COSE DI QUESTO MONDO (tit. orig: “In this world”)

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COSE DI QUESTO MONDO (tit. orig: “In this world”)
COSE DI QUESTO MONDO (tit. orig: “In this world”)
Regia: Michael Winterbottom – sceneggiatura: Tony Grisoni – fotografia: Marcel Zyskind – montaggio: Peter Christelis –
musica: Dario Marianelli – interpreti: Jamal Udin Torabi (Jamal), Enayatullah (Enayat) – distribuzione: Mikado – durata: 90’
– origine: Gran Bretagna, 2002
IL REGISTA. Michael Winterbottom nasce in Inghilterra il 29 marzo 1961. Dopo essersi laureato in Lingua e
Letteratura inglese ad Oxford, intraprende gli studi di cinematografia, ed in seguito inizia a collaborare stabilmente
per diverse emittenti TV, tra cui la prestigiosa BBC. Debutta sul grande schermo nel 1994 con BUTTERFLY
KISS, cui fanno seguito GO NOW (1996), JUDE (1996), BENVENUTI A SARAJEVO (1997), WITH OR
WITHOUT YOU (1999) e LE BIANCHE TRACCE DELLA VITA (2000).
IL FILM. COSE DI QUESTO MONDO (il titolo originale, “In this world”, è forse più appropriato e meno paternalistico)
affronta con grande coraggio e bravura una realtà estremamente drammatica e attuale, quella dei profughi che vagano per il
mondo in cerca di una vita migliore. Con la speranza, ha dichiarato il regista, “che il pubblico si renda conto che queste
persone fanno un’enorme fatica per arrivare fino alle nostre città, attraversano sofferenze di ogni genere, e dovrebbero essere
accolte, non respinte”. Il progetto del film nasce prima dell’11 settembre 2001, quando il regista resta particolarmente colpito
dalla morte di una cinquantina di cinesi che tentavano di raggiungere la Gran Bretagna. Il soggetto nasce dalle testimonianze di
numerosi profughi, che vengono rielaborate dallo sceneggiatore Tony Grisoni, e le riprese iniziano in concomitanza con
l’intervento occidentale in Afganistan. Il film rappresenta un singolare intreccio di finzione e realtà: non c’è nessun attore
professionista; le immagini sono ottenute con piccole videocamere digitali che danno l’impressione del documento di tipo
amatoriale e consentono di riprendere in continuazione per otto o nove ore; non esiste illuminazione artificiale e i dialoghi sono
per lo più in afgano. Ed infine – cosa veramente incredibile – il giovane interprete e protagonista del film, Jamal Udin Torabi,
un vero profugo afgano di Peshawar, finite le riprese e fatto ritorno in Pakistan, ha compiuto di nuovo l’incredibile viaggio
descritto dal film ed è riuscito ad arrivare veramente in Inghilterra. Ora vive a Londra, ma, non avendo ottenuto il
riconoscimento di rifugiato politico, verrà espulso dal Paese al compimento del diciottesimo anno di età.
COSE DI QUESTO MONDO ha ottenuto l’Orso d’Oro al Festival di Berlino in un’edizione che portava il
titolo “Verso la tolleranza”.
LA VICENDA. Siamo in Pakistan. Vicino alla città di Peshawar esiste un campo di profughi provenienti dall’Afganistan. Due
di questi, il sedicenne Jamal e suo cugino più grande Enayat decidono di emigrare a Londra. Dopo aver pagato una somma
consistente ad un’organizzazione che si occupa di espatri clandestini, i due intraprendono il lungo viaggio. Arrivano in treno a
Quetta e, dopo aver superato un posto di blocco, riescono ad entrare illegalmente in Iran. Durante un controllo, i due giovani,
trovati privi di documenti, vengono rispediti in Pakistan. Da qui, dopo aver sborsato altri soldi, ritentano l’avventura e riescono
a raggiungere Teheran. S’inoltrano poi sui monti innevati del Kurdistan e, con grande difficoltà, penetrano in Turchia. Ad
Istanbul lavorano un po’ in una fabbrica e fanno conoscenza con altri profughi, tra cui due genitori curdi che, con il loro
figlioletto neonato, cercano di raggiungere la Danimarca. Rinchiusi con altri in un container che viene caricato su una nave
diretta a Trieste, affrontano un viaggio terribile e drammatico: solo Jamal e il neonato sopravvivono. Jamal vive di espedienti
e, rubando una borsetta, trova i soldi per arrivare a Parigi e poi a Sangatte. Qui trova un altro compagno, Yusif, col quale riesce
a nascondersi sotto un Tir diretto in Inghilterra. Jamal giunge finalmente a Londra. Telefona ai parenti per rassicurarli e va in
una moschea a pregare per il cugino morto.
IL RACCONTO, con struttura lineare, scandisce la vicenda in alcuni grossi blocchi narrativi che si concludono quasi sempre
con delle dissolvenze in chiusura, dando così l’idea del passare del tempo.
Dal punto di vista strutturale e tematico prendono rilievo tre parti, di diverso peso narrativo, dalla cui connessione scaturisce
l’idea centrale del film: - la situazione di partenza
- il viaggio
- l’esito del viaggio
1.
LA SITUAZIONE DI PARTENZA. Il film inizia con un canto dolente, che fa già intuire un preciso risvolto tematico. Una
didascalia precisa che ci troviamo in un campo di profughi afgani alla periferia della città di Peshawar, in Pakistan, nel
febbraio del 2002. La voce fuori campo, che è presente in due momenti distinti, spiega la situazione di sradicamento che
spinge tante persone ad affrontare viaggi lunghi e pericolosi e, nel contempo, addita precise responsabilità: “53.000
profughi afgani vivono nel campo di Samsatu, vicino alla città di Peshawar in Pakistan. I primi profughi arrivarono nel
1979, dopo essere fuggiti dall’invasione sovietica del loro Paese. Di recente invece sono fuggiti dai bombardamenti
guidati dagli Stati Uniti, che hanno avuto inizio il 7 ottobre 2001”. Poi, mentre le immagini mostrano i volti curiosi e
sorridenti di numerosi bambini, prosegue: “Molti di questi bambini sono nati qui, come Jamal. Jamal è un orfano che
lavora in una fabbrica di mattoni. Riceve una paga inferiore a un dollaro al giorno. Si calcola che sono stati spesi 7
miliardi e 900 milioni di dollari per bombardare l’Afganistan nel 2001. La spesa che riguarda i profughi è di gran lunga
meno generosa. La razione quotidiana di cibo è composta di 408 grammi di farina di grano, 25 grammi di olio vegetale e
60 grammi di legumi. Ad ogni famiglia vengono dati una tenda, un telo di plastica, tre coperte e un fornello”. Dopo aver
mostrato alcune scene di vita quotidiana, le immagini indugiano sulle trattative con i mercanti di uomini fino al
raggiungimento dell'accordo sul prezzo da pagare. La voce fuori campo conclude: “14 milioni e mezzo di profughi al
mondo. Oltre cinque milioni vivono in Asia. Quasi un milione di profughi vive a Peshawar: molti di loro vorrebbero
andarsene. Ogni anno un milione di persone in questo mondo mette la propria vita nelle mani dei trafficanti di uomini.
Alcuni arrivano sani e salvi a destinazione. Molti vengono catturati dalle autorità. Alcuni muoiono lungo il viaggio”. Già
da queste parole risulta evidente l'intenzione universalizzante del regista che, pur partendo da una storia particolare,
vuole parlare di tutti i profughi che esistono al mondo.
2.
IL VIAGGIO. Il viaggio è senza dubbio il tema principale del film. È un continuo andare, correre, scappare, con la
speranza di farcela. Tutto il corpo centrale del film è in funzione del viaggio di Jamal e di Enayat, di cui si sottolineano
alcuni aspetti particolarmente significativi. Innanzitutto le didascalie precisano tempi e luoghi, e la sovrimpressione di
carte geografiche indica il tortuoso e difficile percorso che i due devono compiere. La videocamera digitale è spesso a
mano. A volte traballa, per dare l'idea della precarietà. Spesso riprende immagini “in soggettiva”, mettendosi dal punto di
vista dei due profughi. Inoltre l'uso della tecnica digitale e la mancanza di luce artificiale portano spesso a trasformare il
ritmo delle immagini, che a volte vengono rallentate o “sgranate”; mentre il ricorso ai raggi infrarossi produce singolari
effetti che danno il massimo di realismo e, nel contempo, di drammaticità.
Il viaggio è irto di difficoltà. A parte il costo iniziale, è necessario attraversare senza documenti vari Paesi, con il rischio
costante di essere scoperti e ricacciati indietro, come avviene la prima volta in Iran. I due profughi sono continuamente
costretti a cambiare soldi, vestiti, a mimetizzarsi il più possibile rinunciando alla propria identità, con la speranza di non
essere riconosciuti come afgani. Non esiste mezzo di trasporto che non venga utilizzato: dall'andare a piedi inerpicandosi
sulle impervie montagne del Kurdistan, fino al servirsi di automobili, pullman, furgoni, jeep, autocarri, navi, treni, ecc.
C'è inoltre la rete degli intermediari, che appaiono all'improvviso e altrettanto facilmente scompaiono. Alcuni di loro
tengono fede agli impegni presi e sono veramente d'aiuto ai nostri due giovani. Altri invece se n'approfittano, cercando di
spillare altri quattrini senza una giustificazione plausibile. Infine c'è il pericolo incombente dei posti di blocco e dei
controlli, che è necessario eludere, magari regalando qualcosa ai funzionari, come fa fin dall'inizio Jamal con il walkman
di Enayat. Nonostante tutte queste difficoltà, i due giovani proseguono imperterriti il loro viaggio, con grande coraggio e
determinazione, aiutati anche da qualche gesto di solidarietà e di amicizia. Si vedano in proposito la bella accoglienza e
l'aiuto sincero che essi ricevono in quel villaggio sperduto sui monti del Kurdistan e l'amicizia che nel finale sboccia tra
Jamal e Yusif. Anche un po' di umorismo (le barzellette raccontate da Jamal) è molto importante per affrontare con spirito
forte e sereno i disagi e i pericoli. Ma purtroppo il dramma è sempre in agguato. Durante il terribile viaggio da Istanbul a
Trieste, i due giovani vengono chiusi, assieme ad altri profughi, in un container. Ad un certo punto manca l'aria, ma le
urla di questi disperati non vengono sentite da nessuno. Quando la nave giunge a Trieste e viene aperto il container, i
portuali si trovano di fronte ad uno spettacolo agghiacciante: solo Jamal e il neonato curdo sono rimasti in vita.
3.
L'ESITO DEL VIAGGIO. Quando, dopo varie altre traversie, Jamal giunge finalmente a Londra, telefona ai propri parenti
per informarli del suo arrivo e della morte di Enayat. Egli sembra smarrito e disorientato. Significativamente le immagini
ritornano al villaggio di partenza e ci mostrano, per contrasto, i volti sorridenti e sereni dei bambini che sono rimasti là. I
colori sono particolarmente caldi, a indicare una vita povera, ma autentica e genuina. Poi, con lo stesso
accompagnamento musicale, si ritorna a Londra: i colori sono più smorti e freddi.
È chiara l'indicazione tematica: ne valeva la pena? Questo Occidente tanto sognato e mitizzato, che tipo di vita conduce e che
cosa può offrire a un giovane profugo afgano? Jamal si reca nell'unico posto che gli permette di ritrovarsi, una moschea,
dov'egli può pregare nella sua lingua. Ma la sua preghiera è affannosa e concitata. Mescolando finzione e realtà, l'autore, con
una didascalia, avverte: “ Il 9 agosto 2002 la richiesta di asilo di Jamal Udin Torabi è stata rifiutata. Gli fu tuttavia concesso in
via eccezionale il permesso di entrare ed ora vive a Londra. Dovrà lasciare la Gran Bretagna il giorno prima del suo
diciottesimo compleanno ”. È chiaro che la didascalia si riferisce non al personaggio del film, Jamal, ma all'attore che lo
interpreta, Jamal Udin Torabi che, come si è detto all'inizio, dopo la lavorazione del film, è emigrato veramente a Londra.
Aggiungendo questa didascalia però, l'autore conferisce al film un ulteriore significato: l'Occidente non solo delude, ma
anche respinge chi ha tanto faticato e rischiato con la speranza di una vita migliore. Il film si conclude con i titoli di coda,
mentre prosegue il “rumore” inquietante della preghiera ossessiva di Jamal, e si ode una musica dolente. Lo sfondo sembra
essere costituito da dei muri scrostati che cambiano colore, probabilmente a indicare la varietà dei Paesi che vengono
attraversati dal protagonista che, appunto, si trova sempre di fronte a dei muri che lo respingono e ne rendono arduo il
cammino.
Concludendo, si può dire che il film denuncia l'ingiustizia che dà origine ai campi profughi, creando una situazione di
sradicamento che porta milioni di persone a sperare e a rischiare. Speranza che diventa disillusione: per il prezzo pagato (in
termini di sofferenze e di vite umane), per lo squallore della nuova realtà e per il rifiuto che molto spesso ne consegue.
OLINTO BRUGNOLI