Lezione di Antropologia applicata allo sviluppo sostenibile
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Lezione di Antropologia applicata allo sviluppo sostenibile
******************************************************************************** *UNIVERSITA DEGLI STUDI DI PADOVA / FACOLTA’ DI AGRARIA* -MASTER IN COOPERAZIONE ALLO SVILUPPO NELLE AREE RURALI*********************************** CORSO DI ANTROPOLOGIA APPLICATA ALLO SVILUPPO Particolare riferimento alle Aree Africane Tracce delle lezioni – ad uso privato dei corsisti ( Prof. Jonas SHAMUANA MABENGA ) 1 Nota Per mancanza di tempo materiale, il docente non ha riletto né corretto la bozza del presente testo destinato agli alunni. Pertanto si consiglia il suo uso esclusivamente interno e quindi la comprensione per i molteplici errori che l’autore di matrice lingua francese avrà commesso nell’elaborazione del presente documento che dovrà servire solo come “dispensa di lezioni” accademiche, soggetto ad aggiustamenti correttivi. 2 Indice Introduzione generale Primo capitolo L’idea di sviluppo nella dinamica della cooperazione Nord-Sud: cenno storico Sez. 1 Lo sviluppo e gli sviluppi: concetto e dottrine di un paradigma problematico I.1.1 Il concetto di sviluppo I.1.2 Dall’economico al sostenibile : percorso della problematica nell’era contemporanea I.1.2.1 Lo sviluppo come stato di benessere economico diffuso(anni ’50-60) I.1.2.2 La prima crisi del modello e l’esordio della critica dipendentista(anni ’60-70) I.1.2.3 La crisi degli anni di boom economico e la ricerca di un nuovo ordine economico mondiale( 1970-80) I.1.2.4 L’ombrello all’ombra del neoliberismo di matrice anglosassone(anni 1980-1990) I.1.2.5 La crisi del neoliberismo e l’affermarsi delle idee reazionarie di umanizzazione e sostenibilità dello sviluppo(anni 1990 ad oggi) I.1.2.5.1 Sull’idea di sviluppo umano I.1.2.5.2 Sull’idea di sviluppo sostenibile I.1.3 L’idea di sviluppo nella teoria degli stadi di sviluppo I.1.3.1 Teoria degli stadi di sviluppo: quid? I.1.3.2 Sull’idea di industrializzazione e sviluppo delle società I.1.3.3 Sull’idea di sviluppo agricolo e sviluppo delle società Sez. 2 Il liberal-capitalismo occidentale di sviluppo quale fondamento dell’idea I.2.1 Antichi radici del capitalismo occidentale I.2.1.1 La rivelazione di Rodolfo Mondolfo I.2.1.2 L’idea di sviluppo capitalista in Aristotele I.2.1.3 Il perfezionamento dell’idea in Diogene Laerzio I.2.2 Il liberal-capitalismo dell’era contemporanea I.2.2.1 La portata dell’idea di capitalismo I.2.2.2 Le versioni culturali del capitalismo I.2.3 La laicità del modello occidentale I.2.3.1 La portata dell’idea di laicità dello sviluppo I.2.3.2 La singolare influenza di Baruch Spinoza e sostenitori 3 Secondo capitolo Applicabilità del modello occidentale nelle aree rurali africane. L’ipotesi francschettiana Sez. 1 L’itinerario ideativo dei progetti nell’ipotesi franceschettiana: riflesso della mentalità occidentale Sez. 2 Commento franceschettiano da africano allo schema progettuale II.2.1 Il primato dell’attenzione al “locale”: novità! II.2.2 L’identificazione occidentale degli ostacoli dello sviluppo II.2.3 La programmazione occidentale degli obbiettivi progettuali II.2.4 La pianificazione territoriale stile “occidente” II.2.5 La strutturazione delle entità sociali stile “occidente” II.2.6 La concezione della produzione agricola e del consumo, sfondo occidentale II.2.7 La proposta dell’Ente coordinatore locale: l’occidentopolarizzazione del progetto Sez. 3 Riassunto sull’ipotesi franceschettiana Terzo capitolo Per una riabilitazione della proposta occidentale in Africa. Il contributo antropologico Sez.1 Come erano gli Africani prima dell’irruzione occidentale? Sez. 2 Civiltà e sviluppo occidentali in Africa, conflittualità e fallimenti: cenno storico III.2.1 L’errore antropologico e le sue determinazioni sulla partnership Africa-Occidente III.2.2 La triplice negazione, stereotipi e missioni civilizzatrici fallimentari III.2.2.1 Irruzione dei Romani, negazione onto-antropologica, indebolimento mentale e schiavizzazione III.2.2.2 Gli Arabi: negazione antropologica, indebolimento sociopolitico e Tratta dei Neri III.2.2.3 Gli Europei moderni politici: negazione epistemologica, indebolimento globale e colonizzazione III.2.2.4 Gli Europei Religiosi: negazione teologica e missione religiosa civilizzatrice Sez. 3 Il rifiuto africano dello sviluppo Sez. 4 La problematica dell’inculturazione dei modelli di sviluppo 4 III.4.1 Le Afriche: diversità continentali e difficoltà operative III.4.2 Uomini e donne d’Africa: la loro anima, la loro cultura III.4.2.1 Del termine “nero” applicato agli uomini di pelle scura III.4.2.2 L’anima nera: le sue costellazioni cardini ed implicazioni sul profilo dell’operatore outsider III.4.2.2.1 La costellazione del primato e l’onnipresenza della forza vitale III.4.2.2.2 La costellazione della centralità e l’assolutezza dell’essere umano III.4.2.2.3 La costellazione della relazione: io-in, io-con. III.4.2.2.3.1 Implicazioni onto-antropologiche della relazione III.4.2.2.3.2 Implicazioni socio-economiche della relazione Elementi conclusivi generali Note 5 Introduzione generale Andrete a lavorare in Asia, in America del Sud, in Africa o in Oceania, in quei continenti dove la maggioranza della popolazione vive in zone rurali, con basso reddito economico, con usi e costumi diversi dai vostri, con livello di analisi e interpretazione dei fatti sociali largamente diverso dal vostro. Andrete come uomini del Nord , come stranieri, outsiders. Sarete considerati dagli autoctoni come ricchi, opulenti, sapienti, educatori, “ sviluppatori “. Sì, anche voi stessi vi sentirete come “ portatori “ di una missione, la missione di annunciatori o meglio costruttori di sviluppo e di benessere, di educatori alla vita. Porterete tale sentimento sin dal giorni in cui otterrete il foglio di nomina e d’invio in missione da parte dell’Organizzazione che vi invierà. Sì, operatori di sviluppo, cooperatori allo sviluppo, missionari dello sviluppo o semplicemente “ sviluppatori “ esteri: tali saranno alcuni titoli che vi imprimeranno, che vi imprimerete nelle coscienze. Vi sentirete come uomini e donne mandati, partiti da lontano verso le terre lontane, terre di uomini e donne cosiddetti “ sottosviluppati “, “ in via di sviluppo “, “ arretrati “, ecc…, ai quali vi sarà affidato l’arduo compito di portare nuove conoscenze, nuove idee, nuove tecniche e tecnologie per consentir loro di raggiungere i parametri dello sviluppo. Di quale sviluppo? Dello sviluppo come vi è stato insegnato come stile di vita sin dalla vostra infanzia nelle famiglie fino alle scuole, alle università e nel vostro lavoro. Voglio dire: lo sviluppo di stampo totalmente occidentale. Questo corso vi aiuterà ad essere portatori di uno sviluppo che non sia occidentale ma che sia sviluppo umano, sviluppo di ogni uomo, di ogni società che andrete ad aiutare. Senza dubbio non dovrete spogliarvi della vostra identità personale, deel vostro sentire da uomo occidentale, del vostro sapere, etc… Ma l’esperienza m’insegna che se vorrete raggiungere davvero li obbiettivi della vostra missione e vedere il vostro lavoro continuare dopo di voi, dagli autoctoni stessi, che devono diventare come i vostri figli, se volete diventare i padri sviluppatori di quelle aree rurali, dovrete far un salto di qualità, cioè “ sviluppare “ e “ non occidentalizzare “. Il problema che si pone agli sviluppatori di oggi non è più quello di “ sviluppare “ ma di “ saper-sviluppare “, non si tratta più di costruire pozzi, scuole, ospedali, campi agricoli e di allevamento, ecc…, ma di “ saper – farli costruire dagli autochtoni stessi “ . LO sappiano fare mentre siete con loro, ma lo sappiano fare da sé stessi in vostra assenza nel breve e medio e termine e soprattutto nel lungo termine. Il vostro compito sarà quello di aiutarli a passare dal raggiungimento di un benessere sociale ricevuto e a quello di un benessere umano individuale costruito, migliorato da loro medesimi magari in collaborazione con voi e non più in dipendenza totale da voi. Si tratta di una preparazione di cui i risultati potranno verificasi a lungo 6 termine ( tra 20/30 protagonisti positivi. anni ), ma di cui voi dovrete essere I nostri due corsi di antropologia ( quello del professor Dipak ed il mio ) vi saranno di utilità nella dinamica di questa concezione della cooperazione allo sviluppo nel terzo millennio. Il mio è fondato sull’antropologia filosofica e culturale. Vi aiuterà a capire che cosa è lo sviluppo, cosa è l’uomo -africano- da sviluppare; cioè prepararvi a portare uno “sviluppo a misura d’uomo”, con particolare riguardo a coloro che nascono, vivono e muoiono al Sud del Sahara, in terra d’Africa; mentre il corso del prof. Dipak, basato sull’antropologia sociale, vi porterà alla conoscenza più concreta di alcune società alle quali dovrete portare idee e saperi dello sviluppo; il suo corso vi aiuterà a portare uno “sviluppo a misura di società”. Il mio metodo consiste nella critica antropologica delle concezioni, programmazioni e realizzazioni dei progetti di sviluppo nel Sud del mondo partendo da alcune esperienze concrete direttamente vissute da noi medesimi o da alcuni operatori del nostro tempo. Il mio corso, strettamente legato a quei dei professori Dipak e Franceschetti, si articolerà in tre capitoli suddivisi ciascuno in sezioni intermedi. Nel primo, mi prefiggo di analizzare anzitutto la portata del concetto di sviluppo, che è l’oggetto centrale del nostro corso e del vostro futuro impegno nei paesi del Sud. In modo specifico farò un percorso analitico-sintetico delle varie vicende teoretiche, dottrinali, politiche legate all’evoluzione dello sviluppo nell’era contemporanea. Vi parlerò quindi dello sviluppo come si è evoluto come paradigma di benessere negli anni’50/60 fino a diventare paradigma di conflitti e contrasti ai nostri giorni, dove viene disegnato sotto vari e complicate denominazioni di “ sviluppo endogeno, integrale, umano, sostenibile, etc.”. Si tratterà per me di raccontarvi la fallimentare storia del mito dello sviluppo non solo nei paesi del Sud ma anche nei paesi del Nord. Inoltre mi soffermerò sull’origine occidentale capitalistica dell’idea di sviluppo. Ho scavato la sua evoluzione, e ho scoperto che questo mito ha antichi radici nel pensiero filosofico greco occidentale; e che quindi è figlio nato in alcune terre precise e che, con il vostro lavoro-di cooperazione- sta emigrando verso altre terre, dove avrà sempre difficoltà d’inserimento. Trattandosi però di una lezione nell’ambito di un Master, darò brevi flash / cenni di queste interessatissime tematiche, rinviandovi a letture e ricerche di approfondimento in altre sedi. Questa lettura storia ci porterà all’esame dell’applicabilità del modello occidentale in terre africane. Volendo che il mio corso fosse pratico e logico, ho fatto scelta di inquadrare il suo contenuto nell’ambito di altri corsi che vengono già svolti da altri docenti, in modo da aiutare i nostri alunni ad un unico pensiero ed orientamento dottrinale. Desidero poi che un giorno 7 nel futuro, la comunità internazionale e le scienze della cooperazione allo sviluppo parlino della “Scuola di Padova” come di un circolo scientifico e culturale che una sua visione, un suo orientamento, un suo stile della cooperazione allo sviluppo che vorrà proporre all’umanità del terzo millennio. Ecco perché ho quindi scelto di legare direttamente le mie lezioni a quelle del professor Giorgio Franceschetti che vi parlerà o vi avrà già parlato della “cooperazione allo sviluppo”. Egli avendo pubblicato un’opera in materia di cooperazione allo sviluppo nelle aree africane, ho scelto quel suo libro e quel suo pensiero come documento di riferimento principale per una lettura critica sulla proposta di applicabilità del modello occidentale nelle aree rurali africane. Potevamo scegliere anche qualche altro autore, ma per me, è un dato provvidenziale aver proprio l’ideatore e l’organizzatore del master che è nello stesso tempo autore e docente, come fonte di ricerca, di analisi, di studio della problematica: valorizzare, cioè una nostra risorsa interna. Proprio perché abbiamo allora la possibilità di un contatto diretto, di un confronto diretto sulla trattazione di questa problematica per l’interesse dottrinale ma soprattutto pratico dei partecipanti. Il motivo più tecnico per cui dovremmo riferirci alla pubblicazione di Franceschetti come fonte di studio sta nel fatto che la visione che il professor padovano offre sulla problematica della cooperazione allo sviluppo nelle zone rurali dl Sud del Sahara, con auspicio di uno sviluppo che può essere sostenibile soltanto grazie alla sua fondazione nella collaborazione reale, genuina tra cooperatori e comunità locali africane, è quella che trova consenso oggi nei circoli dei pensatori e delle agenzie od organizzazioni internazionali specializzate. Infine nel terzo capitolo che è la parte più originale del mio corso, dopo aver rilevato le difficoltà di applicabilità del modello occidentale in terre africane e quindi i suoi risultati fallimentari, prendo la mia “chiave” culturale, cioè “l’antropologia da africano”. Elaboro quindi una critica di matrice antropologica non più soltanto sull’offerta franceschettiana ma sull’insieme della proposta occidentale per dimostrare le ragioni antropologiche dei permanenti e ripetuti fallimenti dei progetti di sviluppo di stampo occidentale in terra africana. Il mio obbiettivo essendo quello di riabilitare la proposta occidentale nell’Africa del terzo millennio –perché prendo atto del fatto che pur rifiutando le modalità con cui viene proposto, il modello occidentale rimane quello in voga e nel desiderio degli africani di oggi- faccio un percorso della storia dell’incontro Africa-Occidente, e cerco di dar ampie informazioni formative che credo utili ad armare di scienza e sapienza i giovani corsisti avviati alla nuova cooperazione nelle aree africane. Qui quando parlerò di Africa, si intenda quella al Sud Sahara. Non tratterò dell’Africa settentrionale, per la sua specifica diversità culturale di matrice arabo-islamica e la sua singolare storia che esige una trattazione particolarizzata in 8 altre sedi. Comunque le differenze culturali delle due Afriche non annullano le identità di povertà socio-ecomiche e politiche delle popolazioni del continente. Ecco perché parlare di povertà nell’Africa subsahariana suppone ipso facto parlarne per l’Africa del Nord. In questo importantissimo e principale capitolo del corso, cerco di preparare i corsisti a dover operare in senso che lo sviluppo da loro proposto sia uno sviluppo degli africani e non dell’Africa. Sia esso uno sviluppo con gli Africani, con gli Occidentali. Tale tesi che sostengo in modo assai breve in queste lezioni si radica nella mia visione della cooperazione allo sviluppo, che si fonda sull’identità ontologica del genere umano e quindi i fondamenti antropologici della cooperazione allo sviluppo. Tenendo poi conto del carattere pratico del corso, esulo la mia trattazione dalla speculazione filosofica, e quindi la lettura antropologica che faccio e propongo è di matrice culturale, si tratta di antropologia applicata, allo sviluppo degli uomini e donne, delle popolazioni e società concrete situate al Sud del Sahara, quelle di oggi, reali, che i corsisti incontreranno. In questo capitolo cerco di indicare il profilo umano, psicologico e il bagaglio culturale, conoscitivo , la saggezza la sapienza cioè che devono aver i tecnici occidentali destinati alla realizzazione di progetti di sviluppo nelle aree africane di oggi. 9 Introduzione alla prima lezione (Lo scopo è di rilevare il contenuto dell’immaginario individuale e collettivo del gruppo dei partecipanti, al fine di ben orientare le lezioni). Cominceremmo la prima lezione con un interrogatorio – indagine sul bagaglio dei partecipanti riguardo alla tematica ponendo alcuni quesiti a cui devono rispondere in gruppetti: Gruppo 1: Secondo voi, che cosa significa un’area rurale e quali sono le sue caratteristiche generali? Gruppo 2: Secondo voi, quali sono le principali problematiche specifiche del mondo rurale africano? Gruppo 3: Secondo voi, che cosa è l’uomo ( nero ) africano; quest’uomo si svilupperà mai, perché? Gruppo 4: Secondo voi, , quali sarebbero le strade da percorrere per favorire uno sviluppo umano sostenibile nelle aree rurali africane? Gruppo 5: Secondo voi, quali sono le principali caratteristiche del modello di sviluppo occidentale; tale modello vale per tutto il pianeta, perché? Gruppo 6: Secondo quanto da voi studiato, quali sono i fattori limitanti di molti progetti dello sviluppo nelle aree rurali africane o americano-latine; ovvero perché molti progetti di sviluppo portati dall’Occidente raggiungono gli obbiettivi e poi non li mantengono a lungo termine? Gli studenti portano le risposte e il docente li tiene per conto proprio, per studiarle personalmente e farne uso per le lezioni che seguiranno. 10 Primo capitolo L’idea di sviluppo nella dinamica della cooperazione Nord-Sud: cenno storico Quando una persona sollecita un impiego o quando viene ingaggiata in una impresa, la prima cosa che fa è cercar informazioni adeguate sull’impresa in questione, le sue attività, i suoi metodi di lavoro, le sue strategie, la sua storia e quindi evoluzione nel tempo, ecc… Ciò serve per poter inserirsi e offrire al meglio i servizi che gli vengono richiesti e per dar il proprio contributo al miglioramento della sua azienda. Ora voi sarete impiegati in un modo od in altro o volete impegnarvi in una azienda bella, potente, problematica e fondamentale per le sorti del nostro pianeta. Si chiama “ la cooperazione allo sviluppo “, di cui i due termini intorno ai quali ruoterà il vostro lavoro sono chiaramente espressi: la cooperazione e lo sviluppo. Mentre il professor Franceschetti vi ha eccellente già parlato della cooperazione in generale, in questo primo capitolo -un po’ noioso- del nostro corso, mi è sembrato doveroso portarvi alcune informazioni di base sul concetto dello sviluppo intorno al quale vi prestate ad andare operare nelle zone rurali dei paesi poveri. Cosa vuol dire la parola “sviluppo”? Da dove nasce, come è evoluta come concetto e come paradigma di civiltà? Sono domande cui cercheremmo di rispondere anche se in modo non del tutto esauriente ma almeno in linea generale per una previa informazione sull’oggetto del nostro corso. Segnalo anzitutto che l’idea di sviluppo è naturalmente insita nella mente di ogni uomo, di qualsiasi razza, lingua e nazione. Dico bene “l’idea” e non “il concetto”. Perché l’idea è un dato dell’intuizione naturale di ogni essere dotato di razionalità; voglio dire di ogni uomo. Mentre “il concetto” è una formulazione sistemica, non solo logia ma dialogica dell’”idea”. Filosoficamente parlando il concetto implica una categorizzazione ormai più scientifica dell’”idea” all’interno di un insieme dottrinale orientativo. Nel nostro corso parleremmo dello “sviluppo” non come “idea” ma come “ concetto”, come “categoria”. Dopo molte ricerche, debbo affermare che se lo “sviluppo” trova casa nella mente di ogni uomo, come “categoria” di riflessione, di ricerca, di dottrina e soprattutto come paradigma del posizionamento sociale degli uomini nel pianeta, questa “idea” è stata promossa, sistematizzata come oggetto del sapere scientifico, del potere tecnologico nella degli uomini d’Occidente. La storia non si nega. E’ necessario conoscere la storia del sistema che si vuole universalizzare, importandolo per forza o per necessità nei paesi così detti “ giovani “ e veramente giovani rispetto alle vecchie nazioni del globo. Questo paragrafo è interessante per usare 11 cautela e comprensione nell’ideazione e realizzazione di progetti di sviluppo nei paesi diversi dalle nazioni occidentali. E’ importante anche per il fatto che quando arriverete nei PVS sarete guardati con sospetto dagli intellettuali locali. Vi considereranno come propagatori del capitalismo occidentale nelle zone africane, latino-americane o asiatiche. Qualche volta sarete chiamati non solo a realizzare opere di sviluppo di stampo capitalistico ma anche a insegnare nelle scuole, università, a tener conferenze, riunioni, a far da consulente a responsabili di governo o delle associazioni specializzate, ecc… Tutto ciò perché l’operatore dello sviluppo viene considerato dalle popolazioni come un “ savant “, un “ sapiente “, conoscitore globale e enciclopedico delle cose anche perché è bianco, un muzungu, anche perché viene dall’Europa, ha studiato in Europa, quindi sa tutto. Cosa direte del capitalismo, dello sviluppo? E’ interessante per i sistemi sociali come per gli esseri viventi conoscerne solo le tipologie caratteriali ma anche il loro curricula vitale, il cammino che li ha portati ad essere quello che sono. Per capire il capitalismo di oggi alle volte qualificato di “ selvaggio “, occorre saper da dove proviene. In questo capitolo ho cercato di scavare gli archivi della filosofia dello sviluppo e abbiamo scoperto che l’idea dello sviluppo confermatasi nel modello occidentale ha radici lontane e vicine. Lontane sono quelle che si fondano nel pensiero degli antichi greci; vicine sono quelle comunemente conosciute e situate nell’età moderna industriale. Insisteremmo di più sulle origine antiche che sono spesso dimenticate dalle nuove teorie mentre sono loro l’archetipo del pensiero moderno e contemporaneo. 12 Sez.1 Lo sviluppo e gli sviluppi: concetto e dottrine di un problematico paradigma di civiltà Mai come ai nostri giorni la parola “sviluppo” si è così diffusa nelle discussioni, nelle letterature, nei discorsi, nelle politiche, ecc… La concezione più in voga è quella di considerare lo sviluppo come stato di benessere e di assenza di miseria specie economica. In realtà non è così. In questa sezione, cerchiamo di esaminare in modo assai approfondito il concetto oggetto principale del nostro studio e del nostro futuro impiego. I.1.1 Il concetto di sviluppo Il termine “sviluppo” che nasce per parlare di “crescita, progresso” nel senso sociologico ha la sua origine in una branca particolare delle scienze sociali chiamata economia dello sviluppo. Questa disciplina, da parte sua nasce nel preciso contesto storico-politico del dopoguerra; e nasce in Occidente. Ora sappiamo bene che il dopoguerra è fu caratterizzato dalla ricostruzione dell’economia e del benessere degli Stati in Europa e ben presto (anni 60) dalla contrapposizione dei blocchi catturati dalla guerra fredda, mentre si avviava ormai il processo dell’obbligata decolonizzazione dei paesi detti emergenti. Questi ultimi e quindi le loro problematiche d’inserimento nel circuito reclamavano non solo politiche specifiche ma anche ideologie ed istituzioni specifiche, in grado d’interpretare, affrontare e risolvere i loro specifici problemi. Il più gran problema era sinteticamente quello del raggiungimento dello stato di benessere sociale, economico e il grado di civiltà politica dei paesi avanzati. E’ in questo quadro di discussioni che nacque poi la scienza dell’economia dello sviluppo, e con lei nacquero le braccia operativa dell’allora neonata Organizzazione delle Nazioni Unite, cioè la International Bank for Reconstruction and Development nota come Banca Mondiale, e il Fondo monetario internazionale ( International Monetary Fund IMF ). Nelle pagine che seguono, quando farò la critica storica dell’idea di sviluppo, ritornerò sul contenuto di questo concetto. Per il momento desidero, per motivi d’illustrazione del pensiero nell’ambito di una lezione accademica come la nostra, far con voi un percorso -sia esso breve- dell’evoluzione ideologica del concetto di sviluppo che ci ha poi portato all’attuale problematica dello “sviluppo umano sostenibile” (1). I.1.2 Dall’economico all’umano sostenibile: il percorso dottrinale dello sviluppo nell’era contemporanea Nata come paradigma del benessere economico materiale delle società, l’idea di sviluppo è stata recuperata da varie scienze al di fuori dell’economia che ne è la madre. Essa ha quindi dominato 13 non solo le riflessioni dei sociologi ed economisti ma anche quelle dei politici, antropologi, filosofi, di uomini e donne della sfera operativa come le Organizzazioni governative, non governative e dell’opinione pubblica. Proprio perché da paradigma di benessere, lo sviluppo era ed è ormai diventato paradigma di civiltà o forse di vita in generale. Dal punto di vista dottrinale, l’idea di sviluppo ha percorso cinque grandi periodi che hanno determinato le ideologie che possiamo così esaminare. I.1.2.1 Lo sviluppo diffuso(anni’50-60) come stato di benessere economico Nell’economia dello sviluppo, gli anni 1950-1960, sono tecnicamente chiamati “anni dell’ottimismo”. Perché sono gli anni del cosiddetto “boom economico” nell’Europa occidentale. Sono anni della grande ripresa e crescita economica generalizzata nel mercato europeo ed americano che trascinano poi l’andamento dell’economia mondiale anche sé i giovani paesi stavano ancora alla finestra. In quel periodo, ci dice l’economista italiano Lanza Alessandro, con il termine “ crescita o progresso “, si intendeva “ infatti l’incremento del prodotto interno lordo ( PIL ) pro capite di un paese “(2). Alcuni tratti caratterizzano la concezione dello sviluppo di quella epoca: 1°. Lo sviluppo era quindi più il problema delle entità macrocosmiche, designate in vari termini di “stati”, “nazioni”, “paesi”, “società”, “popoli”, etc… Beneficiato dalle persone, dagli “individui”, lo sviluppo era l’affare dei “paesi”, degli “Stati”, delle “nazioni”. L’attenzione alle singole persone era una cosa del dibattito dei filosofi e degli antropologi. Gli economisti si preoccupavano delle entità globali. 2°. Lo sviluppo era uno stato di benessere economico nell’ambito di regimi politici detti “democratici”, a sistemi economici detti “dell’economia del mercato”. LO sviluppo riguardava quindi il blocco dei paesi dell’economia del mercato, cioè i paesi “liberalcapitalisti”. La critica parlerà di uno sviluppo di stampo economista liberal-capitalista. Quella concezione nutrita e sviluppata dalle ideologie politiche frutto dell’antagonismo nato e pervaso tra gli Stati nemici e Stati amici nell’ambito della seconda guerra contribuì alla divisione del globo anche dal punto di vista economico e non solo politico o culturale. Gli ideologi dello sviluppo cioè gli economisti dello sviluppo contribuirono così alla divisione del già diviso mondo politico-culturale in tre blocchi anche dal punto di vista economico: il primo mondo, rappresentato e costituito dai paesi occidentali liberal-capitalisti con alto reddito pro capite; il secondo mondo, cioè il mondo ad economia pianificata con nazioni a reddito pro capite globalmente alto ma con regimi 14 collettivisti; il terzo mondo, composto da Stati con reddito pro capite basso, e regimi politici a cavallo tra democrazia liberalcapitalista e regimi social-collettivisti. Quei paesi venivano designati con vari stereotipi che li distanziavano dai “paesi del benessere”: paesi “ sotto-sviluppati”, “arretrati”, “meno avanzati”, “meno-sviluppati”, “in via di sviluppo”, “meno industrializzati”, “meno attrezzati”,etc. Si tratta di categorie che implicano l’evoluzione delle lotte ideologiche nonché scientifiche all’interno dei circoli dei pensatori e dei politici per arrivare a diminuire il divario sempre crescendo tra il blocco occidentale ed il resto del mondo. Non posso entrare nei dettagli di quei dibattiti che richiedono molte ore di lezioni. Si sappia in quella epoca detta dell’ottimismo, il modello liberal-capitalista era considerato come parametro trionfante di ogni sistema di organizzazione del globo, delle nazioni e delle società. Tornerò su questo punto quando palerò di “stadi di sviluppo”. Infatti nel suo discorso di reinsediamento alla presidenza degli Stati Uniti (20 gennaio 1949), Harry Truman ebbe a dire che secondo lui, era obbligatorio indicare la via liberalcapitalista della prosperità agli Stati di recente indipendenza “caratterizzati da povertà e disorganizzazione” con basso livello di crescita economica come via maestra per il benessere rispetto al modello allora concorrente, il social-comunismo o modello dell’economia pianificata. La visione ottimistica del cosiddetto paradigma della modernizzazione era fiduciosa nell’uniformizzazione del processo di cambiamento economico, sociale e politico già avvenuto nelle società capitaliste del “primo mondo”. Quest’ultimo era presentato come il frutto di un cammino che è passato da una situazione di arretratezza a una caratterizzata da industrializzazione, urbanizzazione, e alti livelli di benessere materiale. Su questi basi l’Occidente pretendeva avere il monopolio di rappresentanza presso i paesi in cerca di benessere. Tutte le più importanti teorie economiche del periodo partivano dal presupposto comune secondo cui lo sviluppo consisterebbe in un processo evoluzionistico mosso da forze endogene lungo stadi temporali validi per tutti i paesi. Si trattava di una visione che chiamo “occidento-centrista” dello sviluppo e che nell’ambito della scienza dell’economia dello sviluppo, era stata nutrita e promossa da tre grandi scuole di pensiero: a) la scuola dei modelli di crescita costante, di cui i promotori Harrod e Domar; b) la scuola della dottrina del big push di Rosenstein-Rodan, che ipotizzava massici investimenti gestiti dalla mano pubblica (N.B. è da quella scuola che nacque il famoso piano Marshall produttore del benessere diffuso nell’Europa del dopoguerra-); c) la scuola sostenitrice della teoria degli stadi di sviluppo di Walt Whitmann Rostow: fu conosciuta sotto il nome di “manifesto non comunista”, e prevedeva lòa crescita economica attraverso il 15 susseguirsi di passaggi dall’agricoltura all’industria, ai servizi fino allo stadio del consumismo di massa. Tornerò con commento su queste teorie. Ma segnalo che il modello liberal-capitalista ha sintetizzato nella sua prassi le idee di tutte queste tre teorie. Da quella sintesi pragmatica politica è nata ciò che si chiama generalmente il capitalismo occidentale, che ha però come ve lo dimostrerò, radici molto più antichi. In ogni modo gli anni 1950-60, anni del benessere materiale sono nell’economia dello sviluppo anni dell’ottimismo, non sono anni della nascita del liberal-capitalista ma sono anni della sua positiva affermazione nella società occidentale, con la relativa pretesa all’espansionismo globale mediante la diffusione politica pacifica o violenta dell’economia di mercato nei paesi emergenti. Segnalo subito che tale pretesa conobbe la sua grande sconfitta già nei medesimi anni 1950-1960 perché i paesi emergenti rifiutando di rimanere dipendenti dai paesi colonizzatori liberalcapitalisti, esprimevano nel frattempo il loro rifiuto del modello economico proposto od imposto. Da quei nacquero le prime crisi e quindi i fallimenti del modello di sviluppo di stampo liberalcapitalista. Molti paesi emergenti si allearono con i paesi del “secondo mondo”, quei del blocco “social-collettivista”, in contrapposizione al modello occidentale. La storia insegna che le lotte di opposizione dei paesi in via di sviluppo al modello liberal-capitalista furono nutrite da varie teorie filosoficheculturali e politiche. Tutte quelle teorie vengono sintetizzate e designate in una unica scuola di pensiero che gli studiosi ha chiamato “la critica dipendentista”. Ve ne parlo. I.1.2.2 La prima crisi del modello e la critica dipendentista ( anni 1960-1970) L’incantato benessere diffuso ed il consumo di massa durò pochissimo nel mondo, ivi compreso quel primo ma particolarmente nel “terzo”. Negli anni ’60-70, contraddistinti da stagnazione economica e lotte per l’indipendenza, risultò chiaro che la prospettiva di un imminente decollo del Terzo Mondo profetizzato dai traumaturgi dello sviluppo si allontanava sempre più e che il modello occidentale di sviluppo non era applicabile in tutto il globo. La scrittrice camerunese Axelle Kabou afferma chiaramente che gli Africani rifiutarono lo sviluppo e dimostra le ragioni culturali e politiche di tale rifiuto (3). Il pessimismo sullo sviluppo venne raccolto dai teorici, in particolare economisti e sociologi della Commissione economica per l’America Latina delle Nazioni Unite ( UN/ECLAC), sostenitori dell’approccio della dipendenza. La tesi centrale della dipendenza è che sviluppo e sotto-sviluppo sono fenomeni connessi fra loro, aspetti del medesimo processo storico della formazione del sistema capitalistico mondiale. Secondo questa scuola, lo sviluppo è alimentato dal sotto-sviluppo, nei seguenti termini: a)la legge del vantaggio comparato nel sistema economic 16 internazionale penalizza i paesi del Terzo Mondo specializzati nella produzione di materie prime e dunque maggiormente vulnerabili alle fluttuazioni dei prezzi; b)la legge dello scambio ineguale penalizza il contraente del Sud perché più alti livelli di tecnologia e maggior costo forza lavoro aumentano i prezzi delle merci che giungono dal Nord. Allora si insistò molto sull’importanza dell’interdipendenza dei processi di sviluppo. Nacque così la cosiddetta scuola neo-marxista dei dependentistas. Tra i suoi sostenitori, Paul Baran, André Gunder-Frank, Samir Amin, Immanuel Wallerstein ritengono che sia proprio l’ingerenza dell’Occidente a impedire al Terzo Mondo di giungere all’industrializzazione e allo sviluppo, e danno grande rilievo alla rivoluzione contadina (secondo l’interpretazione data dal maoismo dell’originale teoria marxista) nell’evoluzione dal tradizionale al moderno. Da parte sua la scuola neo-strutturalista (dei cui sostenitori Raul Prebisch, Hans W. Singer) nega l’ipotesi dell’evoluzione proposta dalla modernizzazione sulla base di problemi di tipo strutturale che rimandano a un intervento statalista per la loro soluzione. Dalla teoria della critica dipendentista nacquero le teorie ed ideologie dello sviluppo che chiamo “reazionarie” degli anni 1970. Cito tra altre: le ideologie dello sviluppo detto “integrale”, “sviluppo endogeno”, “sviluppo integrato”, “sviluppo dal basso”, “sviluppo dei popoli”, etc. Tutto quanto stava a significare semplice la crisi dello sviluppo nel Sud del globo, o meglio il fallimento del modello liberal-capitalista occidentale al Sud del mondo. In questa medesima fase viene fuori il concetto di “sviluppo sociale“. I.2.1.3 La crisi degli anni del boom economico e la ricerca di un nuovo ordine economico mondiale (anni ’70-80) La storia insegna che la nuova crisi dello sviluppo mondiale a partire della metà degli anni ’70, susseguente al crollo del prezzo delle materie prime e all’indebitamento dei paesi del Sud, rese inapplicabile anche l’approccio dipendentista. Si parlò allora dello sganciamento o de-linking delle “periferie” dal “centro” (Amin). Il correttivo alla squilibrata situazione economica mondiale poteva venire solo da un’inversione di rotta di carattere politico: era necessario che il Sud si sviluppasse secondo modalità originali di capitalismo di Stato, li che avrebbe reso gli Stati finalmente autonomi nella gestione del proprio surplus a favore degli interessi generali e non delle borghesie locali. Parallelamente, la Risoluzione 3101 chiedeva la costituzione di un internazionale (NOEI): l’integrazione 17 del maggio ’74 dell’ONU Nuovo Ordine economico nel mercato mondiale non veniva rigettata pregiudizialmente, ma si auspicava la costruzione di forme non gerarchiche d’interdipendenza Nord-Sud. Il Rapporto Brandt del 1980, che prendeva origine del NOEI stesso, intendeva conciliare il successo del modello delle società occidentali con il ruolo dei paesi del Sud nel mercato mondiale: raccomandava un massiccio trasferimento di risorse dal Nord al Sud, nella convinzione keynesiana ch ciò avrebbe stimoltato le economie povere verso il take-off industriale. Frattanto, la seconda decade dello sviluppo(1970-1980) vide la consacrazione a livello teorico-progettuale dello “sviluppo diverso”, così definito dal Documento programmatico dell’Assemblea ONU del 1975 (What now. Another Development)redatto dalla Fondazione Dag Hammarrskjold di Uppsala. Esso postula, sistematizzando molte delle critiche che in quegli anni erano maturate nell’ambiente degli addetti ai lavori, che lo sviluppo debba possedere i seguenti caratteri: a) deve tendere alla soddisfazione dei bisogni primari, deve cioè garantire a ciascun individuo di tutti i paesi alimentazione, abitazione, vestiario, salute, ma anche libertà, identità, giustizia; b) deve essere endogeno e self reliant, basato cioè sull’auotosufficienza, sul contare sulle proprie forze; c) deve essere in armonia con la natura, cioè sviluppo sostenibile (dall’ecosviluppo di I. Sachs)(4); e) deve essere partecipato, secondo la teoria del “terzo sistema” formulato dall’IFDA (International Foundation for Development Activities), che proponeva la riappropriazione dello sviluppo da parte del Cittadino (nella forma di società civile e di organizzazioni non governative), contrapposto al Principe (lo Stato) e al Mercante(l’economia). Corollario della partecipazione divenne il principio di responsabilità, o accountability, secondo il quale chi esercita un potere deve essere considerato responsabile delle conseguenze del suo esercizio. I.1.2.4 Lo sviluppo all’ombra anglosassone (anni ’80-90) del neoliberismo di stampo L’aggravarsi della crisi del debito estero dei paesi del Sud spostò l’attenzione degli economisti, delle organizzazioni internazionali e dei governi sul problema della stabilizzazione. Il clima culturale dominato dalla destra di Margaret Thatcher al potere in Gran Bretagna e di Ronald Rugan e Georges Bush Senior negli Stati Uniti fece riferimento a modelli economici neoclassici e alla macroeconomia monetarista. Sotto accusa erano le strategie stataliste dell’approccio keynesiano-strutturalista: per contro si stabiliva che solo il mercato avrebbe permesso, sul lungo termine, la crescita economica e la lotta alla povertà, nonostante l’austerity nel breve periodo. Le ricette, formalizzate nei programmi di aggiustamento strutturale(PAS) del Fondo monetario 18 internazionale e della Banca Mondiale, ai quali era condizionata la concezione di prestiti ai paesi indebitati, furono diverse: a) la soppressione delle misure protezionistiche; b) la liberalizzazione del commercio; c) la svalutazione del tasso di scambio; d) la contrazione della spesa pubblica; e) la privatizzazione. Risultato? “Dopo vent’anni, scrivono gli autori del Dizionario della globalizzazone, la valutazione complessiva del PAS non può non rilevare nella maggioranza degli stati che hanno applicato queste misure, l’aggravamento della povertà, dovuta allo smantellamento della maggior parte delle realizzazioni precedenti”(5). Anche in questo periodo l’ideologia dello sviluppo fallisce nel Sud del mondo. I.1.2.5 Crisi del neoliberismo e l’affermarsi delle idee reazionarie di umanizzazione e sostenibilità dello sviluppo (anni ’90 ad oggi) Su questo punto parleremmo anzitutto dell’idea di “sviluppo umano” ed inseguito dello “sviluppo sostenibile”, tenendo presente che sono due concetti vicini ma di portate distinte dal punto di vista dottrinale. I.1.2.5.1 Sull’idea di sviluppo umano Nel 1990 le Nazioni Unite, sentito le voci di delusioni che provengono da più parti dell’opinione pubblica sia al Sud che al Nord del pianeta, ufficializzano un nuovo approccio ai problemi dello sviluppo che finalmente abbandona la visione riduzionista economista dell’aumento del reddito pro-capite, e ratifica la necessità della misurazione di variabili quali l’istruzione, la sanità, i diritti civili, e politici. Riecheggiando in particolare la teoria gli entilments dell’economista indiano Amartya Sen –secondo la quale lo sviluppo desiderabile è quello che consente a ciascuno l’effettiva acquisizione delle risorse determinata, oltre che dal reddito, dall’esistenza di meccanismi istituzionali e politici idonei– il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (UNDP) pubblica il suo primo Rapporto sullo sviluppo umano. L’Indice di sviluppo umano (ISU) istituzionalizza un nuovo modo di misurare lo sviluppo, inteso come “processo di ampliamento delle possibilità di scelta della gente”. Vengono aggregati in un indice ponderato i seguenti indicatori dello sviluppo umano: a) la speranza di vita alla nascita; b) il tasso di alfabetizzazione; c) il valore reale del reddito pro-capite espresso in potere d’acquisto rispetto al dollaro. 19 I successivi rapporti hanno poi approfondito la ricerca tecnica sull’ISU. Tra altri il Rapporto n. 3(1992)introduce l’indice di libertà politica, mentre l’indice di sviluppo di genere viene introdotto dal Rapporto n. 6(1995). La geografia economica del pianeta ne è risultata stravolta: da allora non esiste più alcun legame automatico tra reddito e benessere. Il panorama attuale con cui le nuove teorie dello sviluppo devono confrontarsi è estremamente complesso. Da un lato i grandi temi dello sviluppo umano come l’ambiente, lo stato sociale, il genere sono ormai questioni assimilate da tutte le agenzie dello sviluppo, World Bank compresa, come dimostrano i titoli dei rapporti e le Conferenze di Rio de Janeiro del 1992 o di Copenhagen e di Pechino nel 1995, e più recentemente di Johannesburg nel 2002. Dall’altro la globalizzazione implica una interdipendenza sempre più asimmetrica: l’istituzionalizzazione delle relazioni economiche internazionali, come dimostra la nascita dell’Organizzazione mondiale per il commercio (WTO) e la sua estenzione a disciplinare tutti i tipi di transazioni, comporta una rinnovata marginalizzazione dei paesi in via di sviluppo, alimenta i processi migratori provenienti da questi ultimi e rappresenta una sfida alla sovranità dello Stato-Nazione. Il nostro corso riguardano l’applicazione della critica antropologica alle problematiche dello sviluppo, il tema che ci implica molto di più è ovviamente quello dello “sviluppo umano” – s.u.-. Si tratta di una visione o dottrina che dopo tantissimi anni di liti, sta ravvicinando antropologi, sociologi ed economisti dello sviluppo. Ne analizziamo brevemente alcuni tratti più significati con riguardo alla nostra lezione. Vediamo cioè il contenuto e l’evoluzione dottrinale di questa nozione che ormai catalizza tutti i dibattiti ed attività dello sviluppo alla soglia del terzo millennio. Definizione ed implicazioni. Il termine irrompe con forza nel dibattito agli inizi degli anni ’90 e rimane in voga sino ai nostri giorni. La sua portata. Leggiamo il Rapporto Human Development dell’UNDP che è più autorevole: “ Lo sviluppo umano ha due aspetti: la formazione delle capacità umane ( come il miglioramento della salute, delle conoscenze, delle proprie abilità ), e l’uso che gli individui possono fare delle loro capacità acquisite ( nel tempo libero, con scopi produttivi o in attività culturali, sociali e politiche ). Secondo questo concetto di sviluppo umano, il reddito è chiaramente solo una delle opportunità di cui gli individui vorrebbero disporre, quantunque importante. Ma non è la sostanza della loro vita. Lo sviluppo non deve dunque limitarsi all’aumento del reddito e della ricchezza. Il suo obbiettivo sono gli individui “ (6). E’ veramente impressionante il cambio di valutazione e di contenuti che la dottrina porta al concetto di sviluppo. E’ una 20 novità sorprendente di cui il riassunto sta nella centralizzazione dell’ “ individuo umano “ quale produttore e consumatore dello sviluppo, mittente e destinatario dello sviluppo, oggetto e soggetto. Si tratta qui di una svolta antropologica della dottrina contemporanea dello sviluppo. Più avanti esamineremmo la sua applicabilità nell’ipotesi di Giorgio Franceschetti. Per motivi di studio approfondito della problematica, dobbiamo cercare di scoprire anzitutto l’origine e l’evoluzione storica di questo modello di sviluppo così invidiato, odiato ma sempre ricercato e dominante: il modello occidentale. A questo punto possiamo dire che l’economia è stata in grado unicamente di adeguare la propria offerta alle intervenute variazioni della popolazione. Oggi invece si definiscono teorie della crescita quelle analizzano come un sistema economico cresce in termini di reddito pro capite. Così pensato anche da Franceschetti Giorgio e Fusetti Giovanni che definiscono lo sviluppo come “ un processo di cambiamento di livello e qualità della vita della popolazioni di una comunità, il quale, secondo un criterio di giudizio politico e sociale, è giudicato positivamente “(7). I due economisti indicano poi le due sfere dei parametri di giudizio di un processo di sviluppo di cui l’epicentro secondo è l’individuo, la comunità e non più soltanto lo Stato, inteso come entità macrocosmico: - 1a sfera, quella dei “ variabili finali ( obbiettivo ) : riguardano e misurano gli aspetti del livello e della qualità della vita dell’individuo e/o della comunità, e sono legati alla considerazione della soddisfazione dei bisogni fondamentali della vita divisi in 4 categorie: fisici, culturali, sociali e superiori; 2a sfera, quella dei variabili strumentali: riguardano l’insieme di mezzi, strumenti e modalità di azione per raggiungere gli obbiettivi (8). Secondo l’UNDP, con il termine sviluppo umano, si deve intendere “un processo di ampliamento delle possibilità umane che consenta agli individui di godere di una vita lunga e sana, essere istruiti e avere accesso alle risorse necessarie a un livello di vita dignitoso”, nonché di godere di capacità e opportunità politiche, economiche e sociali che li facciano sentire a pieno titolo membri della loro comunità di appartenenza. Lo sviluppo umano così definito ha, secondo gli esperti, i suoi obbiettivi generali, che possiamo enumerare: a) promuovere la crescita economica sostenibile, migliorando in particolare la situazione economica delle persone in difficoltà; b) migliorare la salute della popolazione, con prioritaria attenzione ai problemi più diffusi e ai gruppi più vulnerabili; c) migliorare l’istruzione, con priorità all’alfabetizzazione, all’educazione di base e all’educazione allo sviluppo; 21 d) promuovere i diritti umani, con priorità alle persone in maggiore difficoltà e al diritto alla partecipazione democratica; e) migliorare la vivibilità dell’ambiente, salvaguardare le risorse ambientali e ridurre l’inquinamento. Si vede chiaramente il cambio totale di rotta nella visione dello sviluppo nel senso tradizionale. Dinanzi a questi criteri di valutazione, nessuno Stato è mai più in grado di qualificarsi “sviluppato”. Sembra che tutti gli Stati siano ormai “paesi in via di sviluppo”! Al posto degli indicatori che si riferivano alla sola crescita economica (PIL), che nulla dicevano degli squilibri e delle contraddizioni che stavano dietro alla crescita, l’UNDP utilizza dal 1990 un nuovo indicatore di sviluppo umano – l’ISU. L’Indice di Sviluppo umano -ISU- permette quindi di evidenziare come il legame tra sviluppo economico e sviluppo umano non è automatico, né ovvio, sebbene oltre certi livelli di reddito, sia difficile avere un ISU basso. Solo alcuni dei paesi di nuova industrializzazone sono riusciti a collegare crescita economica,occupazione e crescita nello sviluppo umano. Rispetto all’ISU, l’Indice di povertà umana(IPU)serve a misurare la distribuzione dei risultati ottenuti in termini di sviluppo umano. Non c’è correlazione tra IPU e reddito. Le disparità di sviluppo umano sono stridenti tra città e campagna, regioni più ricche e più povere, aree centrali e periferie, uomo e donna, etnia e etnia. I promotori della dottrina dello s.u. indicano poi altri elementi che secondo loro minacciano un progresso nello s.u. e sono cause di arretramenti delle popolazioni. Tra di essi, citiamo la guerra; l’impatto dei conflitti sulle strutture socioeconomiche e produttive e il peso delle ricostruzioni gravano come macigni sullo s.u., provocando arretramenti nei livelli di vita. Ancora più sorprendente novità di pensiero è l’affermazione secondo la quale: “ Un elevato s.u. può essere raggiunto anche da chi on ha reddito altrettanto elevato, se il paese riesce a utilizzare oculatamente le proprie risorse per il soddisfacimento dei bisogni primari. Viceversa, paesi con elevato reddito possono aver uno s.u. non elevato”(9). L’UNDP, una volta analizzati gli aspetti negativi della globalizzazione, indica tre direzioni di lavoro per far sì che essa si concili con le esigenze dello s.u.. Per ciascun paese si rendono necessari i seguenti provvedimenti: a) catturare le opportunità offerte da commercio, flussi di capitale e migrazioni; b) proteggere gli individui dalla vulnerabilità provocate dalla globalizzazione; c) superare la restrizione delle risorse a disposizione dello Stato. 22 In sintesi, lo sviluppo sostenibile tiene conto dei seguenti tre principali fattori di valutazione: 1°. Il reddito, rappresentato dal prodotto interno (Pil) individuale, dopo una trasformazione che tiene conto sia del potere di acquisto della valuta, sia del fatto che l’aumento del reddito non determina un aumento del benessere in modo lineare (l’aumento di benessere è molto maggiore quando il Pil passa da 1000 a 2000 dollari che quando da 15.000 a 16.000). 2°. Il livello d’istruzione, rappresentato dall’indice di alfabetizzazione degli adulti (moltiplicato per due) e dal numero effettivo di anni di studio. 3°. Il livello di sanità, rappresentato dalla speranza di vita alla nascita. Nella valutazione secondo il sistema UNDP, per ogni paese membro delle N.U. viene qualificato da umanamente sviluppato o non sviluppato ogni anno. Da questi valutazioni, mi risulta che il problema della ricerca di sviluppo e di benessere non è più “terzomondiale” ma “mondiale” e quindi universale. I.2.1.5.2 Sull’idea di sviluppo sostenibile Molto corollario della nozione di sviluppo umano è l’idea di sviluppo sostenibile. Tutte le due idee –sviluppo umano e sviluppo sostenibile- implicano una stessa problematica, che è quella di un benessere, sviluppo che tenga conto dell’uomo individuale, delle comunità beneficiarie secondo i criteri più umanizzanti che economizzanti. Tuttavia tra i due concetti ci sono elementi di distinzione di cui tener conto dal punto di vista di uno studio accademico. Dopo aver parlato dello sviluppo umano, ora vediamo un po’ specificamente lo sviluppo sostenibile, il quale è molto legato ai problemi dell’ambiente di vita dell’uomo e degli uomini. Sul finire degli anni 80 e gli inizi anni 90, i problemi legati alla straordinaria crescita demografica al Sud del mondo e alle minacce ambientali ed ecologiche ( specificamente l’inquinamento ambientale e atmosferico ) al Nord riportano gli scienziati dello sviluppo al tribunale degli intellettuali e dell’opinione pubblica mondiale. Nasce il concetto di “ sviluppo sostenibile “, che poi con vari aggiustamenti viene di tanto in tanto designato a secondo i contesti di riflessione e applicazione, “ sviluppo umano sostenibile “, secondo la versione degli ideologici anglo-sassone “, “ sviluppo umano durevole “, secondo la versione più diffusa negli esperti dei paesi latini; “ sviluppo integrale e integrato “, usato dagli ideologi dello sviluppo del Sud ( africani, latinoamericani e asiatici ). I.1.2.5.2.1 Portata dell’idea di sviluppo sostenibile 23 L’espressione “ sviluppo sostenibile “, che si presenta come complesso connubio di tre categorie: sviluppo- umano – sostenibile è diventato molto popolare sul finire degli anni ’80. Nel 1987 infatti è stato pubblicato il Rapporto Brundtland elaborato nell’ambito delle Nazioni Unite. Il Rapporto presenta i risultati di una commissione di studio presieduta da Gro Harlen Brndtland, primo ministro della Norvegia. Questo documento, altrimenti noto come Our common Future, ha avuto e continua ad avere un importante ruolo di stimolo e discussione. Nel volume viene data questa definizione dello sviluppo sostenibile: “ Lo sviluppo è sostenibile se soddisfa i bisogni delle generazioni presenti senza compromettere le possibilità per le generazioni future di soddisfare i propri bisogni “(10). ( Questa definizione, che a prima vista può sembrare intuitiva e semplice, si fonda implicitamente su tre fattori che orientano attualmente le dottrine e le politiche economiche in materia dello sviluppo sostenibile: la sostituibilità, l’equità e l’incertezzairreversibilità. I.1.2.5.2.2 I tre fattori di orientamento dell’ideologia e delle politiche dello sviluppo sostenibile 1. La sostituibilità. a) La categoria di sostituibilità si radica nelle problematiche dello sviluppo specificamente legate ai temi dell’ambiente, in modo particolare lo sfruttamento dei beni della terra che non tiene conto dei bisogni delle generazioni future, dal punto di vista della produzione e dell’uso quantitativo. Dalle pratiche così irresponsabili gli esperti avvertono l’irruzione di minacce a breve, medio e lungo termine sulle popolazioni del pianeta al Sud come al Nord. Alle popolazioni del Sud viene richiamata l’attenzione sulla crescita demografica rispetto alla quantità naturale o acquisita dei beni di consumo. Alle popolazioni del Nord viene rimproverato uno sfruttamento tecnologico ed un uso dei beni che tengono conto soltanto dell’aumento del PIL , distruggendo così la salute delle popolazioni p.es. in termini in inquinamento ambientale e atmosferico. E’ venuta così fuori la considerazione secondo cui esistono aree con più elevate minacce sul futuro e aree con minore minacce. b) Quattro categorie orientativi del concetto di sostituibilità nel suo uso (come sostituibilità delle specie consumabili), sono così definite dalla dottrina:. * sostenibilità molto debole ( Smd ); ** sostenibilità debole ( Sd ); *** sostenibilità forte ( Sf ); **** sostenibilità molto forte ( Smf ). 24 Osserviamo così che dagli anni 90-2000, i paesi si contendono le pagelle di queste suddivisioni cercando soprattutto di contenere i livelli d’inquinamento degli ambienti domestici, di lavoro, delle città, delle acque, ecc… mediante la produzione e l’uso di adatte tecnologie per vari bisogni. 2. L’equità. Riguarda le disuguaglianze relative alla distribuzione delle ricchezze nel mondo. Esse sono fattori che contribuiscono al mancato raggiungimento dell’obbiettivo della sostenibilità. a) Due categorie di equità. A tale fine le dottrine, le ideologie e le prassi dello sviluppo ruotano intorno a due categorie di equità sociale implicite nella definizione di uno sviluppo sostenibile: 1°. Equità infragenerazionale: riguarda il livello locale che internazionale, e implica la parità di accesso alle risorse ( siano ambientali che tecnologiche o economiche ), da parte degli attuali cittadini del pianeta, senza distinzione dei luoghi in cui vivono. Bella utopia; bella utopia! 2°. Equità interregionale: significa pari opportunità fra successive generazioni. 3. Incertezza e irreversibilità. a) L’incertezza: 2 aspetti L’incertezza è una caratteristica psicologica peculiare al mondo in cui viviamo e non riguarda unicamente il problema dello sviluppo sostenibile. Essa ha due aspetti di considerazione: - da un lato, esiste una forte incertezza sulle caratteristiche fisiche e biologiche, p.es. dei fenomeni ambientali (come l’effetto serra, le innovazioni tecnologiche legate alle riproduzioni delle specie umane, animali, vegetali, ecc…, come la clonazione, le fecondazioni artificiali, di cui si ignorano le vere conseguenze sul pianeta e sulla salue dei cittadini) ; - da un altro, esiste una incertezza sulle modalità attraverso cui il degrado dell’ambiente può incidere sull’attività economica quanto sui costi delle politiche ambientali mirate a contenere i danni. b) L’irreversibilità: 3 posizioni tra gli Stati. Il problema dell’incertezza ha portato gli ideologi, gli Stati e i politici a tre posizioni divergenti. -L’Europa, p.es. , è molto sensibile su questi temi e il suo approccio è stato qualificato dall’espressione “ politiche di non rimpianto “ ( no regret policy ). Che significa attuare le politiche necessarie per non doversi in seguito rimpiangere la mancata applicazione di una certa misura (11). -Altri paesi invece come il Giappone, la GB, meno convinti dei rischi e dei costi legati ai cambiamenti climatici, hanno voluto 25 adottare politiche definite con l’espressione “pledge and review“, “impegno e revisioni“. Che significa impegnarsi, p.es. adottando una certa misura di controllo delle emissioni, ma nel contempo indagare e capire meglio: si tratta di una sorta di adesione condizionata. - L’ultimo atteggiamento è quello meno avverso al rischio che è quello degli USA p.esempio. Si qualifica dal comportamento attendista di paesi non convinti dei rischi e dei costi e preferiscono “ aspettare “ il verificarsi degli eventi per poi agire con efficienza: “ wait & see “. I.1.3 L’idea di sviluppo secondo la teoria degli stadi di sviluppo I.1.3.1 Teoria degli stadi di sviluppo: quid? La teoria degli stadi di sviluppo è una vecchia visione dello sviluppo economico secondo la quale tutti i paesi tendono a seguire lo stesso percorso che va da uno stadio agricolo arretrato ad uno stadio industriale avanzato, che implica il consumismo di massa e quindi un diffuso benessere. Questa idea che ha qualificato, qualifica a tutt’oggi e determina la pianificazione di molti progetti di sviluppo rurale nelle aree del Sud, è stata elaborata nella prima metà del XX secolo osservando l’esperienza storica dei paesi liberal-capitalisti, ed è legata originariamente agli studi di Alexander Gerschenkron (Russia 1904-1978) e Walt Whitman Rostow (12). Nata come analisi storica ed economica dell’Europa occidentale e del Nord America, questa visione è stata poi utilizzata anche linea guida per la soluzione dei problemi economici dei paesi in via di sviluppo, presupponendo che lo sviluppo economico sia un fenomeno che dipende da fattori generalizzabili e realizzabili in tutti i paesi e popolazioni. Questa visione ha influenzato profondamente il modo di pensare di studiosi, uomini politici e dell’opinione pubblica per gran parte del XX secolo. E’ utile sottolineare che da essa è nata buona parte della terminologia di uso corrente, come paesi arretrati rispetto a paesi avanzati, paesi in via di sviluppo rispetto a paesi sviluppati. Oggi paesi industrializzati è sinonimo di paesi ricchi, e l’industrializzazione è l’elemento fondamentale dell’idea più generale di modernizzazione dell’economia e delle società quale prospettiva per i paesi del Sud. I.1.3.2 Sull’idea di industrializzazione e sviluppo delle società Cosa è? Con questo termine si indica una pluralità di fenomeni concomitanti: a) un alto e prolungato tasso di crescita della produzione di beni materiali e manufatti industriali, e del reddito procapite; 26 b) una quota crescente della produzione totale dovuta al settore industriale a scapito del settore agricolo; c) la trasformazione della maggior parte della popolazione lavorativa in operai industriali, impiegati in fabbriche, con la conseguente riduzione di lavoratori agricoli e artigiani; d) la concentrazione della popolazione vicino agli insediamenti industriali, generalmente grandi città (=urbanizzazione), e la diffusione di stili di vita e di consumo legati ai ritmi e alle esigenze urbane. L’idea di una stretta relazione tra crescita economica e industrializzazione è stata suggerita dal fatto che tra l’inizio della rivoluzione industriale nella seconda metà del XVIII secolo e fino alla metà del XX secolo, i maggiori incrementi di produzione e produttività nei paesi dell’Europa occidentale e del Nord America sono stati realizzati nel settore industriale. Al contrario, nella maggior parte dei paesi del Sud il settore industriale era molto arretrato. Secondo la teoria classica della crescita, attraverso la promozione degli investimenti nel settore industriale i paesi più poveri come reddito pro-capite avrebbero raggiunto quello dei paesi ricchi. Questa visione, applicata nelle politiche e progetti di sviluppo al Sud del mondo, è fallita. I suoi limiti risultarono evidenti a partire dagli anni 1970, quando gli sforzi tendenti alla rapida industrializzazione nella maggior parte dei casi non produssero né crescita economica duratura, né una riduzione sostanziale dei divari tra paesi relativamente piccoli ed omogenei nel Sud Est asiatico (Corea del Sud, Taiwan, Singapore, Malesia, etc.) –tanto che venne coniato il termine di paesi di nuova industrializzazione (in inglese Newly Insdustrialized Countries)- e in certa misura in Cina. I maggiori paesi dell’America Latina –Messico, Argentina, Brasile, Cile- ottennero risultati contrastanti e problematici, e nulla di apprezzabile sorse nell’Africa subsahariana. Si scoprì che l’industrializzazione può fallire quando la crescita del capitale fisico e del progresso tecnico nel settore industriale rimane isolato dagli altri fattori di crescita economica: a) qualità degli investimenti (abitazioni, trasporti, telecomunicazioni); b) fattori immateriali(istruzione, salute, sicurezza, in genere qualità del capitale umano); c) fattori sociali e politici; d) compatibilità con l’ambiente e adeguato sviluppo agricolo. In mancanza di queste condizioni, non facilmente identificabili e riproducibili, l’industrializzazione può rivelarsi non inefficace in termini di crescita economica ma addirittura nociva socialmente a causa dei suoi imponenti e profondi effetti collaterali, come lo dissero Raul Prebisch, Celso Furtado, Andre Gunder-Frank(13). 27 In America Latina ed in Africa subasahariana negli anni 1960-70 si sono avute esperienze particolarmente negative segnate dai seguenti fenomeni: a) aumento acuto delle differenze economiche tra le classi sociali proprietarie di industrie e terreni e quelle operai e contadini; b) dipendenza dall’estero quanto all’importazione di beni di consumo per le classi superiori e di prodotti agro-alimentari in seguito all’abbandono delle campagne da parte delle giovani generazioni; c) disordinata urbanizzazione nei centri industrializzati, con il peggioramento delle condizioni di vita sia nelle città sia nelle campagne; d) gravi tensioni sociali e politiche, sfociate tipicamente in regimi antidemocratici e dittature violenti da parte delle classi improvvisamente imborghesite dall’industrializzazione improvvisata. I.1.3.3 Sull’idea di sviluppo agricolo e sviluppo delle società La visione più comune degli stadi di sviluppo concepisce l’esistenza di uno stadio iniziale dell’economia in cui prevalgono le attività agricole precedentemente alla fase dell’industrializzazione. Il settore agricolo è stato spesso identificato come causa della persistenza dell’arretratezza tecnologica, come un vincolo allo sviluppo industriale, come un settore perdente nella competizione per il commercio internazionale. In realtà, studi più accurati, tra cui vanno menzionati quelli originari di Arthur W. Lewis hanno messo in luce le interrelazioni complesse tra industrializzazione e sviluppo agricolo (14). In Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti, nel XVIII e XIX secolo, e poi in Canada e Australia, l’industrializzazione ha proceduto di pari passo con l’aumento della produzione agricola e del livello di vita nella campagne. La sottovalutazione del ruolo dello sviluppo agricolo ha contribuito al fallimento di molte politiche di sviluppo sotto molteplici aspetti: a) sono stati accentati gli effetti negativi dell’industrializzazione, venendo a mancare un adeguato rifornimento di derrate alimentari e prodotti di base a buon mercato per le città e impoverendo le masse urbane; b) le cattive condizioni di vita delle popolazioni agricole non hanno creato una sufficiente domanda interna di prodotti industriali, e hanno accentuato il fenomeno dell’urbanizzazione con l’ulteriore aumento delle masse urbane povere; c) lo spopolamento delle campagne ha accentuato lo stato di arretratezza e improduttività del settore agricolo, cui va aggiunto il peggioramento delle condizioni dell’ambiente tra cui ad esempio la sterilità dei terreni e la desertificazione. Dagli anni 1980, sia le organizzazioni economiche internazionali sia molti governi hanno prestato maggiore attenzione al settore agricolo come fattore di sviluppo o addirittura come alternativa al modello tecnologistico fondato sulla massiccia e rapida industrializzazione, che risultò fallimentare. 28 Sappiamo quanto negli anni 1960-70 le riforme agrarie siano state importanti per i governi dei paesi del Sud e non solo al Nord. Si sono ottenuti significativi risultati nell’Africa mediterranea, in Cina e in India, legati a notevoli produzioni di derrate alimentari, grazie a a) politiche di incentivi per la residenzialità delle popolazioni rurali; b) valorizzazione e salvaguardia delle produzioni locali per il mantenimento dell’equilibrio agro-alimentare; c) introduzione di tecniche agricole appropriate e forme di organizzazione economica di tipo cooperativo; d) interventi di agevolazione sul piano finanziario per l’acquisto di terreni, abitazioni e mezzi di produzione. Sappiamo che la rinnovata attenzione al settore agricolo anche in questi ultimi anni e l’attuazione delle riforme agrarie positive hanno ampio appoggio e sostegno progettuale e tecnico nelle organizzazioni non governative e, nei movimenti promotori della finanza etica e del commercio equo e solidale. Mi fermo su questo punto per quanto riguarda l’analisi della nozione di sviluppo e dei suoi corollari dottrinali, specificamente lo sviluppo umano e lo sviluppo sostenibile. L’intento è stato di dimostrare il fallimento di quasi tutti gli sforzi ideativi delle politiche e programmi di sviluppo dei paesi del Sud da parte degli ideologi del Nord del globo. Prima di passare al capitolo più applicativi delle visioni occidentali dello sviluppo nel contesto africano alla luce della teoria di Giorgio Franceschetti, desidero soffermarmi su altri aspetti teoretici che considero come charnière che legano e portano dallo sviluppo concepito in Occidente allo sviluppo portato e vissuto o non vissuto in Africa. Parlerò anzitutto dell’appartenenza capitalistica dello sviluppo liberalcapitalista. Sez. 2 Il liberal-capitalismo quale fondamento dell’idea occidentale di sviluppo: analisi. Notiamo anzitutto che il modello occidentale si qualifica ed è conosciuto ( giustamente ) come modello liberal-capitalista fondato sull’economia del mercato, la quale mette al centro il lavoro come principale attività produttiva e il consumo come garanzia della continuità del sistema. Che cosa è il capitalismo e da dove nasce veramente il suo modello di sviluppo che ci guida, ci mantiene e all’interno del quale dobbiamo assolutamente operare anche nei PVS? I.2.1 Antichi radici del capitalismo occidentale Gli storici dello sviluppo occidentale ci riportano che il capitalismo nella sua fisionomia attuale, ha radici molto più antichi di quanto sia le dottrine dello sviluppo sopra definite. 29 Si dice addirittura nell’antichità greca. che il capitalismo moderno si origini I.2.1.1 La rivelazione di Rodolfo Mondolfo Secondo molti autori più avvisati il modello di sviluppo occidentale ha radici in un lontanissimo pensiero filosofico, proprio sin dalle origini nell’antica Grecia. Molto eloquenti sono le testimonianze in Aristotele e Seneca tra tanti altri. In una opera degli ani 1920 pubblicata circa trenta anni dopo Rodolfo Mondolfo è tra i primi pensatori italiani è dover rivelare contro autori come A. Tilgher “ l’inesistenza di un’opposizione assoluta “ tra la cultura antica, che egli [ Tilgher ] caratterizzava con l’idea dell’eterno ritorno ciclico, e quella moderna, caratterizzata dall’idea del progresso infinito “(15) In effetti nella quarta parte di questa opera, Mondolfo dedica un intero capitolo a “ La creatività dello spirito e l’idea del progresso nel pensiero classico “, che egli trova senz’altro testimoniate, in successione, nel pensiero di Senofane e Anassagora, dei poeti tragici, di Archelao, dei sofisti e degli ippocratici, di Democrito, Platone e Aristotele, ma anche più oltre in alcune dottrine di filosofi peripatetici, stoici, epicurei, romani (16). L’idea di progresso, comune a tutti questi pensatori, troverebbe espressione, benché in misura diversa, nella “ esaltazione del potere intellettuale e tecnico dell’uomo, creatore di tutta una nuova sfera di realtà culturali, poste al di sopra della realtà naturale. Poeti, scienziati, filosofi si associano in un gran coro di celebrazione delle glori dell’uomo. Questa celebrazione include naturalmente tre elementi principali: la convinzione del carattere bestiale o ferino della vita primordiale dell’umanità; il riconoscimento del tempo come condizione imprescindibile per la creazione progressiva della cultura; e l’affermazione del potere spirituale come autore di tale creazione “(17). I.2.1.2 L’idea codice marciano. dello sviluppo capitalista in Aristotele: il Queste interessanti rivelazioni di Mondolfo che saranno poi ribadite da altri pensatori come Edelstin L.(18), Dodds, E.R.(19), ecc…, trovano conferma in illustri Greci tali un Aristotele che poteva e dimostrano come la mentalità razionalista capitalista è già presente negli antichi Greci. Ecco come Aristotele esplicita la realtà dei saperi in voga nella società ellenica: “ Le scienze si dividono in tre gruppi: di esse, infatti, alcune sono prime, altre seconde, altre ancora terze. Prime, dunque, sono quelle preparatorie, per esempio le arti di ricavare il metallo, 30 il legno, la pietra; seconde sono quelle produttive e trasformative, ad esempio l’arte di lavorare il ferro trasformò il ferro che aveva ricevuto e ne fece freni, armi e simili; l’arte di lavorare il legno, poi, trasformò il legname che aveva ricevuto e ne fece flauti, barche, capanne e simili; l’arte di lavorare la pietra, infine, trasformò la pietra che aveva ricevuto e ne fece mura, case e simili. Successivamente vengono le terze: infatti l’ippica usò convenientemente il freno che aveva ricevuto, l’arte della guerra le armi e simili; ancora, l’arte di suonare il flauto usò convenientemente i flauti che aveva ricevuto, l’arte del pilota usò i timoni che aveva ricevuto e simili “(20) La traduzione delle Divisioni è stata condotta sulla base del testo del codice Marcianus Graecus 257 stabilito da MUTSCHMANN(21) Guardato anzitutto dal punto di vista della struttura. Al di là di una prima impressione negativa che questo testo potrebbe suscitare, in parte dovuta certamente allo stile poco brillante che lo caratterizza – ma che d’altro lato può essere considerato un segno della sua genuinità -, si può notare come in realtà esso fornisca indicazioni preziose a proposito di un possibile concetto di sviluppo, progresso. E’ evidente, infatti, che la “divisione“ delle “ scienze “ in tre gruppi principali, indicati come “ primo”, “secondo” e “terzo”, più che una vera e propria divisione si rivela essere un’articolazione del sapere tecnico secondo di tipo cronologico, così come la denominazione dei tre gruppi, a prima vista giudicabile per lo meno curiosa, se non banale , qualora la si intendesse in senso puramente numerativo, riacquista significato se la si riferisce ad una successione di tipo temporale, per cui essa sta ad indicare le scienze che si svilupparono in un primo periodo, in un secondo periodo, ed in un terzo periodo. Basta vedere l’uso dei verbi al passato. Ora, se dalla considerazione della struttura della divisione si passa a quella del contenuto, è possibile precisare in misura ancora maggiore tale punto di vista, indicandolo più propriamente come basato sul processo produttivo. Ciò che infatti si può ricavare dalla divisione è, in sintesi, che una prima scienza estrae la materia prima, e può perciò essere chiamata “ preparatoria “; una seconda la lavora, e può perciò essere chiamata “ trasformativa “; una terza usa del prodotto finito, e può perciò essere chiamata “ utilizzatrice “. Per aver un quadro più chiaro di quanto finora affermato, può essere utile, a questo punto, riorganizzare le argomentazioni presenti nella divisione come segue. Vi è un modo di considerare alcune scienze, o meglio alcune tecniche ( nota I due termini episteme e techne, che si traducono rispettivamente con “ scienza “ e “ arte “ o “ tecnica “, sono infatti spesso intercambiabili fra loro ), e di articolarle in tre gruppi, a seconda del posto che esse occupano nel corso del processo produttivo, a seconda, cioè, che esse siano “ preparatorie “, “ trasformatrici “, o “ utilizzatrici “. Poiché tuttavia le operazioni alle quali tali 31 tecniche sono preposte, e dalle quali prendono il nome ( cioè appunto il saper preparare, il saper trasformare e il saper utilizzare ), possono essere compiute – e, secondo l’autore, sono state compiute storicamente ( per quanto discutibile ciò appaia ) – solo in momenti successivi l’uno all’altro, tanto che ciascuna non sarebbe possibile senza la precedente, esse possono essere denominate senz’altro “prime”, “seconde” e “terze”. Ad esempio, in un primo momento l’arte di ricavare i metalli, che è preparatoria, ricavò i metalli; in un secondo momento l’arte di lavorare di lavorare il ferro, che è trasformativi, “ trasformò” il ferro che “ aveva ricevuto “ dall’arte di lavorare i metalli en “fece” freni e armi; in un terzo momento, infine, l’ippica e l’arte della guerra, che sono utilizzatrici, “ usarono” in modo conveniente, rispettivamente, i freni e le armi “ avevano ricevuto “ dall’arte di lavorare il ferro. Un discorso analogo si può fare anche per materiali come il legno e la pietra: ad esempio, prima l’arte di ricavare il legno ricavò il legno, poi l’arte di lavorare il legno trasformò il legname ricevuto dall’arte precedente e ne fece flauti, barche, ecc…, infine l’arte di suonare il flauto e l’arte del pilota usarono in modo conveniente, rispettivamente, i flauti e i timoni che avevano ricevuto dall’arte precedente; così prima l’arte di ricavare la pietra ricavò la pietra, poi l’arte di lavorare la pietra trasformò che aveva ricevuto dall’arte precedente e ne fece mura, case, ecc… I.2.1.3 Il perfezionamento della divisione in Diogene Laerzio La divisione aristotelica delle scienze e arti tramandatoci da quello che si chiama il codice Marciano dimostra quanto sia anticamente concepito e sistematizzato il modello occidentale del progresso sociale chiamato poi sviluppo. Il codice marciano fu ripreso e rielaborato in modo più chiaramente sistematico da Diogene Laerzio di cui riportiamo qui la versione della divisione: “ Triplice è la ripartizione delle arti (…): la prima specie è costituita dall’arte di scavare miniere e da quella di tagliare legna; sono infatti arti produttive (…); la seconda è costituita dall’arte del fabbro e da quella del falegname, che sono arti trasformatrice (…); infatti dal ferro il fabbro fa le armi, il falegname dal legno fa il flauti e le lire. La terza specie è costituita da quelle arti che utilizzano ( … ) i risultati delle precedenti: per esempio, l’arte equestre si serve dei freni; l’arte bellica delle armi; la musica dei flauti e della lira. Tre dunque sono le specie dell’arte: la prima, la seconda e la terza “(22) Come si può vedere, il testo di Diogene Laerzio è senz’altro più accettabile rispetto a quello del Codice Marciano, sia per la linearità e la chiarezza delle argomentazioni, sia in generale per lo stile più accurato, tanto da dare l’impressione di costituirne quasi una spiegazione. Comunque siano le cose, entrambi le versioni della divisione testimoniano chiaramente la presenza di 32 un’idea di progresso tecnico e tecnologico che assume addirittura l’aspetto, per quanto a livello ancora germinale, di una sempre più maggiore “ specializzazione” nell’ambito delle tecniche che poi si svilupparono con perfezione nei secoli successivi della storia dell’Occidente, principalmente nell’era dello sviluppo dell’industria, XVII-XVIII ss. Dalle offerte di Aristotele e Diogene, emergono questi elementi costitutivi del modello liberale capitalista occidentale. I.2.2 Il liberal capitalismo nell’era contemporanea I.2.2.1 La portata dell’idea di capitalismo Due sfere di accezioni: a) Il capitalismo nel senso largo Definirlo come un modo specifico di organizzazione fondata sulla “ dimensione sociale “ dell’uomo e sulla sua capacità di trasformazione del reale al fine della soddisfazione dei suoi bisogni individuali o collettivi. L’esercizio di tale capacità si verifica in modo particolare nell’insieme delle attività necessarie alla trasformazione dell’ambiente naturale con lo scopo della produzione dei beni atti alla detta soddisfazione dei bisogni materiali ( e non affettivi ), precisamente i bisogni di alimentazione, protezione vestiaria, abitazione, spostamento nello spazio terrestre o extraterrestre, comunicazione, cura bio-fisica dalle malattie, ecc… (23). Donde nasce l’attività di lavorare degli uomini come individui o come collettività. Nel processo lavorativo lo scopo è la trasformazione maximale della natura a beneficio in vista della soddisfazione maximale dei bisogni. Si ricordi qui all’utopia massimalista dell’illuminismo moderno. Il desiderio di una produzione più intensa e i limiti delle capacità produttive dell’uomo individuale spingono i lavorativi a formare unità operative e raggruppamenti artificiali, occasionali che i sociologi chiamano “ organizzazioni “. Inoltre la diversità dei bisogni, quella dei beni e delle attività utili necessarie implicano una diversità di organizzazioni, dei mezzi di produzione man mano che crescono il numero degli individui e la quantità dei bisogni da soddisfare. Tale fatto giustifica la presenza di organizzazioni degli lavoratori in ciò che gli economisti chiamano imprese, che vengono così anche esse suddivise in piccole, medie e grandi nell’ambito delle attività puramente produttive dal punto di vista economico. Notiamo poi che la diversità nel processo associativo e organizzativo dei raggruppamenti dei lavoratori implica dal punto di vista politico-amministrativo la presenza di altre tipologie di organizzazioni come famiglie, clans, gruppi di amici, sindacati, nazioni, stati, città, ecc… 33 b) Il capitalismo in senso classico Secondo Alain Cotta(24), la specificità del capitalismo consiste nella particolarità delle relazioni tra gli uomini e certi beni materiali chiamati beni di produzione o necessari alla soddisfazione dei bisogni, nella dinamica della loro proprietà ed uso da parte dei membri del gruppo. Tale appropriazione generalmente privata e volontariamente collettiva divide infatti gli uomini componenti un raggruppamento in due categorie nettamente distinte: coloro che possiedono quei mezzi e coloro che non li possiedono. Tale distinzione comporta conseguenze che determinano tutto i processi nella organizzazione della società e nelle relazioni tra membri. Ai proprietari dei mezzi di produzione chiamati “ capitalisti “, spetta la possibilità di scegliere i prodotti e di combinare per raggiungerli, beni e lavoro, macchine e operai; subentra il fatto del profitto, reddito che si identifica alla differenza tra il costo di produzione e il prezzo di vendita; infine, l’investimento del profitto in nuove attività per aumentare e migliorare le proprie capacità di produzione da parte dell’imprenditore capitalista. Ai membri lavoratori, operai della comunità, viene riconosciuta il diritto al salario, cioè obbligo per vivere di cedere la loro forza lavorativa ad un prezzo di cui non hanno totale capacità di concezione e di stipula. Tale organizzazione della società capitalista implica chiaramente una ineguaglianza nei suoi meccanismi di esistenza e di funzionamento. Come farebbero i membri delle armoniche comunità claniche africane adeguarsi a tale sistema di vita e di società? Il modello capitalistico della società installa nel cuore della comunità e della civiltà una ineguaglianza nel settore economico e poi in quello politico, ineguaglianza nei modi di appropriazione, ineguaglianza nei modi di produzione e nei servizi, e quindi anche una ineguaglianza nei consumi. Con il capitalismo la società si divide in due classi, quella dei ricchi ( capitalisti, imprenditori ) e quella dei poveri ( proletari, operai ). L’ineguaglianza si estende così a tutti i settori della vita sociale fino a far pensare che la comunità viene ormai guidata da coloro che possiedono più mezzi di produzione di beni mentre gli altri ( che non ne possiedono ) devono subire il corso degli eventi. La vita di ogni uomo diventa così determinata dal fatto che appartiene alla classe dei proletari o dei borghesi. La società capitalista si fonda così su una discriminazione radicale che rompe l’antica armonia. I.2.2.2 Le versioni culturali del capitalismo occidentale Il modello capitalistico è uno ma plurimo. Occorre saper che la sua concezione e impostazione non fanno unanimità nei dibattiti e nelle realizzazioni dei paesi e popoli occidentali. Gli storici dell’economia ci rivelano che esistono divergenze tra le nazioni capitalistiche quanto alla loro visione e prassi del capitalismo. Se si prende per esempio i paesi europei che ne fecero le prime 34 esperienze, si notano tre versioni dell’impostazione del modello. Il capitalismo dei paesi latini ( Italia, Francia, Spagna e Portogallo ) e il capitalismo dei paesi sassoni ( GB, USA e i paesi scandinavi ) sono diversi dal capitalismo dei paesi germanici ( Germania, Olanda, Belgio, Austria e Lussemburgo, ecc… ). Il capitalismo risulta incontestato e legittimato nei paesi come USA, Germania e GB mentre in Francia e nei paesi latini esso sin dalle sue origini consoce aspre critiche interne che si iscrivono nella rivoluzione francese p.es. , nei vari comportamenti individuali o collettivi specie nei sindacati. Lo stesso vale per il capitalismo all’interno di una stessa nazione quanto alla sua evoluzione storica. Qualunque sia la nazione ( USA, Italia, Francia, ecc…) il suo capitalismo degli inizi 800 non è quello di oggi. Tra i due sono passati più di due secoli, qualche guerra e tutta una evoluzione che ha visto grandi imprese sostituire le più piccole, il salario diventare sempre più frequente, sempre maggiore, il costo e la qualità della vita aumentare e migliorare, gli Stati-nazioni costituirsi in posto delle monarchie, i sindacati diventare organizzazioni importanti, ecc… In ogni modo occorre sintetizzare che il capitalismo dei paesi anglo-sassone è più feroce dal punto di vista economico, è più economistico e tecnologistico; privilegia senza mezzi termini il capitale economico all’uomo che mette totalmente al servizio della produzione. Il capitalismo di stampo latino è più mitigato tra l’umano e l’economico; considera l’economico come un bene importante e non suprema e l’uomo come soggetto centrale e fine della produzione. * Riassumendo i 5 principali elementi caratteristici del modello capitalista liberale sono: 1) la fede nella capacità naturale di conoscere, trasformare la natura e produrre i beni utili alla soddisfazione dei suoi bisogni mediante il libero uso della ragione naturale e dei mezzi tecnologici; 2) l’appropriazione privata o collettiva dei beni prodotti ; 3) lo scambio monetario dei beni mediante il sistema del mercato; 4) l’evoluzione dei modi di vita mediante la creazione e il miglioramento dei servizi della collettività ; 5) l’accettazione delle ineguaglianze sociali nella proprietà dei beni di produzione, nella loro distribuzione e nel loro consumo: si parla di proprietari, capitalisti e di operai, proletari. I. 2.3 La laicità del modello di sviluppo occidentale I.2.3.1 La portata dell’idea di laicizzazione dello sviluppo Nell’età moderna ( XVII-XIX ss. ) si conferma in Occidente l’aspirazione degli uomini a creare un mondo dal qual non solo sia bandito il negativo, ma nel quale non si debba più fare i conti con l’infelicità: è questo il risvolto psicologico della categoria filosofica del progresso su cui si fonda la teoria dello sviluppo. 35 Ne fa fede – oltre alle convinzioni di Condorcet e Spencer più sopra citate – questo giudizio dell’abbate Morellet: “Ci sia consentito riconoscere che l’uomo avanza, sia pure lentamente, verso la luce e la felicità“(25) Dall’altra parte secondo lo stesso Kant ( il quale riteneva che l’illuminismo avesse fatto uscire l’uomo dalla “ minore età “ ), la storia umana era “ in costante progresso verso il meglio “(26) Alle origini dell’età moderna, in seguito alla rivoluzione scientifica e industriale, la quale stava a dimostrare la veridicità del detto baconiano secondo cui sapere = potere, si diffonde nel mondo occidentale non solo l’aspirazione ad una vita felice, ma anche la convinzione che l’uomo avrebbe in ogni caso conseguito la felicità e che tale stato idilliaco andava realizzato non in altri mondi, ma in questo mondo, ossia nei limiti ben precisi della storicità. Da quella era all’oggi la visione religiosa secondo cui la vera / totale felicità non può avvenire in questa terra, perdeva sempre più il suo mordente. Nasce così il razionalismo moderno che sarà all’origine dell’illuminismo e quindi dello sviluppo tecnologico e economico di stampo liberal-capitalista occidentale. Diamo alcun input dei pensatori che lo hanno generato e che sono chiamati i padri del modello di sviluppo contemporaneo occidentale. Enumereremmo soltanto alcune figure più rappresentative. I.2.3.2 La singolare influenza di Baruch Spinosa e sostenitori Attraverso un pensatore – Baruch Spinosa – pressoché ignorato nel suo tempo, ma le cui idee non sarebbero rimaste sterili, aveva avuto inizio quel processo di immanentizzazione che dapprima avrebbe coinvolto il pensiero filosofico ( nota L’immanentizzazione della filosofia e, conseguentemente, della concezione della storia incomincia con il famoso passo dell’Ethica spinoziana, in cui si afferma che “ Dio è la causa immanente e non già transitiva di tutte le cose “(27), riflettendosi poi nel “ sentire comune “ della civiltà occidentale e provocandone la “ secolarizzazione “. Il fenomeno della laicizzazione della coscienza umana, iniziato in modo deciso dalla filosofia di Spinosa, crebbe e s’irrobustì con l’illuminismo e il romanticismo – sempre per influsso dell’Olandese – ed avrebbe avuto il suo culmine in Hegel(28), Feuerbach(29), il quale, secondo il suo convincimento, non avrebbe più nulla da dire né alla mente né al cuore dell’uomo. “ Noi abbiamo – egli sostiene infatti nello scritto Nothwendigkeit einer Reform der Philosophie – ben altri interessi che non la beatitudine eterna, del cielo “(30) e Marx(31) Da quella era alla nostra epoca, lo sviluppo di modello occidentale è una ideologia puramente laica e liberista. Lo sviluppo secondo questa ideologia è uno sviluppo materialista. I seguaci di Spinosa come A. Guzzo affermeranno tra altro che secondo loro “ il mondo reale è questo mondo noi vediamo e 36 calchiamo coi piedi. Il resto sono sogni e sciocchezze “(32) “Non è affatto un mistero che Spinoza sia l’antesignano dei liberi pensatori, dei materialisti e degli illuministi“(33) Così come la religione anche la filosofia subì una scossa mortale nelle nuove ideologie occidentali, per il fatto che il ricercare un senso dell’essere al di fuori del dato effettuale fu ormai del tutto assurdo. Non si sbagliò l’autore che scrisse all’inizio dell’Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des sciences, des art set des métiers, che “ l’era della religione e della filosofia aveva ceduto il posto al secolo della scienza “(34). Secondo lui l’ottimismo illuminista si riassumerebbe nel binomio scienzaprogresso: organo della scienza era la Ragione; meta del progresso avrebbe dovuto essere la conquista della felicità. Gli enciclopedisti “ non avevano solo fiducia nella ragione e nella scienza ma, in più, anche una fede più o meno definita nella possibilità di un progresso dell’umanità verso la perfezione “(35) “ Poiché per l’umanità il problema era raggiungere coi propri mezzi una condizione di felicità, questi pensatori erano convinti che per risolverlo la ragione doveva gradatamente trionfare sul pregiudizio ( = religione )”(36). Non si trattava più di cedere in un paradiso metastorico, poiché il “ dogma del progresso “ insegnava che l’uomo, coi suoi “ lumi “, avrebbe edificato il paradiso su questa terra. Pertanto, “ il destino trascendente dell’uomo cedette a un fine immanente. Non si “ trascendeva “ più verso Dio, il summum bonum, bensì in mondo umano progressivamente suscettibile di miglioramento “(37). Di qui è nata quella nuova idea dello sviluppo – dovuta ad una vera e propria “ svolta antropologica “ – che doveva poggiare su questi quattro capisaldi: la fede nella ragione; la possibilità di un progresso illimitato; l’utopia tecnologica; il domino dell’uomo sulla natura. Questo sta a significare che per gli ideologi dello sviluppo di stampo occidentale, l’”uomo nuovo “, l’uomo sviluppato è colui che non avendo altri mondi a cui pensare, deve essere necessariamente impegnato a costruire la propria patria in questa terra. E se l’unica “ casa “ cui è destinato ad abitare è questa, nella quale trascorrere i giorni dell’unica sua vita, cercherà che questa “ casa “ sia il più accogliente possibile, comoda, ricca, dotata di tutti i comforts che la tecnica viene apprestandogli. 37 Secondo capitolo Applicabilità del modello occidentale nelle aree rurali. L’ipotesi franceschettiana in breve. In questo capitolo, cerchiamo di esaminare una ipotesi di applicazione / importazione del modello occidentale nelle aree africane. Ci riferiamo ad una documentazione che ci sembra più illuminante e consigliamo come libro da usare negli sperimenti in Africa. Si tratta dell’ipotesi a noi fornita dallo studioso Giorgio Franceschetti nel suo libro in comune con Giovanni Fusetti. Ecco perché parliamo dell’ipotesi franceschettiana. Il volume donde tiriamo il materiale della nostra riflessione s’intitola “ Lo sviluppo sostenibile. Un’ipotesi progettuale in una regione africana “. Il libro ha una ossatura di 5 capitoli che si concludono con un’appendice che descrive alcune caratteristiche fondamentali della Regione africana contesto dello studio, gli Acholi del Nord Uganda, precisamente quanto riguarda la problematica dello sviluppo socio-agricolo. Non ne faremmo una recensione globale. Ne abbiamo scelto soltanto due capitoli di riferimento, precisamente ( l’”Appendice”: la Regione Acholi nel Nord Uganda “, pp. 143-178 ) e il quinto (“ Un’ipotesi di sviluppo rurale sostenibile per la Regione Acholi del Nord Uganda “ , pp. 115-142). Ho invertito la successione del libro, cominciando dall’Appendice per un motivo metodologico: l’appendice fa un’analisi sociologica della località di realizzazione del progetto; il quinto capitolo fa uno studio tecnico-prospettivo del progetto. Siamo dinanzi ad uno schema tipico occidentale, che segue la logica aristotelica nel confrontare i problemi non solo in Occidente ma in tutto il globo. Faccio una precisazione da critico del libro. Quando Franceschetti e Fusetti intitolano il cap. V “ un’ipotesi di sviluppo rurale sostenibile per la Regione Acholi del Nord Uganda “, non si tratta ancora di ipotesi di sviluppo come tale, ma in realtà si tratta di proposta di uno schema di cooperazione allo sviluppo nelle aree rurali che loro offrono come modello da seguire e estendere dal punto di vista del metodo e dei contenuti da parte degli operatori outsiders che avviano i mini-progetti in quelle aree. In questo capitolo cercheremmo ( leggendo prima di tutto l’Appendice ) anzitutto di cogliere il metodo che consigliano Franceschetti e Fusetti ed inseguito ( leggendo il cap. V ), ci proponiamo di scoprire il contenuto del modello di cooperazione allo sviluppo rurale che i due esperti partendo dagli Acholi considerano “ una formula vincente “ e capace di “ far evolvere un tessuto economico e sociale gracile in ambiente rurale “ ( p. 2 ) africana in generale. 38 Sez. 1. L’itinerario ideativi dei programmi di sviluppo nell’ipotesi franceschettiana: riflesso del pensiero occidentale A leggere i suoi 5 capitoli e l’Appendice del libro di Franceschetti che consiglio come capo-lavoro più vicino a noi in termini di dottrina di cooperazione allo sviluppo nelle aree rurali, risulta consigliato il seguente percorso ideativo ereditato dalla dottrina classica della cooperazione allo sviluppo, che secondo me, riflette nei migliori dei modi l’itinerario del pensiero occidentale razionalista, liberalcapitalista come lo abbiamo precedentemente descritto, anche se poi da Franceschetti ci elementi di novità che andremmo a rilevare successivamente. Si nota subito le determinazioni non solo della classica scienza dell’economia dello sviluppo ma anche della logica aristotelica e del dubbio metodico cartesiano nell’ideazione e la programmazione delle iniziative atte a produrre attività di sviluppo delle popolazioni. Ecco come Franceschetti delinea lo schema di ciò che devono seguire gli operatori dello sviluppo nei paesi del Sud: 1) Fase di preparazione del progetto, la sua procedura classica: 1°. L’interesse alla problematica dello sviluppo delle zone meno avanzate; 2°. Il possesso di una formazione appropriata generale e specifica; 3°. La concezione generica dell’iniziativa ( l’idea, le idee generali ): fase di ideazione 4°. La trasformazione dell’idea in ipotesi di progetti: fase di progettazione ( che può esser fatta a livello personale o di gruppo, in modo ancora informale, con studio sul campo o in base ad una relativa documentazione ); 5°. La trasformazione del progetto in azione concreta: fase di realizzazione ( richiede una ulteriore organizzazione e necessariamente un lavoro di équipe ). 2) Fase di realizzazione, la sua procedura classica: 1°. Il collocamento ad una organizzazione specializzata nel settore; 2°. La presentazione del progetto ( verbale o scritta ); 3°. L’analisi specializzata del progetto, gli elementi della fase analitica o di studio: -la raccolta dei materiali: sul campo o dai documenti -lo studio tecnico del materiale: questo richiede una preparazione tecnica non solo specializzata ma anche generalista perché lo sviluppo è come un puzzle, un complesso dei fili della ragnatela, quando tocchi ad uno solo filo, è tutto l’insieme che si muove e se non vuoi rovinare, devi prestare attenzione ad ogni singolo filo. 39 Ecco ciò che giustifica il fatto che per proiettare una ipotesi di sviluppo sostenibile dagli Acholi, Franceschetti e Fusetti compongono una squadra virtuale fatta da sociologi, economisti, geologi, storici, politici, agronomi, veterinari, ecc…; attenzione, noto che nella loro squadra mancano un religioso e un filosofo ( o un antropologo ). Ecco come lo vedo: si legga l’Appendice. Nelle due sezioni A e B, gli autori offrono come elementi costitutivi dell’analisi del territorio: a) a livello generale nazionale dell’Uganda e regionale degli Acholi del Nord: la situazione geo-climatica, la situazione socio-politica; la situazione demografica; la situazione economica, ecc…; la stessa composizione della squadra si ritrova a livello specifico del settore d’intervento ( agricolo ). A questo livello però, è ovvio che devono esser principalmente gli esperti del settore agricolo a operare. Sez. 2 Commento da africano allo schema progettuale franceschettiano Faccio una sintesi degli elementi più costituivi della proposta franceschettiana e ne do un breve commento in relazione alla tematica di uno sviluppo sostenibile nelle aree africane, segnalando poi che una più ampia trattazione verrà offerta nel terzo capitolo del nostro corso. In linea di sintesi ho riassunto in sette punti principali i dati dottrinali dell’ipotesi franceschettiana. Ne parlo presentando anzitutto le idee dell’ipotesi come tale e poi vi aggiungo un mio breve commento. II.2.1 Primato dell’attenzione al “locale” in ogni tappa: novità! Dopo aver indicato le vie della pianificazione dei progetti di sviluppo in terra Acholi, con determinazioni della mentalità occidentale, noto che in secondo livello del suo approccio, il professor Franceschetti opera un passaggio che distingue la sua teoria dalla visione classica della cooperazione (eurocentrista) e l’avvicina alla nuova concezione. Quest’ultima mette al centro delle iniziative, una accurata attenzione alle realtà locali. Per cui l’attività principale che viene consigliata consiste in una paziente ad ampia informazione sulle località di collocamento dei progetti da parte dei cooperatori. Leggendo il loro libro su questo punto, si nota che Franceschetti e Fusetti si preoccupano di promuovere una cooperazione che favorisca uno sviluppo veramente endogeno: - Cercano, trovano e comunicano informazioni generali sulla natura del terreno, il clima e alcuni dati riguardanti la situazione socio-politica generale della regione degli Acholi ( cfr “Lineamenti generali” ) ; - Cercano, trovano e comunicano informazioni “ sulle principali specie agricole coltivate nella Regione “, così il pianificatore 40 del progetto potrà ben sapere che dagli Acholi le specie realmente coltivate e consumate sono: le culture da tubero ( la manioca, la patata dolce); l’oleaginose ( il sesamo, il girasole, il cotone ); altre specie ( il tabacco, i prodotti dell’ortaggi : i pomodori, i cavoli, le cippole, ecc…); gli alberi di frutta ( gli agrumi, l’albero del burro, l’avvocado, il banano, il mango, la papaia, ecc… ); - Cercano, trovano e comunicano informazioni sulle “ tecniche colturali “ locali ( tradizionali e moderne ). Attenzione: non mi soffermo su queste tecniche perché non è di mia competenza; - Cercano, trovano e comunicano informazioni sui sistemi locali di “ raccolta e conservazione dei prodotti “; - Cercano, trovano e comunicano informazioni sull’ “allevamento” locale dagli Acholi; - Cercano, trovano e comunicano informazioni sulle “ risorse forestali “ dagli Acholi. Veniamo così a sapere quali tipi di alberi esistono in quella regione e quale è il sistema per la coltivazione, il loro mantenimento e la commercializzazione dei prodotti da essi derivati. - Cercano, trovano e comunicano informazioni sui “ principali fattori limitanti allo sviluppo rurale nella Regione degli Acholi “. II.2.2 L’identificazzione sviluppo nel Sud occidentale degli ostacoli dello Per motivi metodologici, mi soffermo su questo punto e richiamo alcune informazioni e suggerimenti che ci vengono offerte da Franceschetti e Fusetti. Economisti come sono, Fusetti e Franceschetti segnalano come fattori limitanti di uno sviluppo rurale dagli Acholi : a)Dal punto di vista ambientale: non esistono fattori significativi perché i terreni sono naturalmente fertili; il clima alternato in due stagioni ( secca e piovosa ); l’unico fattore ambientale limitante secondo loro è di tipo sanitario, “ ed è legato alla diffusione della mosca tse-tse; b)Dal punto di vista socio-politico ( “ fattori antropici “ ): l’assenza di sicurezza ( la guerra in corso dal 1986 ) e di stabilità politica quale principale fattore limitante di qualsiasi possibilità di sviluppo; e auspicano “ il ritorno dell’ordine e della sicurezza, ed il ripristino del sistema democratico “. Quale tipo di ordine e quale tipo di democrazia Franceschetti Fusetti auspicano? Ovviamente di stile occidentale. Un problema che dibatteremmo nei capitoli che seguono; c)Altri fattori limitanti, sono quelli legati ad “ alcune caratteristiche strutturali dell’attività agricola tradizionale “, quali : - l’importante ruolo che continua a giocare “ ancora la diffusione dell’agricoltura itinerante, che determina il continuo spostamento delle superficie coltivate; - nelle aree più interne 41 la mancanza sia di appezzamenti stabilmente coltivati sia di insediamenti umani fissi, impedisce l’introduzione di infrastrutture ( impianti irrigui, stalle, magazzini e altri edifici, etc.) “ utili al miglioramento delle tecniche agricole; d)“ Dal punto di vista agronomico un fattore limitante à la disponibilità di elementi nutritivi nei suoli coltivati che, a causa della scarsa o nulla diffusione della rotazione con specie leguminose e dell’allevamento, viene integrato soltanto da lunghi periodi di maggese, che riducono il potenziale produttivo di alcune aree fertili “ . II.2.3 Programmazione occidentale degli obbiettivi in un progetto di sviluppo rurale Ogni metodologia è un percorso strategico per raggiungere alcuni obbiettivi prefissati. Nel nostro caso, osserviamo che l’obbiettivo ideologico che si prefigge il prof. Giorgio Franceschetti nella sua ipotesi in studio consiste nell’aiutare le popolazioni delle aree rurali al raggiungimento del benessere mediante il miglioramento delle loro condizioni di vita economica. Cioè grazie alla realizzazione in loco di sistemi di produzione di beni e finanze non solo per la soddisfazione dei bisogni primari ma anche per il miglioramento della qualità della vita con il cumulo di guadagni frutto del mercato dei prodotti agricoli. II.2.3. 1 Principali tipologie di obbiettivi L’ipotesi franceschettiana contiene quindi obbiettivi che caratterizzano generalmente cooperazione allo sviluppo: tre tipologie ogni progetto di di II.2.3.1.1 Un obbiettivo ideologico essenziale, non dichiarato. Secondo me, nel caso presente, è chiaro che egli persegue la promozione di una economia di mercato quale garanzia per uno sviluppo economico endogeno nelle aree rurali africane, mediante la realizzazione delle cooperative agricole. Sottolineo “ sviluppo economico “ perché tale è il vero scopo dichiarato nelle varie asserzioni ( come vedremmo ). L’esperienza mi ha insegnato che questo scopo ideologico, pur essendo immaginato come vero promotore e protettore del benessere individuale e collettivo, non viene generalmente dichiarato in modo esplicito nei progetti non direttamente “ finanziari “ da parte degli operatori outsiders. II.3.1.1.2. Sei obbiettivi ideologici sussidiari, dichiarati, così come li enumera Franceschetti e li definisce “ obbiettivi generali “: e) miglioramento delle condizioni di vita della popolazione 42 f) razionalizzazione della gestione dello sfruttamento delle risorse naturali locali, secondo i criteri della massima sostenibilità e della massima partecipazione; g) promozione dell’autogestione comunitaria delle risorse attraverso la creazione di un sistema di cooperative agricole ( Farmers Cooperatives ); sostenute da un Ente di Sviluppo Regionale con sede nella città di Gulu; h) ottenimento di una produzione agricola affidabile per quantità e qualità; i) aumento dei redditi monetari della popolazione rurale; rivitalizzazione dell’ambiente rurale attraverso la creazione di nuove opportunità lavorative connesse con il settore agricolo “(38). II.3.1.1.3 Sette obbiettivi strategici per la realizzazione del modello liberal-comunitario delle Cooperative agricole Dopo aver definito gli obbiettivi ideologici essenziali e sussidiari, ogni progetto di matrice occidentale prosegue la propria logica, e quindi questa porta il programmatore a definire la strategia di azione che deve intraprendere. L’ipotesi Franceschetti propone diverse attività e strutture strategiche necessarie al raggiungimento a breve, medio e termine dell’obbiettivo ideologico. Franceschetti ne ha elaborati 7 ma noi ci limitiamo ad analizzarne soltanto 5, brevemente e solo a titolo illustrativo della nostra critica costruttiva, e li commentiamo direttamente. II.2.4 adeguata Una pianificazione del territorio stile “occidentale”, ma Proposta Si tratta per lui della definizione e suddivisione della zona d’intervento in piccole unità di lavoro ( Rural Units ) circoscritte tra agglomerazioni piccoli e agglomerazioni più grandi interdipendenti, ma ciascuna di essa avendo la propria autonomia in organizzazione, produzione e consumo dei beni. Le Rural Units sono in realtà i clans, i villaggi, le chefferie, i comuni, i distretti e oggi anche le parrocchie e le diocesi. Commento Possiamo ritenere che il metodo consigliato da Giorgio Franceschetti e Fusetti come schema ideale nella dinamica dello studio, della pianificazione e della realizzazione di miniprogetti di cooperazione allo sviluppo nell’area rurale degli Acholi riprende generalmente gli elementi della dottrina dello sviluppo degli anni 1980-90. Questa dottrina è quella che è centrata sulla ricerca di uno sviluppo sociale endogeno e sostenibile, cioè radicato nella realtà locale dal punto di vista 43 dell’utilizzo delle risorse e strategie di azione. Si vede come questi due esperti occidentali muovono la loro teoria: partono da una loro preoccupazione di uomini ( di buona volontà ) e di studiosi ( specialisti del settore economico e agricolo nella prospettiva della cooperazione con paesi emergenti ), ideano un programma di studio per offrire ai loro contemporanei un documento destinato ad essere uno strumento utile alla creazione di una civiltà e mentalità di una solidarietà o cooperazione che porti uno sviluppo davvero durevole anche nei paesi del Sud del pianeta. Dico che lo schema è quello classico perché propone ancora l’Occidente/l’Europa come punto di partenza e l’Africa come punto di arrivo, anche se in realtà il vero punto di arrivo / ritorno di questo modello di Franceschetti è l’Occidente. Perché? Perché i soggetti operanti nel progetto devono ( come vedremmo nella sezione seguente) seguire la logica occidentale dello sviluppo: conoscere i meccanismi di azione nell’ambito delle cooperative agricole ( quale è lo stile di quelle cooperative dal punto di vista organizzativo e operativo? Fondamentalmente occidentale con applicazione in Africa ); produrre e produrre secondo quale logica? Occidentale. L’indicazione che proviene da Franceschetti consiste nel produrre per il consumo in famiglia ma soprattutto per il guadagno monetario, per il mercato. E come lo sappiamo, ogni strada dell’economia del mercato parte dall’Occidente e ritorna in Occidente. I soldi guadagnati partono dalle case/casse rurali alle banche nazionali fino alla Banca mondiale o alle banche svizzere. Siamo qui dinanzi ad uno schema che riprende ciò che chiamo il ciclo virtuoso – vizioso della cooperazione allo sviluppo nelle aree rurali nello modello classico. Attenzione: questa mia non è ancora una valutazione critica ma una semplice constatazione. Se fosse una critica, essa sarebbe positiva, perché si tratta di un modello che io sposo(39) quando chiedo agli Africani di partire dal loro particolare per penetrare l’universale nella scienza, nella tecnologia, nel commercio, ecc… Mi trovo quindi d’accordo con la proposta di Franceschetti e Fusetti anche se nei capitoli seguenti cercherò di completarla con la mia critica antropologica. Esaminiamo gli elementi qui riferiti nella ricerca sui contenuti del modello di cooperazione allo sviluppo. Al di là di ogni idea e proposta il principale mobile che muove il pensiero di Franceschetti e attorno ruota il modello cooperativo che egli suggerisce quale via maestra di lavoro e produzione del benessere nei villaggi africani, è l’aiutare i contadini a guadagnare il danaro, più danaro possibile per ognuno di loro, per ogni famiglia, per ogni comunità. Per guadagnare tale danaro, devono quindi organizzarsi, lavorare meglio di prima sullo stile associativo improntato dal modello triveneto degli anni 1940-1950 che ha portato al benessere diffuso e al capitalismo italiano. Si parte sempre dal danaro al danaro. 44 Ha ragione Franceschetti. Le cooperative non si formano solo con le braccia e con le buone parole degli anziani dei villaggi e degli operatori stranieri. Le parole si dicono, si sentono e si accettano. Ma per farli passare all’azione, ci vogliono somme di danaro per scrivere e documentare i progetti su fogli di carta, per mangiare e ritornare al lavoro l’indomani, per comperare utensili di base, attrezzi e macchinari utili all’avviamento dei lavori, la loro continuità, ecc… Ci vuol danaro per costruire stalle, porcili, pollai, piantagioni, ecc… che Franceschetti auspica ( giustamente ) come infrastrutture di sostenibilità del progetto nel tempo. L’esperienza insegna tuttavia che perché tale danaro si mantenga e si riproduca nel tempo, dopo il ritorno dell’operatore occidentale a casa sua, occorre creare possibilità per la sua riproduzione in loco, da parte degli autoctoni stessi. Ecco qui l’importanza o forse la necessità del mercato, della vendita sul mercato locale del villaggio e della Regione dei prodotti coltivati. Osserviamo quindi che Franceschetti consiglia la strategia di un lavoro in comune, per un guadagno personale, a destinazione privata o collettiva volontariamente. Siamo senza dubbio nella dinamica riflessiva della promozione di una economia di mercato nell’area africana. Tale tipo di processo dello sviluppo è generalmente chiamato ( senza pregiudizio ) il modello capitalista liberale. Ecco cosa scrive Franceschetti: “ L’idea guida di tutta l’ipotesi di sviluppo è la promozione tra agricoltori del modello cooperativo di gestione delle risorse. … La cooperativa lavora per produrre il cibo per il proprio approvvigionamento e prodotti da vendere sul mercato, per ottenere un profitto monetario. Le famiglie ricevono il proprio fabbisogno alimentare ( cereali, frutta, verdura, latte, etc. ) e una ripartizione degli utili, con cui possono acquistare altri beni dalla Cooperativa “(40). E quindi chiaro la promozione di una cultura dell’economia del mercato con il relativo miglioramento delle condizioni di vita economica resta lo scopo più mirato dal modello cooperativo che propone Giorgio Franceschetti. Questo modello come ogni altro, per essere realizzato e per poter raggiungere i suoi obbiettivi, ha bisogno di una strategia di azione e di strutture. Nella pianificazione del territorio, Franceschetti consiglia tra altro di dividere il teritori in base alle potenzialità dei suoli ( area a basso potenziale, aree a elevato potenziale, aree di interesse ambientale, ecc…; e poi aree stabilmente coltivate, aree saltuariamente coltivate, aree già coltivate e ora abbondante e aree mai coltivate ). Bisogna star attentissimi e studiare bene il diritto fondiario fondiario consuetudinario locale prima di avviare il progetto. Lo possono accettare mentre l’outsider è ancora presente per guadagnare danaro ma a lungo termine se i problemi non erano risolti, nascono i conflitti tra contendenti che possono pur esser soci di una stessa cooperativa e il progetto 45 ne paga il prezzo in termini di rischio. Voglio dire che occorre saper che la proprietà e la divisione delle terre è un problema dove gli stranieri hanno fallito nei tempi della colonizzazione pensando che tutte le terre in Africa potevano appartenere allo Stato o al grand capo di una agglomerazione più importante. Nei villaggi naturali, le terre appartengono ai clans, ai regni, imperi, ecc… e sono sotto ad usi e costumi tradizionali per il loro uso. E’ nelle agglomerazioni semi urbane o urbane che le terre sono il diritto amministrativo moderno. Quindi occorrerà trattare con quei capi, e essere ben informato sugli usi e costumi riguardante le terre da parte dei contadini della parte interessata. Ci sono pur fertili ma che secondo certi miti, concezioni, leggende locali, non possono essere coltivate. Sarà un grave trauma e una violazione del costume che installare il progetto in quelle terre. I contadini non vi lavoreranno con convinto entusiasmo, e il progetto ne pagherà. Ne parleremmo nell’ultimo capitolo. II.2.5 Una strutturazione delle entità sociali stile “occidente” Proposta Mentre la Rural Unit rappresenta una struttura naturale che l’operatore trova e che deve valorizzare secondo il progetto, la struttura “ sociale “ è una nuova realtà, è appunto la cooperativa stessa, che l’operatore deve ideare, promuovere e organizzare all’interno della comunità naturale, del villaggio. Franceschetti asserisce qui una indicazione che attira attenzione. Si tratta del fatto secondo Franceschetti questi raggruppamenti devono esser composti da famiglie che accettano liberamente di riunirsi in un singolo gruppo artificiale e di collaborare per ottenere i risultati del progetto. Commento Dobbiamo qui sottolineare il fatto che nei villaggi naturali, le famiglie sono già “ naturalmente “ collegate da una rete di relazioni organizzate con a capo i “ capi famiglia “ naturali. Quando arriva un progetto di sviluppo moderno che riguarderà l’impiego di persone, il cambio di abitudini nel lavoro, nell’organizzazione, ecc.. ( p.es. il pragmatismo del progetto moderno esigerà che il responsabile della cooperativa sappia leggere e scrivere, il capo naturale può o non saperlo fare, allora nascerà un problema che l’operatore dovrà saper risolvere; ciò gli richiederà una certa conoscenza antropologico-culturale in partenza e all’arrivo ). II.2.6 Una concezione della produzione agricola e del consumo, sfondo occidentale Proposta 46 L’ipotesi Franceschetti asserisce che nell’elaborazione del progetto si dovrà mirare a due obbiettivi su questo aspetto: - un obbiettivo primario, che consiste nell’autosufficienza alimentare con la salvaguardia della fertilità del suolo ( qui bisogna sapere che i contadini hanno i loro metodi che alle volte possono essere perfezionati e non soltanto rigettati a profitto dei metodi moderni ); - un obbiettivo secondario, l’aumento del reddito delle popolazioni locali: ciò richiede l’introduzione di un sistema di rotazione programmata delle coltivazioni all’interno di ogni villaggio. Commento Bisognerà star attenti a questo livello. Perché l’introduzione pone il problema dell’assimilazione. I contadini non sanno leggere né scrivere e quindi l’operatore outsider ha bisogno di un interprete locale, un agronomo locale per far capire le vari tecniche in proposta. Si tratta qui di una fase molto importante e determinante, cioè l’introduzione delle innovazioni tecnologiche. Franceschetti guadagna in apprezzamento quando propone che “ L’introduzione di nuove tecniche deve essere applicata nel massimo rispetto della cultura locale e con il minimo necessario di innovazioni tecnologiche, di pari passo con la effettiva accettazione da parte della popolazione e con la reale possibilità di poterle applicare nel lungo periodo senza far nascere situazioni di dipendenza dall’esterno, troppo complesse ed onerose da ottenere “ (41) In più trova elogio il prof. Giorgio quando considera le cooperative come realtà congeniale alla struttura formale delle comunità naturali dell’Africa tradizionale. II.2.7 La proposta di un Ente l’occidentopolarizzazione del progetto! coordinatore locale: Proposta Nell’ipotesi Franceschettiana, si tratta di un Ente di riferimento che generalmente i progetti outsider istallano nei centri urbani o semi-urbani delle aree d’intervento. E’ una unità – cervello locale, cioè d’ideazione, organizzazione e attuazione delle proposte e iniziative del progetto; è anche un Centro di coordinamento interno ( giova da coordinatore delle varie cooperative sparse ) e internazionale ( coordinatore tra la capitale, l’Occidente e il mondo rurale d’intervento ). Commento Dal punto di vista realistico e pragmatico, questo Ente è una necessità obbligata e una unità strategica di controllo, successo e sostenibilità del progetto quanto all’ideale dell’endogeneità. Tuttavia per quanto riguarda la critica della cooperazione allo sviluppo, rileviamo che l’installazione che questi enti nei centri urbani o semi-urbani implica la solita europolarizzazione dei 47 progetti di sviluppo. In più l’esperienza insegna che gli operatori locali africani che vengono nominati a lavorarvi sono persone ormai acculturati, europolarizzati e quindi bisognosi di una educazione, coscientizzazione per lavorare alla realizzazione dell’ideale di uno sviluppo endogeno sostenibile che mira Franceschetti. Sez.3 Riassunto sull’ipotesi franceschettiana. Riassumendo possiamo ritenere che il metodo consigliato da Giorgio Franceschetti e Fusetti come schema ideale nella dinamica dello studio, della pianificazione e della realizzazione di miniprogetti di cooperazione allo sviluppo nell’area rurale degli Acholi riprende generalmente gli elementi della dottrina dello sviluppo degli anni 1980-90. Questa dottrina è quella che è centrata sulla ricerca di uno sviluppo sociale endogeno e sostenibile, cioè radicato nella realtà locale dal punto di vista dell’utilizzo delle risorse e strategie di azione. Si vede come questi due esperti occidentali muovono la loro teoria: partono da una loro preoccupazione di uomini ( di buona volontà ) e di studiosi ( specialisti del settore economico e agricolo nella prospettiva della cooperazione con paesi emergenti ), ideano un programma di studio per offrire ai loro contemporanei un documento destinato ad essere uno strumento utile alla creazione di una civiltà e mentalità di una solidarietà o cooperazione che porti uno sviluppo davvero durevole anche nei paesi del Sud del pianeta. Dico che lo schema è quello classico perché propone ancora l’Occidente/l’Europa come punto di partenza e l’Africa come punto di arrivo, anche se in realtà il vero punto di arrivo / ritorno di questo modello di Franceschetti è l’Occidente. Perché? Perché i soggetti operanti nel progetto devono ( come vedremmo nella sezione seguente) seguire la logica occidentale dello sviluppo: conoscere i meccanismi di azione nell’ambito delle cooperative agricole ( quale è lo stile di quelle cooperative dal punto di vista organizzativo e operativo? Fondamentalmente occidentale con applicazione in Africa ); produrre e produrre secondo quale logica? Occidentale. Produrre per il consumo in famiglia ma soprattutto per il guadagno monetario, per il mercato. E come lo sappiamo, ogni strada dell’economia del mercato parte dall’Occidente e ritorna in Occidente. I soldi guadagnati partono dalle case/casse rurali alle banche nazionali fino alla Banca mondiale o alle banche svizzere. Siamo qui dinanzi ad uno schema che riprende ciò che chiamo il ciclo virtuoso – vizioso della cooperazione allo sviluppo nelle aree rurali nello modello classico. Attenzione: questa mia non è ancora una valutazione critica ma una semplice constatazione. Se fosse una critica, essa sarebbe positiva, perché si tratta di un modello che io sposo(42) quando chiedo agli Africani di partire dal loro particolare per penetrare l’universale nella scienza, nella tecnologia, nel commercio, ecc… Mi trovo quindi d’accordo con la proposta di 48 Franceschetti e Fusetti anche se nei capitoli seguenti cercherò di completarla con la mia critica antropologica. Esaminiamo gli elementi qui riferiti nella ricerca sui contenuti del modello di cooperazione allo sviluppo. Concludendo questo capitolo, penso anche io che il futuro dello sviluppo, si deve partire dalla base, dalle comunità locali e da lì che deve partire, dipende dalla realizzazione di ipotesi teoretiche come questa di Franceschetti e Fusetti. Tuttavia osservo dalla mia esperienza che la maggioranza di tentativi dei progetti elaborati, programmati e attuati in base a questa medesima bella teoria non hanno nemmeno raggiunto i loro obbiettivi nelle aree rurali dell’Africa subsahariana. Ciò significa che ci sono molti altri parametri di considerazione di cui tener conto perché l’ideale dei progetti di sviluppo endogeno sostenibile venga raggiunto specialmente nelle aree africane. Si considera quindi che i modelli di sviluppo di stampo economistico comportano molti limiti, di cui il principale sta nell’aver emarginato o assecondato all’economico il dato antropologico nella elaborazione delle teorie e ideologie dello sviluppo nella sua attuale fisionomia e nella sua importazione nei paesi emergenti. 49 Terzo capitolo Per una riabilitazione della proposta occidentale in Africa. Il contributo antropologico. Appare chiaro che il concetto di sviluppo sostenibile così come ipotizzato anche per le aree rurali dell’Africa subsahariana da Giorgio Franceschetti, che rappresenta un gran numero di pensatori dello sviluppo del nostro, è una risposta contemporanea delle scienze e politiche alla critica antropologica contro le scienze sociali classiche dello sviluppo. Queste ultime avevano trascurato l’uomo globale, privilegiando la sua dimensione bio-fisica nelle loro impostazioni. In questo capitolo che suddivideremmo in quattro principali sezioni, non torneremmo più alla critica antropologica a cui abbiamo alluso a lungo sia nel primo capitolo sia nel secondo analizzando l’ipotesi franceschettiana. Andremmo invece dritto a esaminare come possiamo operare nel continente per aprire davvero un processo che avvia quelle popolazioni ad uno sviluppo dove ogni uomo e tutti gli uomini o almeno la maggioranza possano raggiungere l’ideale di una vita largamente dignitosa e pacifica. Nella prima sezione, cerchiamo di esaminare anzitutto il contesto in cui è penetrato e penetra l’idea di sviluppo nelle aree africane. Sarà un breve percorso storico. Nella seconda sessione, cercheremmo di applicare le offerte della nostra ricerca in antropologia culturale sulle popolazioni africane nello scopo di aprire la strada ad una inculturazione dei progetti di sviluppo a scapito dei vecchi metodi che partivano con una imposizione dei progetti. Oggi si parla di uno sviluppo partecipato, endogeno, integrato, ecc… oltre che integrale e quindi umano e sostenibile. Per cui, le altre due sessioni che seguono e concludono il capitolo saranno dedicate allo studio dell’”anima africana “ e “ la razionalità economica “ dell’uomo del Sud del Sahara. Sez.1 Come erano gli Africani prima dell’irruzione occidentale? E’ difficile rispondere a questa domanda che riguarda la preistoria visto che mancano documenti scritti al riguardo. Possiamo soltanto ipotizzare grazie a certe ricerche sociologiche, antropologiche e archeologiche del dopo l’incontro tra le due civiltà. Erano uomini e donne, con pelle scura. Vivevano al Sud del deserto del Sahara, sia nelle parti delle savane sia nelle parti delle foreste, dove due stagioni ( di pioggia e di siccità alternavano lo scorrere del tempo e guidavano lo svolgimento delle attività produttive. Avevano come attività produttrici e vitali: l’agricoltura, la caccia, l’artigianato e la pesca. Come habitat: vivevano nelle capanne fatte di paglie per i tetti e coperte con 50 legno perpetrato da terra. Come amministrazione: erano organizzati in raggruppamenti naturali di strette dimensioni ( famiglie e clans ) con a capo il padre di famiglia e l’anziano del clan; e in altri raggruppamenti più grandi secondo le espressioni linguistiche e le vicinanze geografiche, chiamate “ tribù “ o etnie “, di cui a capo, il capo-tribù, il capo etnico. C’erano anche agglomerazioni naturali più grandi, che si chiamavano imperi, regni, con a capo i re, le regine, gli imperatori o le imperatrici: p.es. il Regno Baluba aveva a suo capo sempre una donna : la regina, la madre di Nimi; l’impero Lunda, aveva sempre a capo l’imperatrice, la madre del defunto Tshombe ex ministro del Congo Kinshasa negli anni 1960.Leggi, regolamenti e istituzioni di giustizia civile o penale: La vita era regolata da rigidi usi e costumi specifici ad ogni clan, tribù e etnia. I capi e anziani vegliavano sul rispetto degli usi e costumi, con penalità appropriate, di cui le più gravi erano l’isolamento e la maledizione. Come mezzo di comunicazione: avevano solo la parola e qualche strumento sonoro ( scultura in legno appropriata ), di cui ogni tipo di suono implicava un messaggio, una comunicazione precisa che i membri indovinavano all’intenderlo; questo strumento era tenuto esclusivamente dal capo e potevano suonare in occasione dovuta. Come istruzione di educazione e d’istruzione dei più giovani: avevano ciò che si chiama il “ bosco iniziatico “, per insegnamento di cose più riservate della vita; altrimenti, il fuoco di sera a casa dei genitori o degli anziani, l’ombra dell’albero grande del paese che era spesso davanti alla casa del capo. Come forma di trasmissione degli insegnamenti, avevano i proverbi, le leggende, i miti, gli indovinelli, ecc… Come arma, avevano la freccia con veleno intinto e che aveva capacità di uccidere. Avevano un’arte sviluppato, ecc…. Siamo quindi dinanzi a popolazioni che avevano la loro vita, la loro organizzazione, la loro mentalità e che stavano progredendo a loro modo(43). Così pensato, promosso e consumato in Occidente, lo “sviluppo” viaggia attraverso il mondo e irrompe nel continente africano. Esso viene portato da operatori che sono uomini e donne delle loro società e del loro tempo. E quindi operatori di cui la psicologia o l’immaginario comporta degli stereotipi pregiudiziali sulla realtà dei destinatari africani. Stereotipi che vengono dall’immagine che l’uomo occidentale ha sull’uomo africano e che accompagnano e qualche volta determinano i rapporti tra operatori outsiders e cooperatori locali. Considerando il cooperatore allo sviluppo come un “ guaritore ferito “, il nostro intento in questa sezione è di aiutarlo ad una acuta presa di conoscenza di tali stereotipi che possono dominare il suo pensiero ed alterare la sua azione in Africa. Ecco perché andremmo a ricordare in linea storica lo sviluppo del pregiudizio ideologico che ha 51 accompagnato l’evolversi dell’incontro uomini africani e uomini occidentali lungo la storia. In principio, due domande si fanno sempre. La prima questione più interessante cui rispondere poteva essere : “ come erano gli africani prima dell’arrivo della civiltà africana ? “. La seconda : “come sono diventati con la penetrazione della civiltà occidentale”. Non possiamo rispondere largamente a queste tre domande. Ci limiteremmo a dare alcune idee illustrative tanto per informare i futuri cooperatori. Sez.2 Civiltà e sviluppo occidentali al Sud Sahara, conflittualità e fallimenti: cenno storico Come era nel destino del pianeta e dell’umanità, i popoli che hanno saputo usare meglio del dono dell’intelligenza naturale prima degli altri, cioè gli ebrei, gli egiziani, i greci, i romani si erano dotati dei mezzi di comunicazioni che gli permisero di raggiungere vari confini. Così gli Arabi e gli Occidentali arrivarono anche al Sud del Sahara. Non trattandosi di una lezione di storia, mi limito a dare soltanto alcuni cenni utili a canalizzare le nostre riflessioni sulla problematica della cooperazione allo sviluppo. Parlerò molto brevemente dell’arrivo degli uomini della civiltà araba e di quella occidentale, richiamando l’attenzione sull’errore antropologico come fattore occultamente più determinante della violenza con cui sono penetrate le civiltà arabo-islamiche ed occidentali in Africa, creando poi “eterni” conflitti che sono secondo me alla base degli attuali fallimenti delle proposte di sviluppo di matrice occidentale. . III.2.1 L’errore antropologico e le sue determinazioni sulla partnership Africa-Occidente Parlare di “antropologia” sta a significare far un discorso sull’”uomo” e gli “uomini”. L’antropologia implica interpretazioni, considerazioni sull’uomo come genere cosmico e gli uomini come gruppi contestualizzati. Venendo alla problematica dell’incontro delle civiltà occidentale ed africana avvenuta mediante l’attività di alcuni uomini ben precisi, in periodi storici ben precisi come lo abbiamo già visto o come lo vedremmo nelle pagine che seguono, a me sembra che tali incontri all’interno dei quali si è inserito il processo di sviluppo delle popolazioni subsahariane siano state alterate da ciò che desidero chiamare “ l’errore antropologico”. Tale consiste nell’aver interpretato, valutato e descritto gli uomini dell’Africa subsahariana in modo non totalmente corrisponde alla 52 realtà ontologica, da parte dei primi esploratori di origine araba e poi occidentale. In questa sezione cerco di dar informazioni sulla dinamica degli incontri che hanno generato errati stereotipi mentali negli occidentali sugli africani e quindi portato ad altrettante errate impostazioni di ideologie, dottrine e quindi attività politiche, sociali, economiche dell’Occidente nei confronti dell’Africa. LO scopo consiste nel fatto che una volta ben informati, possiate operare in modo più fruttuoso in questo millennio. In linea generale gli storici ci informano che il contesto in cui l’idea di “ sviluppo “ è entrato e si sta sviluppando nelle aree africane è un contesto di permanente conflitto, dove i partners africani ed occidentali, diversi e ineguali s’incontrano e si scontrano sempre attorno ai problemi di convivenza, di civiltà. L’occidentale si considera ed è considerato nel proprio immaginario e nell’immaginario del partner africano come uomo superiore, di civiltà migliore se non superiore; mentre l’africano è il contrario di tutti i positivi attributi. I contatti avvenuti tra i due specie in passato si sono svolti in un clima di scontro; sono sempre stati in un modo od in altro rapporti di forza: forza militare ( ai tempi dei Romani ), forza politica, economica, scientifica, tecnologica e militare ( dalla Tratta alla colonizzazione fino ai nostri tempi ). Tale situazione ha indebolito largamente la psicologia dell’uomo africano, creando in lui un profondo complesso d’inferiorità di fronte all’Occidentale. Situazione di cui tenere conto. Esaminiamo come si è sviluppato il processo di creazione di questo complesso che determina seriamente le attività volte all’assimilazione delle idee dello sviluppo portate dagli Occidentali. III.2.2 Triplice negazione, stererotipi e missioni civilizzatrici fallimentari III.2.2.1 Irruzione dei Romani, negazione indebolimento mentale e schiavizzazione onto-antropologica, A credere Jean-Jolly come già detto(44), i primi veri incontri tra africani neri ed occidentali sono avvenuti ai tempi dei Romani nel I° sec. d. C. anche se la storia insegna che già nel 19 A.C., un Generale romano di nome Cornelius Balbus sarebbe arrivato con le sue truppe fino al Niger dove sostò però per pochissimo tempo. Fu soprattutto nell’anno 70 d.C. che gli imperatori romani Settimus Falcus e poi nel 86 d.C. Julius Maternus dopo aver conquistato i Regni di Nubia nell’africa settentrionale, spinsero le loro truppe fino al Sudan dove rimasero un po’ a lungo e fecero incontri più intensi e collaborativi con i Neri africani. E quindi verso la fine del II° s. d.C. che lo sviluppo dell’uso del cammello nelle regioni del deserto ( Sahara ) che si intensificano i rapporti tra l’Africa nera e l’Occidente dei 53 Romani. Siamo nel deserto. Quindi i primi Africani che gli Occidentali incontrano sono uomini e donne di civiltà veramente diversa. Sono nomadi, pastori, senza fissa dimora; quindi senza vera organizzazione sociale stabile, rispettabile, senza armata, senza arte, senza vestiario, senza scrittura, ecc... Non hanno una economia tipica dell’uomo sedentario con campi agricoli. Non dimostrano vera capacità di uomo sapiens. Nel frattempo nel profondo sud del Sahara vivevano uomini e donne in società organizzate, con sistemi di vita che abbiamo appena definito. Lì vicino, nel Niger, esisteva l’impero Songhai, molto ben organizzato. I Romani non ci arrivarono. Questo primo incontro sarà determinante nel pregiudizio razziale che caratterizzerà tutti gli ulteriori incontri tra Africani ed Occidentali. I primi saranno d’ora in poi considerati esseri inferiori, razza inferiore, come vedremmo più avanti. I primi incontri tra Occidentali ed Africani sono incontri certamente non conviviali e difficilmente cooperativi. I Romani che considerano gli Africani del Nord e del Sahara come “ animali appena uomini “, o al più “ uomini primitivi “ di cui l’unica cosa apprezzabile erano le inestinguibili energie fisiche, useranno la forza delle loro armi per dimostrare la loro superiorità e capacità distruttiva, seminando così un terrore psicologico che farà assoggettare e deportare massicciamente i Neri verso Roma come Schiavi delle esplorazioni utili ai lavori di costruzione della città e dei suoi monumenti. Ecco là il detto “ ho lavorato come un nero “ che rimarrà fino ai nostri giorni. Ecco allora le tre negazioni o stereotipi giustificatori della superiorità dell’uomo bianco sul nero e della inferiorità ammessa e poi rifiutata da quest’ultimo, che rimarranno nell’immaginario collettivo nei tempi della Tratta dei Neri fino alla colonizzazione e forse anche un po’ ai nostri giorni: la negazione onto-antropologica, la negazione epistemologica e la negazione teologico-spirituale. III.2.2.2 Gli Arabi: negazione antropologica, indebolimento sociopolitico e Tratta dei Neri La negazione ontologica ed antropologica è uno stereotipo che illumina le visioni dei Romani sul Nero, vige e domina tutto il periodo della Tratta dei Neri. Secondo questo stereotipo, il nero africano è considerato prima ( dai Romani ) come una “ bestia “, un “ selvaggio “, un animale quasi uomo ( I° s. d.C. ) ; successivamente verso il III°-V° ss. d.C., è considerato come un “ uomo ma ancora in cammino verso la piena umanità “, un “ uomo inferiore “ rispetto al bianco sia esso europeo o arabo. Questo stereotipo è ancora nell’immaginario degli uomini arabi di oggi. Due anni fa l’unico alunno/a ad esprimere discriminazione discrimazione nei confronti di mio figlio Emmanuel a scuola dai suoi 10 anni di vita in Italia fu una ragazza marocchina di 11 anni! In quanto un essere non uomo, era giustificato venderlo al 54 mercato, si potrà vendere un uomo o una donna contro 1 kilo di sale marino! La riduzione onto-antropologica è il passaggio dal disprezzo del colore della pelle alla negazione dell’essere uomo all’uomo nero; un processo ideologico fondato su argomentazioni puramente xenofobe. LO scrittore DE FONTETTE F. si distingue tra coloro che hanno saputo rispondere alla domanda “ perché la tratta dei Neri “ ? Egli risponde semplicemente: “ in realtà, esiste un argomento che non espone talmente, a causa della sua semplicità, esso richiama in qualche modo l’uovo di Cristoforo Colombo: perché la vendita dei Neri? A causa del colore “(45) A loro arrivo nell’Africa subsahariana, i Romani si fanno accompagnare dagli schiavi arabi. Ignorano che questi ultimi si rendono conto della considerazione che loro infliggono sui Neri e quindi della vulnerabilità degli Africani che saranno così poi invasi dagli Arabi qualche secolo più tardi. Così verso il VII sec. d. C. gli Arabi penetrano anche essi nell’Africa subsahariana, invadono le sue regioni, li sfruttano a piacere, sempre sotto le minacce delle armi da fuoco, che mancano ali Africani. Più tardi tra l’VIII° e il IX ss. il commercio o compravendita dei Neri ( uomini e donne belli e robusti contro valori in danaro o in natura diventa attività lucrativa generalizzata tra Arabi e capi-clans africani ). Il commercio dei Neri altrimenti chiamato commercio triangolare, per il quale l’Occidente ha già chiesto perdono, si svolge tra Arabi-Europei-Americani. I capi-clans e tribù africani vendono a costo di beni della natura o del denaro uomini e donne che partono via oceano atlantico in Portogallo verso gli USA per andare a lavorare nei campi agricoli di cafe, thP, cacao, ecc… nell’era della diffusione dell’industria. III.2.2.3 Gli Europei moderni: negazione epistemologica, indebolimento totale (tabula rasa) e colonizzazione. La negazione epistemologica accompagnata da quella teologicospirituale vige già dal X° con gli Arabi, si perpetua al XV/XVII ss. e illumina l’ideologia colonialista che si affermerà nel XIX° secolo a Berlino ( 1885 ) con la divisione politica artificiale dei popoli africani tra le grandi potenze occidentali. Quando si riabilita il nero in quanto “ persona umana “, lo si considera come uomo sì ma incapace di accedere al sapere come l’uomo bianco. Può al massimo intendere e volere ma non può saper né costruire il sapere come il bianco. Non ha scienza, non ha arte, non ha Stato né governo; non scrittura né alfabeto come il bianco o come l’arabo. Ecco la giustificazione del processo di colonizzazione. Questa ultima viene giustificata dal fatto che il nero è un uomo sì, ma inferiore, incivile, bisognoso di assimilazione della civiltà occidentale per accedere al vero statuto d’uomo. La colonizzazione fu presentata come opera di bene, di beneficenza, di amore dell’Occidentale a favore degli Africani. 55 Secondo le ricerche del prof. KESTELOOT(46) dall’inferiorità genetico-epidermica si passò tranquillamente alla’affermazione della deficienza intellettuale dell’uomo nero. La riduzione epistemologica afferma così la totale incapacità del Nero nell’intelligere il cosmo, nello sfruttarlo, trasformarlo alla maniera degli antichi Greci, Romani e dei loro discendenti dell’età moderna. Lévy- Bruhl poteva così scrivere : “Race noire, race inférieure”(47). L’autore tedesco afferma che la razza nera è di inferiorità inaudita, per tanti fatti, tra cui il non aver né scrittura, né alfabeto né nessuno scrittore, poeta, romanziere, né nessuna inventore. La dichiarata inferiorità fondata sulle ragioni epidermiche portò tranquillamente l’uomo dominante ad una prassi più qualitativamente e quantitativamente perfetta: la colonizzazione. Kesteloot scrive appunto che il discorso colonizzatore fu fondato sulla convinzione che occorreva inculcare al nero la propria inferiorità insita nel colore della sua pelle per dominarlo e fargli desiderare la civiltà occidentale e la presenza dell’uomo bianco. Guardate che lo stereotipo regge ancora oggi! Ho fondato due Cliniche ospedaliere in Congo. Le mie raccomandazioni sul rispetto del Regolamento interno non sono mai osservate, vengono osservate invece le raccomandazioni di un Infermiere spagnolo che ho portato! Ci sono molti detti e aneddoti in Africa per designare la superiorità e la perfezione dell’uomo bianco, il muzungu, mundele, kana ka mukuta makasa. Nel 1998, un proprietario di una villa a Kinshasa in Congo mi ha risposto alla mia domanda di affitto, che la sua casa la poteva affidare solo ad un bianco e mai ad un nero! Questi fatti li troverete e li vivrete, sarete più rispettati dei Ministri e Alti Funzionari di pelle nera quando sarete in Africa. Una provocazione al vostro lavoro di educazione allo sviluppo, creare fiducia negli Africani stessi sulle loro capacità e potenzialità. III.2.2.4 Gli Europei religiosi: negazione teologica e missione religiosa civilizzatrice Ai popoli e uomini senza civiltà, incapaci di intendere fu successivamente negata anche la possibilità di conoscere il Sacro, di penetrare i misteri del vero Dio, il Dio degli Occidentali, il Dio di Gesù Cristo. Fu negata la capacità non solo di conoscerlo ma anche di credere in Lui, e quindi di accedere alla salvezza, al Regno di Dio. Gli dèi degli Africani furono considerati “ stregoni “; la loro fede “ superstizione “. Qualche aveva pur dubitato del fatto che l’uomo nero avesse un’anima identica a quella del bianco e quindi se poteva andar in Paradiso come l’altro. A quella domanda sulla salvezza dei Neri che si poneva nei circoli dei Missionari europei dell’Epoca, l’auto-risposta dell’interrogatore fu: “ il Nero è un uomo, ma non può aver un’anima uguale a quella del bianco, e quindi egli è irrimediabilmente destinato all’inferno “. 56 Segnalo che vi fu all’Epoca una Teologia appropriata, giustificatrice dell’ideologia in voga e quindi sulla quale partirà ( sfortunatamente ) l’Opera missionaria del XIX° s. in concomitanza con la colonizzazione. Quale è la dinamica della riduzione teologica e spirituale? Una teologia colonialista appropriata usò la Sacra scrittura per spiegare l’inferiorità della razza nera e la sua maledizione. Essa interpreta il versetto di Gn 9, 24-25 che tratta della maledizione di Cham il secondo figlio di Noe. Secondo loro ( gli interpreti ), la razza nera è la razza dei discendenti di “CHAM IL MALEDETTO”. Cham è uno dei tre figli di Noe che fu maledetto dal suo padre per disobbedienza. Questa concezione noachica insegna che le sofferenze passate, attuali e future dell’uomo nero sono frutto della discendenza da quel figlio di Noe, con la relativa relegazione all’inferno. L’”antico anatema”, frutto della affiliazione bio-spirituale della razza a Cham ha colpito per sempre l’uomo del Sud del Sahara: “ Quando Noe fu svegliato dall’ebbrezza, seppe quanto gli aveva fatto il figlio minore; allora disse: “ Sia maledetto Canaan! Schiavo degli schiavi sarà per i suoi fratelli “ ( Gn 9, 24-25 ). E la Bibbia aggiunge che da quando fu cacciato dal padre Noe, Canaan diventò scuro! Gli elementi interpretativi ideologici del testo genesico sono i seguenti. Notiamo anzitutto che ad essere maledetto non è Cham ma il suo discendente Canaan. Il problema è che questi stereotipi sono ben radicati nella psicologia individuale e collettiva da una parte e dall’altra, dagli Occidentali come dagli Africani. Lo scopo dell’antropologo pratico, colui che usa e fa usare l’antropologia ( applicata ) è di offrire strumenti conoscitivi quale chiave per sradicare, cancellare tali stereotipi e quindi consentire agli uomini e donne del nostro pianeta, di costruire una umanità dove tutti i soggetti del genere umano si riconoscono membri di una stessa grande società, del villaggio globale. Sez. 3 Il rifiuto africano del modello occidentale Dagli anni della colonizzazione ad oggi e soprattutto anni 1960/70 gli operatori occidentali hanno consentito enormi sacrifici per portare il loro modello di benessere nelle aree africane. Si sono cambiate idee, politiche e strategie. Ma la tanta incantata e ambita modernizzazione è avvenuta soltanto a livello delle infrastrutture: “ La civiltà occidentale, costruendo palazzi, fabbriche, strade, creando Stati, distretti, comuni sul modello moderno si è fermata a modernizzare l’Africa, lasciando gli Africani, nella loro situazione mentale tradizionale. Ci ritroviamo davanti ad una società in bilico, al bivio, tra una modernità mai raggiunta e una tradizione incompatibile con le esigenze reali della propria inevitabile partecipazione allo dispiegamento planetario dell’umanità “ ho scritto recentemente (48). 57 Gli Africani, disperati, disillusi, hanno rifiutato lo sviluppo offerto dall’Occidente. Lo denuncia chiaramente tra tanti altri intellettuali la scrittrice camerunese Axelle Kabou nel eloquente volume “ Et si l’Afrique refusait le développement?(49). Che l’ideale dello sviluppo sia fallito nel continente africano, lo riconoscono ormai moltissimi pensatori africani e non africani di oggi, qualche volta rimpiangendo la tramontata società ancestrale pura ; altre volte rimpiangendo l’era della bella era della colonizzazione. Il maliano Tidiane Diakite tra tanti altri, ci offre interessanti spunti di riflessione sulla difficile marcia della modernità occidentale in Africa(50). Diakite sembra rimpiangere il passato ancestrale e afferma che secondo le società tradizionali africane precoloniali avevano le loro tare. A queste però si sono aggiunte poi quelle create dai sottoprodotti della società di consumo occidentale. All’inverso, i valori incontestabilmente umani e positivi delle società africane tendono a sparire sotto il peso di queste nuove tare. Tutte le virtù dell’Africa ancestrale stanno diventando dei miti quasi superati : ospitalità, rispetto degli anziani, semplicità, convivialità, senso comunitario, ecc… Assistiamo ad una società mercantile e artificiale. Il materialismo spietato, che tende a caratterizzare le società africane dei nostri gironi, è un fattore d’impoverimento spirituale e di degenerazione morale dei popoli dell’Africa. Si è così creato un ambiente sociale lunghi dall’essere favorevole allo sboccio intellettuale e spirituale ma anche all’esplosione del genio africano. Tidiane Diakite conferma le sue considerazioni sulla penetrazione del “ dannoso “ spirito mercantile occidentale evocando la testimonianza di un anziano avoriano riferito dal quotidiano francese “ Fraternité-Matin”, la quale ( testimonianza ) segnala tre momenti caratteristici dell’evoluzione culturale delle società africane: “ Nell’Africa tradizionale – avrebbe detto l’anziano- gli uomini erano bravi, onesti e sinceri; c’era l’aiuto reciproco e la solidarietà. C’era lavoro in comunità e la vera fraternità. Per noi era bella epoca, i bambini erano liberi, passavano il tempo a cacciare gli uccelli nei campi e a sorvegliare le mucche…Poi arrivarono i primi momenti della colonizzazione. A quel tempo , non c’erano strade, i Bianchi venivano da lontano a piedi: in seguito, si è incominciato a trasportarli in amaca. … Avevo portato i bagagli fino a perdere i mie cappelli. E poi, occorreva aprire le strade, gettare i ponti; malgrado i duri lavori, le guardie ci picchiavano ferocemente, abbiamo sofferto la sete, al fame e il freddo…”. Infine la terza fase di questa rifiutato spirito mercantile: 58 storia, che simboleggia il “ I cantori tradizionali , musicisti professionisti, cantavano per le grandi feste ed erano le guardie della tradizione orale. Cantavano la vita, l’amore e gli eroi africani. Purtroppo, adesso, i cantori tradizionali non cantano più che le glorie di color che gli offrono soldi, cibo e vestiario. Questi musicisti senza dinastia s’improvvisano cantori consuetudinari “ (51). Il discorso di Tidiane Diakite riassume lo spirito d’insofferenza, di odio ideologico, di conflitto permanente, frutto del già evocato contenzioso storico che continua ad animare il pensiero degli intellettuali africani a tutt’oggi. C’è un atteggiamento anti-occidentalista diffuso, che impedisce una franca collaborazione alle proposte di sviluppo da parte degli operatori occidentali. Sez. 4 La problematica dell’inculturazione del modello occidentale in Africa Nel racconto del vecchio avoriano vengono poi fuori alcuni elementi obbiettivamente validi che possono giustificare il rifiuto del modello di sviluppo occidentale nel contesto africano. L’elemento fondamentale risiede nell’argomentazione antropologica. La proposta del modello occidentale, frutto dei pregiudizi e della violenza antica non ha tenuto conto dell’integrazione o del rispetto dei valori ancestrali africani. Viene accusato a più riprese ( in questo discorso dell’anziano ) lo spirito mercantile e viene evocato più volte lo spirito di gratuità che caratterizza profondamente l’anima africana e che va direttamente allo scontro con lo spirito dell’economia di mercato, base dello svolgimento delle attività atte allo sviluppo economico e sociale. Il discorso di Tidiane Diakite dimostra quanto sia difficile far passare a lungo termine i progetti di sviluppo nelle aree rurali sul modello proposto p.es. nell’ipotesi franceschettiana. Il successo di tali progetti esige in ogni un previo lavoro di studio antropologico da parte degli operatori ed inseguito d’inculturazione delle proposte nella realtà indigena africana. Non solo penso anzitutto che occorre far un lavoro di riconciliazione con i ceti degli intellettuali africani, i quali sono pieni di pregiudizi verso l’uomo occidentale e quindi sono secondo i responsabili occulti o dichiarati del fallimento o del successo di molti progetti. Ecco perché secondo me, , oltre alle conoscenze tecniche e ideologiche che portano in Africa, risulta necessario agli operatori dello sviluppo occidentale, essere informati sui contenuti del contenzioso storico che oppone uomini africani ( soprattutto gli intellettuali e i politici ) all’Occidente. IL problema che si pone rimane quindi quello della contestualizzazione non meramente sociologica delle proposte di sviluppo ma della loro inculturazione. Si tratta di far penetrare 59 i contenuti delle ideologie e proposte progettuali di benessere nel tessuto mentale degli uomini e donne che vivono al Sud del Sahara. Cerco qui di dare alcune linee guida di questa problematica che è complessa e che va trattata ampiamente in altre sedi. Parlerò anzitutto della difficoltà dell’unicità o unitarietà della cultura africana, ed inseguito indicherò gli elementi costitutivi dell’unitaria cultura di tutti gli uomini dell’Africa nera subsahrariana che è il contesto della nostra trattazione. III.4.1 Il operative Le Afriche: diversità continentali e difficoltà “Con quale approccio ci si può avvicinare all’Africa, sterminato continente di 30 km2?”, si domanda un articolo dell’Annuario Stato del Mondo (52). Il suo anonimo autore avanza –sempre ipoteticamente- sei criteri di approccio, nello stesso tempo offre risposte e considerazioni che valgono la pena d’essere segnalate. Il nostro autore si chiede, in primo, ci si può avvicinare l’Africa con un’approccio inerente al paesaggio? Risponde. L’unico elemento unitario è l’unità geologica, testimone dell’originaria terra di Gondwana. L’orizzontalità domina nei bacini sedimentari(Niger, Ciad, Alto Nilo, Congo, Kalahari) e nelle distese degli altopiani poco elevati dell’Africa occidentale. A questa monotonia si contrappone l’Africa delle “Terre Alte”:mentre la zolla si è sollevata dall’Etiopia ai Drakensberg, è invece sprofonditata nella Rift Valley, sommersa dai grandi laghi, Tanganika, Malawi, Kivu… Alle fratture sono connessi i vulcani più alti: Kilimandjaro, Kenya, Virunga, mentre a nord si profila l’Atlante più giovane. In secondo luogo: con un approccio climatico? Risponde. Tra la grande umidità delle zone equatoriali e l’aridità estrema dei deserti del Sahara, del Kalahari, del Namib e del Corno d’Africa esiste tutta una serie di clima intermedi. La contrapposizione tra alisei continentali e monsoni oceanici da una parte e la differenziazione secondo le altitudini presiedono alla distribuzione delle piogge. Agli estremi, il Maghreb e la Provincia del Capo spiccano per caratteristiche mediterranee. Ne deriva un mosaico di formazioni vegetali, dalla foresta pluviale al deserto, che degrada in foreste secche, savane e steppe. In terzo luogo: con un approccio antropologico? La distribuzione della popolazione è dovuta alla diversità delle risorse ambientali. Il forte popolamento di alcune zone costiere(Africa del Nord, Abidjan), della Nigeria, della Valle del Nilo, delle terre Alte, costituisce un elemento originale in un contesto in cui dominano basse densità demografiche. Alle zone umide di produzione di tuberi nelle terre di montagna, contrastano con i popoli di pastori del Sahel, costretti alla mobilità. Tale 60 approccio induce un ripiego ancestrale sull’etnia che alimenta le immagini più irrudicibili del continente: i Masai, i Peul, i Tuareg, i Pigmei, i Boscimani, i Dogon, i Zulu. In quarto luogo: secondo il retaggio coloniale? La conoscenza dell’Africa è rimasta a lungo frammentaria. Le coste e le isole sono entrate a far parte degli spazi commerciali delle civiltà antiche, poi degli europei e dei cinesi. Il Nilo è servito da via di penetrazione alle dinastie egizie che si sono spinte fino in Nubia. La prima conquista continentale è stata quella del mondo arabo nell’Africa del Nord, che ha diffuso l’islam tramite le vie commerciali dal Sahara fino ai “paesi dei neri”, in Ghana, Mali, nelle città haussa e fino a Zanzibar. Poi gli olandesi si sono insediati nell’Africa del Sud. Nel XIX° secolo, i grandi fiumi, Congo, Niger, Senegal, Zambesi, hanno consentito le scoperte dei missionari. In Tal modo Livingstone, Brazza e Stanley –tra gli altri- hanno aperto la via alla conquista militare . Il congressso di Berlino(1884) ha posto fine alla competizione tra europei procedendo a una divisione coloniale per zone d’influenza. In quinto luogo: con un approccio statale? Risponde. L’indipendenza è intervenuta a partire dal 1960. I separatismi regionali hanno trionfato a scapito del panafricanismo. La dipendenza dall’estero è cresciuta con la guerra fredda; molte ribellioni sono state soltanto dei conflitti per procura tra URSS e Stati Unti. Alcuni paesi hanno tentato la soluzione marxista o socialista rivoluzionaria(Guinea, Tanzania, Ghana, Egitto, Mali, Congo, Algeria), ma tali progetti si sono trasformati spesso in dittatura individuale e del partito unico. Nella maggior parte dei casi, ha continuato a permanere il clientelismo rispetto all’antica potenza tutelare. La situazione attuale del continente è ampiamente tributaria dell’organizzazione istituita all’epoca coloniale: frontiere tracciate nel vuoto, predominio dell’islam a Nord a partire del Sahel, frattura tra paesi anglofoni, francofoni e lusofoni, permanenza della zona del Franco, persistenza della gestione basata sulla rendita delle economie nazionali, importanza degli spazi costieri e delle città a detrimento dell’intero e delle zone rurali. Infine: con un approccio basato sull’attualità? Risponde concludendo. All’incrocio tra l’apporto delle società autoctone e del modello importato coesistono molteplici realtà. Benché la crescita demografica sia ancora forte (2,6% l’anno), tuttavia sono percepibili i primi sintomi di una transizione. L’esplozione urbana (più del 600% tra 1950 e 1980), alimentata dall’esodo rurale, contraddistingue la fine del millennio. Gli embrioni di città costituiti dalla colonizzazione sono diventati metropoli (Johannesburg, Il Cairo, Kinshasa, Lagos, Abidjan), centri di potere, dove sono concentrate le strutture sanitarie e della formazione sommersa sempre più attiva. Miseria e opulenza convivono e nel frattempo si delineano nuove solidarietà e la contestazione dei poteri autoritari e dei clan predatori. Con la 61 crisi degli Stati, la violenza ha guadagnato caratterizzando, a torto, tutto il continente. terreno, Tuttavia è vero che numerosi colpi di Stato e rivolte, creando il caos, hanno di ridotto gli aiuti allo sviluppo al puro fatto umanitario e hanno prodotto stanchezza nei finanziatori. Ciononostante compaiono nuove entità: in Nigeria e in Sudafrica sta emergendo una classe ambiziosa che potrebbe polarizzare i paesi a Sud del Sahel. Cosa accadrà nel Zaire? Intanto l’Africa del Nord, isolata dal resto del continente dal Sahara, non è forse nell’orbita dell’Unione europea? L’Africa, pedina minore sullo scacchiere economico mondiale, resta sostanzialmente sotto controllo sia che il suo futuro dipenda dall’applicazione dei programmi di riassetto strutturale imposti dal FMI, della ricomposizione delle influenze oppure dall’emergere di élite nazionali competenti e responsabili. Malgrado l’afro-pessimismo che la caratterizza dall’inizio alla fine, questa pagina dell’Annuario è utile nella informazione generale sugli elementi geopolitici e socio-economici generali più caratterizzanti della situazione del continente africano nel suo insieme. Tantissime sono però le sue affermazioni discutibili che non possiamo qui rilevare. Mi sono chiesto tra altro come mai l’autore non ha potuto richiamare nella sua analisi ed approfondirli, gli elementi legati agli approcci etnologici ed antropologici? Credo che probabilmente il filo conduttore della sua riflessione consisteva nel dimostrare il dramma socio-politico che sta attraversando il continente africano in questo periodo. Non importa. La cosa più spiccante da rilevare è che non è facile parlare del continente africano come una unità omogenea. Quando si parla d’Africa, quando si lavora in Africa, quando si scrive sull’Africa, occorre tener presenti le peculiarità dei soggetti e specificare i contesti. Vuol dire, in ultima analisi, che una cultura africana unitaria non esiste? La mia opinione, che è quella della maggioranza degli studiosi antropologi è che malgrado le innumerevoli differenze di tradizioni, usi e costumi, un fondo comune di cultura percorre tutte le civiltà africane, intendendo dire quelle dell’Africa nera subsahariana. III.4.2 Uomini neri d’Africa: la loro anima, la loro cultura Quando dico ”uomini neri d’Africa” alludendo così alla situazione geografica dei soggetti in discussione, lo faccio appositamente in riferimento agli “uomini neri d’America” o “d’Asia”. La differenza antropologica, cioè non si situata all’aspetto morfologico epidermica ma sta nel profondo. Nei modi di sentire, di pensare la vita e l’universo, di organizzarla. La differenza sta quindi al livello mentale e culturale. 62 Il modo di atteggiarsi dinanzi alla morte e di vivere il lutto per il nero d’America che vive in Florida rispetto al nero d’Africa che vive in Senegal rimangono sostanzialmente uguali e diversi rispetto all’uomo nero che vive in India. Metto quindi in risalto alcuni elementi che diano informazione sull’identità culturale dei beneficiari dello sviluppo, nel frattempo parlo anche delle loro implicazioni sul profilo umano degli operatori di sviluppo. Vedremmo anzitutto l’origine del termine “nero”, per avere esatta conoscenza dello stereotipo razziale ed affrontarlo in modo sereno in campo operativo; e alla fine metterò in risalto alcuni elementi pilastri, le “costellazioni cardini” della cultura africana tradizionale. III.4.2.1 scura. Del termine “ Nero” applicato agli uomini di pelle Prima di tutto sta in una errata e xenofoba interpretazione biblica. Canaan indica nel XVI° s. av.C. una popolazione urbana e commerciante della costa mediterranea, nelle parti dell’Egitto ( allora chiamata Kemi ). Era una popolazione degli uomini di pelle scura. L’interprete yawhista ideologo riavvicina Canaan a Cham e agli abitanti di pelle scura dell’antico Egitto e fa designare i Neri i “ discendenti di Cham il Maledetto “, soddisfacendo così gli ideologi xenofobi del suo tempo! Da allora ( XVI av. C. ) tutti gli uomini di pelle scura furono chiamati secondo le diverse idiote “ Neri “, “ carbonati “. In secondo luogo, sta in un trasferimento linguistico dell’antico greco e dell’ebraico classico. Ci lo rivela lo storico egittologo il senegalese Cheik Anta Diop(53). Cheik fa una analisi e da spiegazione di queste parole : “ In Ebraico antico Kham che è nome del figlio di Noe proviene dalle radici Khum che significa marrone; Khom ch vuoldire calore; Khama che vuol dire il caldo, il sole “; mentre in Egiziano antico: Cham proverebbe da Khem = nero, carbonato; e da Ham = caldo, nero. In tale contesto linguistico è ovvio che gli abitanti di pelle scura dell’Egitto antico, del Kham, non potevano che essere i discendenti di Canaan il maledetto; essi rappresentano la razza destinata all’inferno, maledetta. In terzo luogo, c’è la parola “ Etiopia “ che fu usata dagli antichi Greci per designare quella parte del mediterraneo con abitanti di pelle scura . La parola “ etiopia “ nell’antico Greco significa “ faccia bruciata, nera “. Da allora anche per i Greci, gli Etiopici furono tutti gli uomini di pelle scura. Per porre rimedio a queste aberranti interpretazioni e portare la verità utile alla convivenza tra razze, il pensatore CHARLES PASCAL offre concilianti riflessioni nelle sue pubblicazioni sul tema(54). Nelle sue conclusioni Charles rivela che la maledizione di Cham, figlio di Noe, non ha nulla a che fare con la vita e la 63 storia dei Neri africani, anche per il fatto che tale maledizione non ha nessun fondamento nella Scrittura. Quest’ultima parla di “ peccato di Cham “, certo; ma la maledizione che fa cadere Noe tornato addirittura dalla sua ubriachezza “ non è su Cham che cadde, è su uno dei figli di Cham: su Canaan eccetto su tutti li altri “ . “ Veramente –scrive Charles- i negri dell’africa di oggi non avevano a che vederecon quella vicenda “. Quindi una forzatura ideologica è l’interpretazione della maledizione noachica! III.4.2.2 L’anima nera: le sue costellazioni implicazioni sul profilo dell’operatore outsider cardini e ed Si tratta di una comune visione dell’uomo e del cosmo che ha radici antichissimi, occulti nella plurimilennaria storia del continente e che ha resistere alla dominatrice invasione della cultura occidentale ed oggi delle culture orientali. E’ quel fondo comune di cui parliamo al singolare in termini di “ cultura africana “. Ho detto che esiste “ una cultura una e plurima “; esiste una “ cultura unitaria “ e non unica(55). Dagli studiosi non africani, venuti da fuori, con cervelli ed occhi preclusi dal loro universo mentale, quella realtà culturale africana è stata concepita e chiamata con ogni appellazione peggiorativa: cultura primitiva, cultura dei clan e delle tribù o ancora vuoto di cultura. Invece io osservo ed affermo che una cultura tipicamente africana, un modo di pensare e di organizzare il vissuto tipicamente africano, esiste e c’è. Esso, secondo le parole di Elungu Pene Elungu, riveste le caratteristiche di una totalità esistenziale, totalità in movimento (56). Abbiamo studiato e scoperto ormai che la storia ha creato, tra quei popoli dell’Africa subsahariana di età differenti, di collocazioni geografiche differenti, una visione del mondo e della vita più o meno omogenea dove i modi di pensare, di sentire, di atteggiarsi dinanzi ai fenomeni più caratteristici della vita come l’esistere, il nascere, il soffrire, il morire, ecc…, assimilano uomini, etnie e tribù africane gli altri. Perciò nessuno si stupisca mai nell’osservare che malgrado le legislazioni ed organizzazioni moderne statistiche, il potere politico in Africa rimane e rimarrà ancora concepito ed esercitato come un potere clanico e tribale, mistico e misterioso, di origine sopranaturale. Sottolineo quindi il fatto che al di là di ogni considerazione delle particolarità, c’è e ci deve essere una considerazione delle generalità accomunanti. Tali generalità, usando il linguaggio del teologo congolese Oscar Bimwenyi Kweshi, le ho chiamate le costellazioni-cardini della cultura tradizionale africana. Le costellazioni-cardini costituiscono ciò che il sociologo chiama i fatti-tipi. Il filosofo antropologo li chiama la forma di pensiero, che corpo e materia ai fatti sociali. Le costellazionicardini costituiscono il modo tipicamente africano di concepire la vita e di atteggiarsi dinanzi ai suoi fenomeni come la disgrazia, 64 la malattia, la vecchiaia, la comunità, la persona umana, il Sacro, la morte, il celibato, la prole, etc. Le costellazionicardini sono i pilastri mentali e concettuali intorno ai quali sono stati elaborati e tradotti in usi e costumi le varie realtà della vita da parte degli antenati che li hanno poi stampati nella tradizione orale, mediante i miti, le leggende, i proverbi, le fiabe, le storie, i canti, etc. Vale la pena menzionare le costellazioni più rilevanti a titolo di orientamento della riflessione sull’universo africano di operatività per lo sviluppo. Offrire questi elementi pur in modo assai breve come lo faremmo è come rispondere alla domanda fatta all’inizio della prima lezione: “l’africano: chi è “, al di là della specificità geografica ed epidermica che ovviamente lo identifica nel pianeta? Sono tante le costellazioni, ne menzioniamo soltanto quattro ai fini della nostra lezione. III.4.2.2.1 La costellazione del primato e l’onnipresenza della forza vitale Gli antropologi hanno definito questa costellazione in termini di “vitalismo antropocentrico relazionale” quale elemento più unitario delle culture africane; talmente unitario che fa di queste culture africane una “cultura” africana. Secondo molti pensatori, il vitalismo antropocentrico relazionale costituisce il principale filo conduttore della cultura africana nelle sue varie ramificazioni tradizionali. E’ intorno al vitalismo antropocentrico relazionale che si è costituito un castello culturale formato da tanti altri elementi che definiamo “cardini” della concezione africana dell’uomo e del cosmo. . Qualche autore lo designa come “panvitalismo”. Per ogni africano che nasce, cresce e vive nelle terre del Sud del Sahel, tutti gli esseri possiedono un principio misterioso, occulto, che li mantiene in perenne movimento, in vita, che li anima e li fa animatori di altri. Si tratta di una energia fluida, naturale, trasmettitrice della forza di sussistenza che il Padre Tempels chiamò forza vitale, e che è presente in ogni essere. Sta nelle piante, nelle pietre, negli animali, negli uomini di questa terra visibile, in quelli della terra invisibile, e soprattutto negli dèi. La credenza in questa sostanza animatrice presente dovunque porta l’africano a considerare che ogni essere possiede la vita e fa vivere. Donde l’idea filosoficamente formulata di panvitalismo e di animismo. Il fatto di vedere in ogni ente una realtà animata ed animante. Ecco perché gli Africani considerano la presenza del Sacro in ogni essere esistente, dalle pietre agli alberi della foresta, che considerano come animati non perché si muovono -nel senso della cosmologia occidentale- ma per il semplice fatto che esistono, “sono lì”, e quindi possiedono ciascuno la propria forza vitale(57). Il missionario belga, Placide Tempels, è considerato come uno dei primi pensatori a formulare, in maniera nello stesso 65 astratta e concreta, questa constatazione riguardante l’attaccamento quasi viscerale degli Africani alla vita. Questa vita alla quale sono così attaccati, Tempels crede che la concepiscono come forza, la forza vitale. “Sappiamo, scrive il nostro missionario, come l’animo ed il pensiero sono concentrati su questa realtà unica: la vita, la forza, il rinforzamento dell’essere e come tutto l’animo si è avverato non essere che un’aspirazione verso la vita piena e forte, l’essere” (58). Se tale visione è fondata, ciò spiega il relazionismo animistico presente nelle popolazioni africane. Quando arrivi in alcuni villaggi dell’Africa, ti diranno che tale foresta non è coltivabile, tale albero non si può tagliare, tale pietra non si può toccare, quel bosco è abitato da spiriti buoni, quell’altro dai cattivi e quindi non la si può coltivare; tale pianta trasmette forze mistiche; tale sorgente d’acqua ne trasmette di più, etc… Secondo l’osservazione di Tempels ormai condivisa da vari antropologi, nella visione africana tradizionale, questa forza la quale è suscettibile di accrescimento o di diminuzione, non abita solo negli uomini, ma anche in tutti gli altri esseri. Questi hanno ciascuno la capacità di trasmetterla ad altri secondo le peculiarità specifiche a ciascuno. Si pensa soprattutto che la trasmissione della forza vitale segua la dinamica della successione gerarchica degli esseri nel tempo storico. Ecco perché l’anzianità è un elemento fondante delle relazioni tra uomini nel mondo africano. Ci torneremmo. Come implicazioni, consiglio all’operatore dello sviluppo di usare la legge della gradualità d’approcci nel proporre le varie attività del progetto. Inoltre egli deve armarsi di senso di umiltà, di pazienza e di umorismo di fronte agli atteggiamenti delle persone locali. E’ bene non pregiudicare o disprezzare gli usi e costumi delle popolazioni locali. Occorre ascoltare, ascoltare e ascoltare. Ascoltare con atteggiamento di amore, accompagno gli interlocutore con atteggiamento non da sapiente civilizzatore o da modernista rivoluzionario. Tale atteggiamento è stato quello assunto negli anni della colonizzazione; e ne conosciamo i tristi risultati. Occorre saper tener il silenzio di giudizio su alcuni fatti sociali posti dai vostri interlocutori e che vi possono sembrare “strani” e forse anche freno alle vostre proposte mentre per loro sono questione di vita e di morte. Evitare contrasti verbali sui quei argomenti, specie con gli intellettuali del luogo. E’ meglio suggerire le proprie proposte, con semplicità di linguaggio e d’atteggiamento. Consiglio anche di non generalizzare i giudizi e le considerazioni con parole tali: “ io non vi capisco voi altri”; “siete ancora molto indietro, siete primitivi”; “se mi capite rimarrete tali per secoli, o fate come vi dico io o oppure niente, piego i mie bagagli e vi lascio”. In caso di divergenza di 66 vedute su un argomento, se veramente l’operatore è ben convinto della solidità ed efficacia del proprio punto di vista per il successo del progetto, è bene proporre magari con gradualità di tempi e delicatezza di linguaggio, fermandosi sul particolare argomento e in discussione, e mai generalizzare attaccandosi all’assetto culturale globale degli interlocutori. Dico tanto perché ho visto molti operatori piegare bagagli e tornare in Europa forzatamente o volontariamente prima della fine del mandato ricevuto. Molti perché l’imprudenza li porta ad alimentare conflitti con gli intellettuali o leaders politici locali, si creano così nemici e rendono difficile l’ambiente sociale della loro opera. III.4.2.2.2 La costellazione dell’assolutezza dell’essere umano Al centro della concezione della vita e dell’esperienza africana del cosmo c’è l’uomo, e non le cose, gli oggetti, e nemmeno l’Essere, il Dio. L’uomo però non è, secondo gli Africani, un essere isolato né separabile dal cosmo, dagli altri esseri esistenti. Egli è in comunione profonda con loro. Si tratta della cosiddetta “comunione cosmica”. Per l’Africano di ogni tribù, etnia o lingua, tutto è e esiste per l’uomo; tutto l’universo è stato, creato e organizzato a misura dell’uomo e non il contrario. L’uomo non può essere a servizio di nessuna altra realtà dell’universo, mentre ogni realtà è e deve essere al servizio dell’uomo. Dobbiamo tuttavia star attenti perché il fatto di considerare la natura cosmica come una realtà in profonda comunione ontologica con l’uomo porta gli Africani ad un ambientalismo tradizionale che alcuni osservatori considerano come freno allo sviluppo economico, e di cui parleremo nelle pagine che seguono. Ciò si spiega per il fatto quando si arriva in ogni villaggio africano, bisognerà saper che ci sono tradizioni, usi e consuetudini che regolano in modo preciso lo sfruttamento delle savane e foreste. Ci sono spazi coltivabili e spazi non coltivabili; ci sono tempi di lavoro e tempi di astensione al lavoro secondo per esempio il ciclo delle lune, delle stelle, del sole, etc. Sono usi di cui tener conto quando si va in un villaggio perché i paesani ci credono fermamente. Attivare i progetti ed organizzarli secondo i calendari e la cosmogonia esclusivamente occidentali può essere una violenza e violazione che avranno conseguenze nefaste sulla sostenibilità del progetto nel futuro. Ritorniamo all’uomo. Secondo il parere di alcuni pensatori, la religione nel contesto africano tradizionale, non è una contemplazione di Dio, una ricerca delle cose divine fuori dal mondo, ma una maniera per l’uomo di assicurarsi la vita qui in terra, di comprendersi nella sua posizione nel cosmo. Affermazioni discutibili ma che implicano solo l’antropocentrismo come fondamento mentale della visione africana del reale. 67 Riporto alcune affermazioni di illustri pensatori africanisti su questo punto. Alfred Kagame, che è tra i primi promotori della filosofia bantu africana, parlando dell’antropocentrismo nella cultura tradizionale africana, ha scritto in un articolo che lo ha reso famoso: “Vado ad enunciare una eresia, arrivando nella mia conclusione ad una religione di cui Dio non è il centro. Tale è invece la religione dei Bantu… Dio gioca un ruolo determinante in questa religione. Ma i Bantu hanno stimato che il Creatore stesso aveva istallato l’uomo al centro della religione… Il fine ultimo del “muntu”(uomo africano) non è Dio, ma l’ottenimento di tre beni essenziali all’uomo, quelli della fortuna, della persona(salute, onori, longevità), e della prole. Le categorie del Ntusimo sono costituite partendo dall’uomo: l’uomo è l’essere che agisce dall’intelligenza, gli altri si definiscono con riferimento a lui. Da cui il detto: gli esseri-senza-intelligenza sono la proprietà degli uomini” (59). Dopo il suo studio presso l’etnia dei Dogon, Zahan è arrivato alla stessa considerazione, e scrive: “A tutti livelli, la posizione centrale dell’uomo si trova così affermata. Questo antropocentrismo del pensiero religioso dei Dogon costituisce la migliore cauzione della sua coerenza e della sua unità“(60). Ngindu Mushete, che è nella stess linea d’idee afferma: “Si può caratterizzare la religione africana come una religione fondamentalmente antropocentrica. Ogni espressione, ogni approccio religioso ha per finalità essenziale la condizione umana”(61). Infine, secondo Holas che ha condotto un interessante studio presso l’etnia Bété: “La filosofia religiosa bété è identificabile nello stesso tempo dal suo antropocentrismo e dal suo dinamismo…Nell’Africa nera, è l’uomo che è l’Assoluto: l’uomo appare come il valore fondamentale, il valore primo, intorno al quale gravitano tutti i problemi”(62). Le affermazioni di questi autori sottolineano a sufficienza la centralità dell’essere umano nella visione africana del cosmo e della vita come tale. In tale contesto gli operatori dello sviluppo dovranno essere vigili nel proporre le loro idee. SI consideri tra altro il fatto che l’africano non dà al guadagno e quindi il lavoro il primo posto nella sua mente e nella sua organizzazione sociale come per esempio lo è qui in Italia. L’Africano non potrà mai capire il dettato dell’Articolo 1 della Costituzione della Repubblica italiana, che recita: “L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”. L’Africano non potrà mai accettare che la sua vita dipenda dal lavoro; per lui, è il lavoro che dipende dalla sua vita. III.4.2.2.3 La costellazione della relazione “io-in”, “io-con” Preciso che questo antropocentrismo africano non è del tipo occidentale. Quest’ultimo è un antropocentrismo con configurazione individualistica e dualistica: considera l’uomo come soggetto individuale capace di tutto da sé stesso; padrone del mondo; che deve sfruttare al proprio beneficio esistenziale. L’uomo africano invece non pone dinanzi a sé la natura, il cosmo, gli altri 68 esseri. Non li oggettiva. Anzi, l’uomo africano natura cosmica come uno dei membri di questo africano, centro di ogni cosa, non è un individuo essere essenzialmente comunitario e relazionale. parla dell’antropocentrismo relazionale. si pone nella universo.L’uomo isolato, ma un Ecco perché si Possiamo così capire perché l’ospitalità viene generalmente considerata come peculiarità più caratteristica dell’anima africana. Per l’Africano, ogni uomo, essendo uomo, essere identico a me stesso, è un fratello. Lo si deve accogliere, nutrire e poi dopo far domande sulla sua origine. In tal senso gli operatori vedranno che quando arrivano nei villaggi africani, vengono immediatamente accolti, salutati con gioia; qualche volta immediatamente invitati a pranzo, a cena, da persone appena conosciute. Mentre in Europa, quando s’incontra una persona per la prima volta, dopo un saluto spesso senza stretta di mano o forse senza mai salutarla, ci si interessa anzitutto alle sue origini, alle sue provenienze, e spesso anche al suo atteggiamento esterno. Ci si chiede se è bello, brutto, ben vestito, mal vestito, simpatico, antipatico, etc. Nel mondo rurale africano, non è così. Tale atteggiamento non viene tollerato. Anzi viene condannato. Mentre nelle relazioni nell’Europa latina per esempio, si parte da Lei e successivamente si arriva al Tu, dopo esperienze di vita condivise, in Africa si va immediatamente al Tu. III.4.2.2.3.1 Implicazioni onto-antropologiche della relazione Lo studio più tecnicamente antropologico ci porta a due categorie di considerazione della costellazione della relazione, ovvero “ la relazione interpersonale, io-con; e la relazione intra-comunitaria io-in. L’io-con implica la relazione nel senso verticale e quindi la gerarchia degli esseri; l’io-in implica la relazione nel senso orizzontale. La vita di relazioni nelle sue due sfere e specialmente nella sfera verticale ha portato l’anima nera africana a vivere costantemente il suo mondo come un universo dove gli esseri gerarchizzati. Nel mondo dei visibili: 1°. Il cosmo: è il primo nato del cosmo; esso ha preceduto l’uomo; l’uomo è nato sul suolo, e quindi ha trovato il cosmo già esistente; gli deve ogni rispetto; ecco perché si parla facilmente in Africa della “ Madre-Terra “; 2°. Gli anziani ed i genitori: sono i secondi esseri del mondo visibile, che dopo la terra, hanno preceduto l’uomo; 3° I primi nati, siano essi della propria famiglia o di altre famiglie o tribù: anche loro hanno visto il sole prima di me e quindi gli devo ogni rispetto; 4°. Gli esseri inferiori; sono: a) gli uomini post-nati cioè i nati dopo di me; b) gli oggetti fabbricati dalle mani umane; c) gli esseri del cosmo come per esempio le piante od altri prodotti realizzati dal lavoro umano. 69 Nel mondo dei non visibili: 1°. I defunti; 2°. gli Antenati; 3°. gli dèi; 4°. il Dio Creatore. Da questa descrizione emergono alcune considerazioni di fondo in relazione alla nostra tematica. La prima. Vivere, per l’uomo africano, è vivere in comunione con tutti questi esseri, ma nel rispetto assoluto delle norme che regolano tali relazioni. Porsi in isolamento, sia nel villaggio, sia nella foresta o nella savana, per l’Africano, è già morire. Una delle pene più capitali che si possa infliggere ad un reo africano è isolarlo dalla sua comunità. Il giudizio che porta sui suoi compaesani in materia della relazionalità, l’africano lo imputa anche all’operatore straniero. Nella scelta degli operatori da inviare in Africa, occorre tener presente il fatto che l’apertura e la relazionalità debbano distinguere il profilo psicologico ed umano dei partenti. Chi non è naturalmente dotato di relazionalità, sia sufficientemente allenato all’apertura verso gli autoctoni. Ogni proposta fatta agli indigeni verrà presa in considerazione o rigettata secondo il giudizio che essi hanno dell’operatore sull’operatore in materia di apertura relazionale. La relazionalità con gli uomini è la chiave per aprire la porta di ogni cuore e di ogni casa degli africani. L’esperienza mi ha insegnato l’importanza di questa considerazione, al punto tale che consiglio gli operatori o cooperatori nei progetti di sviluppo di porre in atto ogni possibile gesto che esprimi non falsa e superficiale simpatia – perché la gente se ne accorge- ma profondo affetto, amicizia ma forse anche amore nei confronti degli individui e gruppi delle località di lavoro. Una presenza ad un funerale, una visita ad un ammalato del villaggio, una discreta assistenza finanziaria ad un collaboratore o un paesano bisognoso p.es. di cure mediche o d’istruzione del figlio ma sprovvisto di mezzi, etc…, sono gesti che valgano e contano più di tante sedute di lezioni sullo sviluppo sostenibile. Ho visto anche molti operatori guadagnarsi stima e considerazione e quindi garanzie psicologiche per il successo delle loro iniziative quando, dopo essersi fatti alcune amicizie, vanno comunque a stare insieme alla gente del villaggio alcune serate intorno ad una tassa di vino bianco tradizionale, locale. Su questo punto do un altro consiglio frutto dell’esperienza. Sconsiglio gli operatori outsiders di legarsi pubblicamente in amicizie particolarmente intime con singole persone del villaggio o comune di residenza per il progetto. Proprio perché tale legame comprometterebbe il loro operato. Per esempio: gli amici ed i nemici dell’amico locale possono facilmente diventare amici e nemici dell’operatore, con tutte le conseguenze che possiamo immaginare; l’operatore outsiders è per gli autoctoni come una “giovane donna” libera come tutti o tanti uomini desiderano avere 70 come compagna, una volta che si lega ad uno solo, tutti gli altri si allontanano. Inoltre, legarsi ad una sola persona o famiglia implica il rischio di limitare la propria libertà di pensiero e di azione, di comprometterla con i pareri dell’amico che a lungo andare può diventare un consigliere buono o cattivo, etc. Ancora più grave e meno consigliato è legarsi in amicizia di particolare affetto con persona di altro sesso, uomo o donna della località di lavoro. E’ meglio che tale rapporto sia chiaramente, ufficialmente conosciuto; altrimenti tale fatto potrebbe compromettere gravemente tutto il progetto perché il contesto tradizionale è un contesto ancora legalista e moralista al massimo. L’operatore ha successo nelle sue proposte non solo per le sue capacità tecniche professionali ma anche per il suo prestigio morale. La seconda considerazione. La relazione vivificante in Africa ha nel Dio Creatore e negli dèi il suo punto più cardine. L’Africano, dico bene ogni Africano, è fondamentalmente religioso. L’Africano prega e prega sempre. Prega prima di zappare la terra; prega di cominciare la caccia. Perché per lui la vita, tutta la vita con i suoi averi e doveri è stata donata. Donata dai genitori mentre loro stessi l’hanno ricevuta dai loro genitori. Il percorso mentale porta a considerare fermamente che dopo gli antenati, primi ed antichissimi donatori e protettori della vita, c’è un essere antico più antico di tutti, che si chiama Dio, il Mvidi Mukulu, il Dio più antico degli dèi, secondo i Baluba del Congo-Kinshasa. Quel Dio, che è Creatore e nello stesso tempo Padrone e Giudice dell’uomo, rimane la principale fonte fornitrice dell’energia vitale. Egli in grado non solo di produrre tale energia, forza vitale, ma anche di aumentarla, diminuirla o spegnerla al suo volere. Nel frattempo egli protegge la medesima vita mantenuta con la sua forza contro le forze malefiche visibili od invisibili, come gli stregoni, i gelosi ed invidiosi, gli spiriti del mondo occulto, etc. Con tale concezione l’Africano vive di preghiera: questa è concepita come luogo di comunicazione con i divini ed il Divino per ottenere le necessarie forze utili per ogni circostanza particolare e per la permanente protezione. Ecco perché anche il lavoro agricolo od ogni attività di produzione della ricchezza che è benedizione degli spiriti creatori e protettori, non possono essere avviati e svolti senza ricorso alle divinità e alla Divinità per eccellenza. Pertanto è auspicabile che gli operatori dello sviluppo outsiders tengano ben conto di questa peculiarità nell’esercizio delle loro menzioni. Qualcuno di loro se non credente od indifferente si risparmi di nuocere al proprio lavoro offendendo in parole od atteggiamenti le pratiche degli individui o gruppi locali che sono generalmente e fondamentalmente religiosi. 71 Si sappia che uno sviluppo senza ricorso al Dio creatore è una realizzazione senza avvenire. Per le popolazioni africane, lo sviluppo è sostenuto e durevole in Africa se i partecipanti sono ben consci che dalla sua ideazione alla realizzazione, ogni pratica è radicata nel volere del loro Dio. Tale consapevolezza viene maturata quando gli operatori ed i partecipanti hanno costantemente fatto ricorso al divino nelle loro prassi. Perché per i locali africani è durevole, solo quella realizzazione che è voluta e sostenuta dal Creatore. Un’altra considerazione che comunico su questo punto sta nel fatto che l’operatore outsider dovrà aver un atteggiamento di libertà, di indifferenza nei rapporti con le persone locali sugli aspetti dello confessione religiosa. Nell’Africa dei villaggi, incontrerete tra i vostri interlocutori persone di varie confessioni: animasti, cristiani cattolici o protestanti, musulmani, uomini delle sette religiose, etc… L’operatore ousiders se è credente dovrà usare di saggezza perché la sua religiosità non limiti il circolo delle sue relazioni. La sue fede lo deve portare ad essere amico di tutti, una persona superparte, perché il progetto di sviluppo è una realtà che raduna tutti gli abitanti della località. Queste segnalazioni trovano argomentazioni più tecniche nei discorsi di alcuni antropologi africanisti. Secondo Joseph KiZerbo: “La filosofia africana è familiare a visioni e spiegazioni globali dell’universo. Sono grandiosi sistemi dove tutto trova posto, dal volgare insetto fino al demiurgo fabbro del cosmo”(64). Ancora più esplicito al riguardo, è Ndaw, secondo chi, “non esiste il bisogno di dominare il mondo, ma un sentimento di alleanza tra l’uomo e la terra, una sorta di comunione con la natura e se sentimento di equilibrio e di armonia, mantenuto con vigilanza grazie ad un insieme di tecniche e di riti compensatori… civiltà dell’accordo dell’uomo con l’ordine universale e l’ordine sociale” (65). Viene da pensare ad un francescanesimo tradizionale africano, dove uomini ed esseri naturali non intelligenti si ritrovano fratelli con un stesso padre, il Dio Creatore ed una stessa madre, la Terra. Stiamo attenti, perché si tratta soltanto di una coincidenza ontologica e non fenomenologia. Sappiamo bene ed abbiamo visto come la superiorità dell’uomo sulla natura viene esaltata nel pensare africano. Molti sono i pensatori che concordano nell’affermazione secondo cui una delle caratteristiche più essenziali della cultura africana sta nella centralità od il primato del valore della relazione. J. Kenyatta, dopo lunghissimi anni di studio sui contenuti della civiltà degli uomini del Sud Sahara, dichiara in conclusione: “La chiave di volta di questa civiltà è il sistema tribale, che si basa sul gruppo familiare e sui gradi di età nei quali sono integrati gli uomini, le donne ed i bambini che compongono la società… Non c’è un individuo isolato: egli è anzitutto il parente ed il concittadino di un gran numero di 72 persone; la coscienza che può avere della sua “unicità” gli appare come un fatto secondario… Possiamo riassumere dicendo che se per l’europeo l’individualismo è un ideale di vita, per l’africano l’ideale è di stabilire giusti rapporti tra gli individui”(66). Secondo Gravrand: “La definizione della nozione della personalità africana, deve comportare due elementi: un “io” ed un “io comunionale”, un “io in comunione”. Un “io”…in vivo contatto con il cosmo, con il mondo invisibile, con il gruppo”(67). Oscar Bimwenyi Kweshi precisa: “Il muntu è un essere di relazioni. Per i bantu questo uomo è essenzialmente un membro”(68). Secondo Joseph Ki-Zerbo: “Uno degli elementi di base della personalità africana , è il suo spirito collettivista. L’individualismo è agli antipodi della mentalità negra tradizionale”(69). Quanto a Magona: “Ogni individuo è libero… Ma tale libertà cede il passo agli interessi di gruppo. A questo livello nessun disordine viene tollerato”(70). Occorrerà quindi per l’operatore di sviluppo, cercare di conoscere le regole fondamentali del contesto dove è chiamato a lavorare, perché il progetto non sia disintegrato dalla vera realtà mentale e culturale dei suoi beneficiari e portatori. III.4.2.2.3.2 Implicazioni socio-economiche della relazione La relazione intesa come luogo di scambi interpersonali vitali implica che in realtà nella società esiste una ramificazione di rapporti tra uomini, di cui essi vivono e in cui si promuovono vicendevolmente, secondo le varie sfere dei rapporti sociali. La vita familiare è evidentemente fatta di relazioni tra generazioni che si succedono e tra alleati. La fraternità di sangue, la relazione di paternità-filiazione, la relazione primogenito-cadetto, sono scrupolosamente rispettate e forniscono un punto di riferimento a molte altre relazioni. Ci sono poi le alleanze con lo scambio di sangue; le relazioni di classi di età, quelle tra colleghi di un consorzio iniziatici, o che appartengono ad una stessa società segreta; relazioni importantissime al punto tale che, in certe società tradizionali africane, un individuo espulso dalla sua classe di età, viene espulso anche dalla sua famiglia. In Africa, non esiste peggiore sanzione penale superiore all’isolamento. Si tenga presente che generalmente nell’Africa tradizionale la pena di morte per un reo non esiste. E’ utile segnalare anche il fatto secondo cui le relazioni di parentela si estendono al di fuori dei legami biologici. Un vero amico di famiglia viene totalmente inserito e diventa membro di famiglia a quasi tutti gli effetti. L’operatore outsider non si stupisca nel vedere che un nascituro di una famiglia amica porti i suoi nome e cognome ( di quell’operatore ). La vita economica è fatta, anche essa, di relazioni di solidarietà. In Africa, l’individuo è raramente e pochissime 73 occasioni economicamente autonomo. Il lavoro agricolo si fa spesso in comune. Le donne si alleano tra membri del clan, tra amiche e lavorano a turni reciproci nei rispettivi campi dalla coltivazione al raccolto. Il lavoro si fa meglio in gruppo al ritmo dei canti melodicamente proporzionati. Popoli della musica e della danza, gli Africani lavorano raramente in silenzio. Inoltre, in queste società dove vige la differenziazione armonica tra sessi e età, le donne hanno le loro tipologie di lavoro e strumenti così come gli uomini. Tradizionalmente, la zappa era lo strumento riservato alla donna per lavorare la terra delle savane mentre l’accetta era lo strumento riservato all’uomo, per tagliare gli alberi delle foreste, che richiedono più energie fisiche. Cambiati i tempi, oggi non esiste mai più distinzione, ma in linea generale, la donna tradizionale rimane legata alla zappa e l’uomo all’accetta. Una altra sfera di relazioni è quella della vita politica. Anche essa è fatta di rapporti ma più gerarchizzati. Certamente le società africane non presentano lo stesso grado di concentrazione di potere, d’interdipendenza politica. In quel contesto tradizionale, l’individuo è molto dipendente dagli altri; egli è preso in una gerarchia serrata che limita al massimo i suoi movimenti nel pensare e nell’operare. Il sentimento di sudditanza è molto determinante negli individui africani. Sudditanza rispetto all’anziano in età fisica; sudditanza nei confronti del superiore in termini di ruoli o funzioni sociali stabiliti. In Africa, ogni cosa è al proprio posto come ogni persona mantiene il proprio rango. Come implicazione nella nostra tematica, sottolineo questa peculiarità interessantissima nella distribuzione dei compiti nell’ambito dell’organizzazione dei progetti di sviluppo. Non basta la qualifica accademica per meritare il dovuto rispetto da parte dei suoi sudditi. In Africa, oltre la qualifica, l’età fisica e forse anche l’appartenenza naturale ad una casta di comando ha un valore quasi fondamentale per il successo nell’esercizio del potere. L’ideale sarebbe di trovare un responsabile o capo-progetto che sia accademicamente qualificato mentre è naturalmente più avanzato in età od in posizione sociale rispetto agli altri. Concludo a questo livello la descrizione delle costellazionicardini della cultura tradizionale africana. Non ho potuto trattarne tutte, ne ho selezionato soltanto quelle che hanno rapporto diretto con la problematica dello sviluppo umano durevole in terra africana. Per ampie informazioni, rimando il lettore al mio libro già citato “L’Africa che canta la vita”. 74 Elementi conclusivi generali Nel suo libro “Une utopie post-tiersmondiste. La dimension culturelle du développement», Marc Poncellet“(71) considera che la principale causa del non raggiungimento degli scopi di progetti di sviluppo in Africa sta nella incapacità o distrazione delle scienze sociali e dell’economia dello sviluppo di “ metter in conto la dimensione culturale dello sviluppo “(72). Secondo me il futuro dell’ideologia dello sviluppo umano sostenibile riposa proprio su questa sfida. Gli diamo ragione Particolarmente per quanto riguarda l’Africa, come abbiamo già detto i progetti di sviluppo essendo portati agli uomini e donne che hanno tutta la peculiare realtà ontologica, storica e sociale nonché psicologica, occorre che gli operatori abbiano tutta la competenza non soltanto tecnica ma anche e soprattutto antropologica. Il Padre Luciano Sandrin, in un buonissimo libro, “ Capire e aiutare il malatto “(73) consiglia agli operatori sanitari di usare la strategia seguente perché il trattamento sia efficace: prima di tutto , far enorme sforzo per conoscere la biografia del malato ( la diagnosi psicologica antropologica ) e inseguito far la diagnosi bio-fisiologica e passare allora se necessario al trattamento. Per quanto riguarda l’applicabilità del modello occidentale in Africa, dopo la necessità dell’approccio intellettuale e storico nel dialogo con la realtà, il secondo ed importante livello è quello dell’importanza della previa e profonda conoscenza della cultura africana tradizionale. Nessuno può vivere o operare bene in un contesto che ignora. Mi sforzo qui di presentare alcuni elementi costitutivi della personalità mentale ( “ la mentalità “ ) e culturale ( “ la cultura “ ) degli individui e collettività africane con lo scopo di aiutare alla costruzione del bagaglio degli operatori che andranno nelle zone africane. Nelle aule di lezioni o nelle semplici discussioni,sento spesso parlare dell’Africa e degli Africani come di una unità monolitica dal punto di vista culturale. Oggi non è più facile di parlare di cultura africana tout court. Andar a lavorare tra i Bamiléké del Camerun non sarebbe la stessa di andare a lavorare dai Baluba del Congo ex Zaire. Sposarsi con una donna tutsi non implica vivere con lei nella stessa maniera con cui un altro amico vivrà con la sua sposa hutu dello stesso Rwanda. Ai fini del nostro corso, lascia a parte le divergenze di ordine socio-culturale che implicherebbero lungaggini di ricerca e discorsi. Anzitutto desidero indicare quando parlo di “Africa” qui, intendo le popolazioni situate al Sud del Sahara, generalmente chiamate l’Africa nera; lascio da parte l’Africa del Nord di cui la matrice culturale generale è arabo-islamica e di cui il grado di civiltà è ben diversa da quello della prima 75 Africa. In secondo luogo, palerò dell’Africa subsahariana come di un insieme. Tuttavia richiamo ancora i lettori a sapere che i Bassar del Togo non hanno socialmente molto in comune con i Tuareg del Sénégal; che la suddivisione delle stagioni di lavoro dai Pigmei delle foreste del Congo-Kinshasa hanno poco da condividere con i sistemi dei Kanuri della Nigeria. Non dimentico neppure il fatto che ogni Stato africano, a causa della propria situazione storica, economica e sociale si confronta con altri in peculiarità ben specifiche. Ho cercato quindi d’isolare gli elementi di divergenze segnalando che sono ben importanti da considerare, ma in sede sociologica. Nella dinamica di una riflessione antropologica culturale che mira a fornire elementi di valutazione per le attività di promozione globale delle popolazioni, mi riferisco al mio libro “L’Africa che canta la vita “. Metto in sintesi i vari elementi che costituiscono l’unitarietà e parlo allora di profilo culturale degli africani beneficiari dei progetti di sviluppo come di una realtà omogenea. Trattandosi però di una riflessione scientifica, mi permetto di sollevare la problematica dell’unitarietà culturale degli Africani, prima di darne gli elementi suggestivi utili agli operatori dello sviluppo. E’ ora di guardare al positivo e quindi superare il contenzioso storico in vista di una serena collaborazione tra uomini d’Africa e uomini d’Occidente per la costruzione di una nuova umanità. Al mio parere, l’Occidente ha ormai integrato l’Africa e quindi gli Africani nei processi della costruzione del nostro pianeta. Benché il cammino sia ancora lunga e ci sia ancora molto da fare, abbiamo alcuni piccoli fatti ed eventi che devono portare al rasserenamento dei rapporti e quindi ad una proficua collaborazione. La Tratta e la colonizzazione permisero ai figli degli africani d’istruirsi. Ecco che all’inizio e alla seconda metà del XX° s. ( anni 1930-50 ) nacquero molti movimenti di lotta contro il razzismo e successivamente, negli anni 1960 contro la colonizzazione. Così in America lo slogan “ Black is beautifull “ conduttore della lotta non violenta di Martin Luther e in Europa la Negritudine di Léopold Sédar Senghor e Aimé Césaire, veicolata nella loro rivista L’Etudiant Noir con sede a Parigi, etc…, portarono alla riconquista della dignità onto-antroplogica globale negata in passato. Negli anni 1950, Senghor che fu ormai Professeur in uno dei prestigiosi Istituti di studio di Parigi, si sposò con una donna bianca francese e fu successivamente eletto Deputato al Parlamento francese. Benché continuato nell’Apartheid in Africa del Sud, lo stereotipo razzistico fu sconfitto in Africa del Sud medesima con la elezione di Nelson Mandela a Capo di Stato, dove ha guidato con estrema dignità un paese composto da bianchi e neri. Nel frattempo, nel 76 1994 l’egiziano Boutros Boutros Ghali fu eletto Segretario Generale delle Nazioni Unite e fu poi succeduto dal danese Koffi Annan che ne è a capo fino ad oggi; mentre il Direttore Generale della FAO è Jacques, un nero africano di origine senegalese. In Vaticano guidano importanti dicasteri della Chiesa Universale, due africani: il beninense Bernard Gantin, ex Prefetto della Congregazione per i Vescovi e il nigeriano Francis Arinze, Prefetto del Pontificio Consiglio del Dialogo intereligioso. Tanti fatti illustrativi dell’avvenuto riconoscimento delle capacità dell’uomo africano da parte del partner occidentale e quindi la presenza di un contesto favorevole alla chiusura del contenzioso storico ed una collaborazione fraterna per il bene del pianeta in cui africani ed occidentale sono chiamati per naturale responsabilità ad operare con una mentalità di amicizia, amore e fratellanza. La triplice negazione che comunque vige ancora nell’immaginario collettivo ha indebolito psicologicamente l’uomo nero, creando in lui degli stereotipi che gli fanno considerare l’uomo bianco, l’occidentale e la sua civiltà come entità suprema, ideali da perseguire e raggiungere per stabilire dignità e benessere in terra. Il più grande incubo e il più gran mito, l’idolo dell’uomo nero africano è tra altri l’uomo bianco, è l’occidente. In un libro molto interessante lo scrittore congolese Kä Mana dice che uno dei grandi che l’Africano deve distruggere è dopo la sua “ Tradizione “, “l’Occidente “(74). I nuovi operatori dello sviluppo nell’Africa contemporanea, se vogliono davvero portare successo ai progetti di realizzazione di uno sviluppo umano sostenibile integrato devono far anche opera di educazione sui questo fondamentale aspetto psicologico dei destinatari del progetto. 77 78 Note 1)Molte informazioni che vi comunico su questa problematica dell’evoluzione della dottrina dello sviluppo mi provengono da DIZIONARIO DELLA GLOBAZZAZIONE. LE IDEE E LE PAROLE DELLO SVILUPPO, a cura di BOSCARO, A., Zelig, Editore, Milano, 2002 . 2)LANZA, A., Lo sviluppo sostenibile, Il Mulino, Bologna, 1997, p. 14. 3)KABOU, A. Et si l’Afrique refusait le développement?, L’Harmattan, Paris, 1991 . 4) Vedi SACHS, W., Dizionario dello sviluppo, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1998 5)Op. cit., p. 244. 6)UNDP, 1990, Human Development Report 1990, cap. 1, box 1.1, p. 10. 7)FRANCESCHETTI, G. & FUSETTI, G., Lo sviluppo sostenibile. Un’ipotesi progettuale in una Regione Africana, Ed. Unipress, Padova, 1993, p. 11 8)cfr IBID.. 9)DIZIONARIO DELLA GLOBALIZZAZIONE, op. cit., p. 249. 10)Citato da LANZA, A., Op. cit., p. 15. 11)Cfr LANZA, A., Ibid., p. 19 . 12) cfr GERSCHENKRON, A., Il problema storico dell’arretratezza economica, Einaudi, Torino, 1974; ROSTOW, W. W., Gli stadi dello sviluppo economico, Einaudi, Torino, 1962 . 13)PREBISCH, R., The economic Development of Latin America and its problem in United Nations, New York, 1950; FURTADO C., Teorie dello sviluppo economico, Laterza, Bari, 1972; FRANK A.G., Sociologia dello sviluppo e sotto-sviluppo della sociologia, Lampugnani-Nigri, Milano, 1970. 14)cfr LEWIS, A. W. – SINGH, S. P., ( a cura di ), L’economia dei. Paesi sottosviluppati, Feltrinelli, Milano, 1966; - LEWIS, A.W., La pianificazione dello sviluppo, Feltrinelli, Milano, 1968; IDEM, Teoria dello sviluppo economico, Il Mulino, Bologna, 1973. 15)ROSSITO C., Un’idea di progresso “ non filosofica “ nell’antica Grecia , in AA.VV., La categoria del progresso fra mito e realtà, Libreria Gregoriana – Ed. Euganea Comunicazioni, Padova, 1988, p. 39 . 16) cfr MONDOLFO, R., La comprensione del soggetto umano nell’antichità classica, La Nuova Italia, Firenze, 1958, pp. 629739 ). 17) Ibid. p. 635. 18)cfr EDELSTIN, L.,L’idea di progresso nell’antichità classica, Il Mulino, Bologna, 1987; ed. originale: The idea of Progress in Classical Antiquity, The Johns Hopkins Press, Baltimore, 1967 19)The Ancient Conception of Progress, in ID., The Ancient Concepì of Progress and Other Essays on Greek Literature and Belief, At the Clarendon Press, Oxford, 1973, pp. 1-25 20)ARISTOTELE ED ALTRI, Divisioni, introduzione, traduzione e commento di ROSSITTO, C., Antenore, Padova, 1984, p. 93. 79 21)cfr MUTSCHMANN, H., Divisiones quae vulgo dicuntur Aristoteleae, praefactus edidit testimoniisque instruxit, in Aedibus, B.G. Teubneri, Lipsiae, 1907. 22)DIOGENE LAERZIO, III 100; la traduzione è di GIGANTE, M., in DIOGENE LAERZIO, Vite dei filosofi, Laterza, Bari, 1983, p. 131. 23)Questa definizione ci è data da COTTA, A., Le capitalisme, Presses Universitaires Françaises, Paris, 1977, pp. 3-4. 24) IBID., p. 5 25) Citato da BURY, J., Storia dell’idea di progresso, tr. Ital. GIURO ( DI ), V., Milano, 1964, p. 138. 26)L’idea è riportata da SASSO, Tramonto di un mito, op. cit., p. 114. 27)SPINOZA, B., Ethica, I, 18, 28)Per Hegel “ lo scopo assoluto del mondo si adempie nel mondo “ 29) Feurbach parla esplicitamente del “tramonto del cristianesimo” 30) FEUERBACH, L., Necessità di un cambiamento, 1842/43, trad. ital., di ASCHERI, C., De nomine, 1966, n. 19-20, p. 262 31)MARX, K., Thesen über Feuerbach ( tesi XI ): “ I filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi; ora si tratta di mutarlo “ ( “ Die Philosophen haben die Welt nur versischieden interpretiert, es kömmt drauf an, sie zu verändern “ : MARX, K., Frühe Schriften, hrsg. Lieber-Furth, Stuttgart, 1971, vol. II, p. 4. 32)GUZZO, A., Il pensiero di Spinosa, Torino, 1964, p. 285 33)Non a caso Feuerbach nello scritto Grundsätze der Philosophie der Zukunft vede in Spinoza “ Il Mosè moderno dei liberi pensatori e dei materialisti “; sul punto vedi FEUERBACH-MARX-ENGELS, Materialismo dialettico e materialismo storico, introd., trad. e note a cura di FABRO, C., Brescia, 1964, p. 45. 34)L’affermazione è riportata da STORIG, H.J. Breve storia della filosofia, trad. it. Di POCAR, E., Milano, 1955, p. 341. 35)BURY, Storia dell’idea di progresso, p. 119. 36)IBID., p. 118. 37)LOWITH, K., La fatalità del progresso, in Storia e fede, trad. it. di A. MAZZONE, A. e POZZAN, A.M., Bari, 1985, p. 152. 38)Per questi paragrafi, mi riferisco ovviamento al già citato libro di FRANCESHETTI G. & FUSETTI, G., Ibid. pp. 115 ss. 39)cfr SHAMUANA MABENGA, J., L’Africa che canta la vita, Ibid., cap. XIII ) 40)IBID., pp. 115 e 121 . 41)FRANCESCHETTI G. & FUSETTI, G., Ibid, p. 116. 42) cfr SHAMUANA MABENGA, J., Ibid., 43) Per ampie informazioni sulla storia dell’Africa subsahariana, vedi JOLLY, J., Histoire du continent africani ( des origines à nos jours ), 2 t., L’Harmattan, Paris, 1989; BIMWENYI, O.K., Discours théologique négro-africain. Problèmes des fondements, Présence Africane, Paris, 1981 . 44) Op. cit. 45)Vedi FONTETTE ( DE ), F., Le racisme, coll. Que sais-je?, Ed. Presses Universitaires Françaises, Paris, 1975, p. 39 . 46)Su queste affermazioni, leggi KESTELOOT, C., Antologie négroafricaine. Panorama critique des prosateurs, poètes et 80 drammaturges noirs du XXè siècle, Coll. Marabout, Ed. Gérard & C°, Verviers, 1967, pp. 35-36 . 47) LEVY-BRUHL, Race noire, race inférieure, Ed. PUF, Paris, 1789. 48) SHAMUANA MABENGA, J., L’Africa che canta la vita. La cultura africana della vita alla luce dei suoi proverbi, EdUp, Roma, 2000, p. 342 . 49)Vedi KABOU, A., Et si l’Afrique refusait le développement?, L’Harmattan, Paris, 1991: leggere soprattutto la seconda parte “ Le refus du développement “, pp. 92ss. 50)Sul discorso di questo autore, vedi DIAKITE TIDIANE, L’Afrique malade d’elle-même, Karthala, Paris, 1986, pp. 40-41.. 51)DIAKITE TIDIANE, Op. cit., p. 15. 52)Per tutti questi paragrafi riguardanti le diversità continentali, ci riferiamo all’articolo dI STATO DEL MONDO, Annuario economico e geopolitico mondiale, Ed. Il Saggiatore, Milano, 1998. . 53)cfr CHEIK, A.D., nel suo famoso libro “ Antériorité des civilisations nègres. Mythe ou vérité historique, Ed. Présence Africaine, Paris, 1967, pp. 241- 243. 54)cfr CHARLES, P., Les aspirations indigènes et les missions protestantes, in Compte-rendu de la Troisième Semaine missiologique de Louvain, Museum Lessianum, Louvain, 1925, pp. 1728 ; ID, Les Noirs, fils de Cham le maudit, in Nouvelle Revue Théologique, Louvain, 1928, pp. 721-738 . 55)cfr SHAMUANA M.J., L’Africa che canta la vita, Ibid., p. 36. 56)ELUNGU, P.E., Tradition africaine et rationalité moderne, L’Harmattan, Paris, 1987, p. 6 . 57)Su queste tematiche si legga TEMPELS, P., - La philosophie bantoue, Présence Africane, Paris, 1948;- Notre rencontre, Ed. CEP, Léopoldville, 1962; THOMAS, L.V., & Al., Les religions d’Afrique noire. Textes et traditions sacrées, Fayard-Dénoël, Paris, 1969 58)TEMPELS, P., Op. cit., p. 34 . 59)KAGAME, A., La place de l’homme et de Dieu dans la religion des Bantu, in Cahiers des Religions Africaines, Kinshasa, 3, 1969, pp. 8-9 . 60)ZAHAN, D., La viande et la graine, Présence Africane, Paris, 1969, p. 174. 62)NGINDU, M., Propose t problèmes concernant le culte des morts chez les Baluba du Kasayi, in Cahiers des Religions Africaines, 2/4, Kinshasa, 1969, p. 101. 63)HOLAS, B., L’image du monde bété, Presses Universitaires Françaises, Paris, 1968, p. 24. 64)KI-ZERBO, J., L’édification des jeunes nations, AfriqueDocuments, Dakar, 1968, p. 16 . 65)N’DAW, A., Peut-on parler d’une pensée africane?, Présence Africane, Paris, 1966, p. 38 . 66).KENYATTA, J., Au pied du mont Kenya, Maspéro, Paris, 1967, p. 201. 67)GRAVRAND, H., La dignité sérère, in Colloque sur les religions, Présence Africane, Paris, 1962, p. 90 . 81 68)BIMWENYI, O.K., Le Muntu à la lumière de ses croyances en l’audelà, in Cahiers des Religions Africaines, Kinshasa, 2, 1968, p. 83. 69)KI-ZERBO, J., La personnalité négro-africaine, Présence Africaine, Paris, 1962, p. 139. 70)MABONA, A., Eléments de culture africane, Présence Africane, Paris, 1959, p. 120. 71)PONCELET, M., Une utopie post-tiermondiste. La dimension culturelle du développement, L’Harmattan, Paris, 1994, 72)IBID., pp. 20ss . 73)cfr SANDRIN, L., Capire e aiutare il malato, Ed. Camilliane, Torino, 1989 74)cfr KA MANA, L’Afrique va-t-elle mourir? Essai d’Ethique politique, Karthala, Paris, 1994. 82