NewsMagazine n. 14 - Dipartimenti - Università Cattolica del Sacro

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NewsMagazine n. 14 - Dipartimenti - Università Cattolica del Sacro
Gruppo Interstizi & Intersezioni - Dipartimento di Sociologia
UNIVERSITÀ CATTOLICA – MILANO
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Primavera/Estate 2009
Cari lettori della Newsletter,
recentemente ho avuto occasione di visitare al Centre Pompidou di Parigi, sede di uno dei massimi musei di arte
contemporanea, una esposizione retrospettiva dedicata al vuoto, o meglio ai “Vides” messi in scena da alcuni artisti europei
negli ultimi 30 anni: una serie di sale vuote, appositamente attrezzate con nulla, riproduceva le esposizioni che – con
motivazioni diverse – tali artisti avevano realizzato in diverse città. Ho pensato che il vuoto come spazio ha qualcosa in
comune con le bolle: bolle finanziarie come quelle colpevolmente gonfiate dalla finanza internazionale e risoltesi poi nel
vuoto, nel nulla; con la differenza che le conseguenze qui sono disastrose, soprattutto per chi è lavoratore precario o
diventerà disoccupato. Oggi sembrano prevalere dunque gli aspetti hard, il nocciolo duro della convivenza sociale legato
all’economia reale e all’occupazione. Eppure questo non basta. Senza attenzione ai problemi di qualità della vita, alle
dimensioni piccole e interstiziali della vita quotidiana, anche una nuova ripresa e una nuova ondata di sviluppo può restare
senza respiro, senza vigore. In questo senso, la crisi potrebbe essere una grande occasione per sviluppare e curare, all’interno
di nuovi modelli istituzionali di rapporti economico-sociali, modi e stili di vita che abbiano a cuore un’attenzione creativa ai
dettagli del quotidiano.
Concludo con una proposta che mi sembra nessuno abbia avanzato, e che potrebbe essere un piccolo segno che la crisi non sta
imperversando invano: perché gli economisti non si autosospendono dal premio Nobel per l’economia almeno per un anno?
Cordialmente.
Giovanni Gasparini
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1. Incontri
- (F. Rigotti), Le montagne e gli interstizi
2 Libri & Scritti
- (G. Gasparini), F. Jullien, Les transformations silencieuses
- (C. Pasqualini), M. Augé, Il bello della bicicletta
- (E. Riva), E. Riva - E. Zucchetti, La mobilità job-to-job; E. Riva, Quel che resta della conciliazione
3. Arte & Comunicazione
- (R. Bichi), I Juke-Box letterari
- (G. Azzoni), Intervals
4. Vita quotidiana
- (G. Salvioni), Un’attesa “arredata”
- (D. Milesi, S. Sampietro), Consumare l’attesa. Forme del consumo mediale nella Stazione Centrale di Milano
- (V. Dégot), Les moments improbables…
Rubrica “Le città interstiziali”
1. (G. Gasparini), Parigi/Milano: uno sguardo etnografico
Rubrica “I verbi interstiziali”
1. (N. Pavesi), Pendolare…
2. (F. Introini), Spegnere la tv (a fine serata)
Pubblicazioni recenti
1. Incontri
Æ Le montagne e gli interstizi
Nella loro monumentalità le montagne appaiono al nostro universo concettuale quali potenti pareti divisorie
che separano più che unire, erigendo poderosi confini. E proprio ai «confini» - oltre che ad altri percorsi
tematici, quali l'orso, l'alpinismo e le (r)esistenze - si ispira il Festival Lago Maggiore Letteratura 2009,
Festival di Letteratura di montagna, viaggio, avventura che si svolge dal 24 al 28 giugno a Verbania, e nei
fine-settimana di luglio a Le quarne, Macugnaga e in Val Bognanco). Le montagne sono grandezze che
respingono e ammoniscono l'uomo nella sua piccolezza. A differenza delle acque che uniscono (mare
nostrum), le montagne innalzano un confine di opposizioni che dividono: aldiqua/aldilà, sopra/sotto, tutto
(massiccio) e parte (monte), fuoco e ghiaccio, luce e ombra, alto e profondo. E' possibile dunque sussumere
alture, monti, catene, sotto la categoria concettuale e interpretativa degli interstizi? La risposta è no se le
montagne vengono assunte nel loro aspetto prevalentemente divisorio, di confini che respingono creando
invalicabili barriere politiche, linguistiche e commerci, di ostacoli naturali determinati dalla geomorfologia
di un territorio. La risposta cambia e diventa sì, forse, se si considera che le popolazioni locali pur di
raggiungersi hanno valicato alte catene montuose riuscendo a instaurare comunicazioni cisalpine e
transalpine al di là delle cesure e delle censure. Nobile e sublime nella sua altezza sta la montagna con le sue
vette e le sue valli, con le gole, i ghiacciai, le cascate, le bestie che la popolano, non costruita artificialmente
come le piramidi, erette là dove servivano, bensì offerta natural-mente, pronta per essere nominata e scoperta
nelle sue funzioni, reale e virtuale, letterale e letteraria e chissà, magari, anche interstiziale.
Francesca Rigotti, Università della Svizzera Italiana - Lugano
2. Libri & Scritti
ÆF. Jullien, Les transformations silencieuses, Grasset, Paris 2009.
Questo smilzo volume di un filosofo francese che è sinologo di fama mondiale va segnalato anzitutto per la
sua ammirevole concisione e la chiarezza persino sconcertante della sua tesi, ribadita dalla prima all’ultima
pagina: quella che sotto le trasformazioni, anche le più eclatanti, si cela sempre una transizione che viene
progressivamente e silenziosamente preparata e alimentata dall’andamento della realtà. Che si tratti di una
rivoluzione politica o di una separazione amorosa, di un cambiamento stagionale o climatico, di un evento
naturale come la fusione della neve o l’invecchiamento, o persino di un fatto terroristico come l’11
Settembre, l’elemento-chiave, quello su cui puntare l’attenzione, è la trasformazione silenziosa che
progressivamente lo ha fatto emergere e accadere. Si tratta di una prospettiva generale di interpretazione del
reale che Jullien assume dal lungo accumulo della filosofia cinese, specialmente dal Shijing, il “Classico dei
poemi”, da Lao-Tzu e dalla nota opposizione yin/yang: di essa viene messa in luce la profonda diversità di
approccio rispetto alla filosofia greca di Platone e Aristotele, alla individuazione precisa di un soggetto, di un
telos, di una separazione tra un prima e un dopo che è alla base stessa della concezione occidentale del
tempo. Jullien distingue tra la modificazione, che è la parte emergente del mutamento in atto, e la
trasformazione, che ne rappresenta la parte continuamente operante ma non visibile in termini di gestazione
e di propagazione: quest’ultima offre soltanto “uno stretto interstizio di percettibilità” (p.101) e perciò va
scrutata con grande vigilanza. Al di là di questa citazione, sembra evidente la parentela tra l’oggetto del
volume e gli interstizi di cui ci occupiamo in questa Newsletter: interstizi intesi e illustrati qui – in stretta
analogia con le trasformazioni silenziose di Jullien - attraverso la fase del passaggio, dell’entre-deux tra un
prima e un dopo come si verifica nell’emergere di un fenomeno nuovo, di un movimento, di un’esperienza o
di un valore prima inespresso o celato. Anche se il discorso di Jullien privilegia l’orizzonte filosofico, ritengo
significativa la convergenza tra la sua analisi e quella a cui allude il concetto socio-antropologico di interstizi
della vita quotidiana.
Giovanni Gasparini, Università Cattolica - Milano
Æ M. Augé, Il bello della bicicletta, Bollati Boringhieri, Torino 2009.
Che cosa ha rappresentato in passato e che cosa rappresenta ancora oggi la bicicletta? È innegabile come
quest’ultima sia passata dall’essere considerata un mezzo, il mezzo di locomozione quotidiana per la
maggior parte delle persone, a un mezzo per pochi, per un gruppo interstiziale di individui, per lo più
sportivi, bambini e pensionati, persone che hanno tempo da perdere, temerari che non hanno paura di sfidare
il traffico cittadino e metropolitano. Quello che sorprende è soprattutto come il repentino, accelerato e
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inarrestabile mutamento socio-culturale di questi ultimi decenni, lo sviluppo della tecnologia e della
meccanica abbiano inciso così significativamente su questo mezzo di locomozione, sulla sua percezione,
utilità e diffusione, producendo e rimuovendo miti ad esso connessi, miti radicati nell’immaginario collettivo
di intere generazioni. La bicicletta ha dovuto fare i conti, a proprie spese, con il passare del tempo, proprio
lei che con il tempo aveva un legame così
particolare, in quanto capace di incarnare gli
opposti, da un lato la velocità e dall’altro la
lentezza. La velocità: gli anni d’oro del ciclismo,
con Fausto Coppi e Gino Bartali, hanno
rappresentato il suo trionfo. Questi miti sono
oramai maturi, forse addirittura tramontati e il
Tour de France, la Milano-Sanremo così come il
Giro di Lombardia non sembrano più capaci di
generarne di nuovi, di catalizzare l’attenzione
come avveniva in passato. Ora la bicicletta ha
smesso di far parlare di sé, non è più oggetto di
culto e non genera più miti. Della bicicletta
rimane solo la lentezza. La velocità è stata fatta
propria da altri mezzi come i treni ad alta
velocità, gli aerei, le macchine e, per molti
aspetti, da molteplici sistemi di comunicazione (internet, cellulari), che ci permettono di comunicare a
velocità istantanea senza muoverci, senza dover ricorrere alle due ruote. Se quella contemporanea è la società
del movimento, della fretta, la bicicletta appare quasi come una scelta retrò, un po’ snob, di certo contro
tendenza. In buona sostanza, la bicicletta ha cessato di essere un mito, ma non per questo può essere
considerata defunta. La sfida che essa intraprende nel XXI secolo merita di essere presa qui in
considerazione. Come osserva Augé nel suo ultimo libro Il bello della bicicletta, da mito la bicicletta è
pronta per trasformarsi in utopia ecologista e democratica. Augé fa riferimento all’avvento di un “nuovo
umanesimo dei ciclisti”, capace di annullare le differenze di classe, di riappropriarsi dei tempi della lentezza,
degli spazi urbani da attraversare con un altro spirito, un altro sguardo e un altro passo, quello della pedalata,
decisamente più umani.
Cristina Pasqualini, Università Cattolica - Milano
Æ E. Riva - E. Zucchetti, La mobilità job-to-job. Transizioni lavorative verso il terziario, FrancoAngeli,
Milano 2008; E. Riva, Quel che resta della conciliazione. Lavoro, famiglia, vita privata tra resistenze di
genere e culture organizzative, Vita e Pensiero, Milano 2009.
Ha senso accostare temi apparentemente distanti quali la mobilità del lavoro e la conciliazione lavorativa? Lo
ha nella misura in cui si rivelano essere interstiziali; meglio ancora nella misura in cui mostrano
l’interstizialità tra la sfera familiare e privata e quella professionale. Ripropongo, in tale chiave, due concetti
che vengono discussi nei volumi in esame. Il primo di questi è “carriera di vita”, che emerge dalla ricerca
qualitativa condotta nel milanese su alcuni percorsi di cambiamento occupazionale. Carriera di vita più che
carriera di lavoro, come espressione di patchwork esistenziali compositi e policentrici, in cui le aspirazioni
professionali si sovrappongono, molto spesso si fondono, con inclinazioni personali, relazioni, interessi
rispetto ai quali vi è una profonda identificazione. Di qui una duplice domanda di qualità, del lavoro e della
vita, che si vuole arrivare a soddisfare creando le premesse per la loro armonizzazione. Armonizzazione e
non conciliazione; questo è il secondo concetto, risultato di uno studio sulle politiche istituzionali e
organizzative in materia. L’idea di conciliazione rimanda ad un conflitto, ad una contrapposizione; quella di
armonizzazione ad un legame virtuoso, a somma positiva, tra ambiti esistenziali e, più in generale, tra istanze
sociali ed economiche. Gli studi di caso proposti nel secondo volume indicano, in effetti, che è possibile
riconsiderare il rapporto tra i diversi ambiti di vita, giungendo a promuovere il cambiamento e l’efficienza
organizzativa unitamente all’equità di genere; il tutto però a partire dalla critica di una certa cultura del
lavoro e di una sua organizzazione, quella fordista, che ha per molti versi negato l’interstizialità dei tempi e
mondi vitali.
Egidio Riva, Università Cattolica - Milano
La redazione della Newsletter ricorda qui con affetto e stima l’amico e collega Eugenio Zucchetti,
prematuramente mancato.
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3. Arte & Comunicazione
Æ I Juke-Box letterari
Tre, sette, undici fermate. Mentre il metrò va sotto la città, nascondendola ai tuoi occhi, un nuovo spazio si
apre, mentre scorri veloce le pagine di un racconto che si adegua al tempo del viaggio, e lo fa diverso,
sempre nuovo, sottraendolo al grigiore molto milanese delle facce sconosciute e stanche come la tua. Nella
stazione di Lanza, un giorno di giugno, è comparso un juke-box, distributore di storie per colorare gli
interstizi della tua quotidianità, piccole
pubblicazioni su carta riciclata al 100% (da
post-consumo), gratuite; letteratura da
metrò, così l’hanno chiamata. Sarà da metrò
ma che piacere averla a disposizione: trovi
da sedere – è meglio, ma anche in piedi si
può, sono poche pagine, è molto
maneggevole – e ti immergi nel mondo della
fantasia, in compagnia di persone
sconosciute anch’esse ma che ti parlano e a
cui rispondi, in un’interazione breve ma
significativa. C’è un murattore, ad esempio,
un uomo che fa il muratore ma nell’animo è
altrove, nel grande mondo dello spettacolo
appena intravisto e mai abbandonato; c’è un
piccolo cane cieco e i suoi padroni, oppure
una strana giovane ragazza ricordata da un uomo solo, o anche un ragazzino che incontra per la prima volta
la morte; e poi ancora...Che meraviglia! Storie o poesie, puoi scegliere. Poi finisci di leggere e sei
magicamente arrivato. Ti informi, e vieni a sapere (http://www.subway-letteratura.org) che questa iniziativa
esiste dal 2002, che viene bandito ogni anno un concorso per scrittori esordienti sotto i 35 anni, che
partecipano non solo Milano, ma anche Mantova, Napoli e Roma, Venezia e Palermo. Dai Juke-Box
Letterari si possono prelevare gratuitamente i volumetti stampati, che hanno una tiratura complessiva di circa
4.000.000 di copie. Sparite - quelle di Milano, quest’anno - in pochi giorni. Un progetto che si ripete negli
anni, che dà luce e fa vivere il tempo troppo spesso inerte degli spostamenti urbani. Viene da dire: ne voglio
ancora.
Rita Bichi, Università Cattolica - Milano
Æ Intervals
Intervals is a new contemporary art series designed to reflect the spirit of today’s most innovative practices.
Conceived to take place
in interstitial spaces
or beyond the
physical confines of the building, the program invites a diverse range of artists to create new work for a
succession of solo presentations. Intervals is inaugurated with a multipart installation by Julieta Aranda (b.
1975, Mexico City) that activates the museum’s triangular staircase.
http://www.guggenheim.org/new-york/exhibitions/on-view-now/intervals
Segnalazione proveniente da Giampaolo Azzoni, Università di Pavia
4. Vita quotidiana
Æ Un’attesa “arredata”
È sempre allegra e ricca di senso la condizione della donna che attende un figlio, così come, di solito, la sua
presenza intenerisce e genera atteggiamenti positivi e beneauguranti; oggi soprattutto, dato che le conoscenze
mediche e l’educazione della mentalità fanno vivere sia l’attesa che l’evento nascita non come malattia ma
come cosa naturale. La grande saggezza dei mondi tradizionali ha rivolto a questa attesa, così densa di
emotività, attenzioni e comportamenti che fanno riflettere; in molti di tali mondi l’attesa era fin dall’inizio,
ed è ancora in alcuni casi, il periodo felice della elaborazione e della stabilizzazione del rapporto tra due
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persone, la madre e il figlio ( o la figlia): le future madri Mbuti (Pigmei della foresta equatoriale africana)
“arredavano” l’attesa propria e del nascituro con le cose più belle della natura circostante e della loro cultura;
si ritiravano in località particolarmente suggestive della foresta, dove qualche ruscello mormorava e
risuonavano melodiosi i canti degli uccelli, e lì componevano, recitavano e cantavano tenere ninne-nanne,
filastrocche e poesie, certe che il nascituro ne avrebbe tratto godimento, gli parlavano inoltre di se stesse e
della famiglia nella quale sarebbe entrato, rassicurandolo sull’amore di cui sarebbe stato fatto oggetto; gli
prospettavano infine la sua integrazione nella vita del villaggio, descrivendoglielo accuratamente insieme
alle bellezze della natura nella quale era immerso.
Giovanna Salvioni, Università Cattolica - Milano
Æ Consumare l’attesa. Forme del consumo mediale nella Stazione Centrale di Milano
Milano, pomeriggio di inizio estate. L’aria è calda, umida; soprattutto qui, sotto le volte della Stazione
Centrale. Giovani interrailers chiacchierano seduti per terra, una ragazza sui vent’anni passeggia
nervosamente avanti e indietro lungo la galleria dei binari, una signora distinta si ferma in edicola per cercare
una rivista, una mamma parla al cellulare con suo figlio, un giovane uomo estrae il portatile e ne approfitta
per terminare un lavoro urgente. Poi c’è chi mangia, chi fissa il tabellone degli orari, chi sbuffa e si irrita e
chi si rilassa facendo le parole crociate. Alcuni passeggiano distrattamente, altri – impauriti e disorientati – si
muovono circospetti; altri ancora, con passo deciso, si fanno strada verso il proprio binario. Azioni differenti
che sottendono, a propria volta, interpretazioni molteplici e variegate di un comune orizzonte temporale:
quello dell’attesa. Da questo punto di vista la Stazione Centrale può infatti essere definita come “lo spazio
urbano dell’attesa”, il luogo cittadino che, forse più di ogni altro, incarna e circoscrive questa forma
temporale. È a partire da questa considerazione che ha preso mossa la ricerca Consumare l’attesa
(http://www.comunicazionisocialionline.it/2009/1/5/loadPDF/), e dall’ipotesi che proprio nella temporalità
dell’attesa si inscrivano e si incardinino molteplici attività di consumo, mediale e non. L’indagine della
Stazione Centrale si presta quindi come un’occasione per mettere a tema la relazione – reciproca e
irriducibile – che, all’interno di un dato contesto, lega da un lato l’assetto e l’organizzazione temporale,
dall’altro la configurazione delle pratiche di consumo. Si tratta, cioè, di rifiutare innanzitutto la prospettiva
che, semplicisticamente, vede l’attesa come tempo morto, vuoto, inutile, tentando di esplorarne più a fondo
la ricchezza fenomenologica e lo statuto interstiziale. Dall’altra parte significa esplorare la biunivocità di un
modello che vede l’esperienza di attesa come condizione e risultante delle pratiche di consumo che in essa si
realizzano: un tempo arredato e qualificato dalle attività fruitive e, complementarmente, un elemento che
interviene nel dettare condizioni di possibilità e configurazioni di quelle stesse pratiche. La nostra riflessione
si innesta nel solco di questa reciprocità tra contesto, forme dell’attesa e attività di consumo, avvalendosi di
un impianto metodologico che mira a valorizzare sinergie tra strumenti desk (l’analisi del testo spaziale) e
field (l’impiego di osservazioni etnografiche, interviste individuali e di gruppo) con l’obiettivo di indagare
nel dettaglio vissuto e significati attribuiti dagli utenti della Stazione alla condizione dell’attesa e di
ricostruirne il profilo esperienziale. Rispetto alle premesse iniziali l’indagine sul campo ha portato alla luce
un panorama ricco, eterogeneo e complesso di contesti spaziali, forme di attesa e repertori di consumo. A
questo quadro si aggiungono però anche considerazioni circa ostacoli e vincoli al consumo: uno spazio,
quello della Stazione Centrale, che se da un lato stimola e accoglie una molteplicità e una varietà di pratiche
fruitive, per altri versi sembra ostacolarne e inibirne altrettante, frustrando le richieste degli utenti e
qualificandosi, in questo senso, come spazio di non-consumo.
Daniele Milesi e Sara Sampietro, Università Cattolica - Milano
ÆLes moments improbables…
Il nous arrive de connaître des moments improbables. Improbables au sens où la probabilité qu’ils se
reproduiront est inexistante. Nous ressentons cette impossibilité sans que nous ne sachions la réduire
précisément aux éléments qui ont constitué cette situation: personnes, lieu, saison, évènement. Ou pour dire
autrement l’énoncé «intelligent» de ces éléments - comme l’a dit Proust, voir plus bas – ne peut rendre
compte de l’alchimie de ces moments. Ce caractère imprévu confère à ces instants un caractère magique,
déconnecté de notre espace temps, comme si celui si s’était entrouvert pour nous laisser vivre des
évènements donc nous n’avons perçu qu’après coup le caractère unique. Je pense que c’est cette
discontinuité (la «béance»), cette distorsion du temps, que Flaubert a cherché à rendre dans ce bref passage
de l’Eduction sentimentale, commenté par Proust comme un énorme «blanc» (je reprends la citation de
Proust, abrégée par rapport à l’original): [La scène se déroule pendant une scène d’émeute lors de la
révolution de 1848, Frédéric est Frédéric Moreau, le héro de l’Education]: «Et Frédéric, béant, reconnu
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Sénécal. [fin de la partie VI du roman, début de la partie VII] « Il voyagea, Il connu la mélancolie des
paquebots, les froids réveils sous la tente, l’étourdissement des paysages et des ruines, l’amertume des
sympathies interrompues. Il revint. Il fréquenta le monde [coupé par Proust]. Vers la fin de mars 1867… ».
Proust écrit «… et sans l’ombre d’une transition, soudain la mesure du temps devenant au lieu de quarts
d’heure, des années, des décades». Dans les moments improbables que j’évoquais plus haut, le temps est
suspendu, distendu, car nous ressentons ces moments sans continuité avec notre expérience, ils étaient
imprévisibles, ils dont sans suite, ils sont suspendus dans notre histoire. Peut être cette discontinuité
explique-t-elle que l’intelligence, la mémoire guidée par l’intelligence, ne puisse nous «ressusciter ces
instants magiques. Car pour citer Proust encore: «ce que l’intelligence nous rend sous le nom de passé n’est
pas lui.» La mémoire de ces moments magiques va «se blottir dans des objets où l’intelligence n’a pas
cherché à les incarner». Comme la tartine de pain beurrée trempée dans du thé qui deviendra plus tard la
célèbre «madeleine de Proust». cette particularité accroit encore, s’il était besoin, le caractère merveilleux de
ces instants improbables; ils ressurgissent dans notre mémoire au hasard de la rencontre avec un objet qui va
rendre toute leur richesse à ces «fantômes d’un passé cher» : les senteurs, le vent qui passe, les murmures des
voix. (Les citations de Proust sont tirées de M. Proust «Essais et articles» Paris Ed Folio Gallimard 2001 p.
291 et «Contre Sainte–Beuve» Paris Ed Folio Gallimard 2001 p. 43-50).
Vincent Dégot, Ecole Polytechnique - Paris
Rubrica “Le città interstiziali”
@ Parigi/Milano: uno sguardo etnografico
A chi frequenti regolarmente da molti anni Parigi, vivendo abitualmente a Milano, non è difficile esercitare
uno sguardo comparato che nel passaggio dall’una all’altra città ne sappia scorgere e interpretare microdifferenze tra i rispettivi modi di vita urbani. Volendo scegliere la capitale francese come metro di paragone
per un’osservazione etnografica, individuerei tre aspetti: il modo di camminare, il metrò e i giardini pubblici.
I parigini camminano mediamente molto in fretta, simili in questo ai milanesi, ma sembrano ancora più
determinati di loro: difficilmente cedono il passo a un incrocio o per la strada, una volta che abbiano scelto
una traiettoria di marcia o di attraversamento; questa potrebbe essere quanto meno un’ipotesi da verificare,
accanto a quella che riguarda la loro maggiore spigliatezza e nonchalance (rispetto ai milanesi) quanto a
modo di abbigliarsi, di portare oggetti in mano (spesso senza sacchetti o confezioni). Va aggiunto un altro
elemento di fondo, la sicurezza: ogni pedone che a Parigi attraversi sulle strisce o con il verde al semaforo sa
che non sarà travolto da un’automobile, perché il rispetto del semaforo e dei pedoni fa parte di una cultura
consolidata, e senza bisogno di telecamere installate sui semafori come è avvenuto a Milano; fa piacere poi, a
Parigi, avere marciapiedi riservati ai pedoni anziché in coabitazione con bici e moto come avviene a Milano.
La fretta e la velocità di spostamento a piedi dei parigini è corroborata dalla precisione, velocità ed efficienza
del metrò, il mezzo più usato per muoversi in città e periferia, forte di 14 linee urbane e 5 regionali (RER), a
fronte delle 3 linee urbane della metropolitana milanese a cui si aggiunge da pochi anni il passante
ferroviario. A Parigi su ogni banchina del metrò (oltre che, in superficie, ad ogni fermata di bus) un pannello
indica il tempo di attesa non solo del 1° ma anche del 2° treno in arrivo, distanziati di solito di 2-3 fino a 4-5
minuti di giorno; non solo, ma in caso di panne anche di lieve entità un efficace sistema informativo avverte
tempestivamente – con pannelli e altoparlante – della localizzazione e del motivo del contrattempo, invitando
gli utenti alla comprensione e alla pazienza. Stridente il confronto con il sistema dei trasporti milanese,
specie in caso di incidenti e di relative informazioni agli utenti: da noi i gestori si sentono in colpa se c’è una
panne e preferiscono tacere, lasciando che gli utenti si arrangino. I giardini sono un altro elemento di
contrasto con la realtà milanese: a Parigi i giardini, non solo il Lussemburgo o il Jardin des Plantes che reca
ancora l’impronta di Buffon, ma anche gli spazi verdi più piccoli e modesti sono ben curati e puliti, sono di
solito recintati e rallegràti a seconda delle stagioni da fiori coltivati; e sono frequentati con la massima
tranquillità da utenti di tutti i tipi, bambini con le mamme e anziani meditabondi, persone che leggono un
libro o consumano uno spuntino, gente di tutte le età che fa jogging a velocità diverse, studenti che preparano
un esame o aspiranti-scrittori che scrivono…Camminare, muoversi con i trasporti pubblici, frequentare gli
spazi verdi: tre aspetti che possono esprimere certi livelli della qualità di vita urbana. Da questo punto di
vista, anche senza idealizzare la capitale francese, credo che Paris vaut bien un voyage.
Giovanni Gasparini
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Rubrica “I verbi interstiziali”
@ Pendolare…
Vita pendolare….quante volte ci si lamenta di dovere tutti i giorni correre a prendere un treno (sovente non
molto pulito, né tantomeno in orario) per raggiungere il posto di lavoro? E lo stesso alla sera. Eppure, è
possibile provare a leggere questa condizione da una prospettiva diversa, che ne sappia valorizzare le
dimensioni di risorsa, piuttosto che di problema. È sufficiente, ad esempio, pensare al tempo trascorso in
treno come un tempo per sé, da dedicare ad attività che solo in questi momenti “morti” hanno la possibilità di
essere sviluppate. Mi guardo intorno sul mio Eurostarcity e vedo tanti modi di “usare” questo tempo; io
stessa quotidianamente posso decidere cosa fare di queste due ore solo mie. Sovente chiacchiero con amici
“di treno”, ossia persone che ho conosciuto su questi vagoni e che hanno arricchito le mie relazioni. Sono
persone molto diverse: un funzionario della Regione, un avvocato di una grande azienda, un imprenditore nel
campo del sociale, la responsabile di una catena di abbigliamento internazionale….quante chiacchiere,
quante esperienze scambiate, quante idee e quanti pensieri condivisi, quanto mondi sconosciuti che si aprono
alla mia curiosità! La conoscenza talvolta si trasforma in amicizia, e ci si trova al di là del momento
interstiziale del viaggio, si conoscono le famiglie, si organizzano cene e gite fuori porta. Chi l’avrebbe mai
detto, più di vent’anni fa, quando ho iniziato a “pendolare” che il treno mi avrebbe portato a questo
incremento del mio capitale sociale! Talvolta scelgo invece di isolarmi: un libro o un giornale come
compagni, il computer per lavorare o più spesso per chiacchierare in chat con amici lontani. Il mio viaggio
da pendolare è anche stimolo per osservare come cambia il paesaggio: nuove strade, nuove costruzioni
sfilano fuori dai finestrini…dove prima c’erano campi ora ci sono capannoni, dove c’era la massicciata della
ferrovia ora corre il terrapieno dell’alta velocità…È un po’ come sfogliare l’album delle foto di quando
eravamo bambini e comparare i luoghi e i paesaggi con quello che sono ora, con una differenza: noi siamo
dentro nel cambiamento, lo vediamo prodursi passo dopo passo, colata di cemento dopo colata di cemento. Il
viaggio da pendolare, ancora, lo vivo come momento di decompressione fra i due ambiti fondanti la mia vita:
la famiglia ed il lavoro, come momento per stare sola con me stessa, per pensare o per fantasticare, per
progettare e valutare. Certo, non sempre è così facile cogliere il positivo, non considerare questo come tempo
perso, ma anzi come tempo in un certo senso guadagnato per me. Ed è difficile soprattutto quando il treno è
in ritardo, l’aria condizionata è guasta, i finestrini sono sigillati, le sardine nella loro scatoletta hanno più
spazio e ti senti prigioniero di un romanzo kafkiano…ma questa è un’altra storia!
Nicoletta Pavesi, Università Cattolica - Milano
@ Spegnere la tv (a fine serata)
La mia si spegne con un click artificiale e tecnicamente inutile. È una citazione, un dovuto omaggio che la
tecnologia ad uso domestico e personale tributa ai suoi antenati analogici, alla loro pesantezza e solidità di
contro alla liquidità immateriale del digitale. Si tratta di un click, parliamo di frazioni di secondo, eppure è
talmente “denso” da poterne fare una vera e propria anatomia. Prima fase: scompare l’immagine, ma il led
azzurro che segnala lo stato di accensione lampeggia. Seconda fase: lo schermo va a nero. Terza fase:
l’apparecchio emette il click acustico e il led diventa rosso. Parrebbe proprio che questa microscopica lucina,
come occhio di un ciclone, trascini dentro di sé la fantasmagoria delle immagini e dei suoni fino a poco
prima emessi; inesorabilmente risucchiati, come il mitico genio, all’interno della sua lampada. Ma quella di
suoni-e-immagini non è la sola scomparsa a realizzarsi. Con essi, infatti, è la stessa patina di ovvietà che
ricopre il quotidiano a ritirarsi, a dileguarsi e come una bassa marea a Mont Saint Michel lascia un paesaggio
lunare, coperto dai detriti piccoli ed enormi, dalle sagome e dai colori inquietanti. Quello swing che la tv
trasmette alla vita domestica e che spesso inconsapevolmente accompagna lo scandirsi dei nostri gesti, dei
nostri riti, finanche delle nostre percezioni e che per noi alla fine è realtà, lascia spazio – direbbe Lacan – al
reale, al residuo non simbolizzabile e perciò insensato. Si prova come un piccolo e istantaneo stordimento,
ma non da rumore, bensì “da silenzio”. Perché anche in quell’istante il silenzio veramente è, e si sente. Poi
tutto, grazie ad altri riti, torna a prendere il consueto aspetto. Ma per un momento, anche se breve, ci è offerta
anche se forse non richiesta, la chance di una micro-epifania. Chissà che la tv, per alcuni cattiva maestra, per
altri inimitabile divulgatrice, non abbia democratizzato, alla fine, anche la poetica joyciana.
Fabio Introini, Università Cattolica - Milano
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Pubblicazioni recenti
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M. Augé, Il metrò rivisitato, Raffaello Cortina, Milano 2009.
G. Gasparini, La vita quotidiana – Interstizi e piccole cose, Cittadella, Assisi 2009.
E. Morin, Oltre l’abisso, Armando Editore, Roma 2009.
P. Sansot, Rêveries dans la ville, Carnets Nord, Coeur-de-Vey 2008 (un volume con 2 cd , Entretiens avec J.F. Dhuys).
I nostri recapiti:
Giovanni Gasparini
(Il coordinatore)
Dipartimento di Sociologia
Università Cattolica del Sacro Cuore
Largo A. Gemelli, 1
20123 Milano
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Tel. 02.7234.2547
Cristina Pasqualini e Fabio Introini
(La segreteria)
Dipartimento di Sociologia
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Largo A. Gemelli, 1
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Il Gruppo “Interstizi & Intersezioni”:
Piermarco Aroldi, Paolo Corvo, Giovanni Gasparini, Fabio Introini, Cristina Pasqualini,
Nicoletta Pavesi, Giovanna Salvioni, Paolo Volonté
I corrispondenti:
Maurizio Ambrosini, Università degli Studi di Milano (Relazioni interculturali); Marc Augé, École des Hautes
Études en Sciences Sociales – Parigi (Antropologia); Maurice Aymard, Maison des Sciences de l’Homme – Parigi
(Storia europea); Giampaolo Azzoni, Università di Pavia (Filosofia del Diritto); Laura Balbo, Università di Ferrara
(Women studies); Enzo Balboni, Università Cattolica – Milano (Diritto e Istituzioni); Claudio Bernardi, Università
Cattolica – Milano (Teatro); Gianantonio Borgonovo, Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale – Milano (Bibbia);
Laura Bosio, scrittrice (Fiction); Enrico Camanni, Torino (Montagna); François Cheng, Académie Française –
Parigi; Giacomo Corna Pellegrini, Università degli Studi di Milano (Geografia); Cecilia De Carli, Università
Cattolica – Milano (Arte); Roberto Diodato, Università Cattolica – Milano (Estetica); Duccio Demetrio, Università
degli Studi – Bicocca, Milano (Educazione e formazione); Ugo Fabietti, Università di Milano-Bicocca (Antropologia);
Maurizio Ferraris, Università di Torino (Ontologia); Enrica Galazzi, Università Cattolica – Milano (Linguistica);
Hans Hoeger, Università Libera di Bolzano (Design); Philippe Jaccottet, Grignan (Poesia); Cesare Kaneklin,
Università Cattolica – Milano (Psicologia); David Le Breton, Université de Strasbourg (Socio-Antropologia);
Frédéric Lesemann, Université du Québec – Montréal (Culture delle Americhe); Francesca Marzotto Caotorta,
Milano (Paesaggio); Elisabetta Matelli, Università Cattolica – Milano (Letterature antiche); Francesca Melzi d’Eril,
Università di Bergamo (Letterature straniere); Giuseppe A. Micheli, Università di Milano-Bicocca (Demografia);
Margherita Pieracci Harwell, University of Illinois – Chicago (Italian Studies); Edgar Morin, Cnrs – Parigi
(Pensiero complesso); Salvatore Natoli, Università di Milano-Bicocca (Etica); Luigi L. Pasinetti, Accademia dei
Lincei – Roma; Alberto Ricciuti, Milano (Medicina); Francesca Rigotti, Università della Svizzera Italiana – Lugano
(Filosofia); Detlev Schild, University of Göttingen (Biologia); Cesare Segre, Accademia dei Lincei – Roma; Dan
Vittorio Segre, Università della Svizzera Italiana, Lugano (Politologia); Pierangelo Sequeri, Facoltà Teologica
dell’Italia settentrionale – Milano (Religione); Antonio Strati, Università di Trento (Teoria dell’organizzazione);
Pierpaolo Varri, Università Cattolica – Milano (Economia); Claudio Visentin, Università della Svizzera Italiana,
Lugano (Viaggio); Serena Vitale (Letteratura russa).
Le Newsletters precedenti sono consultabili sul sito dell’Associazione Italiana di Sociologia (www.aissociologia.it) e sul sito del Dipartimento di Sociologia dell’Università Cattolica di Milano
(http://www3.unicatt.it/pls/unicatt/consultazione.mostra_pagina?id_pagina=15524)
Numero chiuso il: 7 luglio 2009
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