Untitled - Barz and Hippo
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Untitled - Barz and Hippo
Che legame c'è tra il cinema, Fellini e i … felini? A parte i gatti vivi e morti che attraversano i suoi film, c'è perfino un gatto in All american boys, di Peter Yates, che si chiama Fellini, e che ha dato origine a una certa fortuna del nome per i mici di casa, soprattutto anglosassoni. E sono almeno tre i registi che hanno messo uno o più gatti in un loro film che si ispira o rende esplicito omaggio al grande maestro riminese: Cedric Klapish (Ognuno cerca il suo gatto), Emir Kusturica (Gatto nero e gatto bianco), e ora anche Danis Tanovic. Forse il gatto è, a volte, proprio un modo per richiamare un motivo felliniano per eccellenza: la vitalità e l'imprevedibilità dell'esistenza, la presenza costante di una dimensione di anomalia poetica, perfino quando il tema del film è o dovrebbe essere drammatico. scheda tecnica durata: 113 MINUTI nazionalità: BOSNIA HERZEGOVINA, FRANCIA, GB, SLOVENIA, GERMANIA, BELGIO, SERBIA anno: 2010 regia: DANIS TANOVIC soggetto: IVICA DJIKIC sceneggiatura: DANIS TANOVIC, IVICA DJIKIC fotografia: WALTHER VAN DEN ENDE montaggio: PETAR MARKOVIC costumi: JASNA HADZIMEHMEDOVIC-BEKRIC scenografia: DUSKO MILAVEC, SANDA POPOVAC distribuzione: ARCHIBALD FILM Interpreti: MIKI MANOJLOVIC (Divko Buntic), MIRA FURLAN (Lucija), BORIS LER (Martin Buntic), JELENA STUPLJANIN (Azra), MILAN STRLJIC (Il sindaco Ranko Ivanda), MARIO KNEZOVIC (Pivac), SVETISLAV GONCIC (Savo), ALMIR MEHIC (Bili), ERMIN BRAVO (Fra Ante Gudelj), MIRZA TANOVIC (Antisa). Danis Tanovic Tanović nasce nel 1969 a Zenica (ex‐Iugoslavia), ora in Bosnia ‐Erzegovina, e cresce a Sarajevo. Dopo aver ottenuto il diploma in ingegneria civile, studia pianoforte alla Academy of Theatre Arts e cinema alla Sarajevo Film Academy. Quando Sarajevo viene messa sotto assedio, passa due anni al fronte a fare riprese per l’esercito. Il materiale che Tanović e i suoi colleghi raccolgono durante queste missioni viene utilizzato in molti film e molti servizi giornalistici sulla guerra in Bosnia. Nel 1994, Tanović emigra in Belgio per continuare a studiare cinema alla INSAS e dove inizia a girare cortometraggi e documentari. La guerra nella ex Jugoslavia è al centro del suo primo film, No man’s land (2001). Ambientato nel 1993, No man’s land si aggiudica l’Oscar e il Golden Globe come miglior film straniero, come anche i premi per la miglior sceneggiatura al Festival di Cannes e agli European Film Awards. Dopo il grande successo di critica e pubblico, si aggiudica 40 premi internazionali. Nel 2005 gira il film in lingua francese Hell (L’Enfer), da una sceneggiatura scritta da Krzysztof Kieslowski. Triage (2009) tratta invece dei traumi post‐bellici. Il film, girato in lingua inglese, è interpretato da Colin Farrell nel ruolo del fotoreporter che torna a casa dall’Iraq straziato dalla guerra. la parola ai protagonisti Danis Tanovic: note di regia La guerra prima, durante e dopo Gran parte della mia carriera cinematografica riguarda la guerra e le sue conseguenze. Mentre ero nell’esercito l’ho ripresa per davvero, poi ho girato dei documentari sulla guerra, e quelle esperienze hanno avuto il loro culmine con “No man's land”, il mio primo lungometraggio. Di recente, ho girato “Triage”, un film che parla delle conseguenze della guerra. La storia di “Cirkus Columbia” in realtà finisce prima che inizi la guerra. In un certo senso questi tre film compongono una trilogia personale – rappresentano ciò che accade prima, durante e dopo la guerra. “No man's land” si svolge durante il conflitto. “Triage” dopo e “Cirkus Columbia” prima. Tentare di ricordare Per molto tempo, il periodo prima della guerra apparteneva a una vita che non riuscivo a ricordare. C’era una lacuna nella mia mente quando cercavo di pensare alla mia vita nel periodo che precedeva la guerra. Mi sentivo come se avessi perso quella parte di esistenza. Poi, all’improvviso, qualche anno fa, per nessun motivo particolare, ho iniziato a ricordare. A volte bastava un profumo, il viso di una persona che conoscevo una volta, a volte una scena assolutamente banale. Ho tentato di recuperare quei momenti, collegarli a qualche ricordo, ma si dissipavano così in fretta come erano emersi, lasciando in me una sensazione di solitudine e frustrazione. Leggere il libro “Cirkus Columbia” mi ha riportato, più veloce della luce, al periodo della guerra. La trama non assomiglia affatto alla mia esperienza, ma c’è qualcosa in quel libro che tocca il cuore di ogni bosniaco ed erzegovino. Il libro parla di persone che credevano in modo ingenuo che la guerra non sarebbe mai arrivata qui, di vicini che si aiutano l’un l’altro malgrado rischino la morte, della giovinezza perduta e di nuovi inizi, dell’odio che per un periodo sembrava aver ricoperto tutto e ovviamente dell’amore che non conosce confini. Spero che nell’adattare queste storie per il grande schermo, di aver aiutato altri figli della guerra a ricordare. Negare è umano Ero attratto dall’idea di girare un film ambientato in questo periodo ante-guerra perché m’interessava raccontare la quotidianità delle persone normali nei momenti che precedono i grandi cambiamenti storici, gli uragani della storia. Volevo mostrare quanto fossero inconsapevoli di trovarsi su quella linea sottile tra guerra e pace. Era all’epoca, credo, una convinzione diffusa che la guerra non ci avrebbe toccati – malgrado il fatto che per ogni strada marciava gente con bandiere e fucili. Credo sia una reazione assolutamente umana negare l’evidenza e rifiutare l’idea che arrivino i guai. Ero anche interessato a esaminare come l’uomo ordinario, quello della porta accanto, può diventare una guardia in un campo di concentramento, un torturatore, un assassino. In qualche modo durante quel periodo, in quello spazio buio, succede qualcosa e la gente cambia in modo profondo. La gente comune e buona può rapidamente trasformarsi in persone completamente diverse. Nei panni di un altro Lavorare di nuovo in Bosnia ed Erzegovina, ricreare quel passato in particolare, ha suscitato in me un’intensa nostalgia e mi ha fatto domandare mille perché. Ho vissuto in Bosnia durante il periodo in cui è ambientato “Cirkus Columbia”, quindi conosco la situazione in prima persona. Ma girare il film mi ha dato la possibilità di guardare agli eventi dal punto di vista di altre persone, e quel processo mi ha aiutato ad acquisire una preziosissima perspicacia. Questo è possibile solo se decidi di metterti nei panni di qualcun altro. Decostruire tutte le ragioni astratte per cui si fa la guerra (ideologia, religione etc.) e analizzarle in un modo logico e coerente, permette di capire che le radici di tali conflitti in genere affondano nella gelosia, nell’avidità e nella paura. Riflettere a partire da un punto di vista I miei film tendono a essere contro la guerra, la violenza e il nazionalismo, ma non so se trasmettono un solo specifico messaggio. Sono più complessi. Ma mi fa piacere quando le idee e le emozioni suscitate dai miei film restano con il pubblico e danno loro da riflettere anche molto tempo dopo averli visti. Credo che i miei film dovrebbero rappresentare un punto di partenza per il dibattito, ma non tento di trasmettere dei messaggi. Mostro solo il mondo come lo vedo io. L'altra parte Sono stato contento di lavorare di nuovo nella mia lingua; credo che potrei fare un film in qualsiasi lingua, ma è stato fantastico tornare alla mia... La zona dell’Erzegovina in cui abbiamo fatto le riprese è bellissima. Sono stato felice di riscoprire i paesaggi, le foreste, i fiumi gelidi. È stato un piacere per me tornare lì, non solo per l’estetica del film, ma per poter stare con la gente. Questa parte del mondo sembra senza tempo; purtroppo è anche cambiata molto e in modo irreversibile. A volte mi sembra che nel 1992, quando è caduto il comunismo, stessimo sull’orlo di un enorme abisso e che il resto del mondo guardasse in silenzio dall’altra parte. Siamo stati obbligati a saltare, ma non siamo riusciti a raggiungere l’altra parte. E stiamo ancora cadendo. Intervista a Tanovic: avrei voluto nascere in Svizzera Bosnia Erzegovina, 1991, la guerra sta per esplodere. Divko torna a casa dopo vent'anni di esilio in Germania, e cerca di disfarsi della sua vecchia famiglia. Torna con una Mercedes rossa, una nuova morosa, e Bonny, il suo gatto nero portafortuna. Quando Bonny sparisce, tutta la città si mette a cercarlo, ignorando che sono alle porte di un grande conflitto. Perché tornare al passato? Così suona psicoanalitico! Ho girato No Man's Land perché ho vissuto la guerra. Ho girato L’enfer perché sono diventato padre. Allo stesso modo iniziai a lavorare a Triage, perché mi piace molto parlare dei reporter di guerra, e perché amo Kieslowski. Questa pellicola è nata per fare qualcosa per i miei genitori. Sono nostalgico, probabilmente sto invecchiando. Quanto c'è del libro di Ivica Dikic e quanto di tuo? Il libro è una cronaca meravigliosa di tre anni di vita, mentre il film riguarda solo due settimane. Mi sono innamorato del libro per il gatto nero, ho cominciato a sviluppare i personaggi, poi ho chiamato Dikic e gli ho chiesto di lavorare con me. Alla fine, non so, credo che sia un mix della mia esperienza, la sua, il libro ... Ma la storia è completamente diversa. La guerra ha segnato la tua vita e i tuoi film ... Beh, parlano della guerra, perché è una parte importante della mia vita ... avrei voluto essere nato in Svizzera, ma sono nato in Bosnia, e noi abbiamo grossi problemi lì. Questo è ciò che i miei film riflettono. Non posso, nemmeno se voglio, prescindere da questo. Sei obiettivo quando devi mostrare un'immagine del conflitto? No. L'oggettività non esiste. Chi è oggettivo, tu per caso? C'è una cosa che ogni artista e giornalista dovrebbe essere: etico. Se non hai l'etica non hai nulla, perché l'oggettività non esiste. Hai visto il mio film ... se ti piace (e questa è un'emozione), ne scriverai bene, se non ti piace, scriverai che non ti piace, non importa quello che dico io. È interessante. Questa cosa con i giovani ... i miei studenti, ad esempio, mi fanno arrabbiare quando non hanno un parere. Io voglio la tua opinione, sul serio! "Il film dura 97 minuti, è stato prodotto da ..." Che importa? Dimmi i tuoi sentimenti! Questo è ciò che significa essere umano, avere un'esperienza, riflettere, e dare la propria opinione. Le persone diventano grandi artisti quando dicono come si sentono. Che messaggio intendi inviare al pubblico attraverso i personaggi di "Cirkus Columbia"? Messaggio! Uauuu ... Io non mi considero come Gesù Cristo, no. Io non sono un uomo con una missione ... Non ti sto dicendo come pensare, desidero solo che tu pensi. In un mondo in cui nessuno pensa, in cui prevale il senso del momentaneo ... fermarsi solo per un attimo e pensare a qualcosa è sufficiente. E' un film che in qualche modo ho fatto non per la mia generazione che gli effetti di quella guerra li ha subiti direttamente, ma per i miei genitori e anche per i mie cinque figli. Alla generazione passata vorrei guardare con ammirazione e nostalgia, invidiandole la capacità di vivere in armonia e serenità nonostante le differenze di cultura, religione e credo politico. Allo stesso tempo però Cirkus Columbia è anche un'opera che deve metter in guardia le generazioni future dal rischio del nazionalismo, che non ha mai portato altro se non guerra e orrore, ovunque si sia insediato. Quello che ho passato io non devono mai passarlo i miei figli. Sono arrivato ieri da Sarajevo e sembra che la guerra sia appena finita, le persone hanno ancora paura. Vivo in un mondo che è inquinato dalla presenza della guerra. Come nei film palestinesi o israeliani, si può parlare d’altro, d’amore o di qualsiasi cosa, ma la presenza della guerra si sente sempre. Anche questo film è così. Sono stato contento che il film si potesse vedere anche fuori, ma è anzitutto per quelli del mio paese che parlo: alla fine si vede il cielo azzurro ma io, quando vedo un cielo terso, mi aspetto sempre una nuvola all’orizzonte. Questo volevo ricordare, alla generazione dei miei genitori: avevamo un paese bellissimo, eravamo diversi ma tutti uguali,… il nazionalismo porta solo alla guerra, non porta alcuna soluzione. A meno di non pensare alla “soluzione finale”. Detto questo, credo di stare andando avanti, ho appena scritto una sceneggiatura che è ambientata ai giorni nostri, il che non esclude che in futuro possa tornare a guardare indietro. Mi piacerebbe non vedere le cose come le vedo, ma mi sento sempre più sull’orlo di una guerra che della conquista della pace. Forse perché sono padre di 5 figli, e non voglio vedere i maschi diventare carne da cannone e le mie figlie stuprate o in lacrime per i loro mariti. Magari non riuscirò a superare quello che ho vissuto ma riuscirò a conviverci. È quello a cui aspiro. In ogni caso questo non è solo un film sulla guerra, ma è soprattutto una storia d’amore e anche un film sull’amore per il mio paese e sulla sua belle époque. Nonostante le sfondo drammatico dell'imminente conflitto, Cirkus Columbia è comunque un film più leggero rispetto ai tuoi precedenti lavori: spunti comici, situazioni divertenti sono la base portante della sceneggiatura e dell'interpretazione degli attori, tra cui spicca un grande Miki Manojlovic Si tratta di un lavoro che di sicuro vuol far passare dei messaggi più positivi rispetto al mio cinema precedente. Ho lavorato su toni nuovi per me, penso di aver fatto un film che sarebbe piaciuto a Federico Fellini per la sua atmosfera onirica, un po' surreale, che vorrebbe raccontare con poesia la vita normale delle persone. Ma è un film che vuole anche guardare al presente? Quello che purtroppo è rimasto di quel periodo è l'atmosfera tesissima. Adesso a Sarajevo si respira la stessa tensione, la stessa aria pesantissima di prima del conflitto. Per il resto non volevo fare un film con riferimenti specifici al nostro presente, anche se magari se ne possono trovare al suo interno. La guerra purtroppo si insinua nella nostra cinematografia, come ad esempio in quella di cineasti israeliani o palestinesi: un regista magari vuole realizzare soltanto una storia d'amore, come avrei voluto fare io con Cirkus Columbia, ma il conflitto comunque non può mai essere tenuto fuori del tutto. Pensa che col tempo come uomo e regista riuscirà a superare questa tragedia? Me lo auguro. Adesso ad esempio vorrei realizzare un film che è ambientato ai nostri giorni e con la guerra non c'entra nulla, una sceneggiatura con cui combatto da almeno dieci anni e che potrebbe rappresentare un momento davvero importante per lasciarsi alle spalle tutto questo anche a livello artistico. Quanto è difficile fare un film sulla Guerra in Bosnia? Opere come Underground di Emir Kusturica o il tuo No Man's Land l'hanno dovuta raccontare attraverso situazioni e metafore radicali, mentre altri hanno decisamente fallito. Sinceramente non so perché sia così complicato, ne sono stati fatti molto pochi e alcuni non riusciti. Forse è ancora una piaga troppo recente per parlarne con lucidità. Io ad esempio ho amato Benvenuti a Sarajevo di Michael Winterbottom, ma devo ammettere che era un film davvero troppo ermetico per arrivare al grande pubblico. Hai detto che ti sei innamorato del libro per il gatto ... che storia c'è dietro? Sono una strega! Pratico voodoo di notte! (Ride) Mi sono innamorato del libro per via della gente che cerca il gatto, per questa immagine della guerra in arrivo, mentre un'intera città cerca un gatto ...era così divertente ... ho visto qualcosa di Fellini nel libro. Quando guardo i film di Fellini ritorno alla mia infanzia e con questo libro è stata la stessa cosa: mi ha riportato indietro negli anni. E poi c’è la follia del gatto nero: non voler vedere ciò che sta succedendo attorno a sé ma pensare solo a ritrovare un gatto. La sera prima che scoppiasse la guerra anch’io ero “da un’altra parte”: stavo montando un film con i compagni di scuola e non mi importava nient’altro. E ora? Continuerai a investigare una linea intima e personale? Faccio film che significano qualcosa, non voglio spendere un anno della mia vita lavorando su qualcosa che non mi interessa. Probabilmente è per questo che stanno vincendo dei premi, perché si parla di cose che ti interessano. Recensioni Nicoletta Dose. Mymovies Jugoslavia, 1991. Divko Buntic è un farabutto. Torna nel paese d'origine dopo aver trascorso molti anni in Germania, seguito da un'attraente compagna e un gatto nero di nome Bonny. Con l'appoggio del sindaco, sfratta la ex moglie e il figlio Martin, occupa l'appartamento e comincia a tormentarli per tentare di mandarli via. Ma la guerra serbo-bosniaca-croata è alle porte e i rapporti tra compaesani stanno per cambiare. Così come Divko sta per dare una svolta alla sua vita. Danis Tanovic torna a parlare dei conflitti in terra balcanica. Questa volta, sulla base del libro di Ivica Djikic, sceglie di approfondire il periodo storico che precede la guerra, concentrandosi sulle dinamiche umane di un piccolo paese bosniaco. In tempo di pace, Divko non va incontro alla sua vecchia famiglia, cerca di ricostruire il rapporto con il figlio, abbandonato da piccolo, in un modo del tutto inopportuno, e mostra l'affascinante amante come un trofeo per fare invidia ai coetanei. Quando il micio Bonny – l'unico che ama profondamente - si allontanerà dall'appartamento, anche l'equilibrio perverso che ha creato, si spezzerà definitivamente. E a quel punto i rapporti si mescoleranno creando un'inversione di ruoli atipica e umanamente distruttiva. La caratteristica predominante del film è proprio la commistione di generi che diventa la metafora delle contraddizioni tipiche della guerra: gli amici diventano nemici nel corso di una sola notte. Come la violenza psicologica di Divko mette in subbuglio gli altri personaggi, così il terrore dell'esercito invade le coscienze, deturpandole di solidarietà e compassione. L'ironia con la quale Tanovic descrive la preparazione emotiva al conflitto segna il ritorno al cinema di No Man's Land, dove il regista coglieva il senso tragicomico della violenza, senza renderla ridicola. L'universalità della questione in oggetto è un pregio assicurato dalla rarità di riferimenti espliciti alla politica locale, e da un'intelligente assemblaggio di immagini – come la straordinaria scena finale – che sono contestualizzate ma allo stesso tempo distanti da quella realtà. Non c'è nostalgia né rancore ma solo un grande racconto fatto di piccole persone che, messe alle strette dalla Storia, reagiscono con dignità. La difesa dell'amore gira come la giostra Cirkus Columbia, come un gioco dove il moto ritorna su se stesso ma è tragicamente bellissimo. Alessandra Levantesi Kezich. La Stampa Dopo due titoli (il francese Hell e il britannico Triage) dall'esito non tanto brillante, il bosniaco Danis Tanovic, la cui opera prima No Man's Land aveva conquistato nel 2002 l'Oscar al miglior film straniero, è tornato a girare in patria sul viatico del romanzo Cirkus Columbia del connazionale Ivika Djicik, ritrovando la piena forma. Massacro di Srebenica, assedio di Serajevo: sono eventi lontani per chi nella parte privilegiata dell'Europa si è limitato a seguire sui TG la guerra fratricida che lacerò per tre lunghi anni la Bosnia Herzegovina; ma non per chi quel conflitto l'ha vissuto sulla sua pelle. Tanovic, che il 6 aprile 1993 quando tutto cominciò aveva 23 anni, dice di non aver mai più potuto, da allora, guardare un cielo azzurro senza pensare alla minaccia di una tempesta. E tuttavia in questa deliziosa commedia ambientata nel lasso di tempo fra la caduta del comunismo e lo scoppio della guerra civile, il regista riesce a rievocare con grazia e umorismo proprio quel fuggevole momento della vita in cui ancora si ignora quanto il destino possa rivelarsi crudele. In un paesino del sud dell'Herzegovina approda Divko che era fuggito venti anni prima in Germania per motivi politici. Arriva a bordo di una Mercedes, il portafoglio gonfio di marchi, una graziosa fidanzata, un gatto nero porta fortuna e un gran desiderio di rivincita. Per prima cosa si riappropria della sua casa sfrattando il figlio e la moglie, verso la quale nutre un rancore di cui sapremo la ragione. Tuttavia il giovane Martin è attratto da questa figura paterna che non ha mai conosciuto; e, galeotta la comune ricerca del gatto che una notte è scappato, si scopre anche affascinato dalla sua donna. E' primavera, le acque del fiume scorrono limpide e impetuose, i sensi si risvegliano, le tensioni familiari si accendono, mentre in giro riappaiono le armi e si rispolverano divise e ideologie. Il finale potrebbe essere angoscioso, ma Tanovic lo sospende magicamente in una dimensione di serenità fuori dal tempo che attiene alla mozione di sentimenti tanto forti da poter contrastare il peso della Storia. Nei panni di Divko spicca Miki Manojlovic, interprete straordinario sul doppio registro comico e drammatico; sua moglie è l'eccellente Mira Furlan, che lavora da tempo in USA, Martin è impersonato dall'inedito e convincente Boris Ler. Intorno a loro altri buoni attori, già apprezzati in film di Tanovic e Kusturiza. Fabio Ferzetti. Il Messaggero Brutta storia se hai 18 anni e il tuo miglior amico cerca scuse per prenderti a pugni. Le risse tra adolescenti a volte hanno la vista lunga. Forse quell’amico e vicino di casa non è semplicemente impazzito. Forse c’è nell’aria una guerra, e noi sappiamo benissimo che è così. Ma loro, i personaggi di ‘Cirkus Columbia’, non immaginano cosa sta per accadere. (…) Dopo molti viaggi e due film a metà (‘L’enfer’ , ‘Triage’), il regista di No Man’s Land torna a casa. Con una gran voglia di non perdonare nessuno ma di provare a capire un po’ tutti, o quasi. Ne esce un film malinconico, dolente, non sempre imprevedibile, un poco appesantito dal tempo. Ma ancora capace di concedersi, e regalare, emozione e stupore. Massimo Tria. Nonsolocinema È meglio vivere in una famiglia distrutta in tempo di pace o “approfittare” della guerra per riunire affetti rovinati vent’anni prima? È questo il paradosso che emerge in fondo alla visione del quarto film del bosniaco Tanovic, enfant prodige e vincitore di Cannes e dell’Oscar per il miglior film straniero con il suo esordio No Man’s Land, poi girovago senz’altrettanta fortuna per il mondo cinematografico. Ora, con questo Cirkus Columbia (è il nome di una giostra legata ai ricordi dei protagonisti), torna nella sua Bosnia martoriata, e sembra ritrovare decisamente la sua verve più autentica e toni espressivi a lui confacenti. Basato su un omonimo testo letterario, il film parte piano e forse non proprio con il giusto piglio: poi però si riprende, quanto a ritmo e a intreccio dei personaggi, e Tanovic si barcamena coscientemente fra il quadretto un po’ grottesco di personaggi post-comunisti (siamo nel 1991, appena dopo la caduta dei vari regimi totalitari), e il dramma familiare della famiglia protagonista. Sullo sfondo degli avvenimenti storici che hanno segnato l’Europa di vent’anni fa (la caduta del Muro, la conseguente corsa alla “democrazia”, il ritorno in patria di molti perseguitati e anticomunisti) si dipana fino ad esplodere una vicenda concreta e personale. Aldilà delle specifiche vicende, leggiamo un tentativo solo un po’ schematico, ma in definitiva riuscito, di tematizzare alcuni concetti e opposizioni di più ampio respiro: cosa possiamo considerare davvero la nostra casa, la nostra “patria”? un uomo (e tanto più un intero popolo) può davvero perdonare la violenza inflittagli molti anni prima? cosa spinge un uomo (e, ancora una volta, anche un intero popolo) a trasformare la propria pacifica vita quotidiana in un improvviso inferno bellico e in una caccia al nemico? Se il nemico di oggi (come in questo film e nelle brutali guerre balcaniche) era poi il tuo vicino o il tuo parente di ieri, il motivo del conflitto probabilmente trascende le motivazioni razionali, e va cercato, come fa Tanovic, nella paura immotivata, nell’avidità spicciola, nell’istinto di vendetta e sopraffazione che coglie l’uomo nei momenti di passaggio critico e di stress antropologico. Sebbene non raggiunga la validità metaforica assoluta del suo esordio, né si distingua per la genialità di soluzioni di quella sceneggiatura, qui Tanovic riesce a costruire lentamente e per strati un apologo concreto, una danza continua al confine fra la grassa risata grottesca e la caduta nel dramma più disperato: si ride finché i personaggi si illudono che la normalità ed il buon senso possano avere il sopravvento, si ride finché si crede che la ricerca del proprio gatto disperso sia l’evento più importante della giornata (da cui le gag più esilaranti), si ride ancora della paccottiglia post-titina e del caos politico “balcanico” finché se ne può godere la tutto sommata pacifica quotidianità; si smette di colpo di ridere però se solo si pensa quanto fosse vero che da un momento all’altro i cittadini jugoslavi dovettero aprire gli occhi e scoprire che la Guerra era davanti ai cortili delle loro case, con i volti dei colleghi di lavoro e degli amici di bevuta della sera precedente. La banalità del male e della violenza? Forse, ma anche (ed è qui che, ovviamente, l’arte può e deve fare il suo tentativo catartico) una paradossale lezione di “messa in prospettiva” e di capovolgimento: la famiglia di Divko, tormentata da atavici odi e incomprensibili ripicche di poco conto si ricompatta proprio “grazie” alla guerra. Come dire: di fronte ai bombardamenti un tradimento coniugale si può ben perdonare…A parte le battute e la necessaria ellitticità drammaturgica nell’evoluzione dei personaggi, Tanovic riesce comunque a farci credere che una ricomposizione sia possibile, non solo fra marito e moglie, animati in fondo da risibili ripicche, ma anche fra popoli che potrebbero ritrovare una piattaforma di dialogo se solo mettessero una sordina ai sentimenti irrazionali cui si accennava sopra: paura, gelosia e avidità. Uno dei pochi film post-jugoslavi che non mostra la guerra, ma il “prima”: anche per questo, lode a Tanovic. Gian Luigi Rondi. Il Tempo Tanovic e le guerre nei Balcani. Prima con "No Man's Land", poi con "Triage" e adesso con questo film che, sulla scorta di un romanzo, tende a descriverci i prodromi di quelle guerre: in Bosnia Erzegovina nel '91. Con armi ed armati solo nelle sequenze finali e con il fumo di una cannonata unicamente al momento di concludere, sapendo tutti ormai quel che sarebbe successo dopo. Al centro, così, soprattutto casi privati, con il ritorno di Divko, con una giovane amante e un gatto al fianco, pronto, dopo un'assenza di vent'anni in fuga dal regime comunista ormai finito, a riprendersi la sua casa anche se ancora la abitano la moglie e il figlio, subito però sfrattati. Da qui il resto. Con Divko che, grazie ai tanti soldi fatti in Germania, la fa da padrone in città, non tardando a piegare ai suoi voleri i nuovi dirigenti militari e politici. Con un sovrapporsi di varie complicazioni cui, al momento meno opportuno, si aggiunge un improvviso innamoramento tra l'amante di Divko e suo figlio, mentre, di sfondo, cominciano a sentirsi gli echi di quelle guerre che lì presto insanguineranno tutto. Pur accettando una conclusione quasi onirica che, piuttosto ottimisticamente, vedrà Divko e sua moglie, messi in salvo dalle bombe tutti gli altri, affidarsi lietamente ad una giostra di quel circo Columbia cui il film deve il suo titolo… L'ottimismo del finale evita comunque il facile, perché Tanovic privilegia sempre il realismo asciutto anche quando disegna personaggi spesso sopra le righe, in cornici che, tra città e campagna, riescono a mantenere sempre sapori quotidiani, dando sì spazio ai sentimenti, agli equivoci, alle sorprese ma privilegiandovi in mezzo ora l'ironia, ora, con notazioni polemiche, addirittura il sarcasmo: perché lo spettatore, anche quando finisce per essere coinvolto, sia aiutato a tenere le distanze, così da vincere, anche nei momenti più scoperti, ogni rischio di emozione. Il merito è anche di Miki Manojlovic, la cui maschera dura e forte si è imposta da tempo in molti film di Kusturica, di Garbarski ("Irina Palm"), di Montaldo ("I demoni di San Pietroburgo"). Gli dà felicemente la replica Mira Furlan, reduce anch'essa dal cinema di Kusturica, ma attiva ormai da anni anche negli Stati Uniti, sia al cinema sia in teatro. Marco Chiani. Il Fatto quotidiano Dopo aver sfrattato la moglie e il figlio con la complicità del sindaco, Divko Buntic bacia la soglia della sua casa di famiglia. Poco più tardi entra in cucina, toglie il coperchio da una pentola che bolle e assaggia. Manca del sale, lo aggiunge. Niente di più normale, se non fosse che l’uomo attraversa quelle stanze dopo vent’anni passati a lavorare in Germania. Per lui non è cambiato nulla, del resto quel piccolo paesino dell’Erzegovina in cui torna, a bordo di una Mercedes che fa invidia ai compaesani almeno quanto la sua giovane compagna, è lo stesso in cui è nato, il porto sicuro in cui trascorrere una vecchiaia agiata a coccolare il suo gatto portafortuna. Tra Divko e Lucija, la moglie che non vede da allora, nessun dialogo, solo la polizia che trascina via di forza la donna. E poi Martin, il figlio ventenne che per dispetto spacca con una sassata il vetro della camera da letto in cui dorme il padre. Da oggi nelle sale (distribuito in venti copie da Archibald), Cirkus Columbia di Danis Tanovic torna a liberare la brezza di quel gusto irriverentemente slavo proprio del miglior Kusturica – cui rimandano anche i bravissimi Miki Manojlovic e Mira Furlan, già in coppia nel suo Papà… è in viaggio d’affari (1985) –, accompagnando lo spettatore dentro al ritratto di un mondo paesano attendibile fin nelle sue sfumature; soprattutto in un colpo d’occhio in cui la memoria si confonde con l’affetto: il bagno al fiume, il bar al centro, il cibo, la pace di una giornata assolata. Dopo l’ottima opera prima No Man’s Land, una mediocre come L’enfer e un’altra appannata come Triage, il bosniaco Tanovic dimostra di essere all’altezza di una fama, negli anni, sempre più legata a quel folgorante esordio che meritò una montagna di premi tra cui l’Oscar come miglior film straniero. Cirkus Columbia non è No Man’s Land, ma riesce parimenti a dimostrare l’insensatezza della guerra, riflettendo con nostalgia sull’attimo prima dell’esplosione, quando il dialogo avrebbe potuto evitare l’assurdo incontro tra due soldati bosniaci e uno serbo nella trincea di una terra di nessuno. Come ha avuto modo di dire il regista, questa nuova pellicola racconta “l’ultimo momento in cui siamo stati davvero felici”, la vigilia di una tragedia che ha messo l’uno contro l’altro gli amici e i fratelli. Attraverso la storia di una famiglia a pezzi, Cirkus Columbia mostra l’innesco della bomba che ha dilaniato i Balcani all’inizio degli anni Novanta, procedendo verso un cadenzato e credibile incupimento dei toni fino ad un finale poeticamente tragico e di difficile interpretazione. Ispirato ad un romanzo del giornalista e scrittore Ivica Djikic, pubblicato in Italia da Zandonai, il bel film di Tanovic è una preghiera per il futuro, un invito al dialogo pieno di affetto verso una terra che non potrà più essere la stessa.