Il pensiero economico di Melchiorre Delfico

Transcript

Il pensiero economico di Melchiorre Delfico
IMPRESA
Liberalismo delle regole e libertà economica
Il pensiero economico
di Melchiorre Delfico
Flavio Felice – Presidente Centro Studi Tocqueville-Acton e Professore ordinario di Dottrine Economiche e politiche
alla Pontificia Università Lateranense
“Quegli che avrà tolto dal vocabolario civile le parole Dazj, Dogane, Tariffe
ecc.: quegli che avrà distrutto il gran laberinto, dove tanto mostri divorano le
nazioni nel dettaglio: quegli che stabilirà per principio che ogni coazione
economica è un tocco venefico per la società, avrà la gloria di avere assicurato
all’umanità una verità fondamentale, e la vera prosperità delle nazioni”
Introduzione
Melchiorre Delfico è stata una
figura di spicco dell’illuminismo
italiano napoletano della seconda
metà del Settecento e sebbene la
sua opera a molti sia apparsa priva di forti elementi di originalità
teorica, gli andrebbe riconosciuto
il merito di aver tentato di rispondere ad alcune questioni aperte del
suo tempo e necessarie alla modernizzazione del suo territorio,
attingendo ad un bacino di idee
estremamente ampio e ricco, andando ben oltre i confini segnati
dai suoi maestri e dai più noti e
studiati autori a lui contemporanei.
Egli espone le argomentazioni
sostenute dai fautori della libertà
economica del suo tempo – non
così diffusa né tra gli illuministi
della scuola lombarda né tra i
maestri della scuola napoletana,
stando al severo giudizio di Francesco Ferrara1 –, offrendoci una
sintesi preziosa delle tesi dibattute
dai grandi riformatori italiani alla
Pietro Verri, alla Ferdinando Paoletti, alla Gian Francesco Pagnini
ovvero alla Gennaro Cantalupo. In
estrema sintesi, di PietroVerri condivise il principio in forza del qua-
64
le la ricchezza pubblica è funzione
dell’aumento della riproduzione ed
esso dipende in buona sostanza da
un regime di assoluta libertà commerciale; del Paoletti fece proprio
l’assioma che “Abbondanza e vil
prezzo non forma ricchezza; carestia e caro prezzo fa miseria; abbondanza e caro prezzo produce ricchezza”; la ricchezza sarebbe, dunque, il prodotto di una piena e perfetta libertà di commercio; del Pagnini assunse l’idea che chi intralcia il commercio finisce per danneggiare se stesso, condannandosi
alla tirannia, e del Cantalupo condivise l’idea che il sistema delle restrizioni, dei fidecommessi, dei
maggiorascati e delle manomorte
non producono altro che miseria.
Giuseppe Pecchio, nella sua
Storia dell’economia pubblica in
Italia, edita nel 1829 a Lugano2, sostiene che la differenza tra gli economisti napoletani e quelli lombardi è tale che non sia possibile
non rimarcare che esistono almeno due scuole distinte che interessano l’economia pubblica italiana
del Settecento. Se negli economisti lombardi si scorge maggiore
precisione e senso pratico, il Pecchio rileva nella loro opera una
scarsa originalità e una profonda
N. 77-78/11
sudditanza rispetto agli autori
stranieri, in particolar modo francesi. Al contrario, scrive il Pecchio:
“Nei napoletani si ravvisa diffusione, prolissità, sovrabbondanza. Il
lombardo è un fiume che corre fra
le sue sponde; il napoletano è un
torrente che straripa, inonda i vicini campi, finché l’occhio più non
scerne il suo corso. Ma in compenso i napoletani hanno un carattere nazionale, più indipendenza, e
originalità. I lombardi sono proclivi a citare libri francesi; i napoletani a citare libri spagnuoli, e soprattutto inglesi”.
Con il presente intervento s’intendono evidenziare alcuni passaggi chiave del pensiero economico del Delfico, tentando di approfondire quei concetti che rendono
la pubblicistica del filosofo teramano un esempio di come la sua
riflessione economica – non certo
sistematica – fosse attenta ai grandi dibattiti dell’epoca e portatrice
di felici intuizioni che possono
rappresentare ancor oggi un importante punto di riferimento nel
discernimento dell’azione politica, ispirata ad una prospettiva riformatrice e liberale.
PROSPETTIVA
•P E R S O N A•
IMPRESA
La vita3
Melchiorre Delfico nasce il primo agosto del 1744 a Leognano di
Montorio, da Berardo Delfico e
Margherita Civico, una famiglia
nobile teramana. Melchiorre sarà
l’ultimo di tre figli.
Nel 1755, quasi undicenne, insieme ai fratelli Gianberardino e
Gianfilippo, è condotto dal padre
a Napoli per completare e approfondire l’educazione. I suoi maestri sono Gennaro Rossi, Pasquale
Ferrigno e Antonio Genovesi.
Educato alla scuola dell’Illuminismo napoletano, entrò presto a far
parte del movimento riformatore.
Nel 1768, su incarico di Ferdinando de Leon, avvocato della Corona, scrive Intorno ai diritti dei
Sovrani di Napoli sulla città di Benevento e il Saggio istorico delle ragioni dei Sovrani di Napoli sopra la
città d’Ascoli d’Abruzzo, oggi nella
marca. Nel frattempo si ammala
ed è costretto a tornare nella sua
città natale. Sarà questo il momento in cui deciderà di svestirsi dell’abito talare sino ad allora indossato.
Nel 1774 muore il padre e pubblica a Teramo il Saggio filosofico
sul matrimonio ed è del 1775 l’opera Indizi di morale. Delle due opere, che evidenziano gli influssi di
Locke e degli enciclopedisti francese, la prima fu messa all’Indice e
la seconda sequestrata durante la
stampa.
Nel 1782 inizia ad occuparsi in
modo prevalente dei problemi locali, divenendo presso la corte il
portavoce degli interessi della sua
provincia. Nel 1783 scrive il primo
saggio che investe direttamente
una problematica economica: la
Memoria sulla coltivazione del riso
nella provincia di Teramo. In questo lavoro affronta il problema della salubrità delle coltivazioni e di
una loro migliore organizzazione.
Gli anni che vanno dal 1785 al
1790 sono quelli nei quali si fa più
intensa la sua polemica antifeudale e in cui maturano le sue più decise proposte riformatrici. Non
PROSPETTIVA
•P E R S O N A•
dobbiamo dimenticare che la cultura di governo prevalente tanto
nel Sud quanto nel Nord Italia era
improntata alle teorie mercantilistiche e per timore delle carestie
prevaleva un rigido sistema di vincoli annonari. Fece eccezione il
Gran Duca di Toscana Pietro Leopoldo I che tra 1765 il 1790 liberalizzò il commercio dei grani, sotto
la spinta dei riformatori toscani
Bandini e Paoletti i quali influenzarono profondamente il Delfico.
Nella Memoria sul Tribunal
della Grascia e sulle leggi economiche nelle province confinanti del Regno (1785), sottopone a critica il
sistema doganale vigente tra
l’Abruzzo e lo Stato pontificio. Gli
ostacoli al commercio derivanti
dalla disparità dei pesi e delle misure vengono trattati nella Memoria sulla necessità di rendere uniformi i pesi, e le misure del regno
(1787).
Successivamente pubblica: il
Discorso sul Tavoliere di Puglia e su
la necessità di abolire il sistema doganale presente, e non darsi luogo
ad alcuna temporanea riforma
(1788); la Memoria per la vendita
dei beni dello Stato d’Atri (1788);
la Riflessioni su la vendita de’ feudi
(1790) e la Memoria per l’abolizione o moderazione della servitù del
pascolo invernale detto de’ Regi
Stucchi nelle provincie marittime
d’Apruzzo (1790). In questi scritti,
il Nostro sostiene la necessità dell’abolizione dei privilegi feudali,
l’ampliamento della libertà del
commercio, dello sviluppo dell’agricoltura attraverso l’abbandono della pastorizia e la creazione
di una libera proprietà contadina.
Nel frattempo, nel 1788, recatosi a Pavia, conobbe Alessandro
Volta, Lorenzo Mascheroni e Lazzaro Spallanzani; raggiunta Milano incontrò Cesare Beccaria e i
fratelli Pietro e Alessandro Verri.
Nel 1789 tornò a Napoli.
Gli avvenimenti della Rivoluzione francese hanno mutato il clima napoletano. Gli intellettuali illuministi vengono guardati con
sospetto. Delfico alterna la sua perN. 77-78/11
manenza tra Napoli e Teramo. Nel
1791 scrive una Memoria sull’importanza di abolire la giurisdizione
feudale e pubblica le Ricerche sul
vero carattere della giurisprudenza
romana e de’ suoi cultori.
Nel 1795 parte per Roma dove
diventa amico del cardinale Stefano Borgia, si reca poi a Firenze dove incontra Ippolito Pindemonte.
All’approssimarsi delle truppe
francesi, la famiglia Delfico è imprigionata nel proprio palazzo.
Occupata Teramo, i francesi liberano Melchiorre e lo nominano
presidente della Municipalità.
Nel 1799 è chiamato dal generale Coutard a Pescara ed entra a
far parte del Consiglio supremo
degli Abruzzi. A Napoli, intanto,
viene nominato dal generale
Champonnet membro del governo provvisorio e il 14 aprile André
Joseph Abrial, Commissario civile
della Repubblica napoletana, lo include nel Direttorio composto da
cinque membri.
La vita della Repubblica partenopea sarà molto breve e Delfico
sarà costretto a lasciare Pescara per
ritirarsi nella Repubblica di San
Marino sotto il nome di copertura di Carlo Cauti.
Gli anni che vanno dal 1800 al
1806 sono gli anni dell’esilio e nella tranquillità della piccola repubblica scrive le Memorie storiche della Repubblica di San Marino (1804)
e i Pensieri su l’istoria e sull’incertezza della medesima (1806).
Nel 1805 nella collezione degli
Scrittori classici italiani di economia politica viene inserita la sua
Memoria sulla libertà del commercio del 1797.
Nel 1806 Napoleone Bonaparte assegna il trono dei Borboni al
fratello Giuseppe e il nostro Delfico viene chiamato a Napoli come
consigliere di Stato. Durante questo periodo ricopre diversi incarichi: fa parte della sezione delle Finanze, tiene la presidenza dell’Interno ed è ministro nel 1810 e nel
1813.
In questo periodo scrive diverse memorie: Sul ripristinamento
65
IMPRESA
de’ boschi (1807); Parere su l’antecedente memoria / Transunto di
una memoria sul Codice Politico di
Agricoltura per regno di Napoli del
Dottor Rocco Domanico (1807);
Pensieri sopra alcuni articoli relativi all’organizzazione de’ tribunali
(1808).
Di questo periodo sono anche:
la Memoria sulla tassa fondiaria del
1808; lo scritto sui Conflitti giurisdizionali; le Osservazioni su di un
progetto d’istruzione pubblica. Discorso; e il Rapporto per gli stabilimenti di umanità e di pubblica beneficenza. Murat lo insignisce del
titolo di barone.
Nel 1815 i Borboni tornano a
Napoli e in ricordo dei vecchi servizi resi alla corona, Delfico viene
confermato presidente degli Archivi generali del Regno e lo stipendio di consigliere di stato gli
viene mutato in pensione.
Tra il 1818 e il 1819 pubblica
diversi saggi di carattere filosofico
e nel 1820, in seguito alle agitazioni liberali, il re Ferdinando I incarica Delfico di tradurre la costituzione spagnola del 1812. Delfico
entra a far parte della giunta provvisoria incaricata di fare le veci del
parlamento sino al suo insediamento e poi verrà eletto deputato.
Nel 1821 Ferdinando I ritirerà la
costituzione.
Nel 1823 Delfico torna a Teramo e, nonostante l’avanzata età,
continuerà a scrivere e a studiare.
Nel 1825 negli Atti della reale Accademia delle Scienze viene pubblicato il Ragionamento su le carestie del 1818.
Muore il 21 giugno del 1835 all’età di novantuno anni e viene sepolto nella tomba di famiglia nell’antica cattedrale di Teramo.
L’opera economica4
Per avere una vaga idea dell’importanza dell’opera del Delfico,
basti ricordare che su di lui hanno
scritto, tra gli altri, Benedetto Croce e Giovanni Gentile, con particolare riferimento all’apporto fi-
66
losofico e pedagogico, nonché
Franco Venturi, Oscar Nuccio e Joseph A. Schumpeter sul versante
politico, economico e giuridico. È
di particolare interesse l’osservazione che lo Schumpeter dedica al
Nostro nella sua monumentale
opera Storia dell’analisi economica. Contrariamente al Nuccio, il
quale, concludendo il commento
alla Memoria sulla libertà del commercio, pubblicato nel 1967 nella
ristampa della collezione Custodi,
nega al Delfico la qualifica di economista e afferma:“più che la qualifica di economista, meglio si addica quella di riformatore”, lo
Schumpeter sottolinea il contributo del Delfico all’elaborazione del
teorema dei costi comparati.
La Memoria sulla libertà del
commercio, che non compare in
Opera Omnia curata da Giacinto
Pannella, fu scritta nel 1797, rispondendo all’invito rivolto dall’Accademia di Padova agli intellettuali italiani, affinché si facessero carico di un simile problema. La
questione è affrontata dal Delfico
a partire da un assunto di ordine
filosofico: la libertà è una condizione naturale, ne consegue che il
rispetto delle leggi naturali è la
condizione necessaria per il raggiungimento della “naturale perfezione”. Il Delfico, in tal modo, a
differenza del Galliani e del Genovesi impregnati di cultura mercantilistica, mentre più prossimo al Filangeri, al Cantalupo e allo Scrofani, maggiormente sensibili alle
istanze riformatrici che provenivano dalla Gran Bretagna ovvero
dalla vicina Toscana, intende sostenere la superiorità dell’economia libera rispetto al sistema economico vincolato e, a sua avviso,
asfittico e innaturale, di tipo feudale.
Le argomentazioni sin qui evidenziate le ritroviamo ne la Memoria sulla libertà del commercio
del 1797, il saggio con il quale risponde all’invito dell’Accademia
di Padova.
Sebbene la storiografia più accreditata abbia spesso presentato
N. 77-78/11
quest’opera del Delfico come un
manifesto liberista che postula la
supremazia del mercato rispetto
ad ogni altro sistema vincolistico,
credo sia condivisibile l’opinione
di Finoia, per il quale Delfico non
si limiterebbe ad una apologetica
esaltazione delle virtù del mercato. Egli analizza comparativamente i vantaggi della libertà per i singoli e gli interessi dello stato. Oltretutto, Delfico, da buon uomo di
governo, è consapevole che l’apparato statale è una realtà indispensabile alla vita civile, e che senza di
esso neppure il mercato potrebbe
emergere. Questo punto è fondamentale, in quanto delinea una
prospettiva politica ed economica
tutt’altro che di astratto liberismo.
Delfico – riprendendo una denominazione che il prof. Francesco
Forte e il sottoscritto abbiamo
proposto con riferimento alla
scuola di pensiero economica di
Friburgo detta “ordoliberale” che
ispirerà i fautori dell’economia sociale di mercato – sembrerebbe incontrare la ricca tradizione del liberalismo delle regole, per la quale lo stato gioca un ruolo decisivo,
tutt’altro che marginale ovvero di
muto guardiano, allo stato spetta
il compito di essere artefice, oltre
che garante, delle regole del gioco.
Solo uno stato che sia forte in questo ruolo potrà impedire l’emergere di situazioni monopolistiche
pubbliche o private che siano5.
Sin dalle prime battute, Delfico mette in chiaro quale scopo si
prefigge e così facendo ci svela anche il suo metodo comparativo.
Obiettivo del Nostro è di “vedere
se la libertà generale ed assoluta sia
una condizione necessaria per godere di un felice commercio e stabilire un sistema di economia secondo i principi di ragione; oppure se per l’utile dello Stato possa essere ristretta, o direttamente con
divieto o indirettamente con imposizioni”.
In questo passaggio, Delfico ci
dice qualcosa di rilevante in ordine alla sua prospettiva teorica. In
definitiva, ci sarebbero due prin-
PROSPETTIVA
•P E R S O N A•
IMPRESA
cipi cardinali, il primo dei quali,
afferma il nostro, “è sempre relativo alla grandezza dello stato e fissa la quota di ciò che chiamasi contribuzione”. L’altro principio “stabilisce il modo, che deve essere il
più giusto o il meno incomodo ai
contribuenti”. In altre parole, il volume del fabbisogno statale deve
essere tale da non impedire alla società di riprodurre le risorse necessarie alla sua sopravvivenza. In tal
modo, secondo Delfico, le risorse
fiscali possono aumentare solo a
condizione che si creino le condizioni affinché aumenti la disponibilità delle risorse. Al contrario, il
Nostro constata come il sistema
feudale riduca la capacità della società di riprodurre le risorse necessarie alla sua sopravvivenza; ne
consegue che lo stato potrà aumentare il proprio fabbisogno solo a scapito del capitale iniziale,
impoverendo oltremodo la società civile. Scrive Delfico: “la molteplicità de’ scambi porterebbe quella giusta proporzione dei prezzi
che solo può rendere più comune
l’uso delle cose, il commercio essendo libero escluderebbe il monopolio”; e continua: la bilancia
commerciale sarebbe “nello stato
di equazione […] e se un anno potrà esservi uno sbilancio, vi sarà
appresso un compenso”. In tal modo, si eviterebbero le conseguenze
drammatiche delle carestie e sarebbe possibile finanziare il fabbisogno pubblico senza pregiudicare lo sviluppo dell’economia. Al
contrario, in un sistema di “coazione diretta o indiretta” si avrebbe “un incarimento ne’ prezzi, un
occasione di monopoli ed alle frodi, una mancanza di consumo e
per conseguenza dell’annua riproduzione”. In definitiva, le imposte
sul commercio “invece di alimentarlo, ed in luogo di moltiplicare
gli oggetti su dei quali si deve esercitare, gli attacca ostilmente fin
nella loro sorgente”. Il risultato sarà la riduzione della base imponibile e, di conseguenza, anche delle
entrate fiscali.
Senza voler enfatizzare l’ope-
PROSPETTIVA
•P E R S O N A•
ra del Delfico, da quanto appena
detto in ordine ai due principi relativi alle dimensioni del fabbisogno dello stato e dei metodi di
raccolta dei contributi, appare
chiara nel nostro l’intuizione –
seppure nelle linee generali – della teoria della “stato cooperativo”
e dello “stato monopolistico”.
Delfico ci dice espressamente che
in una società di uomini liberi,
nello “stato cooperativo”, “ciascuno sa cosa deve contribuire, se ne
fa un dovere, e crederebbe il sottrarsene un pubblico delitto”. Di
contro, in una società dominata
da una oligarchia, nello “stato
monopolistico”, “il potere arbitrario […] moltiplica i bisogni
pubblici”, e per finanziarli “si passa ad imporre sul commercio sul
consumo e sulle arti […] si sottopongono al sistema coattivo le
industrie […] le braccia lavorative e finalmente si giunge al più
sublime dell’economia col sottoporre a contribuzione la testa dell’uomo”.
Un ulteriore passaggio meritevole di attenzione, riguarda il Ragionamento su le carestie del 1818.
Al pari della Memoria, anche il Ragionamento presenta un profilo
accademico e fu letta alla reale Accademia delle scienze di Napoli. Il
saggio prende spunto dalla carestia che aveva colpito l’Europa tra
il 1815 e il 1817, venne pubblicato
negli Atti della reale Accademia e
poi scomparve, senza suscitare il
particolar interesse della critica. In
realtà, come sottolinea Finoia, si
tratta di un saggio estremamente
interessante, in quanto ci offre una
chiave interpretativa del pensiero
del Delfico, aiutandoci a decifrare
e a superare i possibili fraintendimenti legati alla sua tesi circa la superiorità dell’economia libera su
quella feudale. Nel Ragionamento,
Delfico esamina i limiti da applicare alla libertà assoluta, affinché
questa esplichi tutti i suoi aspetti
positivi e i benefici effetti. Dal momento che tali limiti non può che
porli lo stato, possiamo affermare
che oggetto di tale saggio sia, in ulN. 77-78/11
tima istanza, il rapporto tra mercato e stato.
Il Ragionamento muove i primi passi da un’affermazione di
principio: “la vera libertà [deve]
esser distinta dal libertinaggio, e da
ogni eccesso somigliante, e quindi
soggetta a quelle modificazioni, e
moderazioni, che tornano in maggior bene alla società”. Passando all’individuazione degli strumenti
per rendere effettiva la regolamentazione della libertà, Delfico afferma: “Risponderò con una sola parola. Le leggi”. Per il filosofo teramano le carestie avevano la loro
origine nelle variazioni meteorologiche e nelle guerre; mediante il
libero commercio si sarebbe fronteggiata nel modo più efficace la
scarsità dei mezzi di sussistenza,
che poi è la modalità con la quale
le carestie si manifestano: “Grazie
alla navigazione [che] mette quasi
a contatto le più lontane regioni,
il commercio s’incarica della reciprocanza dei bisogni”.
Inoltre, l’aumento di prezzi, oltre che dalla scarsa disponibilità
dei beni di sussistenza, dipenderebbe dalla “corruzione” del commercio che di per sé avrebbe solo
effetti benefici. Per Delfico il mercato andrebbe tutelato contro le
sue possibili degenerazioni e questo sarebbe il compito precipuo
dello stato. Quindi, “di prevenire,
ed impedire per quanto è possibile le azione ree, e castigar le avvenute”, poiché soltanto una legislazione capace di “impedire le frodi,
e gli abusi della forza di qualunque
specie” e “di evitare i monopoli [e]
le fraudolenti occultazioni” mette
il mercato nelle condizioni di operare correttamente e di dispiegare
i suoi benefici effetti sulla società
civile.
Per Delfico solo il libero scambio sarebbe in grado di far tendere il prezzo di mercato verso il “livello naturale”, ciò significa che
nessuna autorità può arrogarsi il
diritto di fissare i prezzi di qualsiasi genere, tuttavia non si può negare all’autorità di governo “l’uso
di que’ mezzi indiretti, che inter-
67
IMPRESA
rompono gli iniqui calcoli del monopolista, e dell’incaparratore”.
Conclusioni
In sede di conclusione, possiamo affermare che se la Memoria
sulla libertà di commercio esprime
al massimo grado la fiducia del
Delfico nel mercato, fondato sul
sentimento della sympathy, e nella
libertà, intesa come strumento per
la “naturale perfettibilità”, il Ragionamento sulle carestie esprime la
sua consapevolezza circa la delicatezza del mercato, la sua fragilità e
il suo essere sempre in pericolo di
fronte “allo spirito di frode, di soperchieria, [sicché] l’uomo è quasi indotto a diventar del suo simile nemico”, di qui la difficoltà di
applicarla in modo assoluto e per
tutti i casi.
La lezione di Delfico è tutta
incentrata sulla fiducia nelle istituzioni della libertà e sull’esigenza che tale libertà sia preservata.
Tale posizione fa sì che la sua fiducia non sia un’utopistica fuga
dalla realtà e il suo timore non si
traduca in cinismo autoritario e
totalitario. Il che lo rende distante dai fautori di un laissez-faire
incurante del dato storico, insensibile al fatto che le istituzioni sociali fotografano la modalità, sedimentata nella storia, attraverso
la quale uomini ignoranti e fallibili, nel corso dei secoli, hanno
tentato di risolvere problemi allocativi, in termini di distribuzione delle risorse scarse, di conquista, di mantenimento e di trasferimento del potere e, in generale,
in termini di acquisizione e di distribuzione della conoscenza.
Tuttavia, ciò lo rende altrettanto distante dai fautori di un certo
pessimismo sociale che nega all’uomo la capacità di dar vita a
quelle speciali opere d’arte che
chiamiamo istituzioni della società libera. Siano esse istituzioni politiche, giuridiche ovvero economiche, tutte concorrono affinché
l’ignoranza, la fallibilità, la contingenza dettate dalla creaturalità, in-
68
contrino la libertà, la creatività,
l’unicità e la responsabilità che
contraddistinguono, insieme alla
limitatezza, la costituzione fisica e
morale di ciascuna persona.
Allora, la contingenza e la limitatezza della persona umana non
sono superate in forza di uno slancio utopistico, di un incombente
“sole dell’avvenire”, di un’ideologia che promette necessari “cieli
nuovi e terre nuove” su questa terra, e nemmeno dalla cieca e fiera
“volontà di potenza” di un redivivo Leviathan. Contingenza e limitatezza sono invece assunte come
antidoto contro la sempiterna tentazione perfettista di confondere il
regno degli uomini con il Regno
celeste. Di contro, la libertà, la
creatività, l’unicità sono assunte
come i caratteri umani che consentono di sollevarci dal dato puramente contingente, mediante
l’edificazione di istituzioni politiche, economiche e culturali, facendo leva sui nostri stessi limiti, i
quali, se opportunamente orientati, si traducono negli strumenti
– gli unici peraltro – in grado di
accrescere la nostra conoscenza,
potendo imparare solo dai nostri
e dagli altrui errori.
NOTE
1 FRANCESCO FERRARA, Ragguaglio bio-
grafico e critico sugli autori contenuti nel
presente volume, pp. XXIX-XXXII, Prefazione a Biblioteca dell’economista, Cugini
Pomba e Comp., Torino 1952.
2 GIUSEPPE PECCHIO, Storia dell’economia pubblica in Italia [1829], Sugarco Edizioni, Carnago (Varese) 1992, pp. 11-36.
3 Le informazioni biografiche sono
state attinte da MASSIMO FINOIA, Introduzione a Melchiorre Delfico, Memoria sulla
libertà del commercio. Ragionamento su le
carestie, De Petris Editore, Teramo 1985.
4 Le due opere economiche da noi analizzate sono tratte da Economisti italiani,
Tomo XXXIX,Milano 1805,ristampa a cura di Oscar Nuccio, Edizione Bizzarri, Roma, 1967 e MELCHIORRE DELFICO, Memoria sulla libertà del commercio. Ragionamento su le carestie, De Petris Editore, cit.
5 Cfr. FRANCESCO FORTE – FLAVIO FELICE (a cura di), Il liberalismo delle regole. Genesi ed eredità dell’economia sociale
di mercato, Rubbettino, Soveria Mannelli 2010.
VITTORE CRIVELLI, Polittico, chiesa di Monte S. Martino , 212x194 - (inf) Madonna col Bambino, Ss. Pietro e Paolo - (sup) Cristo in Pietà, Ss. Michele Arcangelo e Martino (cimasa) Veronica - OPVS VICTORIS CRIVELLI / VENETI 1489
N. 77-78/11
PROSPETTIVA
•P E R S O N A•