Il pensiero economico di Melchiorre Delfico
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Il pensiero economico di Melchiorre Delfico
IMPRESA Liberalismo delle regole e libertà economica Il pensiero economico di Melchiorre Delfico Flavio Felice – Presidente Centro Studi Tocqueville-Acton e Professore ordinario di Dottrine Economiche e politiche alla Pontificia Università Lateranense “Quegli che avrà tolto dal vocabolario civile le parole Dazj, Dogane, Tariffe ecc.: quegli che avrà distrutto il gran laberinto, dove tanto mostri divorano le nazioni nel dettaglio: quegli che stabilirà per principio che ogni coazione economica è un tocco venefico per la società, avrà la gloria di avere assicurato all’umanità una verità fondamentale, e la vera prosperità delle nazioni” Introduzione Melchiorre Delfico è stata una figura di spicco dell’illuminismo italiano napoletano della seconda metà del Settecento e sebbene la sua opera a molti sia apparsa priva di forti elementi di originalità teorica, gli andrebbe riconosciuto il merito di aver tentato di rispondere ad alcune questioni aperte del suo tempo e necessarie alla modernizzazione del suo territorio, attingendo ad un bacino di idee estremamente ampio e ricco, andando ben oltre i confini segnati dai suoi maestri e dai più noti e studiati autori a lui contemporanei. Egli espone le argomentazioni sostenute dai fautori della libertà economica del suo tempo – non così diffusa né tra gli illuministi della scuola lombarda né tra i maestri della scuola napoletana, stando al severo giudizio di Francesco Ferrara1 –, offrendoci una sintesi preziosa delle tesi dibattute dai grandi riformatori italiani alla Pietro Verri, alla Ferdinando Paoletti, alla Gian Francesco Pagnini ovvero alla Gennaro Cantalupo. In estrema sintesi, di PietroVerri condivise il principio in forza del qua- 64 le la ricchezza pubblica è funzione dell’aumento della riproduzione ed esso dipende in buona sostanza da un regime di assoluta libertà commerciale; del Paoletti fece proprio l’assioma che “Abbondanza e vil prezzo non forma ricchezza; carestia e caro prezzo fa miseria; abbondanza e caro prezzo produce ricchezza”; la ricchezza sarebbe, dunque, il prodotto di una piena e perfetta libertà di commercio; del Pagnini assunse l’idea che chi intralcia il commercio finisce per danneggiare se stesso, condannandosi alla tirannia, e del Cantalupo condivise l’idea che il sistema delle restrizioni, dei fidecommessi, dei maggiorascati e delle manomorte non producono altro che miseria. Giuseppe Pecchio, nella sua Storia dell’economia pubblica in Italia, edita nel 1829 a Lugano2, sostiene che la differenza tra gli economisti napoletani e quelli lombardi è tale che non sia possibile non rimarcare che esistono almeno due scuole distinte che interessano l’economia pubblica italiana del Settecento. Se negli economisti lombardi si scorge maggiore precisione e senso pratico, il Pecchio rileva nella loro opera una scarsa originalità e una profonda N. 77-78/11 sudditanza rispetto agli autori stranieri, in particolar modo francesi. Al contrario, scrive il Pecchio: “Nei napoletani si ravvisa diffusione, prolissità, sovrabbondanza. Il lombardo è un fiume che corre fra le sue sponde; il napoletano è un torrente che straripa, inonda i vicini campi, finché l’occhio più non scerne il suo corso. Ma in compenso i napoletani hanno un carattere nazionale, più indipendenza, e originalità. I lombardi sono proclivi a citare libri francesi; i napoletani a citare libri spagnuoli, e soprattutto inglesi”. Con il presente intervento s’intendono evidenziare alcuni passaggi chiave del pensiero economico del Delfico, tentando di approfondire quei concetti che rendono la pubblicistica del filosofo teramano un esempio di come la sua riflessione economica – non certo sistematica – fosse attenta ai grandi dibattiti dell’epoca e portatrice di felici intuizioni che possono rappresentare ancor oggi un importante punto di riferimento nel discernimento dell’azione politica, ispirata ad una prospettiva riformatrice e liberale. PROSPETTIVA •P E R S O N A• IMPRESA La vita3 Melchiorre Delfico nasce il primo agosto del 1744 a Leognano di Montorio, da Berardo Delfico e Margherita Civico, una famiglia nobile teramana. Melchiorre sarà l’ultimo di tre figli. Nel 1755, quasi undicenne, insieme ai fratelli Gianberardino e Gianfilippo, è condotto dal padre a Napoli per completare e approfondire l’educazione. I suoi maestri sono Gennaro Rossi, Pasquale Ferrigno e Antonio Genovesi. Educato alla scuola dell’Illuminismo napoletano, entrò presto a far parte del movimento riformatore. Nel 1768, su incarico di Ferdinando de Leon, avvocato della Corona, scrive Intorno ai diritti dei Sovrani di Napoli sulla città di Benevento e il Saggio istorico delle ragioni dei Sovrani di Napoli sopra la città d’Ascoli d’Abruzzo, oggi nella marca. Nel frattempo si ammala ed è costretto a tornare nella sua città natale. Sarà questo il momento in cui deciderà di svestirsi dell’abito talare sino ad allora indossato. Nel 1774 muore il padre e pubblica a Teramo il Saggio filosofico sul matrimonio ed è del 1775 l’opera Indizi di morale. Delle due opere, che evidenziano gli influssi di Locke e degli enciclopedisti francese, la prima fu messa all’Indice e la seconda sequestrata durante la stampa. Nel 1782 inizia ad occuparsi in modo prevalente dei problemi locali, divenendo presso la corte il portavoce degli interessi della sua provincia. Nel 1783 scrive il primo saggio che investe direttamente una problematica economica: la Memoria sulla coltivazione del riso nella provincia di Teramo. In questo lavoro affronta il problema della salubrità delle coltivazioni e di una loro migliore organizzazione. Gli anni che vanno dal 1785 al 1790 sono quelli nei quali si fa più intensa la sua polemica antifeudale e in cui maturano le sue più decise proposte riformatrici. Non PROSPETTIVA •P E R S O N A• dobbiamo dimenticare che la cultura di governo prevalente tanto nel Sud quanto nel Nord Italia era improntata alle teorie mercantilistiche e per timore delle carestie prevaleva un rigido sistema di vincoli annonari. Fece eccezione il Gran Duca di Toscana Pietro Leopoldo I che tra 1765 il 1790 liberalizzò il commercio dei grani, sotto la spinta dei riformatori toscani Bandini e Paoletti i quali influenzarono profondamente il Delfico. Nella Memoria sul Tribunal della Grascia e sulle leggi economiche nelle province confinanti del Regno (1785), sottopone a critica il sistema doganale vigente tra l’Abruzzo e lo Stato pontificio. Gli ostacoli al commercio derivanti dalla disparità dei pesi e delle misure vengono trattati nella Memoria sulla necessità di rendere uniformi i pesi, e le misure del regno (1787). Successivamente pubblica: il Discorso sul Tavoliere di Puglia e su la necessità di abolire il sistema doganale presente, e non darsi luogo ad alcuna temporanea riforma (1788); la Memoria per la vendita dei beni dello Stato d’Atri (1788); la Riflessioni su la vendita de’ feudi (1790) e la Memoria per l’abolizione o moderazione della servitù del pascolo invernale detto de’ Regi Stucchi nelle provincie marittime d’Apruzzo (1790). In questi scritti, il Nostro sostiene la necessità dell’abolizione dei privilegi feudali, l’ampliamento della libertà del commercio, dello sviluppo dell’agricoltura attraverso l’abbandono della pastorizia e la creazione di una libera proprietà contadina. Nel frattempo, nel 1788, recatosi a Pavia, conobbe Alessandro Volta, Lorenzo Mascheroni e Lazzaro Spallanzani; raggiunta Milano incontrò Cesare Beccaria e i fratelli Pietro e Alessandro Verri. Nel 1789 tornò a Napoli. Gli avvenimenti della Rivoluzione francese hanno mutato il clima napoletano. Gli intellettuali illuministi vengono guardati con sospetto. Delfico alterna la sua perN. 77-78/11 manenza tra Napoli e Teramo. Nel 1791 scrive una Memoria sull’importanza di abolire la giurisdizione feudale e pubblica le Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana e de’ suoi cultori. Nel 1795 parte per Roma dove diventa amico del cardinale Stefano Borgia, si reca poi a Firenze dove incontra Ippolito Pindemonte. All’approssimarsi delle truppe francesi, la famiglia Delfico è imprigionata nel proprio palazzo. Occupata Teramo, i francesi liberano Melchiorre e lo nominano presidente della Municipalità. Nel 1799 è chiamato dal generale Coutard a Pescara ed entra a far parte del Consiglio supremo degli Abruzzi. A Napoli, intanto, viene nominato dal generale Champonnet membro del governo provvisorio e il 14 aprile André Joseph Abrial, Commissario civile della Repubblica napoletana, lo include nel Direttorio composto da cinque membri. La vita della Repubblica partenopea sarà molto breve e Delfico sarà costretto a lasciare Pescara per ritirarsi nella Repubblica di San Marino sotto il nome di copertura di Carlo Cauti. Gli anni che vanno dal 1800 al 1806 sono gli anni dell’esilio e nella tranquillità della piccola repubblica scrive le Memorie storiche della Repubblica di San Marino (1804) e i Pensieri su l’istoria e sull’incertezza della medesima (1806). Nel 1805 nella collezione degli Scrittori classici italiani di economia politica viene inserita la sua Memoria sulla libertà del commercio del 1797. Nel 1806 Napoleone Bonaparte assegna il trono dei Borboni al fratello Giuseppe e il nostro Delfico viene chiamato a Napoli come consigliere di Stato. Durante questo periodo ricopre diversi incarichi: fa parte della sezione delle Finanze, tiene la presidenza dell’Interno ed è ministro nel 1810 e nel 1813. In questo periodo scrive diverse memorie: Sul ripristinamento 65 IMPRESA de’ boschi (1807); Parere su l’antecedente memoria / Transunto di una memoria sul Codice Politico di Agricoltura per regno di Napoli del Dottor Rocco Domanico (1807); Pensieri sopra alcuni articoli relativi all’organizzazione de’ tribunali (1808). Di questo periodo sono anche: la Memoria sulla tassa fondiaria del 1808; lo scritto sui Conflitti giurisdizionali; le Osservazioni su di un progetto d’istruzione pubblica. Discorso; e il Rapporto per gli stabilimenti di umanità e di pubblica beneficenza. Murat lo insignisce del titolo di barone. Nel 1815 i Borboni tornano a Napoli e in ricordo dei vecchi servizi resi alla corona, Delfico viene confermato presidente degli Archivi generali del Regno e lo stipendio di consigliere di stato gli viene mutato in pensione. Tra il 1818 e il 1819 pubblica diversi saggi di carattere filosofico e nel 1820, in seguito alle agitazioni liberali, il re Ferdinando I incarica Delfico di tradurre la costituzione spagnola del 1812. Delfico entra a far parte della giunta provvisoria incaricata di fare le veci del parlamento sino al suo insediamento e poi verrà eletto deputato. Nel 1821 Ferdinando I ritirerà la costituzione. Nel 1823 Delfico torna a Teramo e, nonostante l’avanzata età, continuerà a scrivere e a studiare. Nel 1825 negli Atti della reale Accademia delle Scienze viene pubblicato il Ragionamento su le carestie del 1818. Muore il 21 giugno del 1835 all’età di novantuno anni e viene sepolto nella tomba di famiglia nell’antica cattedrale di Teramo. L’opera economica4 Per avere una vaga idea dell’importanza dell’opera del Delfico, basti ricordare che su di lui hanno scritto, tra gli altri, Benedetto Croce e Giovanni Gentile, con particolare riferimento all’apporto fi- 66 losofico e pedagogico, nonché Franco Venturi, Oscar Nuccio e Joseph A. Schumpeter sul versante politico, economico e giuridico. È di particolare interesse l’osservazione che lo Schumpeter dedica al Nostro nella sua monumentale opera Storia dell’analisi economica. Contrariamente al Nuccio, il quale, concludendo il commento alla Memoria sulla libertà del commercio, pubblicato nel 1967 nella ristampa della collezione Custodi, nega al Delfico la qualifica di economista e afferma:“più che la qualifica di economista, meglio si addica quella di riformatore”, lo Schumpeter sottolinea il contributo del Delfico all’elaborazione del teorema dei costi comparati. La Memoria sulla libertà del commercio, che non compare in Opera Omnia curata da Giacinto Pannella, fu scritta nel 1797, rispondendo all’invito rivolto dall’Accademia di Padova agli intellettuali italiani, affinché si facessero carico di un simile problema. La questione è affrontata dal Delfico a partire da un assunto di ordine filosofico: la libertà è una condizione naturale, ne consegue che il rispetto delle leggi naturali è la condizione necessaria per il raggiungimento della “naturale perfezione”. Il Delfico, in tal modo, a differenza del Galliani e del Genovesi impregnati di cultura mercantilistica, mentre più prossimo al Filangeri, al Cantalupo e allo Scrofani, maggiormente sensibili alle istanze riformatrici che provenivano dalla Gran Bretagna ovvero dalla vicina Toscana, intende sostenere la superiorità dell’economia libera rispetto al sistema economico vincolato e, a sua avviso, asfittico e innaturale, di tipo feudale. Le argomentazioni sin qui evidenziate le ritroviamo ne la Memoria sulla libertà del commercio del 1797, il saggio con il quale risponde all’invito dell’Accademia di Padova. Sebbene la storiografia più accreditata abbia spesso presentato N. 77-78/11 quest’opera del Delfico come un manifesto liberista che postula la supremazia del mercato rispetto ad ogni altro sistema vincolistico, credo sia condivisibile l’opinione di Finoia, per il quale Delfico non si limiterebbe ad una apologetica esaltazione delle virtù del mercato. Egli analizza comparativamente i vantaggi della libertà per i singoli e gli interessi dello stato. Oltretutto, Delfico, da buon uomo di governo, è consapevole che l’apparato statale è una realtà indispensabile alla vita civile, e che senza di esso neppure il mercato potrebbe emergere. Questo punto è fondamentale, in quanto delinea una prospettiva politica ed economica tutt’altro che di astratto liberismo. Delfico – riprendendo una denominazione che il prof. Francesco Forte e il sottoscritto abbiamo proposto con riferimento alla scuola di pensiero economica di Friburgo detta “ordoliberale” che ispirerà i fautori dell’economia sociale di mercato – sembrerebbe incontrare la ricca tradizione del liberalismo delle regole, per la quale lo stato gioca un ruolo decisivo, tutt’altro che marginale ovvero di muto guardiano, allo stato spetta il compito di essere artefice, oltre che garante, delle regole del gioco. Solo uno stato che sia forte in questo ruolo potrà impedire l’emergere di situazioni monopolistiche pubbliche o private che siano5. Sin dalle prime battute, Delfico mette in chiaro quale scopo si prefigge e così facendo ci svela anche il suo metodo comparativo. Obiettivo del Nostro è di “vedere se la libertà generale ed assoluta sia una condizione necessaria per godere di un felice commercio e stabilire un sistema di economia secondo i principi di ragione; oppure se per l’utile dello Stato possa essere ristretta, o direttamente con divieto o indirettamente con imposizioni”. In questo passaggio, Delfico ci dice qualcosa di rilevante in ordine alla sua prospettiva teorica. In definitiva, ci sarebbero due prin- PROSPETTIVA •P E R S O N A• IMPRESA cipi cardinali, il primo dei quali, afferma il nostro, “è sempre relativo alla grandezza dello stato e fissa la quota di ciò che chiamasi contribuzione”. L’altro principio “stabilisce il modo, che deve essere il più giusto o il meno incomodo ai contribuenti”. In altre parole, il volume del fabbisogno statale deve essere tale da non impedire alla società di riprodurre le risorse necessarie alla sua sopravvivenza. In tal modo, secondo Delfico, le risorse fiscali possono aumentare solo a condizione che si creino le condizioni affinché aumenti la disponibilità delle risorse. Al contrario, il Nostro constata come il sistema feudale riduca la capacità della società di riprodurre le risorse necessarie alla sua sopravvivenza; ne consegue che lo stato potrà aumentare il proprio fabbisogno solo a scapito del capitale iniziale, impoverendo oltremodo la società civile. Scrive Delfico: “la molteplicità de’ scambi porterebbe quella giusta proporzione dei prezzi che solo può rendere più comune l’uso delle cose, il commercio essendo libero escluderebbe il monopolio”; e continua: la bilancia commerciale sarebbe “nello stato di equazione […] e se un anno potrà esservi uno sbilancio, vi sarà appresso un compenso”. In tal modo, si eviterebbero le conseguenze drammatiche delle carestie e sarebbe possibile finanziare il fabbisogno pubblico senza pregiudicare lo sviluppo dell’economia. Al contrario, in un sistema di “coazione diretta o indiretta” si avrebbe “un incarimento ne’ prezzi, un occasione di monopoli ed alle frodi, una mancanza di consumo e per conseguenza dell’annua riproduzione”. In definitiva, le imposte sul commercio “invece di alimentarlo, ed in luogo di moltiplicare gli oggetti su dei quali si deve esercitare, gli attacca ostilmente fin nella loro sorgente”. Il risultato sarà la riduzione della base imponibile e, di conseguenza, anche delle entrate fiscali. Senza voler enfatizzare l’ope- PROSPETTIVA •P E R S O N A• ra del Delfico, da quanto appena detto in ordine ai due principi relativi alle dimensioni del fabbisogno dello stato e dei metodi di raccolta dei contributi, appare chiara nel nostro l’intuizione – seppure nelle linee generali – della teoria della “stato cooperativo” e dello “stato monopolistico”. Delfico ci dice espressamente che in una società di uomini liberi, nello “stato cooperativo”, “ciascuno sa cosa deve contribuire, se ne fa un dovere, e crederebbe il sottrarsene un pubblico delitto”. Di contro, in una società dominata da una oligarchia, nello “stato monopolistico”, “il potere arbitrario […] moltiplica i bisogni pubblici”, e per finanziarli “si passa ad imporre sul commercio sul consumo e sulle arti […] si sottopongono al sistema coattivo le industrie […] le braccia lavorative e finalmente si giunge al più sublime dell’economia col sottoporre a contribuzione la testa dell’uomo”. Un ulteriore passaggio meritevole di attenzione, riguarda il Ragionamento su le carestie del 1818. Al pari della Memoria, anche il Ragionamento presenta un profilo accademico e fu letta alla reale Accademia delle scienze di Napoli. Il saggio prende spunto dalla carestia che aveva colpito l’Europa tra il 1815 e il 1817, venne pubblicato negli Atti della reale Accademia e poi scomparve, senza suscitare il particolar interesse della critica. In realtà, come sottolinea Finoia, si tratta di un saggio estremamente interessante, in quanto ci offre una chiave interpretativa del pensiero del Delfico, aiutandoci a decifrare e a superare i possibili fraintendimenti legati alla sua tesi circa la superiorità dell’economia libera su quella feudale. Nel Ragionamento, Delfico esamina i limiti da applicare alla libertà assoluta, affinché questa esplichi tutti i suoi aspetti positivi e i benefici effetti. Dal momento che tali limiti non può che porli lo stato, possiamo affermare che oggetto di tale saggio sia, in ulN. 77-78/11 tima istanza, il rapporto tra mercato e stato. Il Ragionamento muove i primi passi da un’affermazione di principio: “la vera libertà [deve] esser distinta dal libertinaggio, e da ogni eccesso somigliante, e quindi soggetta a quelle modificazioni, e moderazioni, che tornano in maggior bene alla società”. Passando all’individuazione degli strumenti per rendere effettiva la regolamentazione della libertà, Delfico afferma: “Risponderò con una sola parola. Le leggi”. Per il filosofo teramano le carestie avevano la loro origine nelle variazioni meteorologiche e nelle guerre; mediante il libero commercio si sarebbe fronteggiata nel modo più efficace la scarsità dei mezzi di sussistenza, che poi è la modalità con la quale le carestie si manifestano: “Grazie alla navigazione [che] mette quasi a contatto le più lontane regioni, il commercio s’incarica della reciprocanza dei bisogni”. Inoltre, l’aumento di prezzi, oltre che dalla scarsa disponibilità dei beni di sussistenza, dipenderebbe dalla “corruzione” del commercio che di per sé avrebbe solo effetti benefici. Per Delfico il mercato andrebbe tutelato contro le sue possibili degenerazioni e questo sarebbe il compito precipuo dello stato. Quindi, “di prevenire, ed impedire per quanto è possibile le azione ree, e castigar le avvenute”, poiché soltanto una legislazione capace di “impedire le frodi, e gli abusi della forza di qualunque specie” e “di evitare i monopoli [e] le fraudolenti occultazioni” mette il mercato nelle condizioni di operare correttamente e di dispiegare i suoi benefici effetti sulla società civile. Per Delfico solo il libero scambio sarebbe in grado di far tendere il prezzo di mercato verso il “livello naturale”, ciò significa che nessuna autorità può arrogarsi il diritto di fissare i prezzi di qualsiasi genere, tuttavia non si può negare all’autorità di governo “l’uso di que’ mezzi indiretti, che inter- 67 IMPRESA rompono gli iniqui calcoli del monopolista, e dell’incaparratore”. Conclusioni In sede di conclusione, possiamo affermare che se la Memoria sulla libertà di commercio esprime al massimo grado la fiducia del Delfico nel mercato, fondato sul sentimento della sympathy, e nella libertà, intesa come strumento per la “naturale perfettibilità”, il Ragionamento sulle carestie esprime la sua consapevolezza circa la delicatezza del mercato, la sua fragilità e il suo essere sempre in pericolo di fronte “allo spirito di frode, di soperchieria, [sicché] l’uomo è quasi indotto a diventar del suo simile nemico”, di qui la difficoltà di applicarla in modo assoluto e per tutti i casi. La lezione di Delfico è tutta incentrata sulla fiducia nelle istituzioni della libertà e sull’esigenza che tale libertà sia preservata. Tale posizione fa sì che la sua fiducia non sia un’utopistica fuga dalla realtà e il suo timore non si traduca in cinismo autoritario e totalitario. Il che lo rende distante dai fautori di un laissez-faire incurante del dato storico, insensibile al fatto che le istituzioni sociali fotografano la modalità, sedimentata nella storia, attraverso la quale uomini ignoranti e fallibili, nel corso dei secoli, hanno tentato di risolvere problemi allocativi, in termini di distribuzione delle risorse scarse, di conquista, di mantenimento e di trasferimento del potere e, in generale, in termini di acquisizione e di distribuzione della conoscenza. Tuttavia, ciò lo rende altrettanto distante dai fautori di un certo pessimismo sociale che nega all’uomo la capacità di dar vita a quelle speciali opere d’arte che chiamiamo istituzioni della società libera. Siano esse istituzioni politiche, giuridiche ovvero economiche, tutte concorrono affinché l’ignoranza, la fallibilità, la contingenza dettate dalla creaturalità, in- 68 contrino la libertà, la creatività, l’unicità e la responsabilità che contraddistinguono, insieme alla limitatezza, la costituzione fisica e morale di ciascuna persona. Allora, la contingenza e la limitatezza della persona umana non sono superate in forza di uno slancio utopistico, di un incombente “sole dell’avvenire”, di un’ideologia che promette necessari “cieli nuovi e terre nuove” su questa terra, e nemmeno dalla cieca e fiera “volontà di potenza” di un redivivo Leviathan. Contingenza e limitatezza sono invece assunte come antidoto contro la sempiterna tentazione perfettista di confondere il regno degli uomini con il Regno celeste. Di contro, la libertà, la creatività, l’unicità sono assunte come i caratteri umani che consentono di sollevarci dal dato puramente contingente, mediante l’edificazione di istituzioni politiche, economiche e culturali, facendo leva sui nostri stessi limiti, i quali, se opportunamente orientati, si traducono negli strumenti – gli unici peraltro – in grado di accrescere la nostra conoscenza, potendo imparare solo dai nostri e dagli altrui errori. NOTE 1 FRANCESCO FERRARA, Ragguaglio bio- grafico e critico sugli autori contenuti nel presente volume, pp. XXIX-XXXII, Prefazione a Biblioteca dell’economista, Cugini Pomba e Comp., Torino 1952. 2 GIUSEPPE PECCHIO, Storia dell’economia pubblica in Italia [1829], Sugarco Edizioni, Carnago (Varese) 1992, pp. 11-36. 3 Le informazioni biografiche sono state attinte da MASSIMO FINOIA, Introduzione a Melchiorre Delfico, Memoria sulla libertà del commercio. Ragionamento su le carestie, De Petris Editore, Teramo 1985. 4 Le due opere economiche da noi analizzate sono tratte da Economisti italiani, Tomo XXXIX,Milano 1805,ristampa a cura di Oscar Nuccio, Edizione Bizzarri, Roma, 1967 e MELCHIORRE DELFICO, Memoria sulla libertà del commercio. Ragionamento su le carestie, De Petris Editore, cit. 5 Cfr. FRANCESCO FORTE – FLAVIO FELICE (a cura di), Il liberalismo delle regole. Genesi ed eredità dell’economia sociale di mercato, Rubbettino, Soveria Mannelli 2010. VITTORE CRIVELLI, Polittico, chiesa di Monte S. Martino , 212x194 - (inf) Madonna col Bambino, Ss. Pietro e Paolo - (sup) Cristo in Pietà, Ss. Michele Arcangelo e Martino (cimasa) Veronica - OPVS VICTORIS CRIVELLI / VENETI 1489 N. 77-78/11 PROSPETTIVA •P E R S O N A•