verita` il coraggio di chiamare le cose col loro nome

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verita` il coraggio di chiamare le cose col loro nome
VERITÀ: IL CORAGGIO DI CHIAMARE LE COSE COL PROPRIO NOME
Davide era un uomo stimato, potente, bello, intelligente: era il Re d’Israele.
Un giorno, passeggiando nei giardini del suo palazzo, vede una donna sul terrazzo della sua casa
che faceva il bagno. La donna era molto bella. Si ferma a guardarla a lungo, pensando non ci sia
niente di male, nel guardare una donna, anche se non è la tua. Vuole sapere di più.
Manda degli uomini a chiedere informazioni su di lei. In fondo non c’è niente di male nel voler
sapere qualcosa di più su una donna, anche se non è la tua. Gli informatori tornano dicendo che si
chiama Betsabea ed è la moglie di Urìa, uno dei migliori comandanti dell’esercito del Re che in
quel periodo si trova in battaglia.
Non ancora contento, Davide manda a chiamare la donna, dicendo che vuole passare un
pomeriggio in sua compagnia per fare quattro chiacchiere. “Che male c’è nel parlare del più o del
meno con una donna, anche se non è la mia”, pensa. Così succede per due o tre volte, fino a
quando Davide, un giorno, la fa sua.
Dopo qualche giorno Betsabea manda a dire a Davide: “Aspetto un figlio, e il figlio è tuo”.
A quel punto Davide comincia a preoccuparsi: “Io, il Re, non posso permettere che questa notizia
venga diffusa, non posso perdere la stima che ha di me la gente e la mia credibilità”.
Cerca un modo per venire fuori da questa situazione e decide di far tornare Urìa dalla guerra
almeno per una notte, in modo da far credere a tutti che il figlio è suo. Non c’è niente di male nel
cercare di non macchiare la figura del Re. Ordina di farlo mangiare e bere a sazietà e di mandarlo
da sua moglie e di giacere con lei. Dal momento che questo era contrario alle leggi di guerra, Urìa
non entra in casa e dorme fuori.
Quando Davide lo viene a sapere si agita sempre più, cerca un’altra soluzione e si dice che, algi
occhi della gente, è normale morire in battaglia: ordina che Urìa venga mandato in prima linea, nel
cuore del combattimento. Quella notte Urìa muore sotto spada nemica. Davide sposa Betsabea e
la gente non fa altro che esaltare la magnanimità del Re che prende con sé la vedova e il figlio che
sta per nascere.
Un giorno Natan, il profeta, si reca al palazzo di Davide.
“Caro Re, devo condividere con te un fatto che mi ha molto turbato. Vorrei un tuo parere. Un uomo
aveva cento pecore e viveva accanto ad un poveretto che ne possedeva solo una. Un giorno si
reca da lui un amico che non vedeva da molto tempo. Decide di invitarlo a pranzo e di nutrirlo con
un pasto a base di carne di pecora. Manda uno dei suoi servi dal suo vicino e gli fa portare via
l’unica pecora che aveva”. Davide si infuria: “Come ha osato, quell’uomo, portare via al vicino
l’unica pecora che aveva, lui, che ne possedeva cento? Ha fatto un grave errore e deve essere
punito. Dimmi, chi è stato?”. Gli risponde Natan: “Quell’uomo, Re Davide, sei tu”.
Davide crolla. Nella foga aveva estratto la spada e la brandiva come se avesse davanti una folla di
nemici. La rimette nel fodero, triste e sconsolato. “È vero, quell’uomo sono io, ho fatto esattamente
così nei confronti di Uria”. Si coprì il capo di cenere e fece penitenza.
Forse Davide è arrivato fino a quel punto perché non ha avuto il coraggio della verità nelle
piccole cose, ha cercato di coprire con bugie sempre più grandi azioni che sapeva sbagliate,
pensando che l’importante fosse salvare la sua immagine. Non ha avuto il coraggio di chiamare le
cose col proprio nome. Per fortuna ha incontrato Natan, che l’ha aiutato a riconoscere la Verità.