Radegonda Lucia Data di nascita: 13/03/1921 Intervista rilasciata in
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Radegonda Lucia Data di nascita: 13/03/1921 Intervista rilasciata in
Radegonda Lucia Data di nascita: 13/03/1921 Intervista rilasciata in dialetto il 07 maggio 2004 Intervistatore: Italo Corai Nata il 13/3/1921 a Pordenone Ho iniziato a lavorare al cotonificio di Rorai Grande a 14 anni e mezzo e sono andata via con i “scufoj” (dialettale per descrivere delle calzature tipiche della zona); erano giusti 14, perché compivo gli anni a marzo e sono andata a lavorare ad agosto. Nel 1935 e sono andata a mettere le spole sui “teleri” (ndr dal dialetto per telai) che non erano alti come quando a Pordenone li hanno rifatti che erano tutti alti, alti. Erano bassi alla nostra altezza e si mettevano su spole. Lì sono rimasta forse un anno e mezzo, due, non so. Dopo mi ha richiesto Missinato nel magazzino tessuti a Rorai e sono sempre stata lì sulle spedizioni. Sui “teleri” non sono più andata. Poi siamo stati trasferiti tutti a Pordenone sempre sullo stesso reparto spedizioni che a Pordenone era andando giù, il primo stabilimento sul davanti. In portineria? Dopo la portineria e dopo il portico con l’orologio a sinistra. Ho lavorato fino a 21 anni perché dopo sono rimasta incinta e sono rimasta a casa otto mesi dopo il parto. Quella volta ho dovuto sposarmi: è andata così! Mio marito era di Bari della cavalleria ed era partito per la Croazia nel 1942 che dopo è venuto su per il mio matrimonio. In Croazia lo hanno riconosciuto per un’otite e lo hanno esonerato e sono andata a Bari con mia figlia Elena piccola di due mesi e mezzo, nata a fine ottobre. Sono andata a gennaio e sono rimasta là tre anni e mezzo. Sono rimasta a casa dal lavoro cinque anni. Ho partorito Michele a Bari e sono rimasta incinta dell’ultima e sono ritornata a Pordenone e mi hanno assunta non più alle spedizioni, ma nel magazzino tessuti a revisionare i difetti a Rorai. Dopo il crollo dello stabilimento di Rorai, nel ’54, eravamo sospesi tutti e quanti. Ho fatto due, tre mesi a Bari ma sono stata richiesta perché ero una delle prime riassunte - in quanto avevo tre figli e poi ero sola per una serie di vicissitudini - allo stabilimento di Pordenone dove sono rimasta fino alla pensione a 55 anni a marzo, ossia nel 1976; periodo in cui per due anni c’è stata la montana (ndr dal dialetto per alluvione). Ma era venuta su a Pordenone con suo marito? Sono venuta su da sola più per trovarlo e dopo sono venute tutte queste vicissitudini, l’ho fatto venire su e allora è sempre stato qua, si è trovato un posto di lavoro, perché aveva una piccola pensione per l’otite che poi gli è stata tolta, che gli aveva permesso di avere un lavoro anche se era difficile a quel tempo. Dopo era più facile trovarlo negli anni della Zanussi. Suo marito in Croazia era al fronte? Non al fronte, era stato mandato in Croazia per punizione e nel male gli è andata bene perché altrimenti sarebbe dovuto andare al fronte con i Cavalleggeri di Saluzzo a Pordenone, d’istanza a Bologna da dove era scappato per venirmi a trovare e per questo era stato punito. Mentre tutta la sua compagnia, tutti morti. Una punizione gli ha salvato la vita. Dopo quel posto di lavoro ne ha trovato un altro e poi è andato Da Pieve a Borgomeduna dove è rimasto fino a 70 anni: ha lavorato tanti anni, poverino. Quindi lei ha lavorato in stabilimento anche durante il tempo del fascismo ma non durante il tempo di guerra? Lavoravo durante il tempo del fascismo ma durante la guerra mi trovavo a Bari. Dopo finita la guerra nel ‘46 sono tornata a Pordenone quando è stata formata la Repubblica. E quindi non ha mai lavorato sulle macchine ma quasi sempre nei reparti di spedizione: dove spedivate la merce? Era un bel posto di lavoro perché prima si mettevano i metri, il peso, il numero del telaio e poi chiamavo quella che batteva a macchina. Guardando questa ho imparato e dopo battevo sempre io a macchina. Avevo tutte le annotazioni dei posti dove andava al merce, le avevo sempre in mano io. Ma non ricordo esattamente dove, neanche se andavano all’estero o restavano in Italia. Mi pare comunque che la maggior parte andasse all’estero. Importavamo il cotone che andava nel reparto tessitura e poi filatura. Anche i macchinari erano tutti tedeschi, mi ricordo che i tecnici erano tutti tedeschi. Lei lavorava ma aveva tre figli a casa? Certo, avevo mia mamma a casa che si occupava dei figli. Sono stata a casa cinque anni e sono tornata a Bari perché ho fatto tanta cassa integrazione purtroppo. Quando ho finito la maternità, si doveva stare a casa per la cassa integrazione, allora dato che avevo tre figli piccoli, mia suocera mi ha detto di andare giù e sono tornata via per un piccolo periodo. E dopo non appena hanno ripreso la produzione sono tornata a lavorare. Quando c’é stata l’alluvione lei lavorava a Pordenone? Ricordo che la montana è arrivata il 4 di novembre del ‘66 e sono venuti a chiamarmi a casa il mio capo Da ponte, che mi pare che sia morto adesso, perché la prima cosa che è andata sotto acqua erano proprio le tele. Le tele pronte da spedire? Si, sulle spedizioni. E’ stata chiamata di mattina? Ricordo che in tutta Italia era un disastro. Qua era un disastro, la prima volta e anche la seconda volta perché è venuta per due anni consecutivi. Tanto è vero che la seconda volta sono andata per l’entrata principale, ma per uscire siamo andate per la Via Canaletto; non si poteva uscire perché l’acqua aumentava ed era al livello della strada. Dopo hanno messo della terra per fare l’argine. Mi racconti: quando è stata chiamata alla mattina? Era il 4 di novembre e eravamo tutti a casa… Perché a casa? Era la festa del 4 di novembre e tutti e due gli anni è capitata in quella data; insomma una cosa impossibile! Sono stata chiamata anche se era festa perché la tela andava a male e avevamo i piedi sull’acqua, allora si mettevano delle tavole una sopra all’altra. Il signor Morettin, forse lo avrà conosciuto quella volta, che era un tecnico, raccontava che nel suo ufficio aveva più di un metro e mezzo di acqua. Dopo è arrivata fino a quel livello. All’inizio, appena chiamati, non era ancora a quei livelli; infatti sono entrata dall’entrata principale ma sono uscita da Via Canaletto. Quindi mentre l’acqua saliva voi cercavate di salvare la tela? Si. Era nel ‘47, che sono stata riassunta. Era una altra alluvione? No, nel ’54, ah no… era il crollo in quell’anno! Comunque l’alluvione più grande era nel ‘66-67? Si, la seconda è stata la più alta ancora. Figlia: E’ arrivata fino al Municipio. C’erano i militari a trasportare la gente e tutti a guardare. Era Casagrande capo sala quella volta. Quando c’era Da Ponte? Era capo delle tele, dove lavoravo io. Ma era Da Ponte che l’ha chiamata per la prima montana? Certo. Da Ponte per la prima montana e Casagrande la seconda? No, Casagrande era capo sala e Da Ponte era capo reparto. Casagrande c’era già prima e seconda volta. Si ricorda di qualche cosa che è successo in quegli anni prima della guerra in cui c’era un po’ di autarchia? Figlia: Qualcosa che hai patito dentro con le altre persone? Sono stata fortunata come lavoro, certo che una volta come ferie e come 200 ore facevo una settimana di ferie. Ma se è rimasta a casa per otto mesi per maternità in quell’epoca era una grande cosa! Si quella si. Non ricordo con precisione ma mi sembra che otto giorni di ferie li avevamo o che ci facevano stare a casa ma non eravamo pagati. Quella volta abitavo a Rorai e con la bicicletta, si faceva il 4 per 4, si veniva a casa a mangiare una minestra di risi e patate; mi ricordo che a quell’epoca era così per tutti. Dopo con l’andare degli anni, chi ce lo faceva fare a far tutta quella strada per mangiare un piatto di minestra, tanto valeva mangiarsi un panino. Ma quella volta naturalmente non si aveva disponibilità, o non si poteva prendere il panino. Prosciutto non esisteva e la mortadella era già un lusso. Il formaggio era già selezionato. Ma piuttosto che fare la strada e mangiare la minestra conveniva prendere il panino e stare là? Figlia: Era mentalità, perché è come i minestroni che facciamo oggi. Una volta avevamo un bel orto grande a Rorai e là si facevano fagiolini, pomodori, zucchini, piselli, tegoline (dialettale: cornetti, fagliolini) e di tutto. Che minestroni venivano fuori quella volta: buonissimi! Eppure più di minestre di patate non facevamo. Allora la televisione è quella che ci ha aperto gli occhi, per dire. Non so se sbaglio. Tante volte dico guarda, senza spendere niente avevamo tutto lì: i conigli e le galline mangiavamo dei nostri che si aveva là. Per fortuna che avevamo questa economia di sussistenza. Si, ma guardi qua avevamo questa economia, a Bari ce n’era un’altra! In piena guerra a Bari, ero incinta di mio figlio, arrivavano alle 3 di pomeriggio per mangiare, qua si mangiava a mezzogiorno e alle 7 alla sera, invece là lavoravano fino alle 3 e mezza, 4 e si mangiava a quell’ora. Fino a quell’ora si mangiava, se c’era da mangiare, tipo mozzarella mentre qua non si sapeva neanche cosa significava. Giù invece si mangiava mozzarella buona perché come frutta e verdura c’è sempre stato più assortimento giù nella bassa che qua. Ma mi ricordo che avevi quell’ora lì per mangiare un piatto di cicoria lessa o le fave che le facevano tipo purè. Che adesso è mangiare prelibato! Pensi che a mia figlia ho dato il latte fino a 17 mesi e fino a un anno né pappine, né niente, solo latte. Anche mio figlio ha avuto il latte fino ad un anno ma a lui ho iniziato un po’ prima a dargli le pappine. Mi ricordo che compravo questi pani così grandi alla borsa nera, ho dovuto imparare a conoscere Bari prima delle mie cognate, vuoi perché avevano un anno o due in meno o vuoi perché avevano qualcuno alle spalle, ho dovuto conoscere prima io le strade di loro. Conoscevo le vie e le strade perché questa roba la vendevano per le famiglie: le orecchiette, la farina di grano duro, la cicoria no, la cicoria si trovava al mercato. Ma una volta ci si sognava la pasta; era a tessera, il pane non era sufficiente. Allora si comprava questo pane al mercato nero. Lo facevano sul forno a legna e si divideva una fetta a ciascuno. Mio suocero portava a casa il pesce, perché era vicino al porto di mare, mi ricordo che faceva il vetturino. Mia suocera scambiava le lenzuola con sedano, roba da mangiare. Mia mamma vendeva la roba con la bicicletta. Figlia: ha imparato ad andare in bicicletta a 50 anni (sua nonna). A 50 anni per andare a Pordenone perché diceva: “Come faccio ad andare a piedi?” e ha avuto la costanza di imparare. Quella volta a 50 anni era ormai vecchia! Come si chiamava? Giorgina De Tina, era del 1887. Figlia: ha lavorato anche lei in cotonificio. Ha lavorato a Rorai e faceva le pulizie negli uffici. Fortunata anche lei? Fortunata anche lei come tipo di lavoro. Tutti le volevano bene, era la mascotte di tutti quanti! Veniva a casa con le pieghine dei canovacci fatte a uncinetto, dentro là. Era del 1887. Dopo era buona e faceva amicizia con tutti gli impiegati, anche io per quello. ho lavorato “sotto di mia mamma” si diceva “a fattorin” (dialettale) mi ricordo che eravamo in ufficio e andavo a comprare le sigarette, le robe, spostavo le carte da una parte all’altra e dopo mi hanno richiamato. Sua mamma a quanti anni era andata a lavorare, lo sa? Perché mia nonna che ha iniziato a 8 anni! Forse anche lei ha iniziato presto ma non qui. Mia mamma è nata a Zompicchie e quando andava in bicicletta in tempo di guerra a comprare, metteva la roba sul manubrio e dietro, roba fino ai 30 e 40 Kg da sola. Era a Cusano, era il posto per fare gli scambi di merci, baratti, la borsa nera… E allora ha imparato ad andare in bicicletta…? No, prima ancora ha imparato ad andare in bicicletta per andare a lavorare a Pordenone. E’ stata costretta, sarà stato nel ’37. Non è andata proprio i primi anni a lavorare in cotonificio, è andata dopo di me a lavorare… Aveva fatto amicizia con le Boschian che erano le prime impiegate che erano in stabilimento… A Rorai andava a piedi! Mia mamma camminava zoppa negli ultimi anni, perché era caduta talmente tante volte in bicicletta che non aveva il coraggio di dirlo. Una volta, che non c’erano tutte queste robe di adesso, andando da Annamaria che era maestra delle tele, perchè le insegnava a correre in bici, verso Fontanafredda, ne facevano di strada una volta in sella, è andata giù per un “fossal” (ndr: dialettale per fosso) e sono entrate in un’osteria a comprare la grappa per ungersi il ginocchio! Un'altra volta, abitavamo a Rorai, venendo a casa si andava su per una stradina e a fianco c’era una piccola “fossalina” (ndr dilaettale per piccolo fosso) con l’acqua è andata a finire dentro lì! Ha iniziato ad urlare e mio papà è uscito. Erano i freni a non funzionare! Si tutto non funzionava! E quando portava le mele? Noi abitavamo a Rorai ma eravamo sotto i Locatelli con la casa, era una bella casa. Mia mamma più di una volta - le migliori ciliegie, le migliori mele che venivano erano per lui - le caricava sulla bicicletta e andava in Corso Garibaldi a portargliele, sopra la profumeria, dove abitava ‘sto Locatelli, lei arrivava fino lassù di Ficini, “se ghe diseva” (ndr dal dialettale per: lo si chiamava) perché i freni non funzionavano! Facevamo delle risate perché dopo lo raccontava… aveva un modo di dirle! Locatelli stava sopra Torres e lei con la bicicletta arrivava fino a…? La casa di Rorai era dei Locateli, di Antonio. Giulio Locatelli è il figlio; Antonio il padre, non andava d’accordo con la moglie allora è andato ad abitare per un periodo con la figlia a Padova, ma faceva l’avvocato a Pordenone, ma non è mai stato uno dei primi avvocati, era sotto (ndr dialettale per dire: alle dipendenze) di Rossi. Ma con la figlia non si trovava, era già andato in pensione a Padova, ha preferito finire a Rorai. Dato che io avevo - ero ancora signorina ma avevo cinque fratelli - un fratello lo avevo in Francia, uno volontario a Bengasi, Berto è morto, il primo, mia sorella Maria che lavorava in stabilimento anche quella. Lavoro qua non ce n’era, eravamo rimaste io e mia sorella Angelica, quella che è morta da 2-3 mesi, io avevo già nove anni e mezzo in meno di mia sorella. Anche sua sorella Maria lavorava in stabilimento? Si anche lei. Era del 1911. Anche mio fratello Arcangelo del 1909, lavorava in stabilimento. Era garzone sui telai ma è dovuto andare in Francia. L’altro fratello di mezzo era del 1910, per cui erano uno del ’09, uno del ’10 e uno dell’11. Dopo c’è stata la guerra e siamo stati a casa e nel frattempo ha avuto un altro figlio che è morto; poi siamo nate mia sorella del ’20 e io del ’21. La Maria e l’Arcangelo hanno lavorato in stabilimento? Figlia: Anche l’Angelica… Madonna! L’Angelica ha lavorato più della Maria. L’Angelica era del 1922. No, del ’20 ed è andata a lavorare giusto a 14 anni. Ha lavorato, non posso dirlo con precisione perché dopo avevano fatto le carte per andare in America, suo marito era tappezziere di macchine: qui c’era una crisi di lavoro; avevano avuto questa possibilità e allora mia sorella che lavorava in filatura, si è licenziata, ma non mi ricordo l’anno. Però ha lavorato un bel po’ di anni: lavorava in batur… no, non era proprio sul batur, sul batur c’era polvere da matti (un spolveron da matti) comunque era sulle spole ma sempre in filatura e io in reparto tessitura. E’ rimasta a casa ma quella volta le è andata male e non è più ritornata a lavorare. Si era licenziata e non è andata in America perché a suo marito gli avevano trovato una cicatrice di una pleurite secca (secada) mai accorto, però non è stato accettato. Dopo è stata assunta qua da Carlesso, che era brava con gli aghi mia sorella, a fare lavori. Figlia: ma dopo però! Molto dopo, aveva fatto la sarta sotto a una maestra di sarta qua a Pordenone, ha fatto questi lavori ma sempre in nero, dopo di allora. Figlio: dopo abbiamo preso il papà di Giulio Locatelli. Il nonno dei tre: Luciano, Pierantonio e Aldo; hanno sempre lavorato questi figli. Venivano là con la moglie e Antonio ha voluto venire a Rorai e aveva una stanza da basso e aveva un letto e una scrivania. Da mangiare glielo faceva mia mamma; lo faceva a parte ma veniva a tavola assieme a noi, ed è rimasto lì finché è morto. Mi ricordo quando è morto, mio papà, … che telefono, che bicicletta! …Niente, ha preso da Rorai fino in Corso Garibaldi per avvisare suo figlio della sua morte. Figlia: l’abbiamo tenuto in casa per tre giorni dentro la sua stanza. Due notti e tre giorni perché dovevano venire i figli da Padova. Figlia: mi ricordo tanto i fiori e i ceri…Queste erano le storie! Figlia: ma dentro lo stabilimento eri ben voluta, andavate in gita, eri allegra. Si, per dire la verità siamo andati a Venezia, se le racconto un fatto sarebbe da ridere da quanto indigenti e indietro eravamo una volta! Missinato mi voleva bene e lo aveva detto anche a me. Missinato è andato a Venezia nel ‘46 circa… Io avevo tanta memoria ma adesso mi è scappata tutta, adesso! Allora gli racconto quella di Venezia, siamo stati anche a Redipuglia insieme a tutti gli impiegati, che quella volta… ho ancora la fotografia qua! Redipuglia non era più italiana ma quella volta era italiana, quando sono stata io. Dopo è tornata italiana. Rumori Missinato cosa era? Capo del reparto del magazzino tessuti. Figlia: sarebbe il papà del fotografo? Figlio: No è lo zio del fotografo. Si chiamava Giulio. Discussione parentela Missinato Quando sono andata a Venezia era tempo di guerra, no, c’era l’autarchia, ma per me era come tempo di guerra! Rumori Con le impiegate avevamo preso una cabina in compagnia e mi hanno dato il costume, si usava il costume di lana, io non avevo mai visto un costume in vita mia. Prendo il costume e lo metto come metto su una maglia si guarda il davanti che è più scollato e il dietro meno; quella volta mi ricordo che ero in compagnia con tutte le impiegate, le ho fatte ridere tutte quante perché avevo messo il costume contrario e avevo il seno fuori! Quanto abbiamo riso! Dopo mi sono vergognata perché lo hanno raccontato fuori… E l’altro particolare, che era venuto con noi anche Villa, che lo avevano nominato capo reparto, perché qua a Pordenone ci si sognava… Allora Missinato, tornando indietro, ha detto: “Vi porto io in una trattoria o ristorante”, non mi ricordo più: so che eravamo seduti su un tavolino fuori all’aperto perché era estate e hanno portato un grande vassoio di affettati, che io non avevo neanche mai visti. E mi ricordo che questo di Villa, quando sono andata a lavorare là… Villa di Rorai ? Si… Discussione su Villa Era una gita di impiegati e noi di operai, e io ero lì perché Missinato aveva simpatia per me e avevo tanta memoria e mi aveva messo a scrivere a macchina perché avevo questa memoria, ecco. Figlia: ma anche perché eri sveglia! E’ andata anche a imparare da sarta da giovane, dalla Giulia Tubero; non vedeva l’ora di andare via in bicicletta. Aveva imparato con una da uomo; racconto … quella del “spagnoletto” (dialettale per dire: rotolo di filo). C’era una sarta, che abitava dove abitano i Moro, là abitavano due sorelle, una era amica mia e un’altra faceva la sarta e mi ha detto: “Lucia sai correre in bicicletta?” Io le ho detto di sì ma io sapevo andare con quella da uomo ma con quella da donna non ero mai andata via. Era l’occasione per andare via con quella da donna, mi ricordo che sono andata fino a Rorai a comprare lo spagnoletto, ma quella volta te li incartavano così, da Beta, una volta sulla bicicletta c’era un portapacchi piccolo con la “susta mola” (ndr dal dialettale per: meccanismo allentato), ma bello… ero per la provinciale e vedevo che correvo così bene che mi sono dimenticata dello spagnoletto. Quando sono arrivata non avevo più lo spagnoletto... Aveva preso gusto della bicicletta… Si ma non potevo tornare a comprarne un altro, i soldi non ce n’erano, erano esatti! Discussione su caffè Rumori … Ho sempre avuto tanti dispiaceri, e adesso vivo qua sola. Rumori Ho già una certa età e ho lavorato in un reparto dove eravamo sempre in poche; quelle poche sono già morte perché erano più anziane di me. Dopo erano quelle amicizie che ho avuto sempre da signorina, perché io organizzavo gitarelle, sempre in bicicletta, si arrivava fino a Polcenigo, ricordo, trascinavo dietro mia sorella Angelica perché non era mai stata su… Figlia: Gli avevo già raccontato quella volta da mia suocera, (ndr: Lucia Radegonda è consuocera di Maria Bresin Vicenzini) che ultimamente in stabilimento c’era, non serve fare nomi, una amante di Casagrande ed era lei la “capa”. Se avevi bisogno di qualche cosa dovevi stare nelle sue grazie perché era lei che faceva il bene ed il male. A proposito di questo, lì sono sempre state fatte chiacchiere, a me è sempre piaciuto parlare ma mai mettermi in mezzo agli affari degli altri, perché ho sempre avuto dispiaceri per conto mio e non mi sono mai messa in mezzo. Una tipa che era lì, però o per invidia o perché voleva mettere a lavoro la figlia, (viene fatto il nome della persona) è andata a raccontare male di me e dell’Angelina Fabbro a questa capa. Allora questa qua al posto di prender di petto me, ha iniziato a guardarmi di cattivo occhio, - questa qua essendo in bona (dialettale: nelle grazie) col capo – e naturalmente noi eravamo scritti sul libro nero anche dal capo. Se giravo la testa: ocio (dialettale: attenta) che sei ferma; se andavi a prendere il caffè: ocio che andavi a prendere il caffè. Dopo, quando c’è stato il crollo, il secondo, in tessitura all’Amman, che ero sulle tele, e già ne sapevo più del capo, perché veniva dal magazzino tessuti e io avevo più esperienza, perché lui non l’aveva. Purtroppo era capo della commissione interna del sindacato e lo hanno fatto capo o si è fatto passare capo. Sulla seconda volta che c’è stato il crollo, naturalmente mi sono venuti a chiamare per prendere su tutte queste tele. Dopo dovevamo aspettare a casa fino che non venivano loro a chiamarci. Ricordo che sono stata a casa per 3-4 giorni. Quando ho saputo che l’acqua era scesa e che si poteva andare a lavorare mi presento a staccare la medaglia (ndr: le presenze dei lavoratori erano segnate da un medagliere) e c’era Casagrande che mi disse: “Lei no!” Chiesi perché e rispose chiedendomi come mai in quei giorni non ero andata a lavorare. Io ero timida e sono diventata tutta rossa, però per i fatti miei mi sono sempre disimpegnata. Dissi: “Si ricordi che le prime che sono venute a tirare fuori le tele dall’acqua, siamo state io e Angelina Fabbro, che sono venuti a chiamarci il 4 di novembre. Finito il lavoro di recupero delle tele ci hanno detto che ci avrebbero mandato a chiamare.” Allora lui diventato rosso, mi fece entrare. Però invece che mettermi a guardare i difetti della tela mi ha spostato perchè erano già lì le maestre della tessitura, quando mi hanno fatto passare, che guardavano loro i difetti della tela. Perché la tessitura veniva riavviata piano a piano, perché i teleri (dialettale per telai) erano meccanici. Allora a noi ci hanno mandato a pulire i telai, a me e all’Angelina Fabbro, che era Gigi Fioret capo quella volta. Allora c’erano gli uomini che lavoravano a mandare avanti la tela quella volta, e c’era da pulire sopra ai telai. Allora mi sono rifiutata perché non volevo salire, che gli uomini mi guardassero da sotto… Ho subito l’affronto di non ritornare al mio reparto. Dopo questa tizia è venuta piano piano e riconoscere che noi e specialmente io, non avevo né pena né colpa. Ha detto: “Ho capito che lo ha fatto per interesse”. Dopo ho avuto bisogno anche di piaceri e ha fatto una amicizia con me. Dopo il capo Casagrande ha perfino assunto mio figlio grazie a lei. La Benedet l’hanno assunta a mettere su spole sul reparto della Lidia Fabbro, sono stata io a farla assumere per mezzo di Casagrande. … Adesso il problema di lavorare con gli uomini non esiste perché ci sono i pantaloni. Una volta non esistevano proprio! Mi ricordo che mi sono rifiutata. Non è venuto per certi particolari. Va bene ma questa è carina da raccontare. Figlia: erano anche maliziosi…