NewsMagazine n. 6 - Dipartimenti - Università Cattolica del Sacro

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NewsMagazine n. 6 - Dipartimenti - Università Cattolica del Sacro
UNIVERSITÀ CATTOLICA – MILANO
Dipartimento di Sociologia
Gruppo Interstizi e Intersezioni
Newsletter n. 6
Autunno 2006
Io imparo enormemente dagli specialisti,
dagli interstizi e dagli spazi, pur esigui,
che aprono all’intelligenza contemporanea.
(Giuseppe Pontiggia, Avrei voluto fare il filologo, Mondadori 2006).
Cari destinatari,
vi trasmettiamo la Newsletter n.6, che sicuramente compete per attirare la vostra attenzione con molte altre pubblicazioni
che ricevete on-line ma che – riteniamo – m ha un taglio e un contenuto molto originale e sui generis.
Questo numero in particolare, mentre continua ad esercitare l'attenzione ai fenomeni interstiziali della cultura e della vita
quotidiana in genere, è piuttosto ricco di cenni ad autori contemporanei che operano nelle feconde intersezioni tra discipline diverse.
Buona lettura. Saremo lieti di ricevere vostre reazioni e proposte di collaborazioni per i prossimi numeri della Newsletter.
Cordialmente.
Giovanni Gasparini
SOMMARIO
1. Incontri
- (M. Calligola e F. Zuccoli) Interstizi e autobiografia (Seminario di Anghiari)
- (C. Pasqualini) “Il mondo immaginale” di Michel Maffesoli (Conferenza Iulm - Milano)
2 Libri & Scritti
- (F. Rigotti) Gli interstizi di Platone
- (G. Gasparini) François Cheng, Cinq méditations sur la beauté
- (C. Pasqualini) A. De Simone, F. D’Andrea (a cura di), La vita che c’è
- (G. Colombo) Baciare il rospo
- (C. Pasqualini) Alterità e interstizialità. In memoria di Clifford Geertz
3. Arte & Comunicazione
- (F. Introini) Film – Crash. Contatto fisico di Paul Haggis
- (P. Aroldi) Mostra – L’everyday life di Martin Parr
4. Vita quotidiana
- (F. C. Cordero) Le “studiate coincidenze”: gli interstizi urbani
- (A. Mattozzi) Biografia degli oggetti. Una nuova prospettiva degli oggetti?
- (F. Introini) Mind the gap! (If you want success)
- (G. Salvioni) Maschile e femminile
Pubblicazioni recenti
I nostri recapiti
1. Incontri
Interstizi e autobiografia, Seminario alla Libera Università di Anghiari (17 luglio 2006)
All’interno della Libera Università di Anghiari si sviluppano percorsi che hanno differenti obiettivi: tra essi
vi è il Corso avanzato “Epimeleia”, nel quadro di un percorso triennale che ha come finalità quella di sviluppare una preparazione avanzata in campo autobiografico. Il tema degli interstizi, trattato in una lezioneseminario di G. Gasparini, si è inserito proficuamente in questo cammino, innanzitutto collocandosi in questo
luogo fisico, Anghiari (prov. di Arezzo), spazio che per noi partecipanti è la concretizzazione di un interstizio, uno spazio diverso mobile e flessibile che accoglie, ma per arrivare al quale bisogna compiere un viaggio, non sempre agevole e breve, che permette di allontanarsi sempre più da quello che la realtà coi suoi
tempi ci impone. Qui si mette in scena la propria vita in un racconto corale e il gruppo insieme al conduttore
fanno parte di questo tragitto. Musica, arte, scrittura, poesia condividono le peculiarità di questi spazi interstiziali, i tempi si modificano e prendono altro valore, aprono sensibilità e contatti diversi, e il proprio sé apprende a conoscersi anche in questi volti inizialmente sconosciuti, ma in cui è accolta la sperimentazione di
mondi possibili. La vita stessa ci fa incontrare una pluralità di tempi qualitativamente diversi, il punto nodale
è imparare a riconoscerli e saperli assaporare lievemente. È lo stesso tempo dell’amore o della morte, tempo
distinto in cui le lancette non servono perché si ha una bussola differente, si sostituisce a una pila o a un congegno meccanico la cadenza di un ritmare umano che riconosce la complessità e la coralità della propria esistenza condivisa con l’umanità. Ma il tempo trascorso in un interstizio è un tempo di qualità? Forse, proprio
per la sua leggerezza il tempo dell’interstizio è quello della mancanza di cornice, è tutto ciò che fuoriesce da
una visione omologata nell’uso del proprio tempo. Osservando le vite che incrociamo e che noi stessi viviamo, possiamo dire che alcune sono più interstiziali di altre? Esiste qualcuno che è prigioniero di questi interstizi: si può trattare o di una scelta per vivere più intensamente o invece di una resa a ciò che non si sa come
affrontare. E se arretrando di un passo torniamo alla vita con la pienezza delle sue gradazioni, gli spazi interstiziali ci appaiono come momenti magici, iridati. Forse in essi possiamo collocare spaccati di vita intensa
come quando, davanti a S. Maria delle Grazie a Milano, Sermonti legge la Divina Commedia, e in quel preciso momento donne e uomini condividono emozioni e sentimenti uguali e diversi da quelli di altri che qui
prima di noi sono passati, bruciano insieme nel fuoco di Ulisse, si indignano per Ugolino, si struggono di
passione per Paolo e Francesca. Sono parole che un uso continuo non sciupa, anzi arricchisce di profondità e
di altri pezzi di carne viva: parole sempre nuove e straordinarie che ammantano di luminescenza ogni singola
vita.
Massimiliano Calligola e Franca Zuccoli, Libera Università di Anghiari
“Il mondo immaginale” di Michel Maffesoli, Conferenza alla Iulm, Milano, 6 novembre 2006
Nello scenario sociologico contemporaneo, quella di Michel Maffesoli è indubbiamente una delle posizioni
più avvincenti, “creative”, discusse, al contempo tanto amate quanto criticate. Sociologo di “formazione”,
figura critica, eclettica, poliedrica, tanto nota in Francia – anche grazie al fatto che ricopre attualmente alla
Sorbona la cattedra che fu di Émile Durkheim – quanto ancora non del tutto integrata e pienamente riconosciuta nella comunità dei sociologi italiani, Maffesoli ama definirsi “un sociologo contro la sociologia dei
sociologi”. In questo senso, potremmo avanzare l’ipotesi di considerare Maffesoli tra quegli studiosi che
chiamiamo provocatoriamente “interstiziali”, nell’accezione di “non piena conformità alle logiche sistemiche
imperanti”. Non solo, la parola “interstizio” è rinvenibile nello stesso vocabolario di Maffesoli, dal momento
che egli scrive nel suo volume Il tempo delle tribù (tr. it. 2004): “Diffidare del ‘grugno’ dei pensatori istituiti;
sporcano tutto ciò che toccano. È meglio partecipare con leggerezza a ciò che ho chiamato una ‘conoscenza
ordinaria’, un sapere degli interstizi. Intertizi nelle parole e nelle cose”. Ecco allora che nella sua conferenza
su “Il mondo immaginale” – tenutasi alla Iulm di Milano, in cui a fare gli onori di casa era presente Alberto
Abruzzese – ha voluto ripercorrere e ribadire con convinzione le linee guida del suo pensiero. È sorprendente
l’uso che Maffesoli fa delle metafore, alle quali egli affida il compito di descrivere il mutamento socioculturale in atto nelle società contemporanee. La pregnanza dell’immaginario nella vita quotidiana, la centralità del corpo e del luogo (spazio), il ritorno dell’arcaismo nella forma delle tribù, il nomadismo, il dionisiaco, fanno pensare oggi – nella postmodernità – ad un riavvicinamento di ciò che la modernità aveva allontanato, ovvero, un recupero della stessa premodernità. Nel suo elogio della Ragione sensibile, Maffesoli non
intende tuttavia contrapporre, tanto meno disgiungere la Ragione dall’immaginario. Al contrario, egli si impegna a ri-connettere la Ragione ai sensi, la Ragione astratta alla Ragione sensibile, secondo un’idea di “umanismo integrale”. Un “modello” antropologico che ricorda, per molti aspetti, quello di Edgar Morin, se-
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condo i quali, appunto, l’uomo non è solo razionale ma anche immaginale e passionale. Dimensioni differenti ma interconnesse.
Cristina Pasqualini, Università Cattolica, Milano
2. Libri & Scritti
La teoria degli “interstizi” in Platone
Nel Timeo, il dialogo più influente dell’antichità, tant’è che Raffaello, nella Scuola d’Atene, lo dipinse sotto
il braccio del filosofo per sottolinearne l'importanza, Platone elabora una “teoria degli interstizi” la cui particolarità è di non prevedere spazi vuoti tra i corpi. Platone parla del fatto che, al di là dell’universo, non si dà
nulla oltre all’anima del mondo, all’interno della quale non resta “alcuno spazio vuoto” (Tim. 58a-b). Il concretizzarsi dello spazio vuoto in interstizio è chiamato da Platone kenóte-s (Tim. 58b): dei corpi, “quelli che
sono costituiti da elementi grandissimi, lasciano nella loro costituzione un vuoto grandissimo, e i corpi piccolissimi un vuoto brevissimo. E il radunarsi della condensazione spinge i piccoli negli interstizi dei grandi”.
Sono dunque pensabili nella teoria dello spazio di Platone piccole lacune tra i corpi, i cosiddetti interstizi.
Probabilmente Platone conosceva l’immaginazione degli interstizi contenuta nella teoria dei pori di Empedocle e nella dottrina degli atomi di Leucippo. Negli interstizi di Empedocle stava una specie di sostanza aerea,
in quelli di Leucippo il vuoto. Per Platone esistevano sì interstizi ma non potevano essere vuoti perché le cose in divenire sono materiali. Che cosa stava negli interstizi platonici, non ci è dato saperlo. Sappiamo soltanto che non potevano essere vuoti.
Francesca Rigotti, Università della Svizzera Italiana, Lugano
François Cheng, Cinq méditations sur la beauté, Albin Michel, Paris 2006.
La figura di François Cheng, poco nota in Italia, riveste una grande originalità nel campo della letteratura e
dell’estetica, a motivo della sua singolare e ininterrotta mediazione tra cultura cinese ed europea, così come
tra lingua cinese e francese, che ne fanno un autore tipicamente “interstiziale”. Nato nel 1929 in Cina e trasferitosi ventenne in Francia, Cheng ha adottato quest’ultima come sua nuova patria e il francese come nuova
lingua, mantenendo tuttavia il radicamento nella cultura di origine; la validità dei suoi lavori in estetica, poesia e letteratura in genere gli hanno fruttato nel 2002 l’elezione a membro dell’Académie de France.
L’interesse di una segnalazione di questo autore, e in modo particolare delle sue recenti “Meditazioni sulla
bellezza”, a cavallo tra estetica e filosofia, consiste nella sua attenzione al “vuoto mediano”, questo terzo elemento decisivo delle dinamiche fisiche e umane: il termine viene dal taoismo e indica lo spazio intermedio
che sta tra due elementi opposti, come lo Yin e lo Yang. Questo vuoto (o “interstizio”) che è figura del tre
rappresenta “il necessario spazio intermedio di incontro e di circolazione che consente una interazione efficace e, nella misura del possibile, armoniosa” (p. 145). E anche la bellezza viene interpretata in termini ternari, essendo l’incontro tra due esseri o tra lo spirito umano e l’universo vivente: così, l’opera di bellezza,
“che nasce sempre da un entre, è un tre che, nato dal due in interazione, permette al due di superarsi”
(p.146); e qui risiede secondo Cheng la radice della stessa trascendenza.
Gianni Gasparini, Università Cattolica, Milano
Antonio De Simone, Fabio D’Andrea (a cura di), La vita che c’è. Teorie dell’agire quotidiano, 1° volume; La vita che c’è. Forme dell’agire quotidiano, 2° volume, FrancoAngeli, Milano 2006.
Questa complessa, articolata e completa opera in due volumi rappresenta lo sforzo intellettuale di un gruppo
di studiosi che hanno lavorato attorno ad un progetto comune – l’agire quotidiano – declinandolo nei propri
ambiti disciplinari di studio e di ricerca. Nel primo volume – Le teorie – vengono ripercorse le principali
concezioni filosofiche e sociologiche contemporanee dell’agire quotidiano, attraverso una lettura critica della
lezione di “maestri” come Simmel, Wittgenstein, Weil, Goffman, Heller, de Certeau, Maffesoli, Morin, Elias, indagando, tra l’altro, il rapporto, ancora parzialmente inesplorato, tra scienza e vita quotidiana (Bocchi), tra tempo e vita quotidiana (Gasparini). Nel secondo volume – Le forme – il tema dell’agire quotidiano
viene affrontato in diversi ambiti come l’immaginario, la comunicazione interculturale, la politica e la democrazia, i legami affettivi, i processi formativi e l’educazione, la televisione e la domesticità. Se, come ha insegnato Merton, la ricerca è un processo circolare tra teoria e ricerca empirica, questi due volumi sono un esempio concreto di come tutto ciò sia necessario quanto possibile.
Cristina Pasqualini
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G. Colombo, Baciare il rospo. L’impresa possibile di amare Milano, Troina (En), Città Aperta 2006.
È successo pressappoco così. Durante una noiosa seduta del consiglio comunale di Milano - sono consigliere da più di dodici anni, altri dieci e maturo la pensione d’opposizione - sentii una voce diversa. Mentre ascoltavo le parole dei colleghi, ne sentii un’altra, come salisse dagli interstizi, pregna di un mondo inespresso. Non chiedetemi di ripetere il contenuto di quella voce. Non lo so. Così come non so il nome del cantante
di quella melodia. Sarà stato uno straniero, forse un angelo, proveniente da un altro mondo che “con le ali
ravvivò le braci d’ignoto focolare”. So solo che da quel momento ho iniziato a vedere Milano in maniera diversa. E, preso in mano il computer, ho cominciato a scrivere una lunga lettera d’amore alla città. Il caro amico Mario Bertin, che guida da alcuni anni sui monti della Sicilia una casa editrice garibaldina - Città aperta
edizioni -, l’ha voluta assolutamente pubblicare con un titolo che forse è un’eco della voce sentita quel dì:
“Baciare il rospo - L’impresa possibile di amare Milano”. Che Milano sia un rospo, lo dicono in tanti, in
troppi. Che bisogna baciarlo, il rospo, lo dicono solo i matti come me che credono ancora alle favole (e se
nella favola il rospo diventa principe, qui il rospo si tramuta in principessa, perché Milano è femmina). Se
non baci, la realtà non cambia. Il bacio è metamorfosi, trasformazione, operazione alchemica. Preso dal desiderio di baciare a destra e a manca ma soprattutto curioso di vedere l’effetto che fa, ho scritto un pot-pourri
che contiene di tutto e di più: numeri, cenni di storia, chicche letterarie, flash sociologici, descrizioni minute
di cose dimenticate, istantanee di luoghi celeberrimi. Il libro è anche un pamphlet politico, in vista del 2041,
quando, splendido ottantenne, verrò eletto sindaco della città. Nell’ultimo capitolo troverete il mio discorso
d’investitura. Un vero delirio di cui vado fiero. “È l’ora di passioni gioiose: baciamo Milano, amiamo Milano, sposiamo Milano!”
Giovanni Colombo, avvocato, consigliere al Comune di Milano
Alterità e interstizialità. In memoria di Clifford Geertz
Clifford Geertz – antropologo americano, discepolo, tra l’altro, di Talcott Parsons – è recentemente scomparso all’età di ottant’anni. Nel suo percorso di ricerca Geertz è stato capace sia di dialogare con le altre scienze
sia di far dialogare tra loro scienze differenti. Leggendo, infatti, la sua opera Interpretazione di culture (trad.
it. 1998) si possono ritrovare evidenti ibridazioni con alcune delle correnti più feconde del pensiero del Novecento, da Heisenberg a Wittgenstein, da Ricoeur a Gadamer. Al contempo, Geertz è stato apprezzato e riconosciuto all’interno della stessa comunità dei sociologi, in particolare per il suo autorevole contributo, di
natura epistemologica, al dibattito emic-ethic. Come posso conoscere l’Alterità – intesa come culture altre –
senza snaturarla, senza essere intrusivo? Come mi avvicino a questo oggetto di studio? Come osservo? Interrogo o lascio emergere (direttività versus non-direttività)? Come interpreto ciò che osservo? In quanto ricercatori sociali, ci ricorda Geertz, non possiamo trascurare il problema, presente e invitabile, della diversità
culturale (valori, usi, costumi, segni e simboli) tra noi e l’Alterità, che è anche una diversità di categorie, di
rappresentazioni, di concetti. Una diversità, appunto, e non necessariamente una distanza. Queste domande,
oggi, richiedono una sempre più urgente risposta, in virtù del fatto che le “culture altre” non sono più solo e
non sono più così lontane da noi, ma sono sempre più co-presenti nella nostra società. Una presenza che abita spazi metropolitani interstiziali, spazi dimessi e rimossi, spazi che divengono talvolta inavvicinabili, rendendo così difficile non soltanto l’interpretazione ma lo stesso incontro di “culture altre”.
Cristina Pasqualini
3. Arte & Comunicazione
Film - Crash. Contatto fisico di Paul Haggis
Giocare con la forza demiurgica e a nostra saputa intelligente, della metropoli, dispensatrice di incontri e circostanze casuali sospese tra il karma, la conversione e la redenzione è un’operazione intellettuale che si
compie almeno dai tempi di Baudelaire, cioè da che Modernità è Modernità. Un’ulteriore versione è data dal
film Crash. Contatto fisico (di P. Haggis, Usa, 2006, vincitore di 3 premi Oscar), che ha il merito di osservare questi eventi spaesanti dal punto di vista della integrazione sociale e dei cleavages etnici e di classe che la
complicano o la rendono, a volte, impossibile. Lo svolgimento del film è compatto e tirato; il tempo raccontato sono 36 ore nella vita di Los Angeles in cui i percorsi di 14 personaggi, appartenenti a gruppi etnici e
classi sociali diversi si intersecano, anche se solo per brevi istanti, destinati tuttavia a cambiare, nel bene e
nel male, le esistenze di ciascuno. L’onomatopea del titolo richiama il fragore che tali incontri-scontri generano. Ma il “crash” non è, prevalentemente, quello dei corpi che cozzano l’uno con l’altro, ma forse quello
dell’infrangersi delle invisibili barriere di vetro che separano le vite dei cittadini metropolitani, così vicini,
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per dirla con Wenders, ma allo stesso tempo così lontani nelle loro “bolle” entro le quali cercano riparo da
una promiscuità sociale vischiosa e indesiderata. Ma in questo moto browniano di molecole impazzite, gli
urti sono inevitabili. Per quanto gli incontri che avvengono sulle strade di LA rappresentate dal film siano di
fatto violenti, il film ci viene a dire che oggi come oggi è il contatto fisico, metafora della prossimità all’altro
ad essere violento in sé, perché sempre e comunque causa di uno shock, almeno cognitivo, al quale, cittadini
della complessità, abbiamo paradossalmente perso l’abitudine.
Fabio Introini, Università Cattolica, Milano
Mostra - L’everyday life di Martin Parr
La recente retrospettiva ospitata da Forma a Milano è stata un’occasione preziosa per avvicinare o per approfondire la conoscenza dell’opera di Martin Parr, fotografo britannico che dagli anni Settanta ritrae impietosamente il nostro vivere quotidiano. Membro di Magnum, ha realizzato numerosi reportage. Che documenti
l’ambiente operaio del Nord dell’Inghilterra o la decadenza delle ultime mete turistiche popolari, i riti della
buona borghesia o i viaggi in giornata a fare acquisti oltrefrontiera, lo sguardo di Parr si ferma su ciò che è
banale e scontato e lo restituisce nella sua assoluta fragilità, pronto a deformarsi in un incubo trash e iperrealista o a essere riassorbito nella normalità più familiare.
Le cose di tutti i giorni, riprese da vicino, ingigantite e illuminate con un flash circolare del tipo usato nelle
fotografie scientifiche o chirurgiche, con colori saturi e caramellosi; i luoghi del turismo di massa, popolati
di visitatori disciplinati, in posa per le foto ricordo come ballerini di una universale coreografia; le “coppie
annoiate” sedute ai tavolini dei fast food o al ristorante; le case a schiera, dai living-room tutti uguali, o i dettagli dell’arredamento con cui cerchiamo di rendere unici i nostri spazi domestici; lo spettacolo delle merci e
del consumo nell’eclissi del gusto e dello stile; il parossismo degli acquisti a buon mercato: questo il catalogo dei nostri luoghi comuni, messo in scena senza vergogna e ripreso con senso dell’umorismo tutto british,
a volte anche con tenerezza, soprattutto quando protagonisti-vittime di questa corsa affannata e apparentemente senza senso sono i bambini. “Common sense” si intitola uno dei reportage più pungenti di Parr: la
trama del quotidiano, solitamente inavvertita, appena messa sotto la lente della riflessività rivela tutta la sua
estraneità e artificiosità.
Piermarco Aroldi, Università Cattolica, Milano
4. Vita quotidiana
Le “studiate coincidenze”: gli interstizi urbani
Nell’urbanesimo il concetto d’interstizio ha l’inevitabile, matematica presenza di più di un elemento, di solidi e di spazi limitati, controllati. Il contenuto, la situazione raramente percettibile, si trova sempre sotto pressione, tra parentesi, tra corpi che spingono, che nicchiano. L’incastro più riuscito non riesce comunque a liberarsene. L’interstizio c’è. Quest’obbligo di condizioni fisiche ha un rapporto stretto con la volumetria, con
la “presa dello spazio”. Ma quello che cresce, che si sviluppa o che si trova nel tempo interstiziale che cos’è?
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Risultante, resistenza, necessità? Sarebbe nato comunque? Quale impulso l’avrebbe altrimenti generato? In
ogni modo, senza voler ricorrere per forza né alla gallina né all’uovo, l’interstizio c’è. Potrebbe esistere da
solo? In architettura la domanda è d’obbligo. Che cosa stai generando o degenerando? Chi o che cosa ti accompagna e cresce con te con la tua idea, con il tuo progetto? La sensazione di un qualcosa di sconosciuto,
un’ombra che si muove con te, che ti aspetta quando il dubbio ti minaccia, è sicuramente forte. Si muove fiducioso delle tue riprese e solo attende il momento della tua partenza per iniziare, con vita propria e in modo
autonomo, uno sviluppo che avrà in sè tracce del DNA dei muri e dei vetri che gli hanno dato respiro, battito,
palestra. L’interstizio è la vera incognita del progetto. Il non controllabile. Interno ed esterno. Macro e micro.
Fin dove non si arriva, fin dove non riusciresti mai ad immaginare. L’osservatore momentaneamente anonimo. Solo resta l’illusione di far parte, in modo affascinante ed indiretto, di un risultato che le “studiate” coincidenze faranno, auguratamente, diventare vita.
Fernando Cristobal Cordero, architetto, Milano
Biografia degli oggetti. Una nuova prospettiva di ricerca?
Chi conosce la locuzione “biografia degli oggetti” può trovare strano che essa possa essere presentata come
una “nuova prospettiva di ricerca”, dato che tale concetto è stato formulato vent’anni fa da Igor Kopytoff nel
noto volume curato da Arjun Appadurai, The social life of things (1986). Ma, a parte una prima formulazione
e delineamento della questione, non vi sono state ricerche che in modo sistematico abbiano adottato e approfondito tale prospettiva, ad eccezione di Rubbish Theory (1979), saggio che anticipava la proposta di Kopytoff, del sociologo inglese Michael Thompson, e delle recenti ricerche dello storico-etnologo francese
Thierry Bonnot, raccolte in La vie des objets (2002). Kopytoff e Appadurai, sulla scia dei lavori di Jean Baudrillard e di Mary Douglas e Baron Isherwood, erano interessati a comprendere come e perché un dato oggetto può divenire o può smettere di essere una merce. Ma, come afferma Bonnot, la commercializzazione non è
che una tappa transitoria che non esaurisce la biografia di un oggetto. Già Kopytoff, comunque, metteva in
luce il fatto che osservare la vita degli oggetti implica porre attenzione a come un dato oggetto, o una dato
tipo di oggetti, pian piano si trasforma accedendo a valorizzazioni e ambiti differenti, facendo così emergere
una serie di dati su una specifica cultura. Bonnot sviluppa tale programma di ricerca espandendolo: si concentra maggiormente sulla biografia di oggetti presi nella loro singolarità e si interessa al momento della loro
produzione. Dato che la nostra quotidianità è disseminata di oggetti o, meglio, dato che essa si costituisce attraverso una serie di oggetti che, non a caso, riconosciamo come “quotidiani”, la prospettiva delineata da
Kopytoff può aprire nuovi vie di riflessione sulla vita quotidiana.
Alvise Mattozzi, Università IUAV di Venezia, Libera Università di Bolzano
Mind the gap! (If you want success)
Analizzando le storie di vita degli adulti giovani italiani (Introini - Pasqualini, 2005), un fatto si è palesato
con particolare chiarezza. Nel racconto biografico di molti soggetti si staglia, come esperienza memorabile,
un viaggio. Legato alle più diverse ragioni, ma molto spesso all’occasione di un periodo di studio all’estero o
ricevuto come premio proprio a sancire la conclusione dell’iter formativo (il viaggio post-laurea) esso è frequentemente narrato, dalle parole dei testimoni, come occasione profondamente formativa, spesso più efficace della stessa istruzione formale ricevuta nelle grigie aule dei corsi accademici, che hanno il merito di insegnare molte cose, ma non forse a “vivere”. Probabilmente quello che potremmo definire, in omaggio alla
Kultur, come bildungs-reise è ancora una pratica troppo “elitaria” per potersi offrire come nuovo criterio di
demarcazione tra gioventù e adultità a una sociologia dei giovani che sempre meno crede a quelli “classici”.
Ma nei vissuti dei singoli, complice anche la collocazione che assume nei rispettivi cicli di vita, esso tende
ad assumere proprio questo significato. E, ci pare di poter dire, non solo per il potenziale relativizzante che
offre l’incontro con culture e stili di vita diversi (in fin dei conti, se il viaggio fosse “solo” questo avrebbero
ragione quanti affermano che oggi, in epoca di globalizzazione, si può viaggiare anche stando fermi); non
solo per l’occasione (kairos) di incontri in grado di cambiare la vita che lungo le sue tappe si possono fare.
Ma anche per la sua natura interstiziale, di sosta e cesura dei pattern che scandiscono il nostro vivere ordinario, e che apre a quella “dimensione contemplativa della vita” in cui sono possibili nuove e forse inaspettate
dischiusure di senso. Identitario, sociale, esistenziale. In questo flaneursismo dello spazio e del sé l’apparente
bighellonare si trasforma in occasione per ritrovare se stessi e per chiarire le basi di quello che potrà essere il
proprio futuro. Da sempre incoraggiate dal pensiero meridiano e dalla sua spesso ironica vena antimodernizzazione, queste pratiche dell’ozio stanno sempre più ottenendo cittadinanza presso il nemico, ovvero le imprese e le aziende che della modernizzazione disumanizzante sono simbolo. Questo almeno attesta una notizia riportata il 17/11/06 dal Corriere Economia secondo cui le aziende vedrebbero di buon occhio nei curri-
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cola dei loro futuri dipendenti un cosiddetto “gap year”, cioè un anno di pausa dalle attività formative e professionali per viaggiare intorno al mondo. Una sorta di master autoprodotto e autogestito, in cui migliorare
non solo la conoscenza delle lingue, ma, anche, la propria autoconsapevolezza e apertura mentale, nonché
specializzarsi in quella “arte di arrangiarsi” che nei turbolenti vortici della complessità appare essere la migliore strategia non solo di sopravvivenza ma anche di successo.
Fabio Introini
Maschile e femminile
Maschile e femminile rappresentano la grande dualità del creato che si proietta simbolicamente attraverso le
culture umane anche sulle realtà cosiddette inanimate, diventando principio ordinatore del cosmo plasmato in
cui le società umane si collocano. Uno tra i tanti esempi, tratto dal folklore europeo: le acque possono essere
maschili o femminili, maschili quelle impetuose degli oceani, dei mari, dei grandi fiumi, femminili quelle
quiete dei laghi, degli stagni, delle acque sotterranee, dei ruscelli e delle fonti. Aggiungiamo inoltre che alla
doppia valenza maschile/femminile, che la nostra cultura ha molto spesso qualificato come luogo
dell’indeterminatezza negativa, molte culture tradizionali attribuiscono il carisma della pienezza dell’essere.
I Dogon del Mali ritengono che ogni essere umano nasca “doppio”, maschile e femminile; e che se il corpo
crescendo si differenzia presentando caratteri o tutti maschili o tutti femminili, nella sua interiorità la donna
sarà sempre femminile e maschile, l’uomo sempre maschile e femminile; come? l’uomo sarà anche femminile nella gentilezza dei modi, nel soccorso affettuoso ai bisognosi, nello spirito di sacrificio, nell’ingegnosa
creatività; la donna sarà anche maschile nel coraggio che dimostrerà nel prendere decisioni importanti, nella
forza che userà in difesa del bene e dei deboli, nella organizzazione del lavoro e degli affari familiari.
Giovanna Salvioni, Università Cattolica, Milano
Pubblicazioni recenti
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L. Boella, Sentire l’altro. Conoscere e praticare l’empatia, Raffaello Cortina, Milano 2006.
M. Cappuccio, Neurofenomenologia. Le scienze della mente e la sfida dell’esperienza cosciente,
Pref. di M. Ceruti e L. Damiano, Bruno Mondadori, Milano 2006.
A. De Simone, Oltre il disincanto. Etica, diritto e comunicazione tra Simmel, Weber e Habermas,
Pensa Multimedia, Lecce 2006.
G. Gasparini, Un folle volo. Note ed esercizi di critica empatica, Mimesis, Milano 2006.
E. Morin, Cultura e barbarie europee, Raffaello Cortina, Milano 2006.
I nostri recapiti
Giovanni Gasparini
(Coordinatore)
Dipartimento di Sociologia
Università Cattolica del Sacro Cuore
Largo A. Gemelli, 1
20123 Milano
[email protected]
Tel. 02.7234.2547
Cristina Pasqualini e Fabio Introini
(Segreteria)
Dipartimento di Sociologia
Università Cattolica del Sacro Cuore
Largo A. Gemelli, 1
20123 Milano
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Tel. 02.7234.3764
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