Lettura di approfondimento

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Lettura di approfondimento
INTRAPSICHICO, RELAZIONALE E INTERSOGGETTIVO: ALCUNE OSSERVAZIONI
CRITICHE
ANDREA F. AULETTA (*)
Summary: INTRAPSYCHIC, RELATIONAL AND INTERSUBJECTIVE: SOME CRITICAL REMARKS
This paper comments both “relational” and “intersubjective” theoretical paradigms, matching
them for their emphasis on the value of mutuality in human relations. Relational paradigm is
defined on the basis of the extent of the analytic investigation, which in “classical” model is
restricted to the intrapsychic field, while the first contribution from intersubjective paradigm is a
flexible perspective, centred both on intrapsychic and relational.
Furthermore, the Author states that relational / intersubjective viewpoint, as a way of thinking
to the analytic fact, is recognizable in many schools of thought. Defining relational / intersubjective
perspective according to the principle of mutual influence between analyst and analysand
subjectivities, he remarks that different authors have spoken about mutuality of the analytic
encounter.
Riassunto
L’articolo
prende in
considerazione il
paradigma
teorico
“relazionale”
e quello
“intersoggettivo”, accomunati dal riconoscimento del valore della mutualità nelle relazioni umane.
Si definisce il modello relazionale in base all’estensione della sfera d’indagine analitica, che nel
modello “classico” appare limitata all’ambito intrapsichico. Il contributo principale offerto dal
paradigma intersoggettivo consiste, invece, nell’adozione di una prospettiva flessibile, centrata sia
sull’intrapsichico che sul relazionale.
L’Autore, inoltre, sostiene che l’ottica relazionale / intersoggettiva, come modo di pensare i
fenomeni analitici, sia ravvisabile in molte scuole di pensiero. Definendo la prospettiva relazionale
/ intersoggettiva in base al criterio della mutua influenza tra le soggettività dell’analista e
dell’analizzando, egli nota come autori diversi si siano espressi sul tema della reciprocità
dell’incontro analitico.
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Dottore in Psicologia – Ind. Clinico e di Comunità
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Questione complessa, ancora oggi come ai tempi di Freud, la pluralità di teorie all’interno della
psicoanalisi rappresenta un aspetto sul quale gli studiosi della disciplina continuano a confrontarsi.
Non si tratta soltanto di quale teoria preferire, tra le tante, per descrivere e spiegare un dato
fenomeno psichico. Il pluralismo teorico, in realtà, pone il problema della comunicazione tra gli
psicoanalisti, il problema, cioè, del linguaggio che i clinici adottano per comunicare e condividere
le esperienze dei loro trattamenti.
La valorizzazione delle basi empirico-fenomenologiche della psicoanalisi, proposta da alcuni
autori (ad es. Stolorow et al., 1994), risponde proprio alla necessità di garantire alla disciplina un
maggior grado di generalità e consenso, attraverso il riferimento a teorie più aderenti al campo
clinico, ambito di esperienza che costituirebbe “la considerazione condivisa che unisce tutti noi
come psicoanalisti” (Wallerstein, 1988). Anche riflettendo sull’origine etimologica del termine
“teoria” (theorós, in greco, significa letteralmente “colui che dà uno sguardo”, “osservatore”), si
potrà convenire che il problema della proliferazione e cristallizzazione di varie “scuole” di pensiero
psicoanalitico dovrebbe essere ridefinito in termini di prospettive osservative, anziché essere
affrontato in termini di contrapposizione tra sistemi dottrinali. In che grado, bisogna chiedersi, i vari
livelli d’indagine e di comprensione dei dati offerti dalla clinica conducono alle attuali variazioni
nella tecnica psicoanalitica? Abbiamo a che fare con tecniche totalmente differenti, o con una
tecnica di base con sue variazioni?
La situazione, ad un primo esame di superficie, apparirà piuttosto eterogenea. Per certi analisti
l’elemento essenziale, caratteristico del trattamento è l’insight sul conflitto; altri aspetti sono
importanti, ma ciò che essi ritengono cruciale e specificamente analitico è l’analisi dei conflitti
patologici del paziente. Altri terapeuti focalizzano la loro attenzione sui sentimenti (di benessere o
malessere) del paziente durante la seduta analitica, che essi mettono in rapporto con la sensazione
del paziente di avere un analista più o meno empatico; per questi analisti non hanno importanza i
conflitti del paziente a proposito di desideri sessuali o aggressivi, dal momento che essi ritengono
importante, in un’ottica patogenetica, se la figura accudente dell’analizzando, durante i primi anni
di vita, è stata o meno empatica; per questi analisti, sembra, le comunicazioni verbali dei loro
pazienti sono meno importanti di quelle non verbali, e la loro tecnica rispecchia questo modo di
intendere la psicopatologia. Vi sono analisti per i quali nulla conta quanto il transfert; nell’idea che
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solo un’interpretazione di transfert può avere effetti terapeutici, essi costruiscono la propria tecnica
su queste basi. Altri sottovalutano l’importanza dell’interpretazione in sé e ritengono che ciò che
causa difficoltà emotive nella vita è l’impossibilità a fidarsi e ad avere una serena e pacifica
relazione con un altro essere umano; per questi analisti ciò che è essenziale in analisi è garantire al
paziente un’atmosfera nella quale egli possa sentirsi sicuro e preso in cura, cosa che è spesso
definita come comportamento di holding.
Tra le problematiche emergenti da questo quadro eterogeneo, quella dei paradigmi teorici
s’impone con particolare evidenza: si ha a che fare, negli attuali dibattiti interni alla psicoanalisi,
con l’antitesi tra prospettiva intrapsichica “classica” e prospettiva relazionale, posizioni che nel
presente articolo s’intende descrivere, invece, come complementari e non del tutto antitetiche. Si
cercherà, in quest’ottica, di contribuire ad una visione integrata e unitaria della psicoanalisi,
attraverso la definizione di ciò che s’intende con il termine “intersoggettività”.
L’intrapsichico
La teoria “classica” di matrice freudiana è stata definita variamente teoria pulsionale, psicologia
unipersonale, psicoanalisi ortodossa, approccio positivista, o teoria della mente isolata. Ancora, essa
è considerata centrata sulla realtà psichica interna piuttosto che sul trauma reale, sugli eventi reali e
sul qui e ora. Inoltre, è definita come basata su una visione del transfert come distorsione della
realtà, piuttosto che come risposta alle reali qualità ed azioni dell’analista. L’oggetto nel modello
pulsionale sembra avere un ruolo marginale: Laplanche e Pontalis (1967, p. 55) osservano che “non
esiste un oggetto intrinseco, né un legame preordinato con l’ambiente umano. L’oggetto viene
‘creato’ dall’individuo, in base alla sua esperienza di soddisfazione o di frustrazione pulsionale”.
Il termine stesso di relazione oggettuale, in effetti, compare raramente nelle opere di Freud;
benché sia inesatto dire, come spesso è stato fatto, che Freud l’ignora, si può sicuramente affermare
che esso non fa parte del suo apparato concettuale, o che non appare ricoprire un posto di centralità
teorica. I concetti di “mente isolata”, “teoria pulsionale”, “approccio positivista” definiscono
dunque l’orientamento epistemologico fondamentale della teoria “classica”: Freud “mise a fuoco”
l’apparato mentale dalla prospettiva del ricercatore scientifico, come suggerisce egli stesso con la
nota metafora del telescopio usata ne “L’interpretazione dei sogni” (1899, p. 494). La via percorsa
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risultò quella della ricerca dell’oggettivo, con attenzione ai fenomeni riscontrabili nella mente del
singolo individuo. L’intrapsichico, che Freud cominciò a descrivere nel linguaggio delle due
topiche, si definì come il campo privilegiato della ricerca psicoanalitica.
Il relazionale
Fra le principali esposizioni del punto di vista relazionale, quella di Greenberg e Mitchell (1983)
propone la distinzione del paradigma pulsionale/strutturale derivato da Freud da ogni altro
paradigma delle relazioni d’oggetto. Il “relazionale”, così, è implicato in tutti quei modelli teorici
(comprese le riletture che essi fanno dei modelli kleiniano, inglese delle relazioni d’oggetto,
americano interpersonale, della psicologia del Sé) che essi ritengono fondamentalmente
inconciliabili con il paradigma classico.
L’originale strategia di sintesi adottata dai due autori americani non implica, d’altra parte,
l’affermazione di un’assoluta omogeneità teorica tra i diversi autori “relazionali”: per questa
ragione Aron (1996), che pure tenta di individuare le caratteristiche del terreno comune relazionale
della psicoanalisi, pone la necessità di descrivere il vasto panorama delle scuole, rilevando
innanzitutto le differenze non trascurabili presenti tra la teoria delle relazioni d’oggetto, quella
interpersonale e la psicologia del Sé.
L’ottica delle relazioni d’oggetto, ad esempio, benché non disconosca la fondamentale
dimensione relazionale dell’apparato psichico, condivide ancora con il paradigma freudiano
l’inclinazione a delimitare l’indagine psicoanalitica alla realtà interna. In autori come Fairbairn o
Melanie Klein, infatti, si può osservare come: 1) l’inclinazione a erigere una singola pulsione
(sessuale, aggressiva, di ricerca dell’oggetto, ecc.) a presupposto esplicativo universale, non farebbe
altro che ribadire il punto debole della teoria classica, cioè la tendenza ad assegnare totale potere
esplicativo a una singola categoria motivazionale; 2) l’attenzione eccessiva al mondo interno e l’uso
della metafora degli oggetti interni riecheggerebbero il tono della metodologia classica, chiamando
nuovamente in causa forze interne autonome, operanti in modo meccanicistico.
Da questo punto di vista anche la teoria di Kohut, che pure ha contribuito in maniera decisiva
alla rilettura del modello freudiano, condivide con la teoria britannica delle relazioni oggettuali
alcuni dilemmi riguardanti il riconoscimento della “realtà esterna”, ad esempio per via
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dell’attribuzione al Sé di una posizione che lo pone come la sovraordinata struttura della mente.
Sebbene, a livello metapsicologico, la pulsione, o altri meccanismi mentali isolati, non siano più
ritenuti la primaria unità di esperienza in analisi, anche il focus della psicologia del Sé kohutiana
resta prevalentemente intrapsichico.
Una riflessione circa la proposta di sintesi avanzata da Greenberg e Mitchell, ciò nonostante,
consente di notare il loro tentativo di accentuare il focus sulla psicologia bipersonale, accomunando
sotto la definizione di “relazionale” tutti quei punti di vista che hanno rappresentato un’alternativa
all’orientamento freudiano e alla sua esclusiva attenzione per il campo intrapsichico, e che in tal
modo hanno posto la relazione tra persone come fattore esplicativo primario: le tesi di Fairbairn e
della Klein che accentuano l’importanza dell’oggetto, i modelli di Winnicott e Kohut che
sottolineano la centralità del Sé, e ancora i modelli teorici di Sullivan e di Bowlby, benché non
completamente sovrapponibili, appaiono spesso in contatto tra loro in merito al riconoscimento
della centralità delle relazioni.
Secondo Greenberg e Mitchell, “la condizione umana contiene un paradosso fondamentale. Da
una parte, l’uomo vive un’esistenza individuale: una persona nasce, vive e muore […]. D’altra
parte, la gente vive, innegabilmente e necessariamente, nell’ambito di una comunità umana […]; in
un certo senso, è la comunità che crea la vita individuale, dandovi sostanza e significato” (1983, p.
395). I due autori notano che, a dispetto dell’evidenza di questo paradosso, nella storia della
psicoanalisi i pregiudizi condivisi sono stati nettamente a favore della prospettiva dell’individuo
singolo, cosicché s’imponeva una correzione di rotta (Greenberg, Mitchell, 1983). Per gli analisti,
infatti, è importante considerare sia come l’individuo determina le relazioni, sia come la relazione
determina l’individuo; il termine “relazionale” pende forse eccessivamente verso la seconda di
queste proposizioni, ma il suo utilizzo ha consentito di correggere lo sbilanciamento in favore della
prospettiva dell’individuo singolo.
L’intersoggettivo
L’adozione di una prospettiva intersoggettiva potrebbe concretizzare le esigenze di uniformità
teorico-epistemologica, dirimendo il contrasto tra intrapsichico e relazionale, tra psicologia unipersonale e bi-personale.
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Il termine “intersoggettività” è stato ed è usato con diverse accezioni: può indicare un processo
dialettico in cui i soggetti si riconoscono reciprocamente come centri separati di esperienza
soggettiva, oppure, come nel contesto degli studi di Stern sull’età evolutiva, una raggiunta capacità
di sviluppo di riconoscere l’altra persona come un centro separato di esperienza con cui condividere
stati mentali (Aron, 1996). In psicoanalisi, nella quale, in particolare con Stolorow et al. (1994),
resta legato ad un ambito prossimo all’esperienza, il concetto di intersoggettività è inteso come
processo esistente “tra mondi soggettivi in interazione, a qualsiasi livello di sviluppo tali mondi
siano organizzati” (Stolorow et al., 1994, p. 75).
Per cui, mentre in una psicoanalisi centrata sull’intrapsichico il campo della soggettività prende
forma dalla dialettica tra conscio e inconscio (Freud), o tra posizioni schizo-paranoide e depressiva
(Klein), o tra Sé e oggetto-Sé (Kohut), in quella intersoggettiva il mondo soggettivo copre un
territorio esperenziale più ampio. Più ampio rispetto a quello costituito dalla relazione Sé/oggettoSé, poiché considera anche quei casi in cui “il paziente non fa esperienza dell’analista come
oggetto-Sé empatico, ma come fonte di dispiacere” (ibidem). Più ampio anche rispetto all’ambito
dell’inconscio intrapsichico, concepito tradizionalmente come sede privilegiata di conflitti,
formazioni di compromesso, fantasie inconscie; anche gli autori cosiddetti “intersoggettivi”, infatti,
prestano attenzione a questi fenomeni, sia in teoria che in pratica, ma attraverso un mutato
paradigma scientifico: “l’inconscio dinamico non consiste in derivati pulsionali rimossi, ma in stati
affettivi difensivamente controllati; la regolazione dell’esperienza affettiva non è il prodotto di
meccanismi intrapsichici isolati; è piuttosto proprietà di un sistema di reciproca e mutua influenza
del sistema bambino-caregiver” (pp. 40 e segg.). Ciò che in questa prospettiva è valorizzato è lo
specifico contesto intersoggettivo nel quale prendono forma i conflitti.
Elemento distintivo dell’intersoggettività come teoria (cioè come “posizione d’indagine”) appare
dunque essere l’inclusione della soggettività dell’analista nella descrizione dei fenomeni analitici, e
il riferimento al principio prospettivistico per cui il campo che viene osservato include anche
l’osservatore (Aron, 1996; Stolorow et al., 1994). Se il contributo principale dell’ottica relazionale,
come detto, è consistito nell’ampliare l’oggetto di studio originario della psicoanalisi (il campo
intrapsichico) fino ad includere la relazione, l’apporto cruciale dell’ottica intersoggettiva può essere
ravvisato nella ricomposizione della dicotomia tra due paradigmi che, pertanto, solo in apparenza
risultano inconciliabili: il focus d’indagine, per chi adotta un approccio intersoggettivo, “oscilla”
lungo un continuum che si articola dal campo intra-soggettivo (l'intrapsichico dell'analista),
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attraverso quello inter-soggettivo (il campo analitico, la “relazione”), fino a tornare all’ambito intrasoggettivo (il chiarimento e il dispiegamento dell'intrapsichico del paziente).
Sembra, in conclusione, che sia l’inter-personale che l’intra-psichico possano ricoprire un ruolo
importante nel processo terapeutico: benché i termini “intersoggettivo” e “relazionale” non sempre
siano affini, né possano essere adoperati indifferentemente, si può riconoscere come entrambi,
centrando il focus d’indagine sulla mutualità della relazione analitica (Aron, 1996), attribuiscano
rilievo tanto all’individuo quanto al sociale, agli oggetti interni così come alle relazioni
interpersonali esterne, tanto all’auto-regolazione quanto alla mutua regolazione.
Verso una prospettiva unitaria fondata su un paradigma relazionale / intersoggettivo
Si può sostenere che, nonostante il pluralismo teorico, la psicoanalisi possa fondarsi su una
matrice portante (clinica ed epistemologica) di tipo relazionale / intersoggettivo?
Scorrendo la vasta letteratura psicoanalitica dalle origini sino ai giorni nostri, ci si avvede di
come già i primi pionieri delle disciplina abbiano intuito, anche se non sviluppato, le potenzialità
intersoggettive della “talking cure”. Nel lontano 1926, ad esempio, Karl Abraham descriveva la
sorprendente corrispondenza tra le fantasie inconscie di una madre e quelle del figlio, e
commentava: “Questo esempio mostra fino a che limite i residui diurni di una persona possano
coincidere con le fantasie di un’altra” (p. 79). Il lavoro di Ferenczi (1988) sulla confusione delle
lingue avrebbe portato quest’ordine di fenomeni all’interno della situazione analitica, sottolineando
come l’analista potesse riprodurre, inconsciamente, le situazioni traumatiche vissute dal paziente
nell’infanzia. Anche M. e A. Balint, nel 1939, avrebbero espresso una posizione analoga sul tema
della relazione analista-paziente: “la situazione analitica è il risultato di un gioco incrociato tra il
transfert del paziente e il controtransfert dell’analista, complicata dalle reazioni provocate in
ciascuno dal transfert dell’altro su di lui” (p. 228). Già Freud, del resto, aveva fornito una
descrizione del processo analitico molto prossima ad una concezione attuale: “L’esperienza mostrò
ben presto che il comportamento più opportuno da parte del medico analizzante era di abbandonarsi
alla propria attività mentale inconscia con una attenzione uniformemente sospesa […] onde cogliere
così l’inconscio del paziente con il suo stesso inconscio” (1922, p. 443).
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Dopo Freud, così, si è potuto constatare che l’inconscio rimosso (nell’ambito del modello
topografico) e il concetto di Es (nel modello strutturale), concetti cardini di una teoria
dell’intrapsichico, presuppongono l’idea, altrettanto rivoluzionaria, di una comunicazione inconscia
tra i soggetti che danno forma all’incontro analitico (Bollas, 2001).
Come fa notare Gabbard (1997), l’intersoggettività come modo di pensare i fenomeni analitici è
presente in molte scuole di pensiero. Definendo l’intersoggettività in base al criterio che la
soggettività
dell’analista
inevitabilmente
influenza
le
percezioni
dell’analizzando
(ed
inevitabilmente ne è influenzata), si potrà notare che diversi autori si sono espressi sul ruolo della
soggettività dell’analista: basti pensare a Winnicott , Balint, Racker, Bollas, oltre che a Aron, Gill,
Greenberg, Hoffman, Mitchell, Ogden, Stolorow.
Assumendo l’idea, condivisa da tutti i teorici relazionali, che sia l’interpersonale che
l’intrapsichico svolgono un ruolo importante nella vita umana oltre che nel processo analitico, si
può sottolineare un nuovo modo di considerare i dati dell’esperienza clinica. E’ un’inutile disputa
per il primato quella di chi sostiene esclusivamente uno o l’altro dei due punti di vista, disputa
verosimilmente dovuta alla tendenza molto comune fra gli psicoanalisti a idealizzare ed enfatizzare
ciò che di nuovo c’è nelle proprie scoperte (Green, 2000). Da più parti (Dunn, 1995; Gabbard,
1997; Green, 2000), infatti, si assume che, parlando di relazione intersoggettiva, relazione che
connette due soggetti intrapsichici, gli analisti sono obbligati ad oscillare fra un focus intrapsichico
uni-personale relativamente obiettivo ed un focus intersoggettivo bi-personale.
In base ad una descrizione della situazione analitica come, in termini winnicottiani, uno “spazio
potenziale” per la costruzione mutuamente creativa di significati, si è sovente determinata un’enfasi
sui processi di co-costruzione dei fenomeni analitici, che ha comportato la descrizione del processo
terapeutico in termini di “campo” (Baranger, 1993) o di “sistema intersoggettivo” (Stolorow et al.,
1994). Ogden (1996), in questa prospettiva, vede la soggettività dell’analista e la soggettività del
paziente come elementi che s’incontrano nello spazio potenziale tra i due, in cui un “terzo analitico”
è intersoggettivamente creato dai due partecipanti all’analisi. Ciascuno di essi fa esperienza del
terzo analitico nel contesto del proprio distinto, individuale sistema di personalità.
Si potrebbe, in tal maniera, pensare e definire meglio la dimensione del soggetto per come si
dispiega nella situazione analitica: come rileva Dunn (1995), uno sforzo di identificare aspetti della
psicologia del paziente distinti da quelli dell’analista è necessario perché l’analista possa lavorare
con successo, cosicché anche l’uso del controtransfert può essere diretto a scopi, per così dire,
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“positivistici”, cioè per determinare cosa è nella mente del paziente che fa sì che l’analista risponda
in questa o quell’altra maniera. Privilegiare l’intrapsichico del paziente può essere utile, a patto che
il quadro che ne consegue, in quanto mai completamente obiettivo, non sia considerato come la vera
realtà imposta dall’analista al paziente, e senza negare allo stesso tempo la fondamentale natura
asimmetrica della relazione analitica. Ciò che conta, da parte dell’analista, è l’adozione di una
prospettiva flessibile, centrata sia sull’intrapsichico che sull’intersoggettivo e sul modo in cui i due
piani si intersecano e dispiegano all’interno della relazione analitica.
Non dovrà sorprendere, per queste ragioni, scoprire analisti “relazionali” che includono nelle
proprie teorie della mente nozioni di strutture psichiche operanti dall’interno del paziente, concepite
come esistenti indipendentemente dall’incontro analitico. Accanto a ciò, si possono trovare analisti
“classici” che sono in grado di offrire descrizioni sensibili del modo in cui le proprie azioni e le
proprie risposte affettive ai loro pazienti influenzano la natura della relazione e del trattamento
analitico.
Spiega Freud nell’incipit di “Psicologia delle masse e analisi dell’Io”:
“Il contrasto tra psicologia individuale e psicologia di gruppo o sociale, che a prima vista
sembra essere molto significativo, perde gran parte della sua importanza se esaminato
attentamente. E’ vero che la psicologia individuale si occupa dell’uomo singolo ed esplora i
percorsi attraverso cui egli cerca il soddisfacimento degli impulsi istintuali; ma solo raramente e in
particolari, eccezionali condizioni la psicologia individuale può permettersi di trascurare le
relazioni dell’individuo con gli altri. Nella vita mentale dell’individuo qualcun altro è
invariabilmente coinvolto, come modello, come oggetto, come sostenitore, come oppositore; e,
quindi, la prima effettiva psicologia individuale è, in senso lato ma completamente giustificabile,
contemporaneamente psicologia sociale” (1921a, p. 261).
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