Intermedio ritmo e movimento 6

Transcript

Intermedio ritmo e movimento 6
Lezione 6
RITMO E MOVIMENTO
SURREALE
NEL
RACCONTO
FANTASTICO-
Cominciamo questa lezione in modo veramente “fantastico” con la serie di
brani di racconti che seguono e che sono quasi tutti inizi:
Una volta ero innamorato di una donna a cui crebbero denti su tutto il corpo.
Il primo fece la sua comparsa sotto forma di un puntino duro sull’ombelico.
(da Dentaphilia di Julia Slavin, 1999, tratto dalla raccolta The Woman Who
Cut Off Her Leg at the Maidstone Club, Odontofilia, nella raccolta di
racconti Burned Children of America, minimum fax, 2001, traduzione di
Martina Testa, pag. 225 )
Godzilla, che sta andando al lavoro in fonderia, vede un grosso edificio che
sembra essere fatto interamente di rame lucido e scuro vetro solare
riflettente. Vede la sua immagine rispecchiata nelle vetrate e pensa ai vecchi
tempi, si chiede cosa proverebbe a saltare sull’edificio, sputargli fiamme
addosso, annerire le finestre con il suo fiato ardente, poi ballare
gioiosamente tra le rovine fumanti.
(da Godzilla’s Twelve Step Program, di Joe R. Lansdale, 1994, Godzilla in
riabilitazione, nella raccolta di racconti Maneggiare con cura, Fanucci
Editore, 2002, traduzione di Umberto Rossi, pag. 57)
Il ragazzo era nato con le dita a forma di chiave. Tutte tranne una, il
mignolo della destra, avevano rilievi aguzzi dal lato interno, per tutta la
lunghezza, e un cerchio piatto sul polpastrello.
(da The Leading Man, di Aimee Bender, inedito negli Usa, Il protagonista,
nella raccolta di racconti Burned Children of America 2001, minimum fax,
traduzione di Laura Pugno, pag. 13 )
Possiedo uno strano animale, metà gattino, metà agnello. L’ho ereditato da
mio padre, ma si è sviluppato soltanto ai miei giorni, prima era molto più
agnello che gattino.
(da Eine Kreuzung, di Franz Kafka, 1917, Un incrocio, nella raccolta Tutti i
racconti, 1998, Oscar Mondadori, traduzione di Rodolfo Paoli, pag. 383)
[…] Di tanto in tanto mi capita di vomitare un coniglietto. Quando sento che
sto per vomitare un coniglietto, mi ficco due dita in bocca come una pinza
aperta, e aspetto di sentire nella gola la peluria tiepida che sale come
un’effervescenza di sali di frutta.
(da Carta a una señorita en París, di Julio Cortázar, racconto tratto dalla
raccolta Bestiario, 1951, Lettera a una signorina a Parigi, da Bestiario,
Einaudi, 1996, traduzione di Flaviarosa Nicoletti Rossini, pag. 10)
Perché vi ho proposto questa sequenza di brani tra l’inquietante e l’assurdo?
Perché dovendo scegliere un genere letterario da mettere alla prova del
fuoco del ritmo e del movimento mi è sembrato più ricco di spunti e
possibilità espressive proprio il racconto fantastico. Attraverso il racconto
fantastico si può interpretare con maggior libertà ideativa ed espressiva una
data realtà mettendola a soqquadro e sovvertendo i rapporti tra gli elementi
compositivi in campo. Tutto questo si può ottenere grazie alla potenza
immaginifica radicata in questo genere letterario. Un bel racconto fantastico
nasce da immagini fortissime e suggestive. E queste immagini, che si
stagliano potenti fin dalle prime righe, danno linfa vitale allo scorrere di
tutto un racconto. Quando in un laboratorio di scrittura in aula
l’immaginazione dei nostri allievi diventa fiacca e si scolorisce in modo
preoccupante, la terapia d’urto consiste in una bella successione di letture di
racconti fantastici. E così d’improvviso le relazioni più nascoste e impensate
tra personaggi e ambienti delle storie ritrovano ritmo e senso, attraverso
aperture sorprendenti, ma possibili. La serie di inizi che precede la lezione
odierna è indicativa di quanto siano condizionanti, più che in altri ambiti
narrativi, gli incipit del genere fantastico. Le parole che danno vita alla
storia offrono subito un senso di straordinarietà all’ambiente e ai personaggi
che agiranno nel racconto. L’immagine iniziale determina il movimento
dell’intero racconto. Si tratta quasi sempre di un’immagine che influisce, per
le sue caratteristiche di senso visivo, anche sul tono del racconto che può
essere, fin dall’incipit, ansiogeno, beffardo, ironico, drammatico, onirico,
comico, erotico, demenziale, ecc. I racconti fantastici sono sempre impostati
su un’eccezione che si innesta sorprendentemente nella realtà circostante. E
questa situazione eccezionale viene subito mostrata dall’autore in modo che
con gradualità, più o meno parossistica, lo svolgersi della storia possa avere
un forte tirante drammatico. La trama tira la corda in ogni parte della
narrazione e la storia può fermarsi solo al termine della concatenazione di
effetti narrativi che è in grado di produrre l’immagine iniziale. L’autore ha il
compito di sfruttare al massimo ogni singola particella narrativa racchiusa
nella visione iniziale, senza sprecare nessuna stilla creativa. L’avvio del
racconto fantastico dichiara subito al lettore se l’invenzione che muove il
suo mondo narrativo dominerà la storia e di conseguenza il suo ritmo e
movimento. Oppure se sarà lo stile dell’autore a contare di più, nonostante il
sovvertimento del mondo narrato provocato dal meccanismo ideativo. Per
capire meglio il senso di queste riflessioni diamo un’occhiata a due incipit
di racconto fantastico dalle qualità contrastanti. Un incipit mostra dalla
prima frase la peculiarità straordinaria della storia e l’altro invece esalta e
mette in luce lo stile dell’autore sciogliendo l’immagine decisiva della storia
solamente a racconto avviato.
Cominciamo da Franz Kafka e dal suo Eine Kreuzung, Un incrocio, del
1917, da Tutti i racconti, Oscar Mondadori, 1998, traduzione di Rodolfo
Paoli, pag. 383-384. In questa breve narrazione la prima frase, messa in
risalto grafico, influenza tutto il resto:
L’incrocio
Possiedo uno strano animale, metà gattino, metà agnello. L’ho ereditato
da mio padre, ma si è sviluppato soltanto ai miei giorni, prima era molto più
agnello che gattino. Adesso invece ha, direi, tanto dell'uno quanto dell'altro:
del gatto ha la testa e gli artigli, dell'agnello la grossezza e la forma, di
entrambi gli occhi selvaggi e fiammeggianti, il pelo morbido e aderente, i
movimenti ora saltellanti ora striscianti. Sul davanzale al sole si acciambella
e fa le fusa, sul prato corre all'impazzata ed è quasi impossibile rincorrerlo.
Quando incontra un gatto fugge, mentre invece aggredisce gli agnelli. Nelle
notti di luna la grondaia è la sua passeggiata preferita. Non sa miagolare e
ha ripugnanza dei topi. Se ne sta per ore in agguato presso il pollaio, ma non
ha mai approfittato d'una occasione di uccidere.
Lo nutro di latte dolce che è quello che gli fa più bene. Lo succhia a lunghe
sorsate, facendolo passare tra i denti da animale feroce. Naturalmente è un
grande divertimento dei bambini. La domenica mattina ricevo le visite:
tengo la bestiola in grembo e i bambini di tutto il vicinato mi stanno intorno.
Allora fanno le più strampalate domande alle quali nessuno può rispondere:
perché esiste un solo animale così, perché lo possiedo proprio io, se ce n'è
mai stato un altro prima di questo, e come sarà dopo morto, e se si sente
solo, e perché non ha cuccioli, come si chiama.
Io non mi sforzo di rispondere, ma senza altre spiegazioni mi limito a
mostrare ciò che possiedo. Qualche volta i bambini portano gatti, una volta
portarono persino due agnelli. Contrariamente a ciò che si aspettavano, non
ci furono però scene di riconoscimento. Gli animali si guardarono tranquilli
e accettarono evidentemente la loro esistenza come una realtà divina.
Nel mio grembo l'animale non ha né paura né aggressività. Quando mi si
stringe addosso si sente bene più che mai. È attaccato alla famiglia che lo ha
allevato. E non credo sia non so quale fedeltà straordinaria, è soltanto il
giusto istinto di un animale che sulla terra ha un numero infinito di parenti,
ma forse nessun consanguineo prossimo, cui pertanto è sacra la protezione
che ha trovato in casa nostra.
Certe volte mi viene da ridere, quando vedo che mi fiuta, mi striscia fra le
gambe e non vuol staccarsi da me. Non contento di essere agnello e gatto
pare quasi che voglia essere anche cane. Una volta, come può capitare a
tutti, non riuscivo a trovare un ripiego nei miei affari e in tutto ciò che vi è
collegato, stavo per abbandonare ogni cosa e in questo stato d'animo ero in
casa, sulla sedia a dondolo, l'animale sulle ginocchia, allorché, chinando
per caso lo sguardo, vidi gocciolare lagrime dai suoi enormi baffi. Erano
lagrime mie o erano sue? Quell'anima di gatto e agnello aveva anche
ambizioni umane? - Da mio padre non ho ereditato molto, ma devo dire
che questo pezzo qualche cosa vale. Cose che penso sul serio.
Ha l'inquietudine di entrambi, quella del gatto e quella dell'agnello, per
quanto siano diverse, perciò non sa stare nella sua pelle. Talvolta balza
sulla sedia accanto a me, mi appoggia le zampe anteriori sulla spalla e
accosta il muso al mio orecchio. Pare che mi dica qualcosa e in verità poi si
sporge e mi guarda in faccia per vedere l’impressione che mi hanno fatto le
sue comunicazioni. Per essere compiacente, fingo di aver capito e
annuisco. Allora salta sul pavimento e fa un balletto.
Per questo animale il coltello del macellaio potrebbe forse essere una
redenzione, ma avendolo ereditato gliela devo negare. Perciò dovrà
aspettare finché gli manchi il fiato, anche se talvolta mi guarda con
intelligenti occhi umani che invitano ad agire con intelligenza.
In questo racconto su un ibrido Kafka mescola le caratteristiche fisiche di un
animale con quelle dell’altro e così i loro comportamenti. La forza letteraria
dell’autore sta nel non concedere niente alla spettacolarità degli aspetti
mostruosi presenti nella storia. La voce narrante descrive in successione,
con pacatezza e serenità domestica, le specialità ibride di questo unico
esemplare di agnello-gatto. È nel rapporto di intimità casalinga che Kafka
gioca le sue carte di grande invenzione artistica. Questo animale favoloso in
fin dei conti assume dei comportamenti del tutto consoni alla sua
conformazione biologica. Chi lo descrive lo fa abbassando di proposito ogni
eccesso e alterazione di tono. Il taglio è dimesso e forse per questo più
preoccupante per il lettore. Tutta questa tranquillità espressiva contrasta con
l’immagine iniziale. Il ritmo cozza contro il senso e crea contrasto
drammaturgico. Chiunque voglia vedere nell’ibrido un fenomeno da
baraccone non trova niente di particolarmente impressionante e
spaventevole. La sua al massimo, usando un’antilogia, è una ferocia-docile
come è benissimo rappresentata nella frase:
Lo nutro di latte dolce che è quello che gli fa più bene. Lo succhia a lunghe
sorsate, facendolo passare tra i denti da animale feroce.
Quello che non è visto da nessuno, a parte la voce narrante e il lettore suo
testimone privilegiato, e che si presenta come veramente eccezionale è il
contegno sentimentale e fortemente partecipe all’umano soffrire da parte
dell’ibrido:
allorché, chinando per caso lo sguardo, vidi gocciolare lagrime dai suoi
enormi baffi. Erano lagrime mie o erano sue? Quell'anima di gatto e agnello
aveva anche ambizioni umane?
Questa notazione rende l’ibrido una specie di alter ego animale della voce
narrante. Tra loro due, o meglio loro tre (l’ibrido vale per due), si crea
un’intesa, o una parvenza di intesa, che innesca il balletto mirabolante
dell’ibrido:
Talvolta balza sulla sedia accanto a me, mi appoggia le zampe anteriori sulla
spalla e accosta il muso al mio orecchio. Pare che mi dica qualcosa e in
verità poi si sporge e mi guarda in faccia per vedere l’impressione che mi
hanno fatto le sue comunicazioni. Per essere compiacente, fingo di aver
capito e annuisco. Allora salta sul pavimento e fa un balletto.
Questa intesa reciproca, recitata e artefatta dalla voce narrante, crea un
effetto straniante, di comicità cabarettistica. Nel finale invece si
accumulano d’improvviso delle nuvole nere che trattano, con la stessa
rapidità e incisività del resto del brano, il tema della morte. Una morte e un
racconto che vedono entrambi rinviata la fine grazie a un finale aperto e
quindi a un ultimo grande colpo di coda del magnifico Kafka.
Di ben altro registro espressivo è il racconto fantastico di Julio Cortázar
Carta a una señorita en París, 1948, Lettera a una signorina a Parigi
tratto dalla raccolta Bestiario del 1951, Bestiario, edizione Einaudi
Tascabili, 1996, traduzione di Flaviarosa Nicoletti Rossini.
Il fantastico è qui inserito all’interno di un’ulteriore tipologia narrativa che è
il genere epistolare. Così facendo Cortázar aumenta, se possibile, il grado di
difficoltà del racconto mettendo le immagini perturbatrici del fantastico
all’interno di una cornice linguistica volontariamente leziosa e rococò. Lo
stile della lettera è barocco per quanto è carico, con bella e consapevole
ironia, di elementi di arredo artistico-culturale (si parla di quartetto di Rarà,
nomignolo confidenziale che sta per Ravel, libri pregiati, servizi da tè e
cineserie varie, modulazione di Ozenfant, sinfonia di Mozart, ecc.). Le frasi
sono intrise di garbo e antiquato rispetto galante per l’interlocutrice lontana.
Sono frasi lunghe e dettagliatissime nel descrivere l’interno di un
appartamento che fa pendant con la raffinatezza dello stile narrativo.
Cortázar sa perfettamente che la deflagrazione del fantastico all’interno di
questa situazione di soffocante rigoglio di graziosità e carinerie avrà
l’effetto di un’esplosione di ritmo e senso. C’è un piccolo, infinitesimale
segno premonitore, in mezzo a un contesto letterario così ridondante e
affettato, che compare per la miseria di 5 parole alla seconda riga del
racconto. Un lampo di senso stonato che allude misteriosamente a qualcosa
di molto diverso da quello che Cortázar sta illustrando. Una frase criptica,
insinuante: “Non tanto per i coniglietti”, che abbiamo sottolineato di
proposito.
Lettera a una signorina a Parigi
Andrée,
io non volevo venire ad abitare nel suo appartamento di via Suipacha. Non
tanto per i coniglietti, piuttosto perché mi addolora entrare in un ordine
chiuso, costruito ormai fin nelle più sottili maglie dell'aria, quelle che in
casa sua preservano la musica della lavanda, il volo di un piumino per la
cipria, il gioco del violino con la viola nel quartetto di Rarà. Mi amareggia
entrare in un ambito dove qualcuno che vive in modo preciso e raffinato ha
disposto tutto come in una reiterazione visibile della propria anima, qui i
libri (da una parte in spagnolo, dall'altra in inglese e in francese), lì i cuscini
verdi, in questo preciso punto del tavolino il portacenere di cristallo che
sembra il frammento di una bolla di sapone, e sempre un profumo, un
suono, un crescere di piante, una fotografia dell'amico morto, rituale di
vassoi del tè e mollette per lo zucchero... Oh, cara Andrée, com'è difficile
opporsi, anche accettandolo con l'intera sottomissione del proprio essere,
all'ordine minuzioso che una donna instaura nel luogo della sua lieve
residenza. Quale colpa diventa il prendere una tazzina di metallo e spostarla
all'altra estremità della tavola, posarla lì semplicemente perché uno è venuto
con i suoi dizionari di inglese, e proprio da questa parte, a portata di mano, è
dove dovranno stare. Muovere quella tazzina equivale a un orribile rosso
improvviso nel bel mezzo di una modulazione di Ozenfant, come se di colpo
tutte le corde dei contrabbassi si rompessero nello stesso tempo e con la
stessa spaventosa staffilata nell'istante più silenzioso di una sinfonia di
Mozart. Muovere quella tazzina altera il gioco di corrispondenza di tutta la
casa, di ciascun oggetto con l'altro, di ciascun momento della sua anima con
l'anima intera della casa e con la sua lontana inquilina.
E poi la voce narrante si comincia a muovere nei meandri labirintici di ampi
periodi e di pensieri di ossequiosa e galante etichetta epistolare. Il ritmo è
blando e non si intravede quale possa essere il nocciolo della questione. Ma
l’autore sta prendendo tempo in modo strategicamente molto astuto, tra
l’altro esibendosi in una quantità di effetti letterari resi attraverso frasi dense
di immagini. Immagini che insieme attraggono e distraggono il lettore. E
ogni tanto con un bagliore improvviso compare una frase che richiama
qualcosa di preoccupante, come nella migliore tradizione del genere horror:
E io non posso avvicinare la mano a un libro, ridurre appena il cono di luce
di una lampada, aprire il carillon, senza che un sentimento di oltraggio e di
sfida mi attraversi gli occhi come uno stormo di passeri.
Lei sa perché sono venuto in casa sua, nel suo quieto salotto corteggiato dal
mezzogiorno. Tutto sembra tanto naturale, come sempre quando non si
conosce la verità. Lei è andata a Parigi, io sono rimasto nel suo appartamento di via Suipacha, abbiamo elaborato un semplice e soddisfacente
piano di mutua convenienza fino a quando settembre la riporterà di nuovo a
Buenos Aires e mi proietterà in qualche altra casa, dove chissà...
Ma poi arriva, per meglio dire ritorna, imprevisto, il riferimento ai
coniglietti che era stato appena accennato nelle prime righe della lettera. La
parte fantastica del racconto giunge così sotto forma di auto confessione e
quindi perfettamente in linea sia col genere letterario epistolare, ma anche
con quello horror, che spesso si nutre del mascheramento di anomalie e
mostruosità.
Ma non le scrivo per questo, questa lettera gliela invio a causa dei
coniglietti, mi sembra giusto che lei ne sia al corrente; e perché mi piace
scrivere lettere, e forse perché piove.
Ho traslocato giovedì scorso, alle cinque del pomeriggio, nella nebbia e nel
tedio. Ho chiuso tante valigie nella mia vita, ho passato tante ore a fare
bagagli che non portavano da nessuna parte, che giovedì è stato un giorno
pieno di ombre e di cinghie, perché quando vedo le cinghie delle valigie è
come se vedessi ombre, elementi di una sferza che mi colpisce
indirettamente, nel modo più sottile e più orribile. Comunque, ho fatto le
valigie, ho avvisato la sua cameriera che mi sarei installato qui, e sono salito
nell'ascensore. Proprio fra il primo e il secondo piano ho sentito che stavo
per vomitare un coniglietto. Non gliene avevo mai detto niente, non per
slealtà creda, solo che uno non si mette a spiegare alla gente che di tanto in
tanto vomita un coniglietto. Poiché mi è sempre capitato mentre ero solo,
tenevo la cosa per me, come ci si tengono per sé le prove di tante cose che
accadono (o facciamo accadere) nell'assoluta intimità. Non mi rimproveri
per questo, Andrée, non mi rimproveri. Di tanto in tanto mi capita di
vomitare un coniglietto. Non è una buona ragione per non vivere in una
qualsiasi casa, non è una buona ragione perché uno debba vergognarsi e
restare isolato e continuare a tacere.
Da qui in poi inizia un trattatello molto puntuale sul processo di
vomitamento dei coniglietti che arriva alla sua apoteosi creativa quando
Cortázar porta il testo in spazi di ritmo e movimento liricheggiante:
Quando sento che sto per vomitare un coniglietto, mi ficco due dita in bocca
come una pinza aperta, e aspetto di sentire nella gola la peluria tiepida che
sale come un’effervescenza di sali di frutta. Tutto è veloce e igienico,
avviene in un brevissimo istante. Estraggo le dita dalla bocca, e fra di esse
stringo per le orecchie un coniglietto bianco. Il coniglietto sembra contento,
è un coniglietto normale e perfetto, soltanto molto piccolo, piccolo come un
coniglietto di cioccolato ma bianco e in tutto e per tutto un coniglietto. Lo
poso sul palmo della mano, gli sollevo il pelo con una carezza delle dita, il
coniglietto sembra soddisfatto di essere nato e freme e frega il musetto
contro la mia pelle, muovendolo con quella triturazione silenziosa e
solleticante del musetto di un coniglio contro la pelle di una mano. Cerca da
mangiare e allora io (parlo di quando tutto ciò accadeva nella mia casa di
periferia) lo porto con me sul balcone e lo poso nel grande vaso dove cresce
il trifoglio che ho seminato apposta. Il coniglietto rizza del tutto le orecchie,
avvolge un trifoglio tenero in un veloce mulinello del musetto, e io so che
posso lasciarlo e andarmene, continuare per un po' di tempo una vita non
dissimile da quella dei tanti che comperano i loro conigli nelle fattorie.
Fra il primo e il secondo piano, Andrée, come ad annunciare quale sarebbe
stata la mia vita nella sua casa, seppi che stavo per vomitare un coniglietto.
Subito ne fui impaurito (o era meraviglia? No, paura della stessa meraviglia,
forse) perché prima di lasciare la mia casa, solo due giorni innanzi, avevo
vomitato un coniglietto, e pensavo di potermene stare tranquillo per un
mese, per cinque settimane, forse per sei, con un po' di fortuna. Guardi, io
avevo risolto il problema dei coniglietti alla perfezione. Seminavo trifoglio
sul balcone dell'altra mia casa, vomitavo un coniglietto, lo mettevo nel
trifoglio e in capo a un mese, quando cominciavo a sospettare che da un
momento all’altro... allora regalavo il coniglio cresciuto alla signora de
Molina, che credeva a un hobby e taceva. E già in un altro vaso cresceva un
trifoglio tenero e propizio, io aspettavo senza alcuna preoccupazione la
mattina in cui il solletico di una fine peluria che saliva mi avrebbe stretto la
gola, e il nuovo coniglietto avrebbe ripetuto fin da quel momento la vita e le
abitudini di quello precedente. Le abitudini, Andrée, sono forme concrete
del ritmo, sono la quota di ritmo che ci aiuta a vivere. Non era poi tanto
terribile vomitare coniglietti una volta entrati nel ciclo invariabile, nel
metodo. Lei vorrà sapere la causa di tanta fatica, il perché di tutto quel
trifoglio e della signora de Molina. Sarebbe stato preferibile uccidere subito
il coniglietto e... Ah, dovrebbe vomitarne uno solo anche lei, prenderlo con
due dita e posarlo sulla mano aperta, ancora aderente a lei nell'atto stesso,
nell’aura ineffabile di una prossimità appena infranta. Un mese distanzia
molto; un mese significa dimensioni, pelo lungo, salti, occhi selvaggi,
differenza assoluta. Andrée, un mese è un coniglio, fa davvero un coniglio;
ma il minuto iniziale, quando il bioccolo tiepido e fremente nasconde una
presenza inalienabile... Come una poesia nei primi minuti, il frutto di una
notte di Idumea così nostro quanto noi stessi... e dopo non più, tanto isolato
e distante nel suo piatto mondo bianco formato lettera…
La venuta alla luce del coniglietto è paragonata alla nascita di una poesia. E
anche il tempo successivo alla creazione di un coniglietto è confrontato col
distacco personale che cresce col passar delle ore tra il poeta e la propria
poesia. Una volta svelato il segreto che spezza il clima di armonia letteraria
del racconto, Cortázar rientra nell’ambito dell’esposizione dotta che
caratterizzava la prima parte del racconto. Da adesso in poi le due parti,
quella barocca e quella fantastica, cammineranno fianco a fianco in un
ibridismo armonizzato benissimo. Anche se il fantastico ha ormai intaccato
per sempre, sotto forma di candidi coniglietti, la perfezione rarefatta
dell’ambiente iniziale e porterà inesorabilmente, con “aggraziato sfacelo”,
allo straordinario finale. Finale che aggiunge un’ulteriore sfumatura di
genere a questo racconto complesso e geniale:
[…] Faccio tutto quello che posso perché non rovinino le sue cose. Hanno
rosicchiato un po’ i libri dello scaffale più basso, lei li troverà nascosti
affinché Sara non si accorga di nulla. Amava molto la sua lampada con il
globo di porcellana pieno di farfalle e di cavalieri antichi? Ci si accorge
appena dell’incrinatura, ho lavorato tutta la notte con una colla speciale di
marca inglese – lei sa che le marche inglesi sono le migliori – e adesso mi ci
metto a fianco in modo che nessuno la raggiunga un’altra volta con le
zampe (è quasi bello vedere come gli piace fermarsi di botto e alzarsi sulle
zampe, nostalgia dell’umano distante, forse imitazione del loro dio che si
muove e li guarda torvo; avrà osservato – forse, da bambina – che si può
mettere in castigo un coniglietto contro il muro, fermo, con le zampine
appoggiate e lasciarlo là quieto ore e ore).
I coniglietti candidi e poetici di Cortázar hanno il ruolo terribile di far
saltare il senso di un mondo costruito per creare armonie intellettuali. Le
ultime righe del racconto diventano così, con un ritmo reso più sincopato
dall’emozione della voce narrante, un vero e proprio testamento.
[…] Ecco: dieci andava bene, con un armadio, trifoglio e speranza, quante
cose si possono fare. Non più con undici, perché dire undici significa
sicuramente dodici, Andrée, dodici che sarà tredici. Allora ecco l’alba e una
fredda solitudine che racchiude l’allegria, i ricordi, lei e forse assai di più.
Ecco questo balcone su via Suipacha pieno d’alba, i primi rumori della città.
Non credo che sarà difficile raccogliere undici coniglietti disseminati sul
selciato, magari non si accorgeranno neppure di loro, affannati come
saranno intorno all’altro corpo che conviene portar via subito, prima che
passino gli scolari più mattinieri.
Esercizio 9
Inventare due incipit, di massimo 10 righe ciascuno, per due possibili
racconti fantastici. Entrambi devono basarsi su una potente immagine
iniziale.
Esercizio 10
Ora un esercizio sull’invenzione di un animale fantastico. Prendete come
vostri modelli possibili uno degli esempi seguenti realizzati rispettivamente
da Jorge Luis Borges, Marco Papa e Massimo Mongai. Dovrete inventare
l’animale a partire dal nome pseudo-scientifico fino a descrivere le
peculiarità del comportamento, le abitudini alimentari, sessuali ecc. Avete a
disposizione al massimo 30 righe.
Ovviamente bisogna anche continuare il racconto avviato.
Lo squonk (Lacrimacorpus dissolvens)
di Jorge Luis Borges
(dal Manual de zoología fantástica, 1957, Manuale di zoologia fantastica,
Einaudi 1998, traduzione di Franco Lucentini, pagina 134)
La zona dello squonk è molto limitata. Fuori di Pennsylvania poche persone
ne hanno sentito parlare, benché nelle cicutaie di quello stato sembri
abbastanza comune. Lo squonk è di tinta molto cupa e in genere viaggia
all’ora del crepuscolo. La pelle, che è coperta di verruche e di nèi, non gli
calza bene; a giudizio dei competenti, è il più sfortunato tra tutti gli animali.
Rintracciarlo è facile, perché piange continuamente e lascia una traccia di
lagrime. Quando lo serrano e non può fuggire, o quando lo sorprendono e lo
spaventano, si dissolve in lagrime. I cacciatori di squonk hanno più fortuna
nelle notti di freddo e di luna, quando le lagrime cadono lente e all'animale
non piace muoversi; il suo pianto s'ode sotto i rami degli oscuri arbusti di
cicuta.
Il signor J. P. Wentling, già di Pennsylvania, e ora residente a St Anthony
Park, Minnesota, ebbe una triste esperienza con uno squonk nei pressi di
Monte Alto. Aveva imitato il pianto dello squonk e aveva indotto l'animale a
entrare in una borsa, che ora stava portando a casa, quando all'improvviso il
peso s'alleggerì e il pianto smise. Wentling aprì la borsa: non restavano più
che lagrime e borboglio.
William T. Cox, Fearsome Creatures of the Lumberwoods, Washington
1910.
Lo psicotarlo
di Marco Papa
(da Animalario, Theoria, 1987, pagina 16)
Sullo psicotarlo potrei scrivere un trattato. Lo conosco benissimo. E lo
odio, naturalmente, questo brutto paguro – se ne hai mai visto uno – che
ha caratteristiche dell’odradek, della piattola (ovvio!), della vespa nel
bicchiere, del virus. Lo psicotarlo attacca spesso quella zona del corpo
umano delimitata dal sopracciglio e dall’occhiaia nera che incupisce
l’occhio. Lo psicotarlo ama scavare appunto quell’occhiaia, svuotare lo
sguardo. Perciò è detto, più comunemente, occhialone (da non
confondersi con il piviere minore) o rompipupille. Quando invece
preferisce le parti basse, brucare i riccioli del pube o divorare l’inguine o
i testicoli, cambia nome. Non ti dico quale. Né perché. Né che dolore.
L’antivampiro
di Marco Papa
(da Animalario, Theoria, 1987, pagina 18)
Si distingue dal vampiro (di cui è nemico) per questa peculiarità:
inietta sangue invece di succhiarlo. Finché la vena attaccata dai denti,
gonfiatasi all’inverosimile, sovraccarica, esplode, e il sangue sprizza a
soffioni bollenti. Allora il mammifero si distacca, deperito, vacillante
sulle sue mezze ali pelose, quasi morto per la quantità di sangue
iniettato, ma tremendamente felice. Come dopo un matto potlach.
Zio Cri
(Il Cugino Del Grillo Saggio Di Pinocchio)
di Massimo Mongai
da Che animale sei? Omero editore, 2005
La negazione del Grillo Saggio. Superficiale, incostante, ubriacone,
grillaiolo (nel senso delle grille) e se ne vanta anche ("Non ho grilli per
la testa, io!" dice e ride come un cretino). La dannazione del cugino, la
pecora nera della famiglia. Per fortuna che è stato fatto interdire per
tempo, ché il posto di mentore, nel "Pinocchio" in teoria toccava a lui.
Figurarsi!
Il Gaarg
di Massimo Mongai
da Che animale sei? Omero editore, 2005
Così detto per il suo famoso grido. Animale molto introspettivo, con un
grande senso dell'orrore di sé stesso, per le sue note e brutte abitudini,
sapete a cosa mi riferisco... Per questo quando si scopre e si comprende,
urla.