19 febbraio 1975; I. Mussa, Ghenos, Eros, Thanatos, “Capitolium”,
n. 11, 1975, p. 91.
Ne è quasi un calco la chiosa di Maurizio Fagiolo dell’Arco (Amore,
morte, illusione, “Paese Sera”, Roma, 3 febbraio 1975) alla coeva
personale di Pistoletto da Sperone: “In questa mostra, troviamo
quattro capitoli di un discorso che ha un tema preciso: la vita. Un
grande reticolato con il classico ‘Pericolo di morte’, una lastra vuota
con appeso un nodo scorsoio, l’artista che spara verso il pubblico,
una serie di quadri con donne e vari atteggiamenti, una gabbia con
una tigre imprigionata. Come dire tutti i passaggi dalla nascita, all’eros, alla costrizione, alla morte. Ed è qui la soluzione del vecchio
problema esistenziale di Pistoletto: i diversi momenti di irrealtà si
collegano in un’unica irrealtà (...). Una mostra come labirinto esistenziale, vissuto con la cerimonialità di un rito antichissimo come la vita
(o la morte)”.
Studi sul surrealismo, atti del convegno, a cura di F. Menna, (Salerno,
marzo-maggio 1973), Roma 1977. Alcuni titoli: Sull’erotismo: Sade,
Bataille, Breton di A. Boatto; Il linguaggio come comportamento
mancato: il senso di colpa, la morte, il suicidio di A. Bonito Oliva; La
tradizione esoterica in Duchamp e nel surrealismo di M. Calvesi,
Artaud e il teatro della crudeltà di A. Mango.
“Art Vivant”, n. 54, dicembre 1974-gennaio 1975.
Cfr. 8 serate sotto il segno dell’Eros, “Le Arti”, n. 11-12, novembredicembre 1974, pp. 36-44.
Sul tema: H. Belting, Antropologia delle immagini, Roma 2013. In dettaglio, cfr. il capitolo Immagine e morte, pp. 173-225.
O. Prokop, W. Weimann (a cura di), Atlas der Gerichtlichen Medizin,
Berlino 1965.
Alcuni di questi lavori oggi si vedono in M. de Candia, P. Ferri (a cura
di), Idee, processi e progetti della ricerca artistica italiana degli anni
‘60 e ‘70, Roma 2011, pp. 150-151.
Cfr. l’intervista all’artista in Giosetta Fioroni. Foto da un atlante di
medicina legale, a cura di A. Boatto, catalogo della mostra (Galleria
Pan, Roma, maggio 1976), Roma 1976, p.n.n.
G. Briganti, Dopo le fate ecco i mostri, “La Repubblica”, Roma, 25
maggio 1976.
F. Menna, Un’arte di entusiasmo, in Arte povera più azioni povere, a
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cura di G. Celant, catalogo della mostra (Amalfi, 4-6 ottobre 1968),
Salerno 1969, pp. 85-88.
T. Trini, Lo spettacolo della nevrosi, “Corriere della sera”, Milano, 10
febbraio 1974.
P. Restany, Libro bianco, Milano 1969 [ma scritto nella primavera
1968], p. 22. Sul tema in generale, cfr. P. De Bruyne, P. Gillen (a cura
di), Community Art. The Politics of trespassing, Amsterdam 2011.
M. Pistoletto, Le ultime parole famose, Torino 1967, p.n.n.
F. Menna, intervento senza titolo alla mostra Al di là della pittura a
San Benedetto del Tronto, gli atti sono in “Op. Cit.”, n. 16, settembre
1969, p. 86.
F. Menna, Profezia di una società estetica, Milano 1968. Sul critico,
cfr. A. Trimarco, Filiberto Menna. Arte e critica d’arte in Italia,
1960/1980, Napoli 2008.
Tra rivolta e rivoluzione a Bologna nel 1972 e la sezione La preposizione ideologica alla X Quadriennale di Roma nel 1973, per
esempio.
Cfr. “Nac”, n. 8-9, agosto-settembre 1971, dove l’inchiesta di Enzo
Mari invitava a “enunciare la propria visione utopizzante dello sviluppo della società” oppure l’”Almanacco Letterario Bompiani 1974”,
uscito nel 1973 e dedicato per intero all’”Utopia rivisitata”.
I documenti di prima mano a riguardo sarebbero copiosi, qui bastino:
G. Celant, Senza titolo, “Domus”, n. 496, marzo 1971, pp. 47-48;
E. Battisti, Una funzione da riscoprire, “Marcatre”, nn. 6-7, s.d. [ma
1971], pp. 76-77; A. Natali, Linguaggio e crisi dell’arte, “L’uomo e
l’arte”, n. 7, dicembre 1971, pp. 3-4; M. Fagiolo dell’Arco, Accademia,
in Critica in atto, atti degli incontri (Roma, 6-30 marzo 1972), a cura
di A. Bonito Oliva, “Centro d’Informazione Alternativa. Quaderno n.
2”, Roma 1973, pp. 70-73. Per una cornice storica, G. Panvini, Ordine
nero, guerriglia rossa. Violenza politica nell’Italia degli anni Sessanta
e Settanta (1966-1975), Torino 2009 e A. Ventrone, “Vogliamo tutto”.
Perché due generazioni hanno creduto nella rivoluzione 1960-1988,
Bari-Roma 2012.
L.Vergine, I chierici continuano a tradire, “Ubu”, n.4, marzo1971, p. 17.
Sulla mostra, cfr. F. Belloni, Approdi e vedette. Amore mio a
Montepulciano, “Studi di Memofonte”, n. 9, pp. 121-165,
www.memofonte.it
A. Bonito Oliva, Amore mio, “In. Argomenti e immagini di design”,
n. 1, settembre-ottobre 1970, p. 96; il corsivo è di Bonito Oliva.
Cfr. soprattutto: A. Bonito Oliva, Il territorio magico, Firenze 1971;
A. Bonito Oliva, L’ideologia del traditore. Arte, maniera, manierismo,
Milano 1976.
M. Blanchot, Lo spazio letterario, Torino 1967; M. Blanchot, Il libro
a venire, Torino 1969.
A. Boatto, Dalla “simulazione” alla realtà, “Che fare”, n. 6-7, primavera 1970, p. 146.
A. Bonito Oliva, Comportamento estetico e comunità concentrata,
“Marcatre”, n. 56, s.d. [ma inizio 1970], pp. 72-73.
M. Calvesi, intervento senza titolo, in Vitalità del negativo, a cura di
A. Bonito Oliva, catalogo della mostra (Palazzo delle Esposizioni,
Roma, novembre 1970-gennaio1971), Firenze 1970, p.n.n.
A. Boatto, Sul comportamento nelle avanguardie storiche: il dandy.
L’esibizione dell’esistente, “Che fare”, n. 10, maggio 1972, pp. 38-41.
A. Boatto, Un Hercule sans emploi (sul comportamento), in Critica in
atto, cit., pp. 26-27.
A. Bonito Oliva, La citazione deviata: l’ideologia, in Critica in atto,
cit., p. 157.
F. Menna, Patografia di un artista, “Data”, n. 1, settembre 1971,
pp. 50-53.
M. Calvesi, Fine dell’alchimia [1970], in Album 9-68/2-71, Roma 1971,
p.n.n.
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Antonio Rossano, “Malinconica Pot”, tartaruga che “corre” fra gl’incubi di Pisani, “Gazzetta del Mezzogiorno”, Bari, 7 luglio 1970.
Su Pisani, cfr. G. Dalla Chiesa, Il plagio di Vettor Pisani e Michelangelo Pistoletto interpretato. Il passaggio da Venere a Meret, da
Meret a Maria, “Arte e critica”, n. 71, giugno-agosto 2012, pp. 7274. Il riferimento all’artista tedesco diventerà esplicito nella personale
presso L’Attico nella primavera 1973: Vettor Pisani. L’Eroe da camera,
tutte le parole dal silenzio di Duchamp al rumore di Beuys. Sulla
fortuna italiana di Beuys resta importante G. Celant, Beuys, tracce
in Italia, Napoli 1978.
Sull’opera, le sue fonti visive e ideologiche, cfr. M. Dantini, Pattini a
rotelle. De Dominicis laicizzato, in ID., Geopolitiche dell’arte, Milano
2012, pp. 117-134.
Cfr. la storia espositiva di queste opere in: M. Disch (a cura di), Giulio
Paolini, catalogo ragionato, II, Milano 2008, pp. 902 e 918. Entrambi
i lavori, peraltro, guadagnarono un’ampia visibiltà dal momento in cui
Tommaso Trini li scelse a corredo di un suo articolo – in “Domus”, n.
487, giugno 1970, p. 56 – dedicato alla XXXV Biennale di Venezia.
Cfr. L’Attico di Fabio Sargentini, a cura di L. M. Barbero e F. Pola,
catalogo della mostra (Macro, Roma, 26 ottobre 2010-6 febbraio
2011), Milano 2010.
Dichiarazione di A. Boatto in Claudio Cintoli, Crisalide, a cura di A.
Boatto, catalogo della mostra (Galleria Il Segno, Roma, primavera
1973), Roma 1973, p.n.n.
Solo un esempio: A. Bonito Oliva, Comportamenti alternativi dell’arte
a Roma, “Capitolium”, nn. 4-5, 1973, pp. 29-38.
R. Barilli, Le persuasioni, “Nac”, n. 37, maggio 1970, p. 12.
M. Calvesi, Contributo alla crisi [1970], in Album...cit., p.n.n.
M. Calvesi, Fine dell’alchimia, cit., p.n.n.
Sul critico, cfr. A. Monferrini, I contributi di Maurizio Calvesi all’arte
contemporanea, in S. Valeri (a cura di), Sul carro di Tespi. Studi di
storia dell’arte per Maurizio Calvesi, Roma 2004, pp. 267-274.
M. Calvesi, testimonianza orale all’autore (Roma, 3 giugno 2013).
Basti un passo della prefazione alla seconda edizione de Le due avanguardie: “La contestazione ha avuto, nei confronti della seconda avanguardia, quello stesso effetto dapprima esilarante e poi mortificante
che nei confronti della prima avanguardia (...). In entrambi i casi,
l’azione politica realizzando almeno apparentemente istanze già promosse dall’avanguardia, è sembrata sottolineare l’importanza di
questa, ma subito dopo l’ha svuotata e ne ha messo in evidenza la
perfetta superfluità del ruolo realizzativo, che è proprio della pura
azione politica e non del suo vagheggiamento estetico” (M. Calvesi,
Le due avanguardie [1966], Bari-Roma 1971, p. 14).
Dichiarazione di Boetti del 1973 pubblicata in A. Bonito Oliva, Dialoghi d’artista, Milano 1984, p. 226.
G. Celant, Arte povera, Milano 1969, p. 225.
M. De Micheli, Candidi naturalisti e apprendisti stregoni, “L’Unità”,
Roma, 26 febbraio 1970.
Citato da Michele Zaza: spazio del verbo essere, “Domus”, n. 533,
aprile 1974, p. 56.
L. Fabro, Attaccapanni, Torino 1978, p. 96.
Al tema, nel marzo 1974, la galleria Bertesca di Genova aveva già
dedicato la mostra Tempo e ricognizione, con opere di B. e H. Becher,
C. Boltanski, C. Costa, Gilbert & George, A. e P. Poirier, G. E. Simonetti,
D. Von Windheim.
C. Gamba (a cura di), Giulio Carlo Argan, intellettuale e storico dell’arte, Milano 2012; in dettaglio cfr. C. Subrizi, Giulio Carlo Argan
negli anni Sessanta. Prospettiva critica, chiusure della storia, pp. 387395. Per un’utile sintesi sul tema della morte dell’arte, cfr. F. Vercellone, Dopo la morte dell’arte, Bologna 2013.
G. C. Argan (a cura di), Il Revival, Milano 1974, pp. 7-33.
1970-1974: TEMI, PASSAGGI, CONTROPARTITE / FABIO BELLONI
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