Intermedio ritmo e movimento 6
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Intermedio ritmo e movimento 6
Lezione 6 RITMO E MOVIMENTO SURREALE NEL RACCONTO FANTASTICO- Cominciamo questa lezione in modo veramente “fantastico” con la serie di brani di racconti che seguono e che sono quasi tutti inizi: Una volta ero innamorato di una donna a cui crebbero denti su tutto il corpo. Il primo fece la sua comparsa sotto forma di un puntino duro sull’ombelico. (da Dentaphilia di Julia Slavin, 1999, tratto dalla raccolta The Woman Who Cut Off Her Leg at the Maidstone Club, Odontofilia, nella raccolta di racconti Burned Children of America, minimum fax, 2001, traduzione di Martina Testa, pag. 225 ) Godzilla, che sta andando al lavoro in fonderia, vede un grosso edificio che sembra essere fatto interamente di rame lucido e scuro vetro solare riflettente. Vede la sua immagine rispecchiata nelle vetrate e pensa ai vecchi tempi, si chiede cosa proverebbe a saltare sull’edificio, sputargli fiamme addosso, annerire le finestre con il suo fiato ardente, poi ballare gioiosamente tra le rovine fumanti. (da Godzilla’s Twelve Step Program, di Joe R. Lansdale, 1994, Godzilla in riabilitazione, nella raccolta di racconti Maneggiare con cura, Fanucci Editore, 2002, traduzione di Umberto Rossi, pag. 57) Il ragazzo era nato con le dita a forma di chiave. Tutte tranne una, il mignolo della destra, avevano rilievi aguzzi dal lato interno, per tutta la lunghezza, e un cerchio piatto sul polpastrello. (da The Leading Man, di Aimee Bender, inedito negli Usa, Il protagonista, nella raccolta di racconti Burned Children of America 2001, minimum fax, traduzione di Laura Pugno, pag. 13 ) Possiedo uno strano animale, metà gattino, metà agnello. L’ho ereditato da mio padre, ma si è sviluppato soltanto ai miei giorni, prima era molto più agnello che gattino. (da Eine Kreuzung, di Franz Kafka, 1917, Un incrocio, nella raccolta Tutti i racconti, 1998, Oscar Mondadori, traduzione di Rodolfo Paoli, pag. 383) […] Di tanto in tanto mi capita di vomitare un coniglietto. Quando sento che sto per vomitare un coniglietto, mi ficco due dita in bocca come una pinza aperta, e aspetto di sentire nella gola la peluria tiepida che sale come un’effervescenza di sali di frutta. (da Carta a una señorita en París, di Julio Cortázar, racconto tratto dalla raccolta Bestiario, 1951, Lettera a una signorina a Parigi, da Bestiario, Einaudi, 1996, traduzione di Flaviarosa Nicoletti Rossini, pag. 10) Perché vi ho proposto questa sequenza di brani tra l’inquietante e l’assurdo? Perché dovendo scegliere un genere letterario da mettere alla prova del fuoco del ritmo e del movimento mi è sembrato più ricco di spunti e possibilità espressive proprio il racconto fantastico. Attraverso il racconto fantastico si può interpretare con maggior libertà ideativa ed espressiva una data realtà mettendola a soqquadro e sovvertendo i rapporti tra gli elementi compositivi in campo. Tutto questo si può ottenere grazie alla potenza immaginifica radicata in questo genere letterario. Un bel racconto fantastico nasce da immagini fortissime e suggestive. E queste immagini, che si stagliano potenti fin dalle prime righe, danno linfa vitale allo scorrere di tutto un racconto. Quando in un laboratorio di scrittura in aula l’immaginazione dei nostri allievi diventa fiacca e si scolorisce in modo preoccupante, la terapia d’urto consiste in una bella successione di letture di racconti fantastici. E così d’improvviso le relazioni più nascoste e impensate tra personaggi e ambienti delle storie ritrovano ritmo e senso, attraverso aperture sorprendenti, ma possibili. La serie di inizi che precede la lezione odierna è indicativa di quanto siano condizionanti, più che in altri ambiti narrativi, gli incipit del genere fantastico. Le parole che danno vita alla storia offrono subito un senso di straordinarietà all’ambiente e ai personaggi che agiranno nel racconto. L’immagine iniziale determina il movimento dell’intero racconto. Si tratta quasi sempre di un’immagine che influisce, per le sue caratteristiche di senso visivo, anche sul tono del racconto che può essere, fin dall’incipit, ansiogeno, beffardo, ironico, drammatico, onirico, comico, erotico, demenziale, ecc. I racconti fantastici sono sempre impostati su un’eccezione che si innesta sorprendentemente nella realtà circostante. E questa situazione eccezionale viene subito mostrata dall’autore in modo che con gradualità, più o meno parossistica, lo svolgersi della storia possa avere un forte tirante drammatico. La trama tira la corda in ogni parte della narrazione e la storia può fermarsi solo al termine della concatenazione di effetti narrativi che è in grado di produrre l’immagine iniziale. L’autore ha il compito di sfruttare al massimo ogni singola particella narrativa racchiusa nella visione iniziale, senza sprecare nessuna stilla creativa. L’avvio del racconto fantastico dichiara subito al lettore se l’invenzione che muove il suo mondo narrativo dominerà la storia e di conseguenza il suo ritmo e movimento. Oppure se sarà lo stile dell’autore a contare di più, nonostante il sovvertimento del mondo narrato provocato dal meccanismo ideativo. Per capire meglio il senso di queste riflessioni diamo un’occhiata a due incipit di racconto fantastico dalle qualità contrastanti. Un incipit mostra dalla prima frase la peculiarità straordinaria della storia e l’altro invece esalta e mette in luce lo stile dell’autore sciogliendo l’immagine decisiva della storia solamente a racconto avviato. Cominciamo da Franz Kafka e dal suo Eine Kreuzung, Un incrocio, del 1917, da Tutti i racconti, Oscar Mondadori, 1998, traduzione di Rodolfo Paoli, pag. 383-384. In questa breve narrazione la prima frase, messa in risalto grafico, influenza tutto il resto: L’incrocio Possiedo uno strano animale, metà gattino, metà agnello. L’ho ereditato da mio padre, ma si è sviluppato soltanto ai miei giorni, prima era molto più agnello che gattino. Adesso invece ha, direi, tanto dell'uno quanto dell'altro: del gatto ha la testa e gli artigli, dell'agnello la grossezza e la forma, di entrambi gli occhi selvaggi e fiammeggianti, il pelo morbido e aderente, i movimenti ora saltellanti ora striscianti. Sul davanzale al sole si acciambella e fa le fusa, sul prato corre all'impazzata ed è quasi impossibile rincorrerlo. Quando incontra un gatto fugge, mentre invece aggredisce gli agnelli. Nelle notti di luna la grondaia è la sua passeggiata preferita. Non sa miagolare e ha ripugnanza dei topi. Se ne sta per ore in agguato presso il pollaio, ma non ha mai approfittato d'una occasione di uccidere. Lo nutro di latte dolce che è quello che gli fa più bene. Lo succhia a lunghe sorsate, facendolo passare tra i denti da animale feroce. Naturalmente è un grande divertimento dei bambini. La domenica mattina ricevo le visite: tengo la bestiola in grembo e i bambini di tutto il vicinato mi stanno intorno. Allora fanno le più strampalate domande alle quali nessuno può rispondere: perché esiste un solo animale così, perché lo possiedo proprio io, se ce n'è mai stato un altro prima di questo, e come sarà dopo morto, e se si sente solo, e perché non ha cuccioli, come si chiama. Io non mi sforzo di rispondere, ma senza altre spiegazioni mi limito a mostrare ciò che possiedo. Qualche volta i bambini portano gatti, una volta portarono persino due agnelli. Contrariamente a ciò che si aspettavano, non ci furono però scene di riconoscimento. Gli animali si guardarono tranquilli e accettarono evidentemente la loro esistenza come una realtà divina. Nel mio grembo l'animale non ha né paura né aggressività. Quando mi si stringe addosso si sente bene più che mai. È attaccato alla famiglia che lo ha allevato. E non credo sia non so quale fedeltà straordinaria, è soltanto il giusto istinto di un animale che sulla terra ha un numero infinito di parenti, ma forse nessun consanguineo prossimo, cui pertanto è sacra la protezione che ha trovato in casa nostra. Certe volte mi viene da ridere, quando vedo che mi fiuta, mi striscia fra le gambe e non vuol staccarsi da me. Non contento di essere agnello e gatto pare quasi che voglia essere anche cane. Una volta, come può capitare a tutti, non riuscivo a trovare un ripiego nei miei affari e in tutto ciò che vi è collegato, stavo per abbandonare ogni cosa e in questo stato d'animo ero in casa, sulla sedia a dondolo, l'animale sulle ginocchia, allorché, chinando per caso lo sguardo, vidi gocciolare lagrime dai suoi enormi baffi. Erano lagrime mie o erano sue? Quell'anima di gatto e agnello aveva anche ambizioni umane? - Da mio padre non ho ereditato molto, ma devo dire che questo pezzo qualche cosa vale. Cose che penso sul serio. Ha l'inquietudine di entrambi, quella del gatto e quella dell'agnello, per quanto siano diverse, perciò non sa stare nella sua pelle. Talvolta balza sulla sedia accanto a me, mi appoggia le zampe anteriori sulla spalla e accosta il muso al mio orecchio. Pare che mi dica qualcosa e in verità poi si sporge e mi guarda in faccia per vedere l’impressione che mi hanno fatto le sue comunicazioni. Per essere compiacente, fingo di aver capito e annuisco. Allora salta sul pavimento e fa un balletto. Per questo animale il coltello del macellaio potrebbe forse essere una redenzione, ma avendolo ereditato gliela devo negare. Perciò dovrà aspettare finché gli manchi il fiato, anche se talvolta mi guarda con intelligenti occhi umani che invitano ad agire con intelligenza. In questo racconto su un ibrido Kafka mescola le caratteristiche fisiche di un animale con quelle dell’altro e così i loro comportamenti. La forza letteraria dell’autore sta nel non concedere niente alla spettacolarità degli aspetti mostruosi presenti nella storia. La voce narrante descrive in successione, con pacatezza e serenità domestica, le specialità ibride di questo unico esemplare di agnello-gatto. È nel rapporto di intimità casalinga che Kafka gioca le sue carte di grande invenzione artistica. Questo animale favoloso in fin dei conti assume dei comportamenti del tutto consoni alla sua conformazione biologica. Chi lo descrive lo fa abbassando di proposito ogni eccesso e alterazione di tono. Il taglio è dimesso e forse per questo più preoccupante per il lettore. Tutta questa tranquillità espressiva contrasta con l’immagine iniziale. Il ritmo cozza contro il senso e crea contrasto drammaturgico. Chiunque voglia vedere nell’ibrido un fenomeno da baraccone non trova niente di particolarmente impressionante e spaventevole. La sua al massimo, usando un’antilogia, è una ferocia-docile come è benissimo rappresentata nella frase: Lo nutro di latte dolce che è quello che gli fa più bene. Lo succhia a lunghe sorsate, facendolo passare tra i denti da animale feroce. Quello che non è visto da nessuno, a parte la voce narrante e il lettore suo testimone privilegiato, e che si presenta come veramente eccezionale è il contegno sentimentale e fortemente partecipe all’umano soffrire da parte dell’ibrido: allorché, chinando per caso lo sguardo, vidi gocciolare lagrime dai suoi enormi baffi. Erano lagrime mie o erano sue? Quell'anima di gatto e agnello aveva anche ambizioni umane? Questa notazione rende l’ibrido una specie di alter ego animale della voce narrante. Tra loro due, o meglio loro tre (l’ibrido vale per due), si crea un’intesa, o una parvenza di intesa, che innesca il balletto mirabolante dell’ibrido: Talvolta balza sulla sedia accanto a me, mi appoggia le zampe anteriori sulla spalla e accosta il muso al mio orecchio. Pare che mi dica qualcosa e in verità poi si sporge e mi guarda in faccia per vedere l’impressione che mi hanno fatto le sue comunicazioni. Per essere compiacente, fingo di aver capito e annuisco. Allora salta sul pavimento e fa un balletto. Questa intesa reciproca, recitata e artefatta dalla voce narrante, crea un effetto straniante, di comicità cabarettistica. Nel finale invece si accumulano d’improvviso delle nuvole nere che trattano, con la stessa rapidità e incisività del resto del brano, il tema della morte. Una morte e un racconto che vedono entrambi rinviata la fine grazie a un finale aperto e quindi a un ultimo grande colpo di coda del magnifico Kafka. Di ben altro registro espressivo è il racconto fantastico di Julio Cortázar Carta a una señorita en París, 1948, Lettera a una signorina a Parigi tratto dalla raccolta Bestiario del 1951, Bestiario, edizione Einaudi Tascabili, 1996, traduzione di Flaviarosa Nicoletti Rossini. Il fantastico è qui inserito all’interno di un’ulteriore tipologia narrativa che è il genere epistolare. Così facendo Cortázar aumenta, se possibile, il grado di difficoltà del racconto mettendo le immagini perturbatrici del fantastico all’interno di una cornice linguistica volontariamente leziosa e rococò. Lo stile della lettera è barocco per quanto è carico, con bella e consapevole ironia, di elementi di arredo artistico-culturale (si parla di quartetto di Rarà, nomignolo confidenziale che sta per Ravel, libri pregiati, servizi da tè e cineserie varie, modulazione di Ozenfant, sinfonia di Mozart, ecc.). Le frasi sono intrise di garbo e antiquato rispetto galante per l’interlocutrice lontana. Sono frasi lunghe e dettagliatissime nel descrivere l’interno di un appartamento che fa pendant con la raffinatezza dello stile narrativo. Cortázar sa perfettamente che la deflagrazione del fantastico all’interno di questa situazione di soffocante rigoglio di graziosità e carinerie avrà l’effetto di un’esplosione di ritmo e senso. C’è un piccolo, infinitesimale segno premonitore, in mezzo a un contesto letterario così ridondante e affettato, che compare per la miseria di 5 parole alla seconda riga del racconto. Un lampo di senso stonato che allude misteriosamente a qualcosa di molto diverso da quello che Cortázar sta illustrando. Una frase criptica, insinuante: “Non tanto per i coniglietti”, che abbiamo sottolineato di proposito. Lettera a una signorina a Parigi Andrée, io non volevo venire ad abitare nel suo appartamento di via Suipacha. Non tanto per i coniglietti, piuttosto perché mi addolora entrare in un ordine chiuso, costruito ormai fin nelle più sottili maglie dell'aria, quelle che in casa sua preservano la musica della lavanda, il volo di un piumino per la cipria, il gioco del violino con la viola nel quartetto di Rarà. Mi amareggia entrare in un ambito dove qualcuno che vive in modo preciso e raffinato ha disposto tutto come in una reiterazione visibile della propria anima, qui i libri (da una parte in spagnolo, dall'altra in inglese e in francese), lì i cuscini verdi, in questo preciso punto del tavolino il portacenere di cristallo che sembra il frammento di una bolla di sapone, e sempre un profumo, un suono, un crescere di piante, una fotografia dell'amico morto, rituale di vassoi del tè e mollette per lo zucchero... Oh, cara Andrée, com'è difficile opporsi, anche accettandolo con l'intera sottomissione del proprio essere, all'ordine minuzioso che una donna instaura nel luogo della sua lieve residenza. Quale colpa diventa il prendere una tazzina di metallo e spostarla all'altra estremità della tavola, posarla lì semplicemente perché uno è venuto con i suoi dizionari di inglese, e proprio da questa parte, a portata di mano, è dove dovranno stare. Muovere quella tazzina equivale a un orribile rosso improvviso nel bel mezzo di una modulazione di Ozenfant, come se di colpo tutte le corde dei contrabbassi si rompessero nello stesso tempo e con la stessa spaventosa staffilata nell'istante più silenzioso di una sinfonia di Mozart. Muovere quella tazzina altera il gioco di corrispondenza di tutta la casa, di ciascun oggetto con l'altro, di ciascun momento della sua anima con l'anima intera della casa e con la sua lontana inquilina. E poi la voce narrante si comincia a muovere nei meandri labirintici di ampi periodi e di pensieri di ossequiosa e galante etichetta epistolare. Il ritmo è blando e non si intravede quale possa essere il nocciolo della questione. Ma l’autore sta prendendo tempo in modo strategicamente molto astuto, tra l’altro esibendosi in una quantità di effetti letterari resi attraverso frasi dense di immagini. Immagini che insieme attraggono e distraggono il lettore. E ogni tanto con un bagliore improvviso compare una frase che richiama qualcosa di preoccupante, come nella migliore tradizione del genere horror: E io non posso avvicinare la mano a un libro, ridurre appena il cono di luce di una lampada, aprire il carillon, senza che un sentimento di oltraggio e di sfida mi attraversi gli occhi come uno stormo di passeri. Lei sa perché sono venuto in casa sua, nel suo quieto salotto corteggiato dal mezzogiorno. Tutto sembra tanto naturale, come sempre quando non si conosce la verità. Lei è andata a Parigi, io sono rimasto nel suo appartamento di via Suipacha, abbiamo elaborato un semplice e soddisfacente piano di mutua convenienza fino a quando settembre la riporterà di nuovo a Buenos Aires e mi proietterà in qualche altra casa, dove chissà... Ma poi arriva, per meglio dire ritorna, imprevisto, il riferimento ai coniglietti che era stato appena accennato nelle prime righe della lettera. La parte fantastica del racconto giunge così sotto forma di auto confessione e quindi perfettamente in linea sia col genere letterario epistolare, ma anche con quello horror, che spesso si nutre del mascheramento di anomalie e mostruosità. Ma non le scrivo per questo, questa lettera gliela invio a causa dei coniglietti, mi sembra giusto che lei ne sia al corrente; e perché mi piace scrivere lettere, e forse perché piove. Ho traslocato giovedì scorso, alle cinque del pomeriggio, nella nebbia e nel tedio. Ho chiuso tante valigie nella mia vita, ho passato tante ore a fare bagagli che non portavano da nessuna parte, che giovedì è stato un giorno pieno di ombre e di cinghie, perché quando vedo le cinghie delle valigie è come se vedessi ombre, elementi di una sferza che mi colpisce indirettamente, nel modo più sottile e più orribile. Comunque, ho fatto le valigie, ho avvisato la sua cameriera che mi sarei installato qui, e sono salito nell'ascensore. Proprio fra il primo e il secondo piano ho sentito che stavo per vomitare un coniglietto. Non gliene avevo mai detto niente, non per slealtà creda, solo che uno non si mette a spiegare alla gente che di tanto in tanto vomita un coniglietto. Poiché mi è sempre capitato mentre ero solo, tenevo la cosa per me, come ci si tengono per sé le prove di tante cose che accadono (o facciamo accadere) nell'assoluta intimità. Non mi rimproveri per questo, Andrée, non mi rimproveri. Di tanto in tanto mi capita di vomitare un coniglietto. Non è una buona ragione per non vivere in una qualsiasi casa, non è una buona ragione perché uno debba vergognarsi e restare isolato e continuare a tacere. Da qui in poi inizia un trattatello molto puntuale sul processo di vomitamento dei coniglietti che arriva alla sua apoteosi creativa quando Cortázar porta il testo in spazi di ritmo e movimento liricheggiante: Quando sento che sto per vomitare un coniglietto, mi ficco due dita in bocca come una pinza aperta, e aspetto di sentire nella gola la peluria tiepida che sale come un’effervescenza di sali di frutta. Tutto è veloce e igienico, avviene in un brevissimo istante. Estraggo le dita dalla bocca, e fra di esse stringo per le orecchie un coniglietto bianco. Il coniglietto sembra contento, è un coniglietto normale e perfetto, soltanto molto piccolo, piccolo come un coniglietto di cioccolato ma bianco e in tutto e per tutto un coniglietto. Lo poso sul palmo della mano, gli sollevo il pelo con una carezza delle dita, il coniglietto sembra soddisfatto di essere nato e freme e frega il musetto contro la mia pelle, muovendolo con quella triturazione silenziosa e solleticante del musetto di un coniglio contro la pelle di una mano. Cerca da mangiare e allora io (parlo di quando tutto ciò accadeva nella mia casa di periferia) lo porto con me sul balcone e lo poso nel grande vaso dove cresce il trifoglio che ho seminato apposta. Il coniglietto rizza del tutto le orecchie, avvolge un trifoglio tenero in un veloce mulinello del musetto, e io so che posso lasciarlo e andarmene, continuare per un po' di tempo una vita non dissimile da quella dei tanti che comperano i loro conigli nelle fattorie. Fra il primo e il secondo piano, Andrée, come ad annunciare quale sarebbe stata la mia vita nella sua casa, seppi che stavo per vomitare un coniglietto. Subito ne fui impaurito (o era meraviglia? No, paura della stessa meraviglia, forse) perché prima di lasciare la mia casa, solo due giorni innanzi, avevo vomitato un coniglietto, e pensavo di potermene stare tranquillo per un mese, per cinque settimane, forse per sei, con un po' di fortuna. Guardi, io avevo risolto il problema dei coniglietti alla perfezione. Seminavo trifoglio sul balcone dell'altra mia casa, vomitavo un coniglietto, lo mettevo nel trifoglio e in capo a un mese, quando cominciavo a sospettare che da un momento all’altro... allora regalavo il coniglio cresciuto alla signora de Molina, che credeva a un hobby e taceva. E già in un altro vaso cresceva un trifoglio tenero e propizio, io aspettavo senza alcuna preoccupazione la mattina in cui il solletico di una fine peluria che saliva mi avrebbe stretto la gola, e il nuovo coniglietto avrebbe ripetuto fin da quel momento la vita e le abitudini di quello precedente. Le abitudini, Andrée, sono forme concrete del ritmo, sono la quota di ritmo che ci aiuta a vivere. Non era poi tanto terribile vomitare coniglietti una volta entrati nel ciclo invariabile, nel metodo. Lei vorrà sapere la causa di tanta fatica, il perché di tutto quel trifoglio e della signora de Molina. Sarebbe stato preferibile uccidere subito il coniglietto e... Ah, dovrebbe vomitarne uno solo anche lei, prenderlo con due dita e posarlo sulla mano aperta, ancora aderente a lei nell'atto stesso, nell’aura ineffabile di una prossimità appena infranta. Un mese distanzia molto; un mese significa dimensioni, pelo lungo, salti, occhi selvaggi, differenza assoluta. Andrée, un mese è un coniglio, fa davvero un coniglio; ma il minuto iniziale, quando il bioccolo tiepido e fremente nasconde una presenza inalienabile... Come una poesia nei primi minuti, il frutto di una notte di Idumea così nostro quanto noi stessi... e dopo non più, tanto isolato e distante nel suo piatto mondo bianco formato lettera… La venuta alla luce del coniglietto è paragonata alla nascita di una poesia. E anche il tempo successivo alla creazione di un coniglietto è confrontato col distacco personale che cresce col passar delle ore tra il poeta e la propria poesia. Una volta svelato il segreto che spezza il clima di armonia letteraria del racconto, Cortázar rientra nell’ambito dell’esposizione dotta che caratterizzava la prima parte del racconto. Da adesso in poi le due parti, quella barocca e quella fantastica, cammineranno fianco a fianco in un ibridismo armonizzato benissimo. Anche se il fantastico ha ormai intaccato per sempre, sotto forma di candidi coniglietti, la perfezione rarefatta dell’ambiente iniziale e porterà inesorabilmente, con “aggraziato sfacelo”, allo straordinario finale. Finale che aggiunge un’ulteriore sfumatura di genere a questo racconto complesso e geniale: […] Faccio tutto quello che posso perché non rovinino le sue cose. Hanno rosicchiato un po’ i libri dello scaffale più basso, lei li troverà nascosti affinché Sara non si accorga di nulla. Amava molto la sua lampada con il globo di porcellana pieno di farfalle e di cavalieri antichi? Ci si accorge appena dell’incrinatura, ho lavorato tutta la notte con una colla speciale di marca inglese – lei sa che le marche inglesi sono le migliori – e adesso mi ci metto a fianco in modo che nessuno la raggiunga un’altra volta con le zampe (è quasi bello vedere come gli piace fermarsi di botto e alzarsi sulle zampe, nostalgia dell’umano distante, forse imitazione del loro dio che si muove e li guarda torvo; avrà osservato – forse, da bambina – che si può mettere in castigo un coniglietto contro il muro, fermo, con le zampine appoggiate e lasciarlo là quieto ore e ore). I coniglietti candidi e poetici di Cortázar hanno il ruolo terribile di far saltare il senso di un mondo costruito per creare armonie intellettuali. Le ultime righe del racconto diventano così, con un ritmo reso più sincopato dall’emozione della voce narrante, un vero e proprio testamento. […] Ecco: dieci andava bene, con un armadio, trifoglio e speranza, quante cose si possono fare. Non più con undici, perché dire undici significa sicuramente dodici, Andrée, dodici che sarà tredici. Allora ecco l’alba e una fredda solitudine che racchiude l’allegria, i ricordi, lei e forse assai di più. Ecco questo balcone su via Suipacha pieno d’alba, i primi rumori della città. Non credo che sarà difficile raccogliere undici coniglietti disseminati sul selciato, magari non si accorgeranno neppure di loro, affannati come saranno intorno all’altro corpo che conviene portar via subito, prima che passino gli scolari più mattinieri. Esercizio 9 Inventare due incipit, di massimo 10 righe ciascuno, per due possibili racconti fantastici. Entrambi devono basarsi su una potente immagine iniziale. Esercizio 10 Ora un esercizio sull’invenzione di un animale fantastico. Prendete come vostri modelli possibili uno degli esempi seguenti realizzati rispettivamente da Jorge Luis Borges, Marco Papa e Massimo Mongai. Dovrete inventare l’animale a partire dal nome pseudo-scientifico fino a descrivere le peculiarità del comportamento, le abitudini alimentari, sessuali ecc. Avete a disposizione al massimo 30 righe. Ovviamente bisogna anche continuare il racconto avviato. Lo squonk (Lacrimacorpus dissolvens) di Jorge Luis Borges (dal Manual de zoología fantástica, 1957, Manuale di zoologia fantastica, Einaudi 1998, traduzione di Franco Lucentini, pagina 134) La zona dello squonk è molto limitata. Fuori di Pennsylvania poche persone ne hanno sentito parlare, benché nelle cicutaie di quello stato sembri abbastanza comune. Lo squonk è di tinta molto cupa e in genere viaggia all’ora del crepuscolo. La pelle, che è coperta di verruche e di nèi, non gli calza bene; a giudizio dei competenti, è il più sfortunato tra tutti gli animali. Rintracciarlo è facile, perché piange continuamente e lascia una traccia di lagrime. Quando lo serrano e non può fuggire, o quando lo sorprendono e lo spaventano, si dissolve in lagrime. I cacciatori di squonk hanno più fortuna nelle notti di freddo e di luna, quando le lagrime cadono lente e all'animale non piace muoversi; il suo pianto s'ode sotto i rami degli oscuri arbusti di cicuta. Il signor J. P. Wentling, già di Pennsylvania, e ora residente a St Anthony Park, Minnesota, ebbe una triste esperienza con uno squonk nei pressi di Monte Alto. Aveva imitato il pianto dello squonk e aveva indotto l'animale a entrare in una borsa, che ora stava portando a casa, quando all'improvviso il peso s'alleggerì e il pianto smise. Wentling aprì la borsa: non restavano più che lagrime e borboglio. William T. Cox, Fearsome Creatures of the Lumberwoods, Washington 1910. Lo psicotarlo di Marco Papa (da Animalario, Theoria, 1987, pagina 16) Sullo psicotarlo potrei scrivere un trattato. Lo conosco benissimo. E lo odio, naturalmente, questo brutto paguro – se ne hai mai visto uno – che ha caratteristiche dell’odradek, della piattola (ovvio!), della vespa nel bicchiere, del virus. Lo psicotarlo attacca spesso quella zona del corpo umano delimitata dal sopracciglio e dall’occhiaia nera che incupisce l’occhio. Lo psicotarlo ama scavare appunto quell’occhiaia, svuotare lo sguardo. Perciò è detto, più comunemente, occhialone (da non confondersi con il piviere minore) o rompipupille. Quando invece preferisce le parti basse, brucare i riccioli del pube o divorare l’inguine o i testicoli, cambia nome. Non ti dico quale. Né perché. Né che dolore. L’antivampiro di Marco Papa (da Animalario, Theoria, 1987, pagina 18) Si distingue dal vampiro (di cui è nemico) per questa peculiarità: inietta sangue invece di succhiarlo. Finché la vena attaccata dai denti, gonfiatasi all’inverosimile, sovraccarica, esplode, e il sangue sprizza a soffioni bollenti. Allora il mammifero si distacca, deperito, vacillante sulle sue mezze ali pelose, quasi morto per la quantità di sangue iniettato, ma tremendamente felice. Come dopo un matto potlach. Zio Cri (Il Cugino Del Grillo Saggio Di Pinocchio) di Massimo Mongai da Che animale sei? Omero editore, 2005 La negazione del Grillo Saggio. Superficiale, incostante, ubriacone, grillaiolo (nel senso delle grille) e se ne vanta anche ("Non ho grilli per la testa, io!" dice e ride come un cretino). La dannazione del cugino, la pecora nera della famiglia. Per fortuna che è stato fatto interdire per tempo, ché il posto di mentore, nel "Pinocchio" in teoria toccava a lui. Figurarsi! Il Gaarg di Massimo Mongai da Che animale sei? Omero editore, 2005 Così detto per il suo famoso grido. Animale molto introspettivo, con un grande senso dell'orrore di sé stesso, per le sue note e brutte abitudini, sapete a cosa mi riferisco... Per questo quando si scopre e si comprende, urla.