Lezione di Antropologia applicata allo sviluppo sostenibile

Transcript

Lezione di Antropologia applicata allo sviluppo sostenibile
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*UNIVERSITA DEGLI STUDI DI PADOVA / FACOLTA’ DI
AGRARIA*
-MASTER IN COOPERAZIONE ALLO SVILUPPO NELLE AREE RURALI***********************************
CORSO DI ANTROPOLOGIA APPLICATA ALLO SVILUPPO
Particolare riferimento alle Aree Africane
Tracce delle lezioni – ad uso privato dei corsisti
( Prof. Jonas SHAMUANA MABENGA )
1
Nota
Per mancanza di tempo materiale, il docente non ha riletto né
corretto la bozza del presente testo destinato agli alunni.
Pertanto si consiglia il suo uso esclusivamente interno e quindi
la comprensione per i molteplici errori che l’autore di matrice
lingua francese avrà commesso nell’elaborazione del presente
documento che dovrà servire solo come “dispensa di lezioni”
accademiche, soggetto ad aggiustamenti correttivi.
2
Indice
Introduzione generale
Primo capitolo
L’idea di sviluppo nella dinamica della cooperazione
Nord-Sud: cenno storico
Sez. 1
Lo sviluppo e gli sviluppi: concetto e dottrine di un
paradigma problematico
I.1.1 Il concetto di sviluppo
I.1.2 Dall’economico al sostenibile : percorso della problematica
nell’era contemporanea
I.1.2.1 Lo sviluppo come stato di benessere economico diffuso(anni
’50-60)
I.1.2.2 La prima crisi del modello e l’esordio della critica
dipendentista(anni ’60-70)
I.1.2.3 La crisi degli anni di boom economico e la ricerca di un
nuovo ordine economico mondiale( 1970-80)
I.1.2.4
L’ombrello
all’ombra
del
neoliberismo
di
matrice
anglosassone(anni 1980-1990)
I.1.2.5 La crisi del neoliberismo e l’affermarsi delle idee
reazionarie di umanizzazione e sostenibilità dello sviluppo(anni
1990 ad oggi)
I.1.2.5.1 Sull’idea di sviluppo umano
I.1.2.5.2 Sull’idea di sviluppo sostenibile
I.1.3 L’idea di sviluppo nella teoria degli stadi di sviluppo
I.1.3.1 Teoria degli stadi di sviluppo: quid?
I.1.3.2 Sull’idea di industrializzazione e sviluppo delle società
I.1.3.3 Sull’idea di sviluppo agricolo e sviluppo delle società
Sez.
2
Il
liberal-capitalismo
occidentale di sviluppo
quale
fondamento
dell’idea
I.2.1 Antichi radici del capitalismo occidentale
I.2.1.1 La rivelazione di Rodolfo Mondolfo
I.2.1.2 L’idea di sviluppo capitalista in Aristotele
I.2.1.3 Il perfezionamento dell’idea in Diogene Laerzio
I.2.2 Il liberal-capitalismo dell’era contemporanea
I.2.2.1 La portata dell’idea di capitalismo
I.2.2.2 Le versioni culturali del capitalismo
I.2.3 La laicità del modello occidentale
I.2.3.1 La portata dell’idea di laicità dello sviluppo
I.2.3.2 La singolare influenza di Baruch Spinoza e sostenitori
3
Secondo capitolo
Applicabilità del modello occidentale nelle aree rurali
africane. L’ipotesi francschettiana
Sez.
1
L’itinerario
ideativo
dei
progetti
nell’ipotesi
franceschettiana: riflesso della mentalità occidentale
Sez.
2
Commento
franceschettiano
da
africano
allo
schema
progettuale
II.2.1 Il primato dell’attenzione al “locale”: novità!
II.2.2 L’identificazione occidentale degli ostacoli dello sviluppo
II.2.3 La programmazione occidentale degli obbiettivi progettuali
II.2.4 La pianificazione territoriale stile “occidente”
II.2.5 La strutturazione delle entità sociali stile “occidente”
II.2.6 La concezione della produzione agricola e del consumo,
sfondo occidentale
II.2.7
La
proposta
dell’Ente
coordinatore
locale:
l’occidentopolarizzazione del progetto
Sez. 3 Riassunto sull’ipotesi franceschettiana
Terzo capitolo
Per una riabilitazione della proposta occidentale in
Africa. Il contributo antropologico
Sez.1 Come erano gli Africani prima dell’irruzione occidentale?
Sez. 2 Civiltà e sviluppo occidentali in Africa, conflittualità e
fallimenti: cenno storico
III.2.1 L’errore antropologico e le sue determinazioni sulla
partnership Africa-Occidente
III.2.2
La
triplice
negazione,
stereotipi
e
missioni
civilizzatrici fallimentari
III.2.2.1 Irruzione dei Romani, negazione onto-antropologica,
indebolimento mentale e schiavizzazione
III.2.2.2 Gli Arabi: negazione antropologica, indebolimento sociopolitico e Tratta dei Neri
III.2.2.3 Gli Europei moderni politici: negazione epistemologica,
indebolimento globale e colonizzazione
III.2.2.4 Gli Europei Religiosi: negazione teologica e missione
religiosa civilizzatrice
Sez. 3 Il rifiuto africano dello sviluppo
Sez. 4 La problematica dell’inculturazione dei modelli di sviluppo
4
III.4.1 Le Afriche: diversità continentali e difficoltà operative
III.4.2 Uomini e donne d’Africa: la loro anima, la loro cultura
III.4.2.1 Del termine “nero” applicato agli uomini di pelle scura
III.4.2.2
L’anima
nera:
le
sue
costellazioni
cardini
ed
implicazioni sul profilo dell’operatore outsider
III.4.2.2.1 La costellazione del primato e l’onnipresenza della
forza vitale
III.4.2.2.2 La costellazione della centralità e l’assolutezza
dell’essere umano
III.4.2.2.3 La costellazione della relazione: io-in, io-con.
III.4.2.2.3.1 Implicazioni onto-antropologiche della relazione
III.4.2.2.3.2 Implicazioni socio-economiche della relazione
Elementi conclusivi generali
Note
5
Introduzione generale
Andrete a lavorare in Asia, in America del Sud, in Africa o in
Oceania, in quei continenti dove la maggioranza della popolazione
vive in zone rurali, con basso reddito economico, con usi e
costumi
diversi
dai
vostri,
con
livello
di
analisi
e
interpretazione dei fatti sociali largamente diverso dal vostro.
Andrete come uomini del Nord , come stranieri, outsiders. Sarete
considerati dagli autoctoni come ricchi, opulenti, sapienti,
educatori, “ sviluppatori “. Sì, anche voi stessi vi sentirete
come “ portatori “ di una missione, la missione di annunciatori o
meglio costruttori di sviluppo e di benessere, di educatori alla
vita. Porterete tale sentimento sin dal giorni in cui otterrete il
foglio
di
nomina
e
d’invio
in
missione
da
parte
dell’Organizzazione che vi invierà. Sì, operatori di sviluppo,
cooperatori
allo
sviluppo,
missionari
dello
sviluppo
o
semplicemente “ sviluppatori “ esteri: tali saranno alcuni titoli
che vi imprimeranno, che vi imprimerete nelle coscienze. Vi
sentirete come uomini e donne mandati, partiti da lontano verso le
terre lontane, terre di uomini e donne cosiddetti “ sottosviluppati “, “ in via di sviluppo “, “ arretrati “, ecc…, ai
quali vi sarà affidato l’arduo compito di portare nuove
conoscenze, nuove idee, nuove tecniche e tecnologie per consentir
loro di raggiungere i parametri dello sviluppo. Di quale sviluppo?
Dello sviluppo come vi è stato insegnato come stile di vita sin
dalla vostra infanzia nelle famiglie fino alle scuole, alle
università e nel vostro lavoro. Voglio dire: lo sviluppo di stampo
totalmente occidentale.
Questo corso vi aiuterà ad essere portatori di uno sviluppo che
non sia occidentale ma che sia sviluppo umano, sviluppo di ogni
uomo, di ogni società che andrete ad aiutare. Senza dubbio non
dovrete spogliarvi della vostra identità personale, deel vostro
sentire da uomo occidentale, del vostro sapere, etc… Ma
l’esperienza m’insegna che se vorrete raggiungere davvero li
obbiettivi della vostra missione e vedere il vostro lavoro
continuare dopo di voi, dagli autoctoni stessi, che devono
diventare come i vostri figli, se volete diventare i padri
sviluppatori di quelle aree rurali, dovrete far un salto di
qualità, cioè “ sviluppare “ e “ non occidentalizzare “. Il
problema che si pone agli sviluppatori di oggi non è più quello di
“ sviluppare “ ma di “ saper-sviluppare “, non si tratta più di
costruire
pozzi,
scuole,
ospedali,
campi
agricoli
e
di
allevamento, ecc…, ma di “ saper – farli costruire dagli
autochtoni stessi “ . LO sappiano fare mentre siete con loro, ma
lo sappiano fare da sé stessi in vostra assenza nel breve e medio
e termine e soprattutto nel lungo termine. Il vostro compito sarà
quello di aiutarli a passare dal raggiungimento di un benessere
sociale ricevuto e a quello di un benessere umano individuale
costruito, migliorato da loro medesimi magari in collaborazione
con voi e non più in dipendenza totale da voi. Si tratta di una
preparazione di cui i risultati potranno verificasi a lungo
6
termine ( tra 20/30
protagonisti positivi.
anni
),
ma
di
cui
voi
dovrete
essere
I nostri due corsi di antropologia ( quello del professor Dipak ed
il mio ) vi saranno di utilità nella dinamica di questa concezione
della cooperazione allo sviluppo nel terzo millennio. Il mio è
fondato sull’antropologia filosofica e culturale. Vi aiuterà a
capire che cosa è lo sviluppo, cosa è l’uomo -africano- da
sviluppare; cioè prepararvi a portare uno “sviluppo a misura
d’uomo”, con particolare riguardo a coloro che nascono, vivono e
muoiono al Sud del Sahara, in terra d’Africa; mentre il corso del
prof. Dipak, basato sull’antropologia sociale, vi porterà alla
conoscenza più concreta di alcune società alle quali dovrete
portare idee e saperi dello sviluppo; il suo corso vi aiuterà a
portare uno “sviluppo a misura di società”. Il mio metodo consiste
nella critica antropologica delle concezioni, programmazioni e
realizzazioni dei progetti di sviluppo nel Sud del mondo partendo
da alcune esperienze concrete direttamente vissute da noi medesimi
o da alcuni operatori del nostro tempo.
Il mio corso, strettamente legato a quei dei professori Dipak e
Franceschetti, si articolerà in tre capitoli suddivisi ciascuno in
sezioni intermedi.
Nel primo, mi prefiggo di analizzare anzitutto la portata del
concetto di sviluppo, che è l’oggetto centrale del nostro corso e
del vostro futuro impegno nei paesi del Sud. In modo specifico
farò
un
percorso
analitico-sintetico
delle
varie
vicende
teoretiche, dottrinali, politiche legate all’evoluzione dello
sviluppo nell’era contemporanea. Vi parlerò quindi dello sviluppo
come si è evoluto come paradigma di benessere negli anni’50/60
fino a diventare paradigma di conflitti e contrasti ai nostri
giorni, dove viene disegnato sotto vari e complicate denominazioni
di “ sviluppo endogeno, integrale, umano, sostenibile, etc.”. Si
tratterà per me di raccontarvi la fallimentare storia del mito
dello sviluppo non solo nei paesi del Sud ma anche nei paesi del
Nord. Inoltre mi soffermerò sull’origine occidentale capitalistica
dell’idea di sviluppo. Ho scavato la sua evoluzione, e ho scoperto
che questo mito ha antichi radici nel pensiero filosofico greco
occidentale; e che quindi è figlio nato in alcune terre precise e
che, con il vostro lavoro-di cooperazione- sta emigrando verso
altre
terre,
dove
avrà
sempre
difficoltà
d’inserimento.
Trattandosi però di una lezione nell’ambito di un Master, darò
brevi flash / cenni di queste interessatissime tematiche,
rinviandovi a letture e ricerche di approfondimento in altre sedi.
Questa lettura storia ci porterà all’esame dell’applicabilità del
modello occidentale in terre africane. Volendo che il mio corso
fosse pratico e logico, ho fatto scelta di inquadrare il suo
contenuto nell’ambito di altri corsi che vengono già svolti da
altri docenti, in modo da aiutare i nostri alunni ad un unico
pensiero ed orientamento dottrinale. Desidero poi che un giorno
7
nel futuro, la comunità internazionale e le scienze della
cooperazione allo sviluppo parlino della “Scuola di Padova” come
di un circolo scientifico e culturale che una sua visione, un suo
orientamento, un suo stile della cooperazione allo sviluppo che
vorrà proporre all’umanità del terzo millennio. Ecco perché ho
quindi scelto di legare direttamente le mie lezioni a quelle del
professor Giorgio Franceschetti che vi parlerà o vi avrà già
parlato della “cooperazione allo sviluppo”. Egli avendo pubblicato
un’opera in materia di cooperazione allo sviluppo nelle aree
africane, ho scelto quel suo libro e quel suo pensiero come
documento di riferimento principale per una lettura critica sulla
proposta di applicabilità del modello occidentale nelle aree
rurali africane. Potevamo scegliere anche qualche altro autore, ma
per me, è un dato provvidenziale aver proprio l’ideatore e
l’organizzatore del master che è nello stesso tempo autore e
docente, come fonte di ricerca, di analisi, di studio della
problematica: valorizzare, cioè una nostra risorsa interna.
Proprio perché abbiamo allora la possibilità di un contatto
diretto, di un confronto diretto sulla trattazione di questa
problematica per l’interesse dottrinale ma soprattutto pratico dei
partecipanti. Il motivo più tecnico per cui dovremmo riferirci
alla pubblicazione di Franceschetti come fonte di studio sta nel
fatto che la visione che il professor padovano offre sulla
problematica della cooperazione allo sviluppo nelle zone rurali dl
Sud del Sahara, con auspicio di uno sviluppo che può essere
sostenibile
soltanto
grazie
alla
sua
fondazione
nella
collaborazione reale, genuina tra cooperatori e comunità locali
africane, è quella che trova consenso oggi nei circoli dei
pensatori e delle agenzie od organizzazioni internazionali
specializzate.
Infine nel terzo capitolo che è la parte più originale del mio
corso, dopo aver rilevato le difficoltà di applicabilità del
modello occidentale in terre africane e quindi i suoi risultati
fallimentari,
prendo
la
mia
“chiave”
culturale,
cioè
“l’antropologia da africano”. Elaboro quindi una critica di
matrice
antropologica
non
più
soltanto
sull’offerta
franceschettiana ma sull’insieme della proposta occidentale per
dimostrare le ragioni antropologiche dei permanenti e ripetuti
fallimenti dei progetti di sviluppo di stampo occidentale in terra
africana. Il mio obbiettivo essendo quello di riabilitare la
proposta occidentale nell’Africa del terzo millennio –perché
prendo atto del fatto che pur rifiutando le modalità con cui viene
proposto, il modello occidentale rimane quello in voga e nel
desiderio degli africani di oggi- faccio un percorso della storia
dell’incontro Africa-Occidente, e cerco di dar ampie informazioni
formative che credo utili ad armare di scienza e sapienza i
giovani corsisti avviati alla nuova cooperazione nelle aree
africane. Qui quando parlerò di Africa, si intenda quella al Sud
Sahara. Non tratterò dell’Africa settentrionale, per la sua
specifica diversità culturale di matrice arabo-islamica e la sua
singolare storia che esige una trattazione particolarizzata in
8
altre sedi. Comunque le differenze culturali delle due Afriche non
annullano le identità di povertà socio-ecomiche e politiche delle
popolazioni del continente. Ecco perché parlare di povertà
nell’Africa subsahariana suppone ipso facto parlarne per l’Africa
del Nord.
In questo importantissimo e principale capitolo del corso, cerco
di preparare i corsisti a dover operare in senso che lo sviluppo
da loro proposto sia uno sviluppo degli africani e non
dell’Africa. Sia esso uno sviluppo con gli Africani, con gli
Occidentali. Tale tesi che sostengo in modo assai breve in queste
lezioni si radica nella mia visione della cooperazione allo
sviluppo, che si fonda sull’identità ontologica del genere umano e
quindi
i
fondamenti
antropologici
della
cooperazione
allo
sviluppo.
Tenendo poi conto del carattere pratico del corso,
esulo la mia trattazione dalla speculazione filosofica, e quindi
la lettura antropologica che faccio e propongo è di matrice
culturale, si tratta di antropologia applicata, allo sviluppo
degli uomini e donne, delle popolazioni e società concrete situate
al Sud del Sahara, quelle di oggi, reali, che i corsisti
incontreranno. In questo capitolo cerco di indicare il profilo
umano, psicologico e il bagaglio culturale, conoscitivo , la
saggezza la sapienza cioè che devono aver i tecnici occidentali
destinati alla realizzazione di progetti di sviluppo nelle aree
africane di oggi.
9
Introduzione alla prima lezione
(Lo scopo è di rilevare il contenuto dell’immaginario individuale
e collettivo del gruppo dei partecipanti, al fine di ben orientare
le lezioni).
Cominceremmo la prima lezione con un interrogatorio – indagine sul
bagaglio dei partecipanti riguardo alla tematica ponendo alcuni
quesiti a cui devono rispondere in gruppetti:
Gruppo 1: Secondo voi, che cosa significa un’area rurale e quali
sono le sue caratteristiche generali?
Gruppo 2: Secondo voi, quali sono le principali problematiche
specifiche del mondo rurale africano?
Gruppo 3: Secondo voi, che cosa è l’uomo ( nero ) africano;
quest’uomo si svilupperà mai, perché?
Gruppo 4: Secondo voi, , quali sarebbero le strade da percorrere
per favorire uno sviluppo umano sostenibile nelle aree rurali
africane?
Gruppo 5: Secondo voi, quali sono le principali caratteristiche
del modello di sviluppo occidentale; tale modello vale per tutto
il pianeta, perché?
Gruppo 6: Secondo quanto da voi studiato, quali sono i fattori
limitanti di molti progetti dello sviluppo nelle aree rurali
africane o americano-latine; ovvero perché molti progetti di
sviluppo portati dall’Occidente raggiungono gli obbiettivi e poi
non li mantengono a lungo termine?
Gli studenti portano le risposte e il docente li tiene per conto
proprio, per studiarle personalmente e farne uso per le lezioni
che seguiranno.
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Primo capitolo
L’idea di sviluppo nella dinamica della cooperazione
Nord-Sud: cenno storico
Quando una persona sollecita un impiego o quando viene ingaggiata
in una impresa, la prima cosa che fa è cercar informazioni
adeguate sull’impresa in questione, le sue attività, i suoi metodi
di lavoro, le sue strategie, la sua storia e quindi evoluzione nel
tempo, ecc… Ciò serve per poter inserirsi e offrire al meglio i
servizi che gli vengono richiesti e per dar il proprio contributo
al miglioramento della sua azienda. Ora voi sarete impiegati in un
modo od in altro o volete impegnarvi in una azienda bella,
potente, problematica e fondamentale per le sorti del nostro
pianeta. Si chiama “ la cooperazione allo sviluppo “, di cui i due
termini intorno ai quali ruoterà il vostro lavoro sono chiaramente
espressi: la cooperazione e lo sviluppo. Mentre il professor
Franceschetti vi ha eccellente già parlato della cooperazione in
generale, in questo primo capitolo -un po’ noioso- del nostro
corso, mi è sembrato doveroso portarvi alcune informazioni di base
sul concetto dello sviluppo intorno al quale vi prestate ad andare
operare nelle zone rurali dei paesi poveri.
Cosa vuol dire la parola “sviluppo”? Da dove nasce, come è evoluta
come concetto e come paradigma di civiltà? Sono domande cui
cercheremmo di rispondere anche se in modo non del tutto
esauriente ma almeno in linea generale per una previa informazione
sull’oggetto del nostro corso.
Segnalo anzitutto che l’idea di sviluppo è naturalmente insita
nella mente di ogni uomo, di qualsiasi razza, lingua e nazione.
Dico bene “l’idea” e non “il concetto”. Perché l’idea è un dato
dell’intuizione naturale di ogni essere dotato di razionalità;
voglio dire di ogni uomo. Mentre “il concetto” è una formulazione
sistemica,
non
solo
logia
ma
dialogica
dell’”idea”.
Filosoficamente parlando il concetto implica una categorizzazione
ormai più scientifica dell’”idea” all’interno di un insieme
dottrinale
orientativo.
Nel
nostro
corso
parleremmo
dello
“sviluppo” non come “idea” ma come “ concetto”, come “categoria”.
Dopo molte ricerche, debbo affermare che se lo “sviluppo” trova
casa nella mente di ogni uomo, come “categoria” di riflessione, di
ricerca,
di
dottrina
e
soprattutto
come
paradigma
del
posizionamento sociale degli uomini nel pianeta, questa “idea” è
stata
promossa,
sistematizzata
come
oggetto
del
sapere
scientifico,
del
potere
tecnologico
nella
degli
uomini
d’Occidente. La storia non si nega.
E’ necessario conoscere la storia del sistema che si vuole
universalizzare, importandolo per forza o per necessità nei paesi
così detti “ giovani “ e veramente giovani rispetto alle vecchie
nazioni del globo. Questo paragrafo è interessante per usare
11
cautela e comprensione nell’ideazione e realizzazione di progetti
di sviluppo nei paesi diversi dalle nazioni occidentali. E’
importante anche per il fatto che quando arriverete nei PVS sarete
guardati
con
sospetto
dagli
intellettuali
locali.
Vi
considereranno come propagatori del capitalismo occidentale nelle
zone africane, latino-americane o asiatiche. Qualche volta sarete
chiamati non solo a realizzare opere di sviluppo di stampo
capitalistico ma anche a insegnare nelle scuole, università, a
tener conferenze, riunioni, a far da consulente a responsabili di
governo o delle associazioni specializzate, ecc… Tutto ciò perché
l’operatore dello sviluppo viene considerato dalle popolazioni
come un “ savant “, un “ sapiente “, conoscitore globale e
enciclopedico delle cose anche perché è bianco, un muzungu, anche
perché viene dall’Europa, ha studiato in Europa, quindi sa tutto.
Cosa direte del capitalismo, dello sviluppo? E’ interessante per i
sistemi sociali come per gli esseri viventi conoscerne solo le
tipologie caratteriali ma anche il loro curricula vitale, il
cammino che li ha portati ad essere quello che sono. Per capire il
capitalismo di oggi alle volte qualificato di “ selvaggio “,
occorre saper da dove proviene.
In questo capitolo ho cercato di scavare gli archivi della
filosofia dello sviluppo e abbiamo scoperto che l’idea dello
sviluppo confermatasi nel modello occidentale ha radici lontane e
vicine. Lontane sono quelle che si fondano nel pensiero degli
antichi greci; vicine sono quelle comunemente conosciute e situate
nell’età moderna industriale. Insisteremmo di più sulle origine
antiche che sono spesso dimenticate dalle nuove teorie mentre sono
loro l’archetipo del pensiero moderno e contemporaneo.
12
Sez.1
Lo sviluppo e gli sviluppi: concetto e dottrine
di un problematico paradigma di civiltà
Mai come ai nostri giorni la parola “sviluppo” si è così diffusa
nelle
discussioni,
nelle
letterature,
nei
discorsi,
nelle
politiche, ecc… La concezione più in voga è quella di considerare
lo sviluppo come stato di benessere e di assenza di miseria specie
economica. In realtà non è così. In questa sezione, cerchiamo di
esaminare
in
modo
assai
approfondito
il
concetto
oggetto
principale del nostro studio e del nostro futuro impiego.
I.1.1
Il concetto di sviluppo
Il termine “sviluppo” che nasce per parlare di “crescita,
progresso” nel senso sociologico ha la sua origine in una branca
particolare
delle
scienze
sociali
chiamata
economia
dello
sviluppo. Questa disciplina, da parte sua nasce nel preciso
contesto storico-politico del dopoguerra; e nasce in Occidente.
Ora sappiamo bene che il dopoguerra è fu caratterizzato dalla
ricostruzione dell’economia e del benessere degli Stati in Europa
e ben presto (anni 60) dalla contrapposizione dei blocchi
catturati dalla guerra fredda, mentre si avviava ormai il processo
dell’obbligata decolonizzazione dei paesi detti emergenti. Questi
ultimi e quindi le loro problematiche d’inserimento nel circuito
reclamavano non solo politiche specifiche ma anche ideologie ed
istituzioni specifiche, in grado d’interpretare, affrontare e
risolvere i loro specifici problemi. Il più gran problema era
sinteticamente quello del raggiungimento dello stato di benessere
sociale, economico e il grado di civiltà politica dei paesi
avanzati. E’ in questo quadro di discussioni che nacque poi la
scienza dell’economia dello sviluppo, e con lei nacquero le
braccia operativa dell’allora neonata Organizzazione delle Nazioni
Unite,
cioè
la
International
Bank
for
Reconstruction
and
Development nota come Banca Mondiale, e il Fondo monetario
internazionale ( International Monetary Fund IMF ).
Nelle pagine che seguono, quando farò la critica storica dell’idea
di sviluppo, ritornerò sul contenuto di questo concetto. Per il
momento
desidero,
per
motivi
d’illustrazione
del
pensiero
nell’ambito di una lezione accademica come la nostra, far con voi
un percorso -sia esso breve- dell’evoluzione ideologica del
concetto
di
sviluppo
che
ci
ha
poi
portato
all’attuale
problematica dello “sviluppo umano sostenibile” (1).
I.1.2 Dall’economico all’umano sostenibile: il percorso dottrinale
dello sviluppo nell’era contemporanea
Nata come paradigma del benessere economico materiale delle
società, l’idea di sviluppo è stata recuperata da varie scienze al
di fuori dell’economia che ne è la madre. Essa ha quindi dominato
13
non solo le riflessioni dei sociologi ed economisti ma anche
quelle dei politici, antropologi, filosofi, di uomini e donne
della sfera operativa come le Organizzazioni governative, non
governative e dell’opinione pubblica. Proprio perché da paradigma
di benessere, lo sviluppo era ed è ormai diventato paradigma di
civiltà o forse di vita in generale.
Dal punto di vista dottrinale, l’idea di sviluppo ha percorso
cinque grandi periodi che hanno determinato le ideologie che
possiamo così esaminare.
I.1.2.1
Lo
sviluppo
diffuso(anni’50-60)
come
stato
di
benessere
economico
Nell’economia
dello
sviluppo,
gli
anni
1950-1960,
sono
tecnicamente chiamati “anni dell’ottimismo”. Perché sono gli anni
del cosiddetto “boom economico” nell’Europa occidentale. Sono anni
della grande ripresa e crescita economica generalizzata nel
mercato europeo ed americano che trascinano poi l’andamento
dell’economia mondiale anche sé i giovani paesi stavano ancora
alla finestra. In quel periodo, ci dice l’economista italiano
Lanza Alessandro, con il termine “ crescita o progresso “, si
intendeva “ infatti l’incremento del prodotto interno lordo ( PIL
) pro capite di un paese “(2).
Alcuni tratti caratterizzano la concezione dello sviluppo di
quella epoca:
1°. Lo sviluppo era quindi più il problema delle entità
macrocosmiche, designate in vari termini di “stati”, “nazioni”,
“paesi”, “società”, “popoli”, etc… Beneficiato dalle persone,
dagli “individui”, lo sviluppo era l’affare dei “paesi”, degli
“Stati”, delle “nazioni”. L’attenzione alle singole persone era
una cosa del dibattito dei filosofi e degli antropologi. Gli
economisti si preoccupavano delle entità globali.
2°. Lo sviluppo era uno stato di benessere economico nell’ambito
di regimi politici detti “democratici”, a sistemi economici detti
“dell’economia del mercato”. LO sviluppo riguardava quindi il
blocco dei paesi dell’economia del mercato, cioè i paesi “liberalcapitalisti”. La critica parlerà di uno sviluppo di stampo
economista liberal-capitalista.
Quella concezione nutrita e sviluppata dalle ideologie politiche
frutto dell’antagonismo nato e pervaso tra gli Stati nemici e
Stati amici nell’ambito della seconda guerra contribuì alla
divisione del globo anche dal punto di vista economico e non solo
politico o culturale. Gli ideologi dello sviluppo cioè gli
economisti dello sviluppo contribuirono così alla divisione del
già diviso mondo politico-culturale in tre blocchi anche dal punto
di vista economico: il primo mondo, rappresentato e costituito dai
paesi occidentali liberal-capitalisti con alto reddito pro capite;
il secondo mondo, cioè il mondo ad economia pianificata con
nazioni a reddito pro capite globalmente alto ma con regimi
14
collettivisti; il terzo mondo, composto da Stati con reddito pro
capite basso, e regimi politici a cavallo tra democrazia liberalcapitalista e regimi social-collettivisti. Quei paesi venivano
designati con vari stereotipi che li distanziavano dai “paesi del
benessere”:
paesi
“
sotto-sviluppati”,
“arretrati”,
“meno
avanzati”,
“meno-sviluppati”,
“in
via
di
sviluppo”,
“meno
industrializzati”, “meno attrezzati”,etc. Si tratta di categorie
che
implicano
l’evoluzione
delle
lotte
ideologiche
nonché
scientifiche all’interno dei circoli dei pensatori e dei politici
per arrivare a diminuire il divario sempre crescendo tra il blocco
occidentale ed il resto del mondo. Non posso entrare nei dettagli
di quei dibattiti che richiedono molte ore di lezioni.
Si sappia in quella epoca detta dell’ottimismo, il modello
liberal-capitalista era considerato come parametro trionfante di
ogni sistema di organizzazione del globo, delle nazioni e delle
società. Tornerò su questo punto quando palerò di “stadi di
sviluppo”. Infatti nel suo discorso di reinsediamento alla
presidenza degli Stati Uniti (20 gennaio 1949), Harry Truman ebbe
a dire che secondo lui, era obbligatorio indicare la via liberalcapitalista della prosperità agli Stati di recente indipendenza
“caratterizzati da povertà e disorganizzazione” con basso livello
di crescita economica come via maestra per il benessere rispetto
al modello allora concorrente, il social-comunismo o modello
dell’economia pianificata.
La
visione
ottimistica
del
cosiddetto
paradigma
della
modernizzazione era fiduciosa nell’uniformizzazione del processo
di cambiamento economico, sociale e politico già avvenuto nelle
società capitaliste del “primo mondo”. Quest’ultimo era presentato
come il frutto di un cammino che è passato da una situazione di
arretratezza
a
una
caratterizzata
da
industrializzazione,
urbanizzazione, e alti livelli di benessere materiale. Su questi
basi l’Occidente pretendeva avere il monopolio di rappresentanza
presso i paesi in cerca di benessere. Tutte le più importanti
teorie economiche del periodo partivano dal presupposto comune
secondo
cui
lo
sviluppo
consisterebbe
in
un
processo
evoluzionistico mosso da forze endogene lungo stadi temporali
validi per tutti i paesi. Si trattava di una visione che chiamo
“occidento-centrista” dello sviluppo e che nell’ambito della
scienza dell’economia dello sviluppo, era stata nutrita e promossa
da tre grandi scuole di pensiero:
a) la scuola dei modelli di crescita costante, di cui i promotori
Harrod e Domar;
b) la scuola della dottrina del big push di Rosenstein-Rodan, che
ipotizzava massici investimenti gestiti dalla mano pubblica (N.B. è da quella scuola che nacque il famoso piano Marshall
produttore del benessere diffuso nell’Europa del dopoguerra-);
c) la scuola sostenitrice della teoria degli stadi di sviluppo di
Walt Whitmann Rostow: fu conosciuta sotto il nome di “manifesto
non comunista”, e prevedeva lòa crescita economica attraverso il
15
susseguirsi di passaggi dall’agricoltura all’industria, ai servizi
fino allo stadio del consumismo di massa.
Tornerò con commento su queste teorie. Ma segnalo che il modello
liberal-capitalista ha sintetizzato nella sua prassi le idee di
tutte queste tre teorie. Da quella sintesi pragmatica politica è
nata ciò che si chiama generalmente il capitalismo occidentale,
che ha però come ve lo dimostrerò, radici molto più antichi. In
ogni modo gli anni 1950-60, anni del benessere materiale sono
nell’economia dello sviluppo anni dell’ottimismo, non sono anni
della nascita del liberal-capitalista ma sono anni della sua
positiva affermazione nella società occidentale, con la relativa
pretesa all’espansionismo globale mediante la diffusione politica
pacifica o violenta dell’economia di mercato nei paesi emergenti.
Segnalo subito che tale pretesa conobbe la sua grande sconfitta
già nei medesimi anni 1950-1960 perché i paesi emergenti
rifiutando di rimanere dipendenti dai paesi colonizzatori liberalcapitalisti, esprimevano nel frattempo il loro rifiuto del modello
economico proposto od imposto. Da quei nacquero le prime crisi e
quindi i fallimenti del modello di sviluppo di stampo liberalcapitalista. Molti paesi emergenti si allearono con i paesi del
“secondo mondo”, quei del blocco “social-collettivista”, in
contrapposizione al modello occidentale. La storia insegna che le
lotte di opposizione dei paesi in via di sviluppo al modello
liberal-capitalista furono nutrite da varie teorie filosoficheculturali e politiche. Tutte quelle teorie vengono sintetizzate e
designate in una unica scuola di pensiero che gli studiosi ha
chiamato “la critica dipendentista”. Ve ne parlo.
I.1.2.2 La prima crisi del modello e la critica dipendentista (
anni 1960-1970)
L’incantato benessere diffuso ed il consumo di massa durò
pochissimo nel mondo, ivi compreso quel primo ma particolarmente
nel “terzo”. Negli anni ’60-70, contraddistinti da stagnazione
economica e lotte per l’indipendenza, risultò chiaro che la
prospettiva di un imminente decollo del Terzo Mondo profetizzato
dai traumaturgi dello sviluppo si allontanava sempre più e che il
modello occidentale di sviluppo non era applicabile in tutto il
globo. La scrittrice camerunese Axelle Kabou afferma chiaramente
che gli Africani rifiutarono lo sviluppo e dimostra le ragioni
culturali e politiche di tale rifiuto (3).
Il pessimismo sullo sviluppo venne raccolto dai teorici, in
particolare economisti e sociologi della Commissione economica per
l’America Latina delle Nazioni Unite ( UN/ECLAC), sostenitori
dell’approccio della dipendenza. La tesi centrale della dipendenza
è che sviluppo e sotto-sviluppo sono fenomeni connessi fra loro,
aspetti del medesimo processo storico della formazione del sistema
capitalistico mondiale. Secondo questa scuola, lo sviluppo è
alimentato dal sotto-sviluppo, nei seguenti termini:
a)la legge del vantaggio comparato nel sistema economic
16
internazionale penalizza i paesi del Terzo Mondo specializzati
nella
produzione
di
materie
prime
e
dunque
maggiormente
vulnerabili alle fluttuazioni dei prezzi;
b)la legge dello scambio ineguale penalizza il contraente del Sud
perché più alti livelli di tecnologia e maggior costo forza lavoro
aumentano i prezzi delle merci che giungono dal Nord.
Allora si insistò molto sull’importanza dell’interdipendenza dei
processi di sviluppo.
Nacque così la cosiddetta scuola neo-marxista dei dependentistas.
Tra i suoi sostenitori, Paul Baran, André Gunder-Frank, Samir
Amin, Immanuel Wallerstein ritengono che sia proprio l’ingerenza
dell’Occidente
a
impedire
al
Terzo
Mondo
di
giungere
all’industrializzazione e allo sviluppo, e danno grande rilievo
alla rivoluzione contadina (secondo l’interpretazione data dal
maoismo
dell’originale
teoria
marxista)
nell’evoluzione
dal
tradizionale al moderno. Da parte sua la scuola neo-strutturalista
(dei cui sostenitori Raul Prebisch, Hans W. Singer) nega l’ipotesi
dell’evoluzione proposta dalla modernizzazione sulla base di
problemi di tipo strutturale che rimandano a un intervento
statalista per la loro soluzione.
Dalla teoria della critica dipendentista nacquero le teorie ed
ideologie dello sviluppo che chiamo “reazionarie” degli anni 1970.
Cito tra altre: le ideologie dello sviluppo detto “integrale”,
“sviluppo endogeno”, “sviluppo integrato”, “sviluppo dal basso”,
“sviluppo dei popoli”, etc. Tutto quanto stava a significare
semplice la crisi dello sviluppo nel Sud del globo, o meglio il
fallimento del modello liberal-capitalista occidentale al Sud del
mondo. In questa medesima fase viene fuori il concetto di
“sviluppo sociale“.
I.2.1.3 La crisi degli anni del boom economico e la ricerca di un
nuovo ordine economico mondiale (anni ’70-80)
La storia insegna che la nuova crisi dello sviluppo mondiale a
partire della metà degli anni ’70, susseguente al crollo del
prezzo delle materie prime e all’indebitamento dei paesi del Sud,
rese inapplicabile anche l’approccio dipendentista. Si parlò
allora dello sganciamento o de-linking delle “periferie” dal
“centro” (Amin). Il correttivo alla squilibrata situazione
economica mondiale poteva venire solo da un’inversione di rotta di
carattere politico: era necessario che il Sud si sviluppasse
secondo modalità originali di capitalismo di Stato, li che avrebbe
reso gli Stati finalmente autonomi nella gestione del proprio
surplus a favore degli interessi generali e non delle borghesie
locali.
Parallelamente, la Risoluzione 3101
chiedeva
la
costituzione
di
un
internazionale (NOEI): l’integrazione
17
del maggio ’74 dell’ONU
Nuovo
Ordine
economico
nel mercato mondiale non
veniva rigettata pregiudizialmente, ma si auspicava la costruzione
di forme non gerarchiche d’interdipendenza Nord-Sud. Il Rapporto
Brandt del 1980, che prendeva origine del NOEI stesso, intendeva
conciliare il successo del modello delle società occidentali con
il ruolo dei paesi del Sud nel mercato mondiale: raccomandava un
massiccio trasferimento di risorse dal Nord al Sud, nella
convinzione keynesiana ch ciò avrebbe stimoltato le economie
povere verso il take-off industriale.
Frattanto, la seconda decade dello sviluppo(1970-1980) vide la
consacrazione
a
livello
teorico-progettuale
dello
“sviluppo
diverso”, così definito dal Documento programmatico dell’Assemblea
ONU del 1975 (What now. Another Development)redatto dalla
Fondazione
Dag
Hammarrskjold
di
Uppsala.
Esso
postula,
sistematizzando molte delle critiche che in quegli anni erano
maturate nell’ambiente degli addetti ai lavori, che lo sviluppo
debba possedere i seguenti caratteri:
a) deve tendere alla soddisfazione dei bisogni primari, deve cioè
garantire a ciascun individuo di tutti i paesi alimentazione,
abitazione, vestiario, salute, ma anche libertà, identità,
giustizia;
b)
deve
essere
endogeno
e
self
reliant,
basato
cioè
sull’auotosufficienza, sul contare sulle proprie forze;
c) deve essere in armonia con la natura, cioè sviluppo sostenibile
(dall’ecosviluppo di I. Sachs)(4);
e) deve essere partecipato, secondo la teoria del “terzo sistema”
formulato dall’IFDA (International Foundation for Development
Activities), che proponeva la riappropriazione dello sviluppo da
parte del Cittadino (nella forma di società civile e di
organizzazioni non governative), contrapposto al Principe (lo
Stato) e al Mercante(l’economia). Corollario della partecipazione
divenne il principio di responsabilità, o accountability, secondo
il quale chi esercita un potere deve essere considerato
responsabile delle conseguenze del suo esercizio.
I.1.2.4
Lo
sviluppo
all’ombra
anglosassone (anni ’80-90)
del
neoliberismo
di
stampo
L’aggravarsi della crisi del debito estero dei paesi del Sud
spostò
l’attenzione
degli
economisti,
delle
organizzazioni
internazionali e dei governi sul problema della stabilizzazione.
Il clima culturale dominato dalla destra di Margaret Thatcher al
potere in Gran Bretagna e di Ronald Rugan e Georges Bush Senior
negli Stati Uniti fece riferimento a modelli economici neoclassici
e alla macroeconomia monetarista. Sotto accusa erano le strategie
stataliste dell’approccio keynesiano-strutturalista: per contro si
stabiliva che solo il mercato avrebbe permesso, sul lungo termine,
la crescita economica e la lotta alla povertà, nonostante
l’austerity nel breve periodo. Le ricette, formalizzate nei
programmi di aggiustamento strutturale(PAS) del Fondo monetario
18
internazionale e della Banca Mondiale, ai quali era condizionata
la concezione di prestiti ai paesi indebitati, furono diverse:
a) la soppressione delle misure protezionistiche;
b) la liberalizzazione del commercio;
c) la svalutazione del tasso di scambio;
d) la contrazione della spesa pubblica;
e) la privatizzazione.
Risultato? “Dopo vent’anni, scrivono gli autori del Dizionario
della globalizzazone, la valutazione complessiva del PAS non può
non rilevare nella maggioranza degli stati che hanno applicato
queste
misure,
l’aggravamento
della
povertà,
dovuta
allo
smantellamento
della
maggior
parte
delle
realizzazioni
precedenti”(5). Anche in questo periodo l’ideologia dello sviluppo
fallisce nel Sud del mondo.
I.1.2.5
Crisi del neoliberismo e l’affermarsi delle idee
reazionarie di umanizzazione e sostenibilità dello sviluppo (anni
’90 ad oggi)
Su questo punto parleremmo anzitutto dell’idea di “sviluppo umano”
ed inseguito dello “sviluppo sostenibile”, tenendo presente che
sono due concetti vicini ma di portate distinte dal punto di vista
dottrinale.
I.1.2.5.1 Sull’idea di sviluppo umano
Nel 1990 le Nazioni Unite, sentito le voci di delusioni che
provengono da più parti dell’opinione pubblica sia al Sud che al
Nord del pianeta, ufficializzano un nuovo approccio ai problemi
dello sviluppo che finalmente abbandona la visione riduzionista
economista dell’aumento del reddito pro-capite, e ratifica la
necessità della misurazione di variabili quali l’istruzione, la
sanità, i diritti civili, e politici. Riecheggiando in particolare
la teoria gli entilments dell’economista indiano Amartya Sen
–secondo la quale lo sviluppo desiderabile è quello che consente a
ciascuno l’effettiva acquisizione delle risorse determinata, oltre
che dal reddito, dall’esistenza di meccanismi istituzionali e
politici idonei– il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo
(UNDP) pubblica il suo primo Rapporto sullo sviluppo umano.
L’Indice di sviluppo umano (ISU) istituzionalizza un nuovo modo di
misurare lo sviluppo, inteso come “processo di ampliamento delle
possibilità di scelta della gente”. Vengono aggregati in un indice
ponderato i seguenti indicatori dello sviluppo umano:
a) la speranza di vita alla nascita;
b) il tasso di alfabetizzazione;
c) il valore reale del reddito pro-capite espresso in potere
d’acquisto rispetto al dollaro.
19
I successivi rapporti hanno poi approfondito la ricerca tecnica
sull’ISU. Tra altri il Rapporto n. 3(1992)introduce l’indice di
libertà politica, mentre l’indice di sviluppo di genere viene
introdotto dal Rapporto n. 6(1995). La geografia economica del
pianeta ne è risultata stravolta: da allora non esiste più alcun
legame automatico tra reddito e benessere.
Il panorama attuale con cui le nuove teorie dello sviluppo devono
confrontarsi è estremamente complesso. Da un lato i grandi temi
dello sviluppo umano come l’ambiente, lo stato sociale, il genere
sono ormai questioni assimilate da tutte le agenzie dello
sviluppo, World Bank compresa, come dimostrano i titoli dei
rapporti e le Conferenze di Rio de Janeiro del 1992 o di
Copenhagen e di Pechino nel 1995, e più recentemente di
Johannesburg nel 2002. Dall’altro la globalizzazione implica una
interdipendenza sempre più asimmetrica: l’istituzionalizzazione
delle relazioni economiche internazionali, come dimostra la
nascita dell’Organizzazione mondiale per il commercio (WTO) e la
sua estenzione a disciplinare tutti i tipi di transazioni,
comporta una rinnovata marginalizzazione dei paesi in via di
sviluppo, alimenta i processi migratori provenienti da questi
ultimi e rappresenta una sfida alla sovranità dello Stato-Nazione.
Il
nostro
corso
riguardano
l’applicazione
della
critica
antropologica alle problematiche dello sviluppo, il tema che ci
implica molto di più è ovviamente quello dello “sviluppo umano” –
s.u.-. Si tratta di una visione o dottrina che dopo tantissimi
anni
di
liti,
sta
ravvicinando
antropologi,
sociologi
ed
economisti dello sviluppo. Ne analizziamo brevemente alcuni tratti
più significati con riguardo alla nostra lezione. Vediamo cioè il
contenuto e l’evoluzione dottrinale di questa nozione che ormai
catalizza tutti i dibattiti ed attività dello sviluppo alla soglia
del terzo millennio.
Definizione ed implicazioni.
Il termine irrompe con forza nel dibattito agli inizi degli anni
’90 e rimane in voga sino ai nostri giorni. La sua portata.
Leggiamo il Rapporto Human Development dell’UNDP che è più
autorevole:
“ Lo sviluppo umano ha due aspetti: la formazione delle capacità
umane ( come il miglioramento della salute, delle conoscenze,
delle proprie abilità ), e l’uso che gli individui possono fare
delle loro capacità acquisite ( nel tempo libero, con scopi
produttivi o in attività culturali, sociali e politiche ). Secondo
questo concetto di sviluppo umano, il reddito è chiaramente solo
una delle opportunità di cui gli individui vorrebbero disporre,
quantunque importante. Ma non è la sostanza della loro vita. Lo
sviluppo non deve dunque limitarsi all’aumento del reddito e della
ricchezza. Il suo obbiettivo sono gli individui “ (6).
E’ veramente impressionante il cambio di valutazione e di
contenuti che la dottrina porta al concetto di sviluppo. E’ una
20
novità sorprendente di cui il riassunto sta nella centralizzazione
dell’ “ individuo umano “ quale produttore e consumatore dello
sviluppo, mittente e destinatario dello sviluppo, oggetto e
soggetto. Si tratta qui di una svolta antropologica della dottrina
contemporanea dello sviluppo. Più avanti esamineremmo la sua
applicabilità nell’ipotesi di Giorgio Franceschetti. Per motivi di
studio approfondito della problematica, dobbiamo cercare di
scoprire anzitutto l’origine e l’evoluzione storica di questo
modello di sviluppo così invidiato, odiato ma sempre ricercato e
dominante: il modello occidentale.
A questo punto
possiamo dire che l’economia è stata in grado
unicamente di adeguare la propria offerta alle intervenute
variazioni della popolazione. Oggi invece si definiscono teorie
della crescita quelle analizzano come un sistema economico cresce
in termini di reddito pro capite. Così pensato anche da
Franceschetti Giorgio e Fusetti Giovanni che definiscono lo
sviluppo come “ un processo di cambiamento di livello e qualità
della vita della popolazioni di una comunità, il quale, secondo un
criterio di giudizio politico e sociale, è giudicato positivamente
“(7). I due economisti indicano poi le due sfere dei parametri di
giudizio di un processo di sviluppo di cui l’epicentro secondo è
l’individuo, la comunità e non più soltanto lo Stato, inteso come
entità macrocosmico:
- 1a sfera, quella dei “ variabili finali ( obbiettivo ) :
riguardano e misurano gli aspetti del livello e della qualità
della vita dell’individuo e/o della comunità, e sono legati alla
considerazione della soddisfazione dei bisogni fondamentali della
vita divisi in 4 categorie: fisici, culturali, sociali e
superiori;
2a
sfera,
quella
dei
variabili
strumentali:
riguardano l’insieme di mezzi, strumenti e modalità di azione per
raggiungere gli obbiettivi (8).
Secondo l’UNDP, con il termine sviluppo umano, si deve intendere
“un processo di ampliamento delle possibilità umane che consenta
agli individui di godere di una vita lunga e sana, essere istruiti
e avere accesso alle risorse necessarie a un livello di vita
dignitoso”, nonché di godere di capacità e opportunità politiche,
economiche e sociali che li facciano sentire a pieno titolo membri
della loro comunità di appartenenza.
Lo sviluppo umano così definito ha, secondo gli esperti, i suoi
obbiettivi generali, che possiamo enumerare:
a) promuovere la crescita economica sostenibile, migliorando in
particolare la situazione economica delle persone in
difficoltà;
b) migliorare la salute della popolazione, con prioritaria
attenzione ai problemi più diffusi e ai gruppi più
vulnerabili;
c) migliorare l’istruzione, con priorità all’alfabetizzazione,
all’educazione di base e all’educazione allo sviluppo;
21
d) promuovere i diritti umani, con priorità alle persone in
maggiore difficoltà e al diritto alla partecipazione
democratica;
e) migliorare la vivibilità dell’ambiente, salvaguardare le
risorse ambientali e ridurre l’inquinamento.
Si vede chiaramente il cambio totale di rotta nella visione dello
sviluppo nel senso tradizionale. Dinanzi a questi criteri di
valutazione, nessuno Stato è mai più in grado di qualificarsi
“sviluppato”. Sembra che tutti gli Stati siano ormai “paesi in via
di sviluppo”!
Al posto degli indicatori che si riferivano alla sola crescita
economica (PIL), che nulla dicevano degli squilibri e delle
contraddizioni che stavano dietro alla crescita, l’UNDP utilizza
dal 1990 un nuovo indicatore di sviluppo umano – l’ISU. L’Indice
di Sviluppo umano -ISU- permette quindi di evidenziare come il
legame tra sviluppo economico e sviluppo umano non è automatico,
né ovvio, sebbene oltre certi livelli di reddito, sia difficile
avere
un
ISU
basso.
Solo
alcuni
dei
paesi
di
nuova
industrializzazone
sono
riusciti
a
collegare
crescita
economica,occupazione e crescita nello sviluppo umano.
Rispetto all’ISU, l’Indice di povertà umana(IPU)serve a misurare
la distribuzione dei risultati ottenuti in termini di sviluppo
umano. Non c’è correlazione tra IPU e reddito. Le disparità di
sviluppo umano sono stridenti tra città e campagna, regioni più
ricche e più povere, aree centrali e periferie, uomo e donna,
etnia e etnia. I promotori della dottrina dello s.u. indicano poi
altri elementi che secondo loro minacciano un progresso nello s.u.
e sono cause di arretramenti delle popolazioni. Tra di essi,
citiamo la guerra; l’impatto dei conflitti sulle strutture
socioeconomiche e produttive e il peso delle ricostruzioni gravano
come macigni sullo s.u., provocando arretramenti nei livelli di
vita. Ancora più sorprendente novità di pensiero è l’affermazione
secondo la quale: “ Un elevato s.u. può essere raggiunto anche da
chi on ha reddito altrettanto elevato, se il paese riesce a
utilizzare oculatamente le proprie risorse per il soddisfacimento
dei bisogni primari. Viceversa, paesi con elevato reddito possono
aver uno s.u. non elevato”(9).
L’UNDP,
una
volta
analizzati
gli
aspetti
negativi
della
globalizzazione, indica tre direzioni di lavoro per far sì che
essa si concili con le esigenze dello s.u.. Per ciascun paese si
rendono necessari i seguenti provvedimenti:
a) catturare le opportunità offerte da commercio, flussi di
capitale e migrazioni;
b) proteggere gli individui dalla vulnerabilità provocate dalla
globalizzazione;
c) superare la restrizione delle risorse a disposizione dello
Stato.
22
In sintesi, lo sviluppo sostenibile tiene conto dei seguenti tre
principali fattori di valutazione:
1°.
Il
reddito,
rappresentato
dal
prodotto
interno
(Pil)
individuale, dopo una trasformazione che tiene conto sia del
potere di acquisto della valuta, sia del fatto che l’aumento del
reddito non determina un aumento del benessere in modo lineare
(l’aumento di benessere è molto maggiore quando il Pil passa da
1000 a 2000 dollari che quando da 15.000 a 16.000).
2°.
Il
livello
d’istruzione,
rappresentato
dall’indice
di
alfabetizzazione degli adulti (moltiplicato per due) e dal numero
effettivo di anni di studio.
3°. Il livello di sanità, rappresentato dalla speranza di vita
alla nascita.
Nella valutazione secondo il sistema UNDP, per ogni paese membro
delle N.U. viene qualificato da umanamente sviluppato o non
sviluppato ogni anno. Da questi valutazioni, mi risulta che il
problema della ricerca di sviluppo e di benessere non è più
“terzomondiale” ma “mondiale” e quindi universale.
I.2.1.5.2 Sull’idea di sviluppo sostenibile
Molto corollario della nozione di sviluppo umano è l’idea di
sviluppo sostenibile. Tutte le due idee –sviluppo umano e sviluppo
sostenibile- implicano una stessa problematica, che è quella di un
benessere, sviluppo che tenga conto dell’uomo individuale, delle
comunità beneficiarie secondo i criteri più umanizzanti che
economizzanti. Tuttavia tra i due concetti ci sono elementi di
distinzione di cui tener conto dal punto di vista di uno studio
accademico.
Dopo aver parlato dello sviluppo umano, ora vediamo un po’
specificamente lo sviluppo sostenibile, il quale è molto legato ai
problemi dell’ambiente di vita dell’uomo e degli uomini.
Sul finire degli anni 80 e gli inizi anni 90, i problemi legati
alla straordinaria crescita demografica al Sud del mondo e alle
minacce ambientali ed ecologiche ( specificamente l’inquinamento
ambientale e atmosferico ) al Nord riportano gli scienziati dello
sviluppo al tribunale degli intellettuali e dell’opinione pubblica
mondiale. Nasce il concetto di “ sviluppo sostenibile “, che poi
con vari aggiustamenti viene di tanto in tanto designato a secondo
i contesti di riflessione e applicazione, “ sviluppo umano
sostenibile “, secondo la versione degli ideologici anglo-sassone
“, “ sviluppo umano durevole “, secondo la versione più diffusa
negli esperti dei paesi latini; “ sviluppo integrale e integrato
“, usato dagli ideologi dello sviluppo del Sud ( africani, latinoamericani e asiatici ).
I.1.2.5.2.1 Portata dell’idea di sviluppo sostenibile
23
L’espressione “ sviluppo sostenibile “, che si presenta come
complesso connubio di tre categorie: sviluppo- umano – sostenibile
è diventato molto popolare sul finire degli anni ’80. Nel 1987
infatti è stato pubblicato il Rapporto Brundtland elaborato
nell’ambito delle Nazioni Unite. Il Rapporto presenta i risultati
di una commissione di studio presieduta da Gro Harlen Brndtland,
primo ministro della Norvegia. Questo documento, altrimenti noto
come Our common Future, ha avuto e continua ad avere un importante
ruolo di stimolo e discussione.
Nel
volume
viene
data
questa
definizione
dello
sviluppo
sostenibile: “ Lo sviluppo è sostenibile se soddisfa i bisogni
delle generazioni presenti senza compromettere le possibilità per
le generazioni future di soddisfare i propri bisogni “(10). (
Questa definizione, che a prima vista può sembrare intuitiva e
semplice, si fonda implicitamente su tre fattori che orientano
attualmente le dottrine e le politiche economiche in materia dello
sviluppo sostenibile: la sostituibilità, l’equità e l’incertezzairreversibilità.
I.1.2.5.2.2
I tre fattori di orientamento dell’ideologia e delle
politiche dello sviluppo sostenibile
1. La sostituibilità.
a)
La categoria di sostituibilità si radica nelle problematiche
dello sviluppo specificamente legate ai temi dell’ambiente, in
modo particolare lo sfruttamento dei beni della terra che non
tiene conto dei bisogni delle generazioni future, dal punto di
vista della produzione e dell’uso quantitativo. Dalle pratiche
così irresponsabili gli esperti avvertono l’irruzione di minacce a
breve, medio e lungo termine sulle popolazioni del pianeta al Sud
come al Nord. Alle popolazioni del Sud viene richiamata
l’attenzione sulla crescita demografica rispetto alla quantità
naturale o acquisita dei beni di consumo. Alle popolazioni del
Nord viene rimproverato uno sfruttamento tecnologico ed un uso dei
beni
che
tengono
conto
soltanto
dell’aumento
del
PIL
,
distruggendo così la salute delle popolazioni p.es. in termini in
inquinamento ambientale e atmosferico. E’ venuta così fuori la
considerazione secondo cui esistono aree con più elevate minacce
sul futuro e aree con minore minacce.
b)
Quattro categorie orientativi del concetto di sostituibilità
nel suo uso (come sostituibilità delle specie consumabili), sono
così definite dalla dottrina:.
* sostenibilità molto debole ( Smd );
** sostenibilità debole ( Sd );
*** sostenibilità forte ( Sf );
**** sostenibilità molto forte ( Smf ).
24
Osserviamo così che dagli anni 90-2000, i paesi si contendono le
pagelle di queste suddivisioni cercando soprattutto di contenere i
livelli d’inquinamento degli ambienti domestici, di lavoro, delle
città, delle acque, ecc… mediante la produzione e l’uso di adatte
tecnologie per vari bisogni.
2.
L’equità.
Riguarda le disuguaglianze relative alla distribuzione delle
ricchezze nel mondo. Esse sono fattori che contribuiscono al
mancato raggiungimento dell’obbiettivo della sostenibilità.
a)
Due categorie di equità.
A tale fine le dottrine, le ideologie e le prassi dello sviluppo
ruotano intorno a due categorie di equità sociale implicite nella
definizione di uno sviluppo sostenibile:
1°. Equità infragenerazionale: riguarda il livello locale che
internazionale, e implica la parità di accesso alle risorse (
siano ambientali che tecnologiche o economiche ), da parte degli
attuali cittadini del pianeta, senza distinzione dei luoghi in cui
vivono. Bella utopia; bella utopia!
2°.
Equità
interregionale:
significa
pari
opportunità
fra
successive generazioni.
3.
Incertezza e irreversibilità.
a) L’incertezza: 2 aspetti
L’incertezza è una caratteristica psicologica peculiare al mondo
in cui viviamo e non riguarda unicamente il problema dello
sviluppo sostenibile. Essa ha due aspetti di considerazione:
- da un lato, esiste una forte incertezza sulle caratteristiche
fisiche e biologiche, p.es. dei fenomeni ambientali (come
l’effetto
serra,
le
innovazioni
tecnologiche
legate
alle
riproduzioni delle specie umane, animali, vegetali, ecc…, come la
clonazione, le fecondazioni artificiali, di cui si ignorano le
vere conseguenze sul pianeta e sulla salue dei cittadini) ;
- da un altro, esiste una incertezza sulle modalità attraverso cui
il degrado dell’ambiente può incidere sull’attività economica
quanto sui costi delle politiche ambientali mirate a contenere i
danni.
b) L’irreversibilità: 3 posizioni tra gli Stati.
Il problema dell’incertezza ha portato gli ideologi, gli Stati e i
politici a tre posizioni divergenti.
-L’Europa, p.es. , è molto sensibile su questi temi e il suo
approccio è stato qualificato dall’espressione “ politiche di non
rimpianto “ ( no regret policy ). Che significa attuare le
politiche necessarie per non doversi in seguito rimpiangere la
mancata applicazione di una certa misura (11).
-Altri paesi invece come il Giappone, la GB, meno convinti dei
rischi e dei costi legati ai cambiamenti climatici, hanno voluto
25
adottare politiche definite con l’espressione “pledge and review“,
“impegno e revisioni“. Che significa impegnarsi, p.es. adottando
una certa misura di controllo delle emissioni, ma nel contempo
indagare e capire meglio: si tratta di una sorta di adesione
condizionata.
- L’ultimo atteggiamento è quello meno avverso al rischio che è
quello degli USA p.esempio. Si qualifica dal comportamento
attendista di paesi non convinti dei rischi e dei costi e
preferiscono “ aspettare “ il verificarsi degli eventi per poi
agire con efficienza: “ wait & see “.
I.1.3 L’idea di sviluppo secondo la teoria degli stadi di sviluppo
I.1.3.1 Teoria degli stadi di sviluppo: quid?
La teoria degli stadi di sviluppo è una vecchia visione dello
sviluppo economico secondo la quale tutti i paesi tendono a
seguire lo stesso percorso che va da uno stadio agricolo arretrato
ad uno stadio industriale avanzato, che implica il consumismo di
massa e quindi un diffuso benessere. Questa idea che ha
qualificato, qualifica a tutt’oggi e determina la pianificazione
di molti progetti di sviluppo rurale nelle aree del Sud, è stata
elaborata nella prima metà del XX secolo osservando l’esperienza
storica dei paesi liberal-capitalisti, ed è legata originariamente
agli studi di Alexander Gerschenkron (Russia 1904-1978) e Walt
Whitman Rostow (12).
Nata come analisi storica ed economica dell’Europa occidentale e
del Nord America, questa visione è stata poi utilizzata anche
linea guida per la soluzione dei problemi economici dei paesi in
via di sviluppo, presupponendo che lo sviluppo economico sia un
fenomeno che dipende da fattori generalizzabili e realizzabili in
tutti i paesi e popolazioni. Questa visione ha influenzato
profondamente il modo di pensare di studiosi, uomini politici e
dell’opinione pubblica per gran parte del XX secolo. E’ utile
sottolineare che da essa è nata buona parte della terminologia di
uso corrente, come paesi arretrati rispetto a paesi avanzati,
paesi in via di sviluppo rispetto a paesi sviluppati. Oggi paesi
industrializzati
è
sinonimo
di
paesi
ricchi,
e
l’industrializzazione è l’elemento fondamentale dell’idea più
generale di modernizzazione dell’economia e delle società quale
prospettiva per i paesi del Sud.
I.1.3.2 Sull’idea di industrializzazione e sviluppo delle società
Cosa è?
Con questo termine si indica una pluralità di fenomeni
concomitanti:
a) un alto e prolungato tasso di crescita della produzione di
beni materiali e manufatti industriali, e del reddito procapite;
26
b)
una quota crescente della produzione totale dovuta al
settore industriale a scapito del settore agricolo;
c) la trasformazione della maggior parte della popolazione
lavorativa in operai industriali, impiegati in fabbriche, con
la conseguente riduzione di lavoratori agricoli e artigiani;
d) la concentrazione della popolazione vicino agli insediamenti
industriali, generalmente grandi città (=urbanizzazione), e
la diffusione di stili di vita e di consumo legati ai ritmi e
alle esigenze urbane.
L’idea di una stretta relazione tra crescita economica e
industrializzazione è stata suggerita dal fatto che tra l’inizio
della rivoluzione industriale nella seconda metà del XVIII secolo
e fino alla metà del XX secolo, i maggiori incrementi di
produzione e produttività nei paesi dell’Europa occidentale e del
Nord America sono stati
realizzati nel settore industriale. Al
contrario, nella maggior parte dei paesi del Sud il settore
industriale era molto arretrato. Secondo la teoria classica della
crescita, attraverso la promozione degli investimenti nel settore
industriale i paesi più poveri come reddito pro-capite avrebbero
raggiunto quello dei paesi ricchi.
Questa visione, applicata nelle politiche e progetti di sviluppo
al Sud del mondo, è fallita. I suoi limiti risultarono evidenti a
partire dagli anni 1970, quando gli sforzi tendenti alla rapida
industrializzazione nella maggior parte dei casi non produssero né
crescita economica duratura, né una riduzione sostanziale dei
divari tra paesi relativamente piccoli ed omogenei nel Sud Est
asiatico (Corea del Sud, Taiwan, Singapore, Malesia, etc.) –tanto
che venne coniato il termine di paesi di nuova industrializzazione
(in inglese Newly Insdustrialized Countries)- e in certa misura in
Cina. I maggiori paesi dell’America Latina –Messico, Argentina,
Brasile, Cile- ottennero risultati contrastanti e problematici, e
nulla di apprezzabile sorse nell’Africa subsahariana.
Si scoprì che l’industrializzazione può fallire quando la crescita
del capitale fisico e del progresso tecnico nel settore
industriale rimane isolato dagli altri fattori di crescita
economica:
a)
qualità
degli
investimenti
(abitazioni,
trasporti,
telecomunicazioni);
b)
fattori immateriali(istruzione, salute, sicurezza, in
genere qualità del capitale umano);
c)
fattori sociali e politici;
d)
compatibilità con l’ambiente e adeguato sviluppo agricolo.
In mancanza di queste condizioni, non facilmente identificabili e
riproducibili, l’industrializzazione può rivelarsi non inefficace
in termini di crescita economica ma addirittura nociva socialmente
a causa dei suoi imponenti e profondi effetti collaterali, come lo
dissero Raul Prebisch, Celso Furtado, Andre Gunder-Frank(13).
27
In America Latina ed in Africa subasahariana negli anni 1960-70 si
sono
avute
esperienze
particolarmente
negative
segnate dai
seguenti fenomeni: a) aumento acuto delle differenze economiche
tra le classi sociali proprietarie di industrie e terreni e quelle
operai
e
contadini;
b)
dipendenza
dall’estero
quanto
all’importazione di beni di consumo per le classi superiori e di
prodotti agro-alimentari in seguito all’abbandono delle campagne
da parte delle giovani generazioni; c) disordinata urbanizzazione
nei centri industrializzati, con il peggioramento delle condizioni
di vita sia nelle città sia nelle campagne; d) gravi tensioni
sociali
e
politiche,
sfociate
tipicamente
in
regimi
antidemocratici e dittature violenti da parte delle classi
improvvisamente
imborghesite
dall’industrializzazione
improvvisata.
I.1.3.3 Sull’idea di sviluppo agricolo e sviluppo delle società
La visione più comune degli stadi di sviluppo concepisce
l’esistenza di uno stadio iniziale dell’economia in cui prevalgono
le
attività
agricole
precedentemente
alla
fase
dell’industrializzazione. Il settore agricolo è stato spesso
identificato
come
causa
della
persistenza
dell’arretratezza
tecnologica, come un vincolo allo sviluppo industriale, come un
settore
perdente
nella
competizione
per
il
commercio
internazionale. In realtà, studi più accurati, tra cui vanno
menzionati quelli originari di Arthur W. Lewis hanno messo in luce
le interrelazioni complesse tra industrializzazione e sviluppo
agricolo (14).
In Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti, nel XVIII e XIX secolo, e
poi in Canada e Australia, l’industrializzazione ha proceduto di
pari passo con l’aumento della produzione agricola e del livello
di vita nella campagne. La sottovalutazione del ruolo dello
sviluppo agricolo ha contribuito al fallimento di molte politiche
di sviluppo sotto molteplici aspetti: a) sono stati accentati gli
effetti negativi dell’industrializzazione, venendo a mancare un
adeguato rifornimento di derrate alimentari e prodotti di base a
buon mercato per le città e impoverendo le masse urbane; b) le
cattive condizioni di vita delle popolazioni agricole non hanno
creato una sufficiente domanda interna di prodotti industriali, e
hanno accentuato il fenomeno dell’urbanizzazione con l’ulteriore
aumento delle masse urbane povere; c) lo spopolamento delle
campagne ha accentuato lo stato di arretratezza e improduttività
del settore agricolo, cui va aggiunto il peggioramento delle
condizioni dell’ambiente tra cui ad esempio la sterilità dei
terreni e la desertificazione.
Dagli anni 1980, sia le organizzazioni economiche internazionali
sia molti governi hanno prestato maggiore attenzione al settore
agricolo come fattore di sviluppo o addirittura come alternativa
al modello tecnologistico fondato sulla massiccia e rapida
industrializzazione, che risultò fallimentare.
28
Sappiamo quanto negli anni 1960-70 le riforme agrarie siano state
importanti per i governi dei paesi del Sud e non solo al Nord. Si
sono ottenuti significativi risultati nell’Africa mediterranea, in
Cina e in India, legati a notevoli produzioni di derrate
alimentari,
grazie
a
a)
politiche
di
incentivi
per
la
residenzialità delle popolazioni rurali; b) valorizzazione e
salvaguardia
delle
produzioni
locali
per
il
mantenimento
dell’equilibrio agro-alimentare; c) introduzione di tecniche
agricole appropriate e forme di organizzazione economica di tipo
cooperativo; d) interventi di agevolazione sul piano finanziario
per l’acquisto di terreni, abitazioni e mezzi di produzione.
Sappiamo che la rinnovata attenzione al settore agricolo anche in
questi ultimi anni e l’attuazione delle riforme agrarie positive
hanno ampio appoggio e sostegno progettuale e tecnico nelle
organizzazioni non governative e, nei movimenti promotori della
finanza etica e del commercio equo e solidale.
Mi fermo su questo punto per quanto riguarda l’analisi della
nozione
di
sviluppo
e
dei
suoi
corollari
dottrinali,
specificamente lo sviluppo umano e lo sviluppo sostenibile.
L’intento è stato di dimostrare il fallimento di quasi tutti gli
sforzi ideativi delle politiche e programmi di sviluppo dei paesi
del Sud da parte degli ideologi del Nord del globo.
Prima di passare al capitolo più applicativi delle visioni
occidentali dello sviluppo nel contesto africano alla luce della
teoria di Giorgio Franceschetti, desidero soffermarmi su altri
aspetti teoretici che considero come charnière che legano e
portano dallo sviluppo concepito in Occidente allo sviluppo
portato e vissuto o non vissuto in Africa. Parlerò anzitutto
dell’appartenenza
capitalistica
dello
sviluppo
liberalcapitalista.
Sez. 2 Il liberal-capitalismo quale fondamento dell’idea
occidentale di sviluppo: analisi.
Notiamo anzitutto che il modello occidentale si qualifica ed è
conosciuto ( giustamente ) come modello liberal-capitalista
fondato sull’economia del mercato, la quale mette al centro il
lavoro come principale attività produttiva e il consumo come
garanzia della continuità del sistema. Che cosa è il capitalismo e
da dove nasce veramente il suo modello di sviluppo che ci guida,
ci mantiene e all’interno del quale dobbiamo assolutamente operare
anche nei PVS?
I.2.1
Antichi radici del capitalismo occidentale
Gli storici dello sviluppo occidentale ci riportano che il
capitalismo nella sua fisionomia attuale, ha radici molto più
antichi di quanto sia le dottrine dello sviluppo sopra definite.
29
Si dice addirittura
nell’antichità greca.
che
il
capitalismo
moderno
si
origini
I.2.1.1 La rivelazione di Rodolfo Mondolfo
Secondo molti autori più avvisati il modello di sviluppo
occidentale ha radici in un lontanissimo pensiero filosofico,
proprio sin dalle origini nell’antica Grecia. Molto eloquenti sono
le testimonianze in Aristotele e Seneca tra tanti altri. In una
opera degli ani 1920 pubblicata circa trenta anni dopo Rodolfo
Mondolfo è tra i primi pensatori italiani è dover rivelare contro
autori come A. Tilgher “ l’inesistenza di un’opposizione assoluta
“ tra la cultura antica, che egli [ Tilgher ] caratterizzava con
l’idea
dell’eterno
ritorno
ciclico,
e
quella
moderna,
caratterizzata dall’idea del progresso infinito “(15)
In effetti nella quarta parte di questa opera, Mondolfo dedica un
intero capitolo a “ La creatività dello spirito e l’idea del
progresso nel pensiero classico “, che egli trova senz’altro
testimoniate,
in
successione,
nel
pensiero
di
Senofane
e
Anassagora, dei poeti tragici, di Archelao, dei sofisti e degli
ippocratici, di Democrito, Platone e Aristotele, ma anche più
oltre in alcune dottrine di filosofi peripatetici, stoici,
epicurei, romani (16).
L’idea di progresso, comune a tutti questi pensatori, troverebbe
espressione, benché in misura diversa, nella “ esaltazione del
potere intellettuale e tecnico dell’uomo, creatore di tutta una
nuova sfera di realtà culturali, poste al di sopra della realtà
naturale. Poeti, scienziati, filosofi si associano in un gran coro
di celebrazione delle glori dell’uomo. Questa celebrazione include
naturalmente tre elementi principali: la convinzione del carattere
bestiale o ferino della vita primordiale dell’umanità; il
riconoscimento del tempo come condizione imprescindibile per la
creazione progressiva della cultura; e l’affermazione del potere
spirituale come autore di tale creazione “(17).
I.2.1.2
L’idea
codice marciano.
dello
sviluppo
capitalista
in
Aristotele:
il
Queste interessanti rivelazioni di Mondolfo che saranno poi
ribadite da altri pensatori come Edelstin L.(18), Dodds, E.R.(19),
ecc…, trovano conferma in illustri Greci tali un Aristotele che
poteva e dimostrano come la mentalità razionalista capitalista è
già presente negli antichi Greci.
Ecco come Aristotele esplicita la realtà dei saperi in voga nella
società ellenica:
“ Le scienze si dividono in tre gruppi: di esse, infatti, alcune
sono prime, altre seconde, altre ancora terze. Prime, dunque, sono
quelle preparatorie, per esempio le arti di ricavare il metallo,
30
il
legno,
la
pietra;
seconde
sono
quelle
produttive
e
trasformative, ad esempio l’arte di lavorare il ferro trasformò il
ferro che aveva ricevuto e ne fece freni, armi e simili; l’arte di
lavorare il legno, poi, trasformò il legname che aveva ricevuto e
ne fece flauti, barche, capanne e simili; l’arte di lavorare la
pietra, infine, trasformò la pietra che aveva ricevuto e ne fece
mura, case e simili. Successivamente vengono le terze: infatti
l’ippica usò convenientemente il freno che aveva ricevuto, l’arte
della guerra le armi e simili; ancora, l’arte di suonare il flauto
usò convenientemente i flauti che aveva ricevuto, l’arte del
pilota usò i timoni che aveva ricevuto e simili “(20) La
traduzione delle Divisioni è stata condotta sulla base del testo
del codice Marcianus Graecus 257 stabilito da MUTSCHMANN(21)
Guardato anzitutto dal punto di vista della struttura. Al di là di
una
prima
impressione
negativa
che
questo
testo
potrebbe
suscitare, in parte dovuta certamente allo stile poco brillante
che lo caratterizza – ma che d’altro lato può essere considerato
un segno della sua genuinità -, si può notare come in realtà esso
fornisca indicazioni preziose a proposito di un possibile concetto
di sviluppo, progresso. E’ evidente, infatti, che la “divisione“
delle “ scienze “ in tre gruppi principali, indicati come “
primo”, “secondo” e “terzo”, più che una vera e propria divisione
si rivela essere un’articolazione del sapere tecnico secondo di
tipo cronologico, così come la denominazione dei tre gruppi, a
prima vista giudicabile per lo meno curiosa, se non banale ,
qualora la si intendesse in senso puramente numerativo, riacquista
significato se la si riferisce ad una successione di tipo
temporale, per cui essa sta ad indicare le scienze che si
svilupparono in un primo periodo, in un secondo periodo, ed in un
terzo periodo. Basta vedere l’uso dei verbi al passato.
Ora, se dalla considerazione della struttura della divisione si
passa a quella del contenuto, è possibile precisare in misura
ancora maggiore tale punto di vista, indicandolo più propriamente
come basato sul processo produttivo. Ciò che infatti si può
ricavare dalla divisione è, in sintesi, che una prima scienza
estrae la materia prima, e può perciò essere chiamata “
preparatoria “; una seconda la lavora, e può perciò essere
chiamata “ trasformativa “; una terza usa del prodotto finito, e
può perciò essere chiamata “ utilizzatrice “.
Per aver un quadro più chiaro di quanto finora affermato, può
essere utile, a questo punto, riorganizzare le argomentazioni
presenti nella divisione come segue. Vi è un modo di considerare
alcune scienze, o meglio alcune tecniche ( nota I due termini
episteme e techne, che si traducono rispettivamente con “ scienza
“ e “ arte “ o “ tecnica “, sono infatti spesso intercambiabili
fra loro ), e di articolarle in tre gruppi, a seconda del posto
che esse occupano nel corso del processo produttivo, a seconda,
cioè, che esse siano “ preparatorie “, “ trasformatrici “, o “
utilizzatrici “. Poiché tuttavia le operazioni alle quali tali
31
tecniche sono preposte, e dalle quali prendono il nome ( cioè
appunto il saper preparare, il saper trasformare e il saper
utilizzare ), possono essere compiute – e, secondo l’autore, sono
state compiute storicamente ( per quanto discutibile ciò appaia )
– solo in momenti successivi l’uno all’altro, tanto che ciascuna
non sarebbe possibile senza la precedente, esse possono essere
denominate senz’altro “prime”, “seconde” e “terze”. Ad esempio, in
un primo momento l’arte di ricavare i metalli, che è preparatoria,
ricavò i metalli; in un secondo momento l’arte di lavorare di
lavorare il ferro, che è trasformativi, “ trasformò” il ferro che
“ aveva ricevuto “ dall’arte di lavorare i metalli en “fece” freni
e armi; in un terzo momento, infine, l’ippica e l’arte della
guerra, che sono utilizzatrici, “ usarono” in modo conveniente,
rispettivamente, i freni e le armi “ avevano ricevuto “ dall’arte
di lavorare il ferro. Un discorso analogo si può fare anche per
materiali come il legno e la pietra: ad esempio, prima l’arte di
ricavare il legno ricavò il legno, poi l’arte di lavorare il legno
trasformò il legname ricevuto dall’arte precedente e ne fece
flauti, barche, ecc…, infine l’arte di suonare il flauto e l’arte
del pilota usarono in modo conveniente, rispettivamente, i flauti
e i timoni che avevano ricevuto dall’arte precedente; così prima
l’arte di ricavare la pietra ricavò la pietra, poi l’arte di
lavorare la pietra trasformò che aveva ricevuto dall’arte
precedente e ne fece mura, case, ecc…
I.2.1.3 Il perfezionamento della divisione in Diogene Laerzio
La divisione aristotelica delle scienze e arti tramandatoci da
quello che si chiama il codice Marciano dimostra quanto sia
anticamente concepito e sistematizzato il modello occidentale del
progresso sociale chiamato poi sviluppo. Il codice marciano fu
ripreso e rielaborato in modo più chiaramente sistematico da
Diogene Laerzio di cui riportiamo qui la versione della divisione:
“ Triplice è la ripartizione delle arti (…): la prima specie è
costituita dall’arte di scavare miniere e da quella di tagliare
legna; sono infatti arti produttive (…); la seconda è costituita
dall’arte del fabbro e da quella del falegname, che sono arti
trasformatrice (…); infatti dal ferro il fabbro fa le armi, il
falegname dal legno fa il flauti e le lire. La terza specie è
costituita da quelle arti che utilizzano ( … ) i risultati delle
precedenti: per esempio, l’arte equestre si serve dei freni;
l’arte bellica delle armi; la musica dei flauti e della lira. Tre
dunque sono le specie dell’arte: la prima, la seconda e la terza
“(22)
Come si può vedere, il testo di Diogene Laerzio è senz’altro più
accettabile rispetto a quello del Codice Marciano, sia per la
linearità e la chiarezza delle argomentazioni, sia in generale per
lo stile più accurato, tanto da dare l’impressione di costituirne
quasi una spiegazione. Comunque siano le cose, entrambi le
versioni della divisione testimoniano chiaramente la presenza di
32
un’idea di progresso tecnico e tecnologico che assume addirittura
l’aspetto, per quanto a livello ancora germinale, di una sempre
più maggiore “ specializzazione” nell’ambito delle tecniche che
poi si svilupparono con perfezione nei secoli successivi della
storia dell’Occidente, principalmente nell’era dello sviluppo
dell’industria, XVII-XVIII ss.
Dalle offerte di Aristotele e Diogene, emergono questi elementi
costitutivi del modello liberale capitalista occidentale.
I.2.2
Il liberal capitalismo nell’era contemporanea
I.2.2.1 La portata dell’idea di capitalismo
Due sfere di accezioni:
a) Il capitalismo nel senso largo
Definirlo come un modo specifico di organizzazione fondata sulla “
dimensione
sociale
“
dell’uomo
e
sulla
sua
capacità
di
trasformazione del reale al fine della soddisfazione dei suoi
bisogni individuali o collettivi. L’esercizio di tale capacità si
verifica
in
modo
particolare
nell’insieme
delle
attività
necessarie alla trasformazione dell’ambiente naturale con lo scopo
della produzione dei beni atti alla detta soddisfazione dei
bisogni materiali ( e non affettivi ), precisamente i bisogni di
alimentazione, protezione vestiaria, abitazione, spostamento nello
spazio terrestre o extraterrestre, comunicazione, cura bio-fisica
dalle malattie, ecc… (23).
Donde nasce l’attività di lavorare degli uomini come individui o
come collettività. Nel processo lavorativo lo scopo è la
trasformazione maximale della natura a beneficio in vista della
soddisfazione maximale dei bisogni. Si ricordi qui all’utopia
massimalista dell’illuminismo moderno. Il desiderio di una
produzione più intensa e i limiti delle capacità produttive
dell’uomo individuale spingono i lavorativi a formare unità
operative
e
raggruppamenti
artificiali,
occasionali
che
i
sociologi chiamano “ organizzazioni
“. Inoltre la diversità dei
bisogni, quella dei beni e delle attività utili necessarie
implicano una diversità di organizzazioni, dei mezzi di produzione
man mano che crescono il numero degli individui e la quantità dei
bisogni da soddisfare. Tale fatto giustifica la presenza di
organizzazioni degli lavoratori in ciò che gli economisti chiamano
imprese, che vengono così anche esse suddivise in piccole, medie e
grandi nell’ambito delle attività puramente produttive dal punto
di vista economico. Notiamo poi che la diversità nel processo
associativo e organizzativo dei raggruppamenti dei lavoratori
implica dal punto di vista politico-amministrativo la presenza di
altre tipologie di organizzazioni come famiglie, clans, gruppi di
amici, sindacati, nazioni, stati, città, ecc…
33
b) Il capitalismo in senso classico
Secondo Alain Cotta(24), la specificità del capitalismo consiste
nella particolarità delle relazioni tra gli uomini e certi beni
materiali
chiamati
beni
di
produzione
o
necessari
alla
soddisfazione dei bisogni, nella dinamica della loro proprietà ed
uso da parte dei membri del gruppo. Tale appropriazione
generalmente privata e volontariamente collettiva divide infatti
gli
uomini
componenti
un
raggruppamento
in
due
categorie
nettamente distinte: coloro che possiedono quei mezzi e coloro che
non li possiedono. Tale distinzione comporta conseguenze che
determinano tutto i processi nella organizzazione della società e
nelle relazioni tra membri. Ai proprietari dei mezzi di produzione
chiamati “ capitalisti “, spetta la possibilità di scegliere i
prodotti e di combinare per raggiungerli, beni e lavoro, macchine
e operai; subentra il fatto del profitto, reddito che si
identifica alla differenza tra il costo di produzione e il prezzo
di vendita; infine, l’investimento del profitto in nuove attività
per aumentare e migliorare le proprie capacità di produzione da
parte dell’imprenditore capitalista. Ai membri lavoratori, operai
della comunità, viene riconosciuta il diritto al salario, cioè
obbligo per vivere di cedere la loro forza lavorativa ad un prezzo
di cui non hanno totale capacità di concezione e di stipula.
Tale organizzazione della società capitalista implica chiaramente
una ineguaglianza nei suoi meccanismi di esistenza e di
funzionamento. Come farebbero i membri delle armoniche comunità
claniche africane adeguarsi a tale sistema di vita e di società?
Il modello capitalistico della società installa nel cuore della
comunità e della civiltà una ineguaglianza nel settore economico e
poi in quello politico, ineguaglianza nei modi di appropriazione,
ineguaglianza nei modi di produzione e nei servizi, e quindi anche
una ineguaglianza nei consumi. Con il capitalismo la società si
divide
in
due
classi,
quella
dei
ricchi
(
capitalisti,
imprenditori ) e quella dei poveri ( proletari, operai ).
L’ineguaglianza si estende così a tutti i settori della vita
sociale fino a far pensare che la comunità viene ormai guidata da
coloro che possiedono più mezzi di produzione di beni mentre gli
altri ( che non ne possiedono ) devono subire il corso degli
eventi. La vita di ogni uomo diventa così determinata dal fatto
che appartiene alla classe dei proletari o dei borghesi. La
società capitalista si fonda così su una discriminazione radicale
che rompe l’antica armonia.
I.2.2.2
Le versioni culturali del capitalismo occidentale
Il modello capitalistico è uno ma plurimo. Occorre saper che la
sua concezione e impostazione non fanno unanimità nei dibattiti e
nelle realizzazioni dei paesi e popoli occidentali. Gli storici
dell’economia ci rivelano che esistono divergenze tra le nazioni
capitalistiche quanto alla loro visione e prassi del capitalismo.
Se si prende per esempio i paesi europei che ne fecero le prime
34
esperienze, si notano tre versioni dell’impostazione del modello.
Il capitalismo dei paesi latini ( Italia, Francia, Spagna e
Portogallo ) e il capitalismo dei paesi sassoni ( GB, USA e i
paesi scandinavi ) sono diversi dal capitalismo dei paesi
germanici ( Germania, Olanda, Belgio, Austria e Lussemburgo, ecc…
). Il capitalismo risulta incontestato e legittimato nei paesi
come USA, Germania e GB mentre in Francia e nei paesi latini esso
sin dalle sue origini
consoce aspre critiche interne che si
iscrivono
nella
rivoluzione
francese
p.es.
,
nei
vari
comportamenti individuali o collettivi specie nei sindacati.
Lo stesso vale per il capitalismo all’interno di una stessa
nazione quanto alla sua evoluzione storica. Qualunque sia la
nazione ( USA, Italia, Francia, ecc…) il suo capitalismo degli
inizi 800 non è quello di oggi. Tra i due sono passati più di due
secoli, qualche guerra e tutta una evoluzione che ha visto grandi
imprese sostituire le più piccole, il salario diventare sempre più
frequente, sempre maggiore, il costo e la qualità della vita
aumentare e
migliorare, gli Stati-nazioni costituirsi in posto
delle monarchie, i sindacati diventare organizzazioni importanti,
ecc… In ogni modo occorre sintetizzare che il capitalismo dei
paesi anglo-sassone è più feroce dal punto di vista economico, è
più economistico e tecnologistico; privilegia senza mezzi termini
il capitale economico all’uomo che mette totalmente al servizio
della produzione. Il capitalismo di stampo latino è più mitigato
tra l’umano e l’economico; considera l’economico come un bene
importante e non suprema e l’uomo come soggetto centrale e fine
della produzione.
* Riassumendo i 5 principali elementi caratteristici del modello
capitalista liberale sono: 1) la fede nella capacità naturale di
conoscere, trasformare la natura e produrre i beni utili alla
soddisfazione dei suoi bisogni mediante il libero uso della
ragione naturale e dei mezzi tecnologici; 2) l’appropriazione
privata o collettiva dei beni prodotti ; 3) lo scambio monetario
dei beni mediante il sistema del mercato; 4) l’evoluzione dei modi
di vita mediante la creazione e il miglioramento dei servizi della
collettività ; 5) l’accettazione delle ineguaglianze sociali nella
proprietà dei beni di produzione, nella loro distribuzione e nel
loro consumo: si parla di proprietari, capitalisti e di operai,
proletari.
I. 2.3 La laicità del modello di sviluppo occidentale
I.2.3.1 La portata dell’idea di laicizzazione dello sviluppo
Nell’età moderna ( XVII-XIX ss. ) si conferma in Occidente
l’aspirazione degli uomini a creare un mondo dal qual non solo sia
bandito il negativo, ma nel quale non si debba più fare i conti
con l’infelicità: è questo il risvolto psicologico della categoria
filosofica del progresso su cui si fonda la teoria dello sviluppo.
35
Ne fa fede – oltre alle convinzioni di Condorcet e Spencer più
sopra citate – questo giudizio dell’abbate Morellet: “Ci sia
consentito riconoscere che l’uomo avanza, sia pure lentamente,
verso la luce e la felicità“(25) Dall’altra parte secondo lo
stesso Kant ( il quale riteneva che l’illuminismo avesse fatto
uscire l’uomo dalla “ minore età “ ), la storia umana era “ in
costante progresso verso il meglio “(26)
Alle origini dell’età moderna, in seguito alla rivoluzione
scientifica e industriale, la quale stava a dimostrare la
veridicità del detto baconiano secondo cui sapere = potere, si
diffonde nel mondo occidentale non solo l’aspirazione ad una vita
felice, ma anche la convinzione che l’uomo avrebbe in ogni caso
conseguito la felicità e che tale stato idilliaco andava
realizzato non in altri mondi, ma in questo mondo, ossia nei
limiti ben precisi della storicità. Da quella era all’oggi la
visione religiosa secondo cui la vera / totale felicità non può
avvenire in questa terra, perdeva sempre più il suo mordente.
Nasce
così
il
razionalismo
moderno
che
sarà
all’origine
dell’illuminismo e quindi dello sviluppo tecnologico e economico
di stampo liberal-capitalista occidentale. Diamo alcun input dei
pensatori che lo hanno generato e che sono chiamati i padri del
modello
di
sviluppo
contemporaneo
occidentale.
Enumereremmo
soltanto alcune figure più rappresentative.
I.2.3.2 La singolare influenza di Baruch Spinosa e sostenitori
Attraverso un pensatore – Baruch Spinosa – pressoché ignorato nel
suo tempo, ma le cui idee non sarebbero rimaste sterili, aveva
avuto inizio quel processo di immanentizzazione che dapprima
avrebbe
coinvolto
il
pensiero
filosofico
(
nota
L’immanentizzazione della filosofia e, conseguentemente, della
concezione della storia incomincia con il famoso passo dell’Ethica
spinoziana, in cui si afferma che “ Dio è la causa immanente e non
già transitiva di tutte le cose “(27), riflettendosi poi nel “
sentire comune “ della civiltà occidentale e provocandone la “
secolarizzazione
“.
Il
fenomeno
della
laicizzazione
della
coscienza umana, iniziato in modo deciso dalla filosofia di
Spinosa, crebbe e s’irrobustì con l’illuminismo e il romanticismo
– sempre per influsso dell’Olandese – ed avrebbe avuto il suo
culmine in Hegel(28), Feuerbach(29), il quale, secondo il suo
convincimento, non avrebbe più nulla da dire né alla mente né al
cuore dell’uomo. “ Noi abbiamo – egli sostiene infatti nello
scritto Nothwendigkeit einer Reform der Philosophie – ben altri
interessi che non la beatitudine eterna, del cielo “(30) e
Marx(31)
Da quella era alla nostra epoca, lo sviluppo di modello
occidentale è una ideologia puramente laica e liberista. Lo
sviluppo secondo questa ideologia è uno sviluppo materialista. I
seguaci di Spinosa come A. Guzzo affermeranno tra altro che
secondo loro “ il mondo reale è questo mondo noi vediamo e
36
calchiamo coi piedi. Il resto sono sogni e sciocchezze “(32) “Non
è affatto un mistero
che Spinoza sia l’antesignano dei liberi
pensatori, dei materialisti e degli illuministi“(33)
Così come la religione anche la filosofia subì una scossa mortale
nelle nuove ideologie occidentali, per il fatto che il ricercare
un senso dell’essere al di fuori del dato effettuale fu ormai del
tutto assurdo. Non si sbagliò l’autore che scrisse all’inizio
dell’Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des sciences, des art
set des métiers, che “ l’era della religione e della filosofia
aveva ceduto il posto al secolo della scienza “(34). Secondo lui
l’ottimismo illuminista si riassumerebbe nel binomio scienzaprogresso: organo della scienza era la Ragione; meta del progresso
avrebbe
dovuto
essere
la
conquista
della
felicità.
Gli
enciclopedisti “ non avevano solo fiducia nella ragione e nella
scienza ma, in più, anche una fede più o meno definita nella
possibilità di un progresso dell’umanità verso la perfezione “(35)
“ Poiché per l’umanità il problema era raggiungere coi propri
mezzi una condizione di felicità, questi pensatori erano convinti
che per risolverlo la ragione doveva gradatamente trionfare sul
pregiudizio ( = religione )”(36).
Non si trattava più di cedere in un paradiso metastorico, poiché
il “ dogma del progresso “ insegnava che l’uomo, coi suoi “ lumi
“, avrebbe edificato il paradiso su questa terra. Pertanto, “ il
destino trascendente dell’uomo cedette a un fine immanente. Non si
“ trascendeva “ più verso Dio, il summum bonum, bensì in mondo
umano progressivamente suscettibile di miglioramento “(37).
Di qui è nata quella nuova idea dello sviluppo – dovuta ad una
vera e propria “ svolta antropologica “ – che doveva poggiare su
questi quattro capisaldi: la fede nella ragione; la possibilità di
un progresso illimitato; l’utopia tecnologica; il domino dell’uomo
sulla natura. Questo sta a significare che per gli ideologi dello
sviluppo di stampo occidentale, l’”uomo nuovo “, l’uomo sviluppato
è colui che non avendo altri mondi a cui pensare, deve essere
necessariamente impegnato a costruire la propria patria in questa
terra. E se l’unica “ casa “ cui è destinato ad abitare è questa,
nella quale trascorrere i giorni dell’unica sua vita, cercherà che
questa “ casa “ sia il più accogliente possibile, comoda, ricca,
dotata di tutti i comforts che la tecnica viene apprestandogli.
37
Secondo capitolo
Applicabilità del modello occidentale nelle aree rurali.
L’ipotesi franceschettiana in breve.
In questo capitolo, cerchiamo di esaminare una ipotesi di
applicazione / importazione del modello occidentale nelle aree
africane. Ci riferiamo ad una documentazione che ci sembra più
illuminante e consigliamo come libro da usare negli sperimenti in
Africa. Si tratta dell’ipotesi a noi fornita dallo studioso
Giorgio Franceschetti nel suo libro in comune con Giovanni
Fusetti. Ecco perché parliamo dell’ipotesi franceschettiana. Il
volume donde tiriamo il materiale della nostra riflessione
s’intitola “ Lo sviluppo sostenibile. Un’ipotesi progettuale in
una regione africana “. Il libro ha una ossatura di 5 capitoli che
si concludono con un’appendice che descrive alcune caratteristiche
fondamentali della Regione africana contesto dello studio, gli
Acholi
del
Nord
Uganda,
precisamente
quanto
riguarda
la
problematica dello sviluppo socio-agricolo.
Non ne faremmo una recensione globale. Ne abbiamo scelto soltanto
due capitoli di riferimento, precisamente ( l’”Appendice”: la
Regione Acholi nel Nord Uganda “, pp. 143-178 ) e il quinto (“
Un’ipotesi di sviluppo rurale sostenibile per la Regione Acholi
del Nord Uganda “ , pp. 115-142). Ho invertito la successione del
libro, cominciando dall’Appendice per un motivo metodologico:
l’appendice
fa
un’analisi
sociologica
della
località
di
realizzazione del progetto; il quinto capitolo fa uno studio
tecnico-prospettivo del progetto. Siamo dinanzi ad uno schema
tipico
occidentale,
che
segue
la
logica
aristotelica
nel
confrontare i problemi non solo in Occidente ma in tutto il globo.
Faccio una precisazione da critico del libro.
Quando Franceschetti e Fusetti intitolano il cap. V “ un’ipotesi
di sviluppo rurale sostenibile per la Regione Acholi del Nord
Uganda “, non si tratta ancora di ipotesi di sviluppo come tale,
ma in realtà si tratta di proposta di uno schema di cooperazione
allo sviluppo nelle aree rurali che loro offrono come modello da
seguire e estendere dal punto di vista del metodo e dei contenuti
da parte degli operatori outsiders che avviano i mini-progetti in
quelle aree. In questo capitolo cercheremmo ( leggendo prima di
tutto l’Appendice ) anzitutto di cogliere il metodo che
consigliano Franceschetti e Fusetti ed inseguito ( leggendo il
cap. V ), ci proponiamo di scoprire il contenuto del modello di
cooperazione allo sviluppo rurale che i due esperti partendo dagli
Acholi considerano “ una formula vincente “ e capace di “ far
evolvere un tessuto economico e sociale gracile in ambiente rurale
“ ( p. 2 ) africana in generale.
38
Sez. 1. L’itinerario ideativi dei programmi di sviluppo
nell’ipotesi franceschettiana: riflesso del pensiero
occidentale
A leggere i suoi 5 capitoli e l’Appendice del libro di
Franceschetti che consiglio come capo-lavoro più vicino a noi in
termini di dottrina di cooperazione allo sviluppo nelle aree
rurali,
risulta
consigliato
il
seguente
percorso
ideativo
ereditato
dalla
dottrina
classica
della
cooperazione
allo
sviluppo, che secondo me, riflette nei migliori dei modi
l’itinerario del pensiero occidentale razionalista, liberalcapitalista come lo abbiamo precedentemente descritto, anche se
poi da Franceschetti ci elementi di novità che andremmo a rilevare
successivamente.
Si nota subito le determinazioni non solo della classica scienza
dell’economia dello sviluppo ma anche della logica aristotelica e
del dubbio metodico cartesiano nell’ideazione e la programmazione
delle iniziative atte a produrre attività di sviluppo delle
popolazioni. Ecco come Franceschetti delinea lo schema di ciò che
devono seguire gli operatori dello sviluppo nei paesi del Sud:
1) Fase di preparazione del progetto, la sua procedura classica:
1°. L’interesse alla problematica dello sviluppo delle zone meno
avanzate;
2°. Il possesso di una formazione appropriata generale e
specifica;
3°. La concezione generica dell’iniziativa ( l’idea, le idee
generali ): fase di ideazione
4°. La trasformazione dell’idea in ipotesi di progetti: fase di
progettazione ( che può esser fatta a livello personale o di
gruppo, in modo ancora informale, con studio sul campo o in base
ad una relativa documentazione );
5°. La trasformazione del progetto in azione concreta: fase di
realizzazione
(
richiede
una
ulteriore
organizzazione
e
necessariamente un lavoro di équipe ).
2) Fase di realizzazione, la sua procedura classica:
1°. Il collocamento ad una organizzazione specializzata nel
settore;
2°. La presentazione del progetto ( verbale o scritta );
3°. L’analisi specializzata del progetto, gli elementi della fase
analitica o di studio:
-la raccolta dei materiali: sul campo o dai documenti
-lo studio tecnico del materiale: questo richiede una preparazione
tecnica non solo specializzata ma anche generalista perché lo
sviluppo è come un puzzle, un complesso dei fili della ragnatela,
quando tocchi ad uno solo filo, è tutto l’insieme che si muove e
se non vuoi rovinare, devi prestare attenzione ad ogni singolo
filo.
39
Ecco ciò che giustifica il fatto che per proiettare una ipotesi di
sviluppo sostenibile dagli
Acholi, Franceschetti e Fusetti
compongono una squadra virtuale fatta da sociologi, economisti,
geologi,
storici,
politici,
agronomi,
veterinari,
ecc…;
attenzione, noto che nella loro squadra mancano un religioso e un
filosofo ( o un antropologo ). Ecco come lo vedo: si legga
l’Appendice.
Nelle due sezioni A e B, gli autori offrono come elementi
costitutivi dell’analisi del territorio: a) a livello generale
nazionale dell’Uganda
e regionale degli Acholi del Nord: la
situazione
geo-climatica,
la
situazione
socio-politica;
la
situazione demografica; la situazione economica, ecc…; la stessa
composizione della squadra si ritrova
a livello specifico del
settore d’intervento ( agricolo ). A questo livello però, è ovvio
che devono esser principalmente gli esperti del settore agricolo a
operare.
Sez. 2
Commento da africano allo schema progettuale
franceschettiano
Faccio una sintesi degli elementi più costituivi della proposta
franceschettiana e ne do un breve commento in relazione alla
tematica di uno sviluppo sostenibile nelle aree africane,
segnalando poi che una più ampia trattazione verrà offerta nel
terzo capitolo del nostro corso. In linea di sintesi ho riassunto
in
sette
punti
principali
i
dati
dottrinali
dell’ipotesi
franceschettiana.
Ne
parlo
presentando
anzitutto
le
idee
dell’ipotesi come tale e poi vi aggiungo un mio breve commento.
II.2.1
Primato dell’attenzione al “locale” in ogni tappa: novità!
Dopo aver indicato le vie della pianificazione dei progetti di
sviluppo in terra Acholi, con determinazioni della mentalità
occidentale, noto che in secondo livello del suo approccio, il
professor Franceschetti opera un passaggio che distingue la sua
teoria dalla visione classica della cooperazione (eurocentrista) e
l’avvicina alla nuova concezione. Quest’ultima mette al centro
delle iniziative, una accurata attenzione alle realtà locali. Per
cui l’attività principale che viene consigliata consiste in una
paziente ad ampia informazione sulle località di collocamento dei
progetti da parte dei cooperatori.
Leggendo il loro libro su questo punto, si nota che Franceschetti
e Fusetti si preoccupano di promuovere una cooperazione che
favorisca uno sviluppo veramente endogeno:
- Cercano, trovano e comunicano informazioni generali sulla natura
del terreno, il clima e alcuni dati riguardanti la situazione
socio-politica
generale
della
regione
degli
Acholi
(
cfr
“Lineamenti generali” ) ;
- Cercano, trovano e comunicano informazioni “ sulle principali
specie agricole coltivate nella Regione “, così il pianificatore
40
del progetto potrà ben sapere che dagli Acholi le specie realmente
coltivate e consumate sono: le culture da tubero ( la manioca, la
patata dolce); l’oleaginose ( il sesamo, il girasole, il cotone );
altre specie ( il tabacco, i prodotti dell’ortaggi : i pomodori, i
cavoli, le cippole, ecc…); gli alberi di frutta ( gli agrumi,
l’albero del burro, l’avvocado, il banano, il mango, la papaia,
ecc… );
- Cercano, trovano e comunicano informazioni sulle “ tecniche
colturali “ locali ( tradizionali e moderne ). Attenzione: non mi
soffermo su queste tecniche perché non è di mia competenza;
- Cercano, trovano e comunicano informazioni sui sistemi locali di
“ raccolta e conservazione dei prodotti “;
- Cercano, trovano e comunicano informazioni sull’ “allevamento”
locale dagli Acholi;
- Cercano, trovano e comunicano informazioni sulle “ risorse
forestali “ dagli Acholi. Veniamo così a sapere quali tipi di
alberi esistono in quella regione e quale è il sistema per la
coltivazione, il loro mantenimento e la commercializzazione dei
prodotti da essi derivati.
- Cercano, trovano e comunicano informazioni sui “ principali
fattori limitanti allo sviluppo rurale nella Regione degli Acholi
“.
II.2.2
L’identificazzione
sviluppo nel Sud
occidentale
degli
ostacoli
dello
Per motivi metodologici, mi soffermo su questo punto e richiamo
alcune informazioni e suggerimenti che ci vengono offerte da
Franceschetti e Fusetti.
Economisti come sono, Fusetti e Franceschetti segnalano come
fattori limitanti di uno sviluppo rurale dagli Acholi :
a)Dal
punto
di
vista
ambientale:
non
esistono
fattori
significativi perché i terreni sono naturalmente fertili; il clima
alternato in due stagioni ( secca e piovosa ); l’unico fattore
ambientale limitante secondo loro è di tipo sanitario, “
ed è
legato alla diffusione della mosca tse-tse;
b)Dal punto di vista socio-politico ( “ fattori antropici “ ):
l’assenza di sicurezza ( la guerra in corso dal 1986 ) e di
stabilità politica quale principale fattore limitante di qualsiasi
possibilità di sviluppo; e auspicano “ il ritorno dell’ordine e
della sicurezza, ed il ripristino del sistema democratico “. Quale
tipo di ordine e quale tipo di democrazia Franceschetti Fusetti
auspicano? Ovviamente di stile occidentale. Un problema che
dibatteremmo nei capitoli che seguono;
c)Altri fattori limitanti, sono quelli legati ad “ alcune
caratteristiche strutturali dell’attività agricola tradizionale “,
quali : - l’importante ruolo che continua a giocare “ ancora la
diffusione dell’agricoltura itinerante, che determina il continuo
spostamento delle superficie coltivate; - nelle aree più interne
41
la mancanza sia di appezzamenti stabilmente coltivati sia di
insediamenti
umani
fissi,
impedisce
l’introduzione
di
infrastrutture ( impianti irrigui, stalle, magazzini e altri
edifici, etc.) “ utili al miglioramento delle tecniche agricole;
d)“ Dal punto di vista agronomico un fattore limitante à la
disponibilità di elementi nutritivi nei suoli coltivati che, a
causa della scarsa o nulla diffusione della rotazione con specie
leguminose e dell’allevamento, viene integrato soltanto da lunghi
periodi di maggese, che riducono il potenziale produttivo di
alcune aree fertili “ .
II.2.3 Programmazione occidentale degli obbiettivi in un progetto
di sviluppo rurale
Ogni metodologia è un percorso strategico per raggiungere alcuni
obbiettivi
prefissati.
Nel
nostro
caso,
osserviamo
che
l’obbiettivo
ideologico
che
si
prefigge
il
prof.
Giorgio
Franceschetti nella sua ipotesi in studio consiste nell’aiutare le
popolazioni delle aree rurali al raggiungimento del benessere
mediante il miglioramento delle loro condizioni di vita economica.
Cioè grazie alla realizzazione in loco di sistemi di produzione di
beni e finanze non solo per la soddisfazione dei bisogni primari
ma anche per il miglioramento della qualità della vita con il
cumulo di guadagni frutto del mercato dei prodotti agricoli.
II.2.3. 1 Principali tipologie di obbiettivi
L’ipotesi franceschettiana contiene quindi
obbiettivi che caratterizzano generalmente
cooperazione allo sviluppo:
tre tipologie
ogni progetto
di
di
II.2.3.1.1 Un obbiettivo ideologico essenziale, non dichiarato.
Secondo me, nel caso presente, è chiaro che egli persegue la
promozione di una economia di mercato quale garanzia per uno
sviluppo economico endogeno nelle aree rurali africane, mediante
la realizzazione delle cooperative agricole. Sottolineo “ sviluppo
economico “ perché tale è il vero scopo dichiarato nelle varie
asserzioni ( come vedremmo ). L’esperienza mi ha insegnato che
questo scopo ideologico, pur essendo immaginato come vero
promotore e protettore
del benessere individuale e collettivo,
non viene generalmente dichiarato in modo esplicito nei progetti
non direttamente “ finanziari “ da parte degli operatori
outsiders.
II.3.1.1.2. Sei obbiettivi ideologici sussidiari, dichiarati, così
come li enumera Franceschetti e li definisce “ obbiettivi generali
“:
e)
miglioramento delle condizioni di vita della popolazione
42
f) razionalizzazione della gestione dello sfruttamento delle
risorse
naturali
locali,
secondo
i
criteri
della
massima
sostenibilità e della massima partecipazione;
g) promozione
dell’autogestione
comunitaria
delle
risorse
attraverso la creazione di un sistema di cooperative agricole (
Farmers Cooperatives ); sostenute da un Ente di Sviluppo Regionale
con sede nella città di Gulu;
h) ottenimento di una produzione agricola affidabile per quantità
e qualità;
i)
aumento dei redditi monetari della popolazione rurale;
rivitalizzazione dell’ambiente rurale attraverso la creazione di
nuove opportunità lavorative connesse con il settore agricolo
“(38).
II.3.1.1.3
Sette obbiettivi strategici per la realizzazione
del modello liberal-comunitario delle Cooperative agricole
Dopo aver definito gli obbiettivi ideologici essenziali e
sussidiari, ogni progetto di matrice occidentale prosegue la
propria logica, e quindi questa porta il programmatore a definire
la
strategia
di
azione
che
deve
intraprendere.
L’ipotesi
Franceschetti propone diverse attività e strutture strategiche
necessarie
al
raggiungimento
a
breve,
medio
e
termine
dell’obbiettivo ideologico. Franceschetti ne ha elaborati 7 ma noi
ci limitiamo ad analizzarne soltanto 5, brevemente e solo a titolo
illustrativo della nostra critica costruttiva, e li commentiamo
direttamente.
II.2.4
adeguata
Una pianificazione del territorio stile “occidentale”, ma
Proposta
Si tratta per lui della definizione e suddivisione della zona
d’intervento in piccole unità di lavoro ( Rural Units )
circoscritte tra agglomerazioni piccoli e agglomerazioni più
grandi interdipendenti, ma ciascuna di essa avendo la propria
autonomia in organizzazione, produzione e consumo dei beni. Le
Rural Units sono in realtà i clans, i villaggi, le chefferie, i
comuni, i distretti e oggi anche le parrocchie e le diocesi.
Commento
Possiamo
ritenere
che
il
metodo
consigliato
da
Giorgio
Franceschetti e Fusetti come schema ideale nella dinamica dello
studio, della pianificazione e della realizzazione di miniprogetti di cooperazione allo sviluppo nell’area rurale degli
Acholi riprende generalmente gli elementi della dottrina dello
sviluppo degli anni 1980-90. Questa dottrina è quella che è
centrata sulla ricerca di uno sviluppo sociale endogeno e
sostenibile, cioè radicato nella realtà locale dal punto di vista
43
dell’utilizzo delle risorse e strategie di azione. Si vede come
questi due esperti occidentali muovono la loro teoria: partono da
una loro preoccupazione di uomini ( di buona volontà ) e di
studiosi ( specialisti del settore economico e agricolo nella
prospettiva della cooperazione con paesi emergenti ), ideano un
programma di studio per offrire ai loro contemporanei un documento
destinato ad essere uno strumento utile alla creazione di una
civiltà e mentalità di una solidarietà o cooperazione che porti
uno sviluppo davvero durevole anche nei paesi del Sud del pianeta.
Dico che lo schema è quello classico perché propone ancora
l’Occidente/l’Europa come punto di partenza e l’Africa come punto
di arrivo, anche se in realtà il vero punto di arrivo / ritorno di
questo modello di Franceschetti è l’Occidente. Perché? Perché i
soggetti operanti nel progetto devono ( come vedremmo nella
sezione seguente) seguire la logica occidentale dello sviluppo:
conoscere i meccanismi di azione nell’ambito delle cooperative
agricole ( quale è lo stile di quelle cooperative dal punto di
vista organizzativo e operativo? Fondamentalmente occidentale con
applicazione in Africa ); produrre e produrre secondo quale
logica? Occidentale.
L’indicazione che proviene da Franceschetti consiste nel produrre
per il consumo in famiglia ma soprattutto per il guadagno
monetario, per il mercato. E come lo sappiamo, ogni strada
dell’economia del mercato parte dall’Occidente e ritorna in
Occidente. I soldi guadagnati partono dalle case/casse rurali alle
banche nazionali fino alla Banca mondiale o alle banche svizzere.
Siamo qui dinanzi ad uno schema che riprende ciò che chiamo il
ciclo virtuoso – vizioso della cooperazione allo sviluppo nelle
aree rurali nello modello classico. Attenzione: questa mia non è
ancora una valutazione critica ma una semplice constatazione. Se
fosse una critica, essa sarebbe positiva, perché si tratta di un
modello che io sposo(39) quando chiedo agli Africani di partire
dal loro particolare per penetrare l’universale nella scienza,
nella tecnologia, nel commercio, ecc… Mi trovo quindi d’accordo
con la proposta di Franceschetti e Fusetti anche se nei capitoli
seguenti cercherò di completarla con la mia critica antropologica.
Esaminiamo gli elementi qui riferiti nella ricerca sui contenuti
del modello di cooperazione allo sviluppo.
Al di là di ogni idea e proposta il principale mobile che muove il
pensiero di Franceschetti e attorno ruota il modello cooperativo
che egli suggerisce quale via maestra di lavoro e produzione del
benessere nei villaggi africani, è l’aiutare i contadini a
guadagnare il danaro, più danaro possibile per ognuno di loro, per
ogni famiglia, per ogni comunità. Per guadagnare tale danaro,
devono quindi organizzarsi, lavorare meglio di prima sullo stile
associativo improntato dal modello triveneto degli anni 1940-1950
che ha portato al benessere diffuso e al capitalismo italiano. Si
parte sempre dal danaro al danaro.
44
Ha ragione Franceschetti. Le cooperative non si formano solo con
le braccia e con le buone parole degli anziani dei villaggi e
degli operatori stranieri. Le parole si dicono, si sentono e si
accettano. Ma per farli passare all’azione, ci vogliono somme di
danaro per scrivere e documentare i progetti su fogli di carta,
per mangiare e ritornare al lavoro l’indomani, per comperare
utensili di base, attrezzi e macchinari utili all’avviamento dei
lavori, la loro continuità, ecc… Ci vuol danaro per costruire
stalle, porcili, pollai, piantagioni, ecc… che Franceschetti
auspica ( giustamente ) come infrastrutture di sostenibilità del
progetto nel tempo.
L’esperienza insegna tuttavia che perché tale danaro si mantenga e
si riproduca nel tempo, dopo il ritorno dell’operatore occidentale
a casa sua, occorre creare possibilità per la sua riproduzione in
loco, da parte degli autoctoni stessi. Ecco qui l’importanza o
forse la necessità del mercato, della vendita sul mercato locale
del villaggio e della Regione dei prodotti coltivati. Osserviamo
quindi che Franceschetti consiglia la strategia di un lavoro in
comune, per un guadagno personale, a destinazione privata o
collettiva volontariamente. Siamo senza dubbio nella dinamica
riflessiva della promozione di una economia di mercato nell’area
africana. Tale tipo di processo dello sviluppo è generalmente
chiamato ( senza pregiudizio ) il modello capitalista liberale.
Ecco cosa scrive Franceschetti: “ L’idea guida di tutta l’ipotesi
di sviluppo è la promozione tra agricoltori del modello
cooperativo di gestione delle risorse. … La cooperativa lavora per
produrre il cibo per il proprio approvvigionamento e prodotti da
vendere sul mercato, per ottenere un profitto monetario. Le
famiglie ricevono il proprio fabbisogno alimentare ( cereali,
frutta, verdura, latte, etc. ) e una ripartizione degli utili, con
cui possono acquistare altri beni dalla Cooperativa “(40).
E quindi chiaro la promozione di una cultura dell’economia del
mercato
con il relativo miglioramento delle condizioni di vita
economica resta lo scopo più mirato dal modello cooperativo che
propone Giorgio Franceschetti. Questo modello come ogni altro, per
essere realizzato e per poter raggiungere i suoi obbiettivi, ha
bisogno di una strategia di azione e di strutture.
Nella pianificazione del territorio, Franceschetti consiglia tra
altro di dividere il teritori in base alle potenzialità dei suoli
( area a basso potenziale, aree a elevato potenziale, aree di
interesse ambientale, ecc…; e poi aree stabilmente coltivate, aree
saltuariamente coltivate, aree già coltivate e ora abbondante e
aree mai coltivate ). Bisogna star attentissimi e studiare bene il
diritto fondiario fondiario consuetudinario locale prima di
avviare il progetto. Lo possono accettare mentre l’outsider è
ancora presente per guadagnare danaro ma a lungo termine se i
problemi non erano risolti, nascono i conflitti tra contendenti
che possono pur esser soci di una stessa cooperativa e il progetto
45
ne paga il prezzo in termini di rischio. Voglio dire che occorre
saper che la proprietà e la divisione delle terre è un problema
dove gli stranieri hanno fallito nei tempi della colonizzazione
pensando che tutte le terre in Africa potevano appartenere allo
Stato o al grand capo di una agglomerazione più importante. Nei
villaggi naturali, le terre appartengono ai clans, ai regni,
imperi, ecc… e sono sotto ad usi e costumi tradizionali per il
loro uso. E’ nelle agglomerazioni semi urbane o urbane che le
terre sono il diritto amministrativo moderno. Quindi occorrerà
trattare con quei capi, e essere ben informato sugli usi e costumi
riguardante le terre da parte dei contadini della parte
interessata. Ci sono pur fertili ma che secondo certi miti,
concezioni, leggende locali, non possono essere coltivate. Sarà un
grave trauma e una violazione del costume che installare il
progetto in quelle terre. I contadini non vi lavoreranno con
convinto entusiasmo, e il progetto ne pagherà. Ne parleremmo
nell’ultimo capitolo.
II.2.5 Una strutturazione delle entità sociali stile “occidente”
Proposta
Mentre la Rural Unit rappresenta una struttura naturale che
l’operatore trova e che deve valorizzare secondo il progetto, la
struttura “ sociale “ è una nuova realtà, è appunto la cooperativa
stessa, che l’operatore deve ideare, promuovere e organizzare
all’interno della comunità naturale, del villaggio. Franceschetti
asserisce qui una indicazione che attira attenzione. Si tratta del
fatto secondo Franceschetti questi raggruppamenti devono esser
composti da famiglie che accettano liberamente di riunirsi in un
singolo gruppo artificiale e di collaborare per ottenere i
risultati del progetto.
Commento
Dobbiamo qui sottolineare il fatto che nei villaggi naturali, le
famiglie sono già “ naturalmente “ collegate da una rete di
relazioni organizzate con a capo i “ capi famiglia “ naturali.
Quando arriva un progetto di sviluppo moderno che riguarderà
l’impiego di persone, il cambio di abitudini nel lavoro,
nell’organizzazione, ecc.. ( p.es. il pragmatismo del progetto
moderno esigerà che il responsabile della cooperativa sappia
leggere e scrivere, il capo naturale può o non saperlo fare,
allora nascerà un problema che l’operatore dovrà saper risolvere;
ciò gli richiederà una certa conoscenza antropologico-culturale in
partenza e all’arrivo ).
II.2.6
Una concezione della produzione agricola e del consumo,
sfondo occidentale
Proposta
46
L’ipotesi
Franceschetti
asserisce
che
nell’elaborazione
del
progetto si dovrà mirare a due obbiettivi su questo aspetto: - un
obbiettivo primario, che consiste nell’autosufficienza alimentare
con la salvaguardia della fertilità del suolo ( qui bisogna sapere
che i contadini hanno i loro metodi che alle volte possono essere
perfezionati e non soltanto rigettati a profitto dei metodi
moderni ); - un obbiettivo secondario, l’aumento del reddito delle
popolazioni locali: ciò richiede l’introduzione di un sistema di
rotazione programmata delle coltivazioni all’interno di ogni
villaggio.
Commento
Bisognerà star attenti a questo livello. Perché l’introduzione
pone il problema dell’assimilazione. I contadini non sanno leggere
né scrivere e quindi l’operatore outsider ha bisogno di un
interprete locale, un agronomo locale per far capire le vari
tecniche in proposta. Si tratta qui di una fase molto importante e
determinante, cioè l’introduzione delle innovazioni tecnologiche.
Franceschetti guadagna in apprezzamento quando propone che “
L’introduzione di nuove tecniche deve essere applicata nel massimo
rispetto della cultura locale e con il minimo necessario di
innovazioni
tecnologiche,
di
pari
passo
con
la
effettiva
accettazione da parte della popolazione e con la reale possibilità
di poterle applicare nel lungo periodo senza far nascere
situazioni di dipendenza dall’esterno, troppo complesse ed onerose
da ottenere “ (41) In più trova elogio il prof. Giorgio quando
considera le cooperative come realtà congeniale alla struttura
formale delle comunità naturali dell’Africa tradizionale.
II.2.7
La
proposta
di
un
Ente
l’occidentopolarizzazione del progetto!
coordinatore
locale:
Proposta
Nell’ipotesi Franceschettiana, si tratta di un Ente di riferimento
che generalmente i progetti outsider istallano nei centri urbani o
semi-urbani delle aree d’intervento. E’ una unità – cervello
locale, cioè d’ideazione, organizzazione e attuazione delle
proposte e iniziative del progetto; è anche un Centro di
coordinamento interno ( giova da coordinatore delle varie
cooperative sparse ) e internazionale ( coordinatore tra la
capitale, l’Occidente e il mondo rurale d’intervento ).
Commento
Dal punto di vista realistico e pragmatico, questo Ente è una
necessità obbligata e una unità strategica di controllo, successo
e sostenibilità del progetto quanto all’ideale dell’endogeneità.
Tuttavia per quanto riguarda la critica della cooperazione allo
sviluppo, rileviamo che l’installazione che questi enti nei centri
urbani o semi-urbani implica la solita europolarizzazione dei
47
progetti di sviluppo. In più l’esperienza insegna che gli
operatori locali africani che vengono nominati a lavorarvi sono
persone ormai acculturati, europolarizzati e quindi bisognosi di
una educazione, coscientizzazione per lavorare alla realizzazione
dell’ideale di uno sviluppo endogeno sostenibile che mira
Franceschetti.
Sez.3
Riassunto sull’ipotesi franceschettiana.
Riassumendo possiamo ritenere che il metodo consigliato da Giorgio
Franceschetti e Fusetti come schema ideale nella dinamica dello
studio, della pianificazione e della realizzazione di miniprogetti di cooperazione allo sviluppo nell’area rurale degli
Acholi riprende generalmente gli elementi della dottrina dello
sviluppo degli anni 1980-90. Questa dottrina è quella che è
centrata sulla ricerca di uno sviluppo sociale endogeno e
sostenibile, cioè radicato nella realtà locale dal punto di vista
dell’utilizzo delle risorse e strategie di azione. Si vede come
questi due esperti occidentali muovono la loro teoria: partono da
una loro preoccupazione di uomini ( di buona volontà ) e di
studiosi ( specialisti del settore economico e agricolo nella
prospettiva della cooperazione con paesi emergenti ), ideano un
programma di studio per offrire ai loro contemporanei un documento
destinato ad essere uno strumento utile alla creazione di una
civiltà e mentalità di una solidarietà o cooperazione che porti
uno sviluppo davvero durevole anche nei paesi del Sud del pianeta.
Dico che lo schema è quello classico perché propone ancora
l’Occidente/l’Europa come punto di partenza e l’Africa come punto
di arrivo, anche se in realtà il vero punto di arrivo / ritorno di
questo modello di Franceschetti è l’Occidente. Perché? Perché i
soggetti operanti nel progetto devono ( come vedremmo nella
sezione seguente) seguire la logica occidentale dello sviluppo:
conoscere i meccanismi di azione nell’ambito delle cooperative
agricole ( quale è lo stile di quelle cooperative dal punto di
vista organizzativo e operativo? Fondamentalmente occidentale con
applicazione in Africa ); produrre e produrre secondo quale
logica? Occidentale. Produrre per il consumo in famiglia ma
soprattutto per il guadagno monetario, per il mercato. E come lo
sappiamo,
ogni
strada
dell’economia
del
mercato
parte
dall’Occidente e ritorna in Occidente. I soldi guadagnati partono
dalle case/casse rurali alle banche nazionali fino alla Banca
mondiale o alle banche svizzere. Siamo qui dinanzi ad uno schema
che riprende ciò che chiamo il ciclo virtuoso – vizioso della
cooperazione allo sviluppo nelle aree rurali nello modello
classico. Attenzione: questa mia non è ancora una valutazione
critica ma una semplice constatazione. Se fosse una critica, essa
sarebbe positiva, perché si tratta di un modello che io sposo(42)
quando chiedo agli Africani di partire dal loro particolare per
penetrare l’universale nella scienza, nella tecnologia, nel
commercio, ecc… Mi trovo quindi d’accordo con la proposta di
48
Franceschetti e Fusetti anche se nei capitoli seguenti cercherò di
completarla con la mia critica antropologica.
Esaminiamo gli
elementi qui riferiti nella ricerca sui contenuti del modello di
cooperazione allo sviluppo.
Concludendo questo capitolo, penso anche io che il futuro dello
sviluppo, si deve partire dalla base, dalle comunità locali e da
lì che deve partire, dipende dalla realizzazione di ipotesi
teoretiche come questa di Franceschetti e Fusetti. Tuttavia
osservo dalla mia esperienza che la maggioranza di tentativi dei
progetti elaborati, programmati e attuati in base a questa
medesima bella teoria non hanno nemmeno
raggiunto i loro
obbiettivi nelle aree rurali dell’Africa subsahariana.
Ciò significa che ci sono molti altri parametri di considerazione
di cui tener conto perché l’ideale dei progetti di sviluppo
endogeno sostenibile venga raggiunto specialmente nelle aree
africane. Si considera quindi che i modelli di sviluppo di stampo
economistico comportano molti limiti, di cui il principale sta
nell’aver
emarginato
o
assecondato
all’economico
il
dato
antropologico nella elaborazione delle teorie e ideologie dello
sviluppo nella sua attuale fisionomia e nella sua importazione nei
paesi emergenti.
49
Terzo capitolo
Per una riabilitazione della proposta occidentale in
Africa.
Il contributo antropologico.
Appare chiaro che il concetto di sviluppo sostenibile così come
ipotizzato anche per le aree rurali dell’Africa subsahariana da
Giorgio Franceschetti, che rappresenta un gran numero di pensatori
dello sviluppo del nostro, è una risposta contemporanea delle
scienze e politiche alla critica antropologica contro le scienze
sociali classiche dello sviluppo. Queste ultime avevano trascurato
l’uomo globale, privilegiando la sua dimensione bio-fisica nelle
loro impostazioni. In questo capitolo che suddivideremmo in
quattro principali sezioni, non torneremmo più alla critica
antropologica a cui abbiamo alluso a lungo sia nel primo capitolo
sia nel secondo analizzando l’ipotesi franceschettiana. Andremmo
invece dritto a esaminare come possiamo operare nel continente per
aprire davvero un processo che avvia quelle popolazioni ad uno
sviluppo dove ogni uomo e tutti gli uomini o almeno la maggioranza
possano raggiungere l’ideale di una vita largamente dignitosa e
pacifica.
Nella prima sezione, cerchiamo di esaminare anzitutto il contesto
in cui è penetrato e penetra l’idea di sviluppo nelle aree
africane. Sarà un breve percorso storico. Nella seconda sessione,
cercheremmo di applicare le offerte della nostra ricerca in
antropologia culturale sulle popolazioni africane nello scopo di
aprire la strada ad una inculturazione dei progetti di sviluppo a
scapito dei vecchi metodi che partivano con una imposizione dei
progetti. Oggi si parla di uno sviluppo partecipato, endogeno,
integrato, ecc… oltre che integrale e quindi umano e sostenibile.
Per cui, le altre due sessioni che seguono e concludono il
capitolo saranno dedicate allo studio dell’”anima africana “ e “
la razionalità economica “ dell’uomo del Sud del Sahara.
Sez.1 Come erano gli Africani prima dell’irruzione
occidentale?
E’ difficile rispondere a questa domanda che riguarda la
preistoria visto che mancano documenti scritti al riguardo.
Possiamo soltanto ipotizzare grazie a certe ricerche sociologiche,
antropologiche e archeologiche del dopo l’incontro tra le due
civiltà. Erano uomini e donne, con pelle scura. Vivevano al Sud
del deserto del Sahara, sia nelle parti delle savane sia nelle
parti delle foreste, dove due stagioni ( di pioggia e di siccità
alternavano lo scorrere del tempo e guidavano lo svolgimento delle
attività produttive. Avevano come attività produttrici e vitali:
l’agricoltura, la caccia, l’artigianato e la pesca. Come habitat:
vivevano nelle capanne fatte di paglie per i tetti e coperte con
50
legno perpetrato da terra. Come amministrazione: erano organizzati
in raggruppamenti naturali di strette dimensioni
( famiglie e
clans ) con a capo il padre di famiglia e l’anziano del clan; e in
altri
raggruppamenti
più
grandi
secondo
le
espressioni
linguistiche e le vicinanze geografiche, chiamate “ tribù “ o
etnie “, di cui a capo, il capo-tribù, il capo etnico.
C’erano
anche
agglomerazioni
naturali
più
grandi,
che
si
chiamavano imperi, regni, con a capo i re, le regine, gli
imperatori o le imperatrici: p.es. il Regno Baluba aveva a suo
capo sempre una donna : la regina, la madre di Nimi; l’impero
Lunda, aveva sempre a capo l’imperatrice, la madre del defunto
Tshombe ex ministro del Congo Kinshasa negli anni 1960.Leggi,
regolamenti e istituzioni di giustizia civile o penale: La vita
era regolata da rigidi usi e costumi specifici ad ogni clan, tribù
e etnia. I capi e anziani vegliavano sul rispetto degli usi e
costumi, con penalità appropriate, di cui le più gravi erano
l’isolamento e la maledizione.
Come mezzo di comunicazione: avevano solo la parola e qualche
strumento sonoro ( scultura in legno appropriata ), di cui ogni
tipo di suono implicava un messaggio, una comunicazione precisa
che i membri indovinavano all’intenderlo; questo strumento era
tenuto esclusivamente dal capo e potevano suonare in occasione
dovuta. Come istruzione di educazione e d’istruzione dei più
giovani: avevano ciò che si chiama il “ bosco iniziatico “, per
insegnamento di cose più riservate della vita; altrimenti, il
fuoco di sera a casa dei genitori o degli anziani, l’ombra
dell’albero grande del paese che era spesso davanti alla casa del
capo. Come forma di trasmissione degli insegnamenti, avevano i
proverbi, le leggende, i miti, gli indovinelli, ecc…
Come arma, avevano la freccia con veleno intinto e che aveva
capacità di uccidere. Avevano un’arte sviluppato, ecc….
Siamo
quindi dinanzi a popolazioni che avevano la loro vita, la loro
organizzazione, la loro mentalità e che stavano progredendo a loro
modo(43).
Così pensato, promosso e consumato in Occidente, lo “sviluppo”
viaggia attraverso il mondo e irrompe nel continente africano.
Esso viene portato da operatori che sono uomini e donne delle loro
società e del loro tempo. E quindi operatori di cui la psicologia
o l’immaginario comporta degli stereotipi pregiudiziali sulla
realtà
dei
destinatari
africani.
Stereotipi
che
vengono
dall’immagine che l’uomo occidentale ha sull’uomo africano e che
accompagnano e qualche volta determinano i rapporti tra operatori
outsiders e cooperatori locali. Considerando il cooperatore allo
sviluppo come un “ guaritore ferito “, il nostro intento in questa
sezione è di aiutarlo ad una acuta presa di conoscenza di tali
stereotipi che possono dominare il suo pensiero ed alterare la sua
azione in Africa. Ecco perché andremmo a ricordare in linea
storica
lo
sviluppo
del
pregiudizio
ideologico
che
ha
51
accompagnato l’evolversi dell’incontro uomini africani e uomini
occidentali lungo la storia.
In principio, due domande si fanno sempre. La prima questione più
interessante cui rispondere poteva essere : “ come erano gli
africani prima dell’arrivo della civiltà africana ? “. La seconda
: “come sono diventati con la penetrazione della civiltà
occidentale”. Non possiamo rispondere largamente a queste tre
domande. Ci limiteremmo a dare alcune idee illustrative tanto per
informare i futuri cooperatori.
Sez.2 Civiltà e sviluppo occidentali al Sud Sahara,
conflittualità e fallimenti: cenno storico
Come era nel destino del pianeta e dell’umanità, i popoli che
hanno saputo usare meglio del dono dell’intelligenza naturale
prima degli altri, cioè gli ebrei, gli egiziani, i greci, i romani
si erano dotati dei mezzi di comunicazioni che gli permisero di
raggiungere vari confini.
Così gli Arabi e gli Occidentali arrivarono anche al Sud del
Sahara. Non trattandosi di una lezione di storia, mi limito a dare
soltanto alcuni cenni utili a canalizzare le nostre riflessioni
sulla problematica della cooperazione allo sviluppo. Parlerò molto
brevemente dell’arrivo degli uomini della civiltà araba e di
quella
occidentale,
richiamando
l’attenzione
sull’errore
antropologico come fattore occultamente più determinante della
violenza con cui sono penetrate le civiltà arabo-islamiche ed
occidentali in Africa, creando poi “eterni” conflitti che sono
secondo me alla base degli attuali fallimenti delle proposte di
sviluppo di matrice occidentale. .
III.2.1 L’errore antropologico e le sue determinazioni
sulla partnership Africa-Occidente
Parlare di “antropologia” sta a significare far un discorso
sull’”uomo”
e
gli
“uomini”.
L’antropologia
implica
interpretazioni, considerazioni sull’uomo come genere cosmico e
gli uomini come gruppi contestualizzati.
Venendo alla problematica dell’incontro delle civiltà occidentale
ed africana avvenuta mediante l’attività di alcuni uomini ben
precisi, in periodi storici ben precisi come lo abbiamo già visto
o come lo vedremmo nelle pagine che seguono, a me sembra che tali
incontri all’interno dei quali si è inserito il processo di
sviluppo delle popolazioni subsahariane siano state alterate da
ciò che desidero chiamare “ l’errore antropologico”. Tale consiste
nell’aver
interpretato,
valutato
e
descritto
gli
uomini
dell’Africa subsahariana in modo non totalmente corrisponde alla
52
realtà ontologica, da parte dei primi esploratori di origine araba
e poi occidentale.
In questa sezione cerco di dar informazioni sulla dinamica degli
incontri che hanno generato errati stereotipi mentali negli
occidentali sugli africani e quindi portato ad altrettante errate
impostazioni di ideologie, dottrine e quindi attività politiche,
sociali, economiche dell’Occidente nei confronti dell’Africa. LO
scopo consiste nel fatto che una volta ben informati, possiate
operare in modo più fruttuoso in questo millennio.
In linea generale gli storici ci informano che il contesto in cui
l’idea di “ sviluppo “ è entrato e si sta sviluppando nelle aree
africane è un contesto di permanente conflitto, dove i partners
africani ed occidentali, diversi e ineguali s’incontrano e si
scontrano sempre attorno ai problemi di convivenza, di civiltà.
L’occidentale
si
considera
ed
è
considerato
nel
proprio
immaginario e nell’immaginario del partner africano come uomo
superiore, di civiltà migliore se non superiore; mentre l’africano
è il contrario di tutti i positivi attributi. I contatti avvenuti
tra i due specie in passato si sono svolti in un clima di scontro;
sono sempre stati in un modo od in altro rapporti di forza: forza
militare ( ai tempi dei Romani ), forza politica, economica,
scientifica,
tecnologica
e
militare
(
dalla
Tratta
alla
colonizzazione fino ai nostri tempi ). Tale situazione ha
indebolito largamente la psicologia dell’uomo africano, creando in
lui un profondo complesso d’inferiorità di fronte all’Occidentale.
Situazione di cui tenere conto. Esaminiamo come si è sviluppato il
processo di creazione di questo complesso che determina seriamente
le attività volte all’assimilazione delle idee dello sviluppo
portate dagli Occidentali.
III.2.2 Triplice negazione, stererotipi e missioni civilizzatrici
fallimentari
III.2.2.1 Irruzione dei Romani, negazione
indebolimento mentale e schiavizzazione
onto-antropologica,
A credere Jean-Jolly come già detto(44), i primi veri incontri tra
africani neri ed occidentali sono avvenuti ai tempi dei Romani nel
I° sec. d. C. anche se la storia insegna che già nel 19 A.C., un
Generale romano di nome Cornelius Balbus sarebbe arrivato con le
sue truppe fino al Niger dove sostò però per pochissimo tempo. Fu
soprattutto nell’anno 70 d.C. che gli imperatori romani Settimus
Falcus e poi nel 86 d.C. Julius Maternus dopo aver conquistato i
Regni di Nubia nell’africa settentrionale, spinsero le loro truppe
fino al Sudan dove rimasero un po’ a lungo e fecero incontri più
intensi e collaborativi con i Neri africani.
E quindi verso la fine del II° s. d.C. che lo sviluppo dell’uso
del cammello nelle regioni del deserto ( Sahara ) che si
intensificano i rapporti tra l’Africa nera e l’Occidente dei
53
Romani. Siamo nel deserto. Quindi i primi Africani che gli
Occidentali incontrano sono uomini e donne di civiltà veramente
diversa. Sono nomadi, pastori, senza fissa dimora; quindi senza
vera organizzazione sociale stabile, rispettabile, senza armata,
senza arte, senza vestiario, senza scrittura, ecc... Non hanno una
economia tipica dell’uomo sedentario con campi agricoli. Non
dimostrano vera capacità di uomo sapiens. Nel frattempo nel
profondo sud del Sahara vivevano uomini e donne in società
organizzate, con sistemi di vita che abbiamo appena definito. Lì
vicino,
nel
Niger,
esisteva
l’impero
Songhai,
molto
ben
organizzato. I Romani non ci arrivarono.
Questo primo incontro sarà determinante nel pregiudizio razziale
che caratterizzerà tutti gli ulteriori incontri tra Africani ed
Occidentali. I primi saranno d’ora in poi considerati esseri
inferiori, razza inferiore, come vedremmo più avanti. I primi
incontri tra Occidentali ed Africani sono incontri certamente non
conviviali e difficilmente cooperativi. I Romani che considerano
gli Africani del Nord e del Sahara come “ animali appena uomini “,
o al più “ uomini primitivi “ di cui l’unica cosa apprezzabile
erano le inestinguibili energie fisiche, useranno la forza delle
loro armi per dimostrare la loro superiorità e capacità
distruttiva, seminando così un terrore psicologico che farà
assoggettare e deportare massicciamente i Neri verso Roma come
Schiavi delle esplorazioni utili ai lavori di costruzione della
città e dei suoi monumenti. Ecco là il detto “ ho lavorato come un
nero “ che rimarrà fino ai nostri giorni.
Ecco allora le tre negazioni o stereotipi giustificatori della
superiorità dell’uomo bianco sul nero e della inferiorità ammessa
e poi rifiutata da quest’ultimo, che rimarranno nell’immaginario
collettivo
nei
tempi
della
Tratta
dei
Neri
fino
alla
colonizzazione e forse anche un po’ ai nostri giorni: la negazione
onto-antropologica, la negazione epistemologica e la negazione
teologico-spirituale.
III.2.2.2 Gli Arabi: negazione antropologica, indebolimento sociopolitico e Tratta dei Neri
La negazione ontologica ed antropologica è uno stereotipo che
illumina le visioni dei Romani sul Nero, vige e domina tutto il
periodo della Tratta dei Neri. Secondo questo stereotipo, il nero
africano è considerato prima ( dai Romani ) come una “ bestia “,
un “ selvaggio “, un animale quasi uomo ( I° s. d.C. ) ;
successivamente verso il III°-V° ss. d.C., è considerato come un “
uomo ma ancora in cammino verso la piena umanità “, un “ uomo
inferiore “ rispetto al bianco sia esso europeo o arabo. Questo
stereotipo è ancora nell’immaginario degli uomini arabi di oggi.
Due anni fa l’unico alunno/a ad esprimere discriminazione
discrimazione nei confronti di mio figlio Emmanuel a scuola dai
suoi 10 anni di vita in Italia fu una ragazza marocchina di 11
anni! In quanto un essere non uomo, era giustificato venderlo al
54
mercato, si potrà vendere un uomo o una donna contro 1 kilo di
sale marino! La riduzione onto-antropologica è il passaggio dal
disprezzo del colore della pelle alla negazione dell’essere uomo
all’uomo nero; un processo ideologico fondato su argomentazioni
puramente xenofobe. LO scrittore DE FONTETTE F. si distingue tra
coloro che hanno saputo rispondere alla domanda “ perché la tratta
dei Neri “ ? Egli risponde semplicemente: “ in realtà, esiste un
argomento che non espone talmente, a causa della sua semplicità,
esso richiama in qualche modo l’uovo di Cristoforo Colombo: perché
la vendita dei Neri? A causa del colore “(45)
A loro arrivo nell’Africa subsahariana, i Romani si fanno
accompagnare dagli schiavi arabi. Ignorano che questi ultimi si
rendono conto della considerazione che loro infliggono sui Neri e
quindi della vulnerabilità degli Africani che saranno così poi
invasi dagli Arabi qualche secolo più tardi. Così verso il VII
sec.
d.
C.
gli
Arabi
penetrano
anche
essi
nell’Africa
subsahariana, invadono le sue regioni, li sfruttano a piacere,
sempre sotto le minacce delle armi da fuoco, che mancano ali
Africani. Più tardi tra l’VIII° e il IX ss. il commercio o compravendita dei Neri ( uomini e donne belli e robusti contro valori in
danaro o in natura diventa attività lucrativa generalizzata tra
Arabi e capi-clans africani ).
Il commercio dei Neri altrimenti chiamato commercio triangolare,
per il quale l’Occidente ha già chiesto perdono, si svolge tra
Arabi-Europei-Americani. I capi-clans e tribù africani vendono a
costo di beni della natura o del denaro uomini e donne che partono
via oceano atlantico in
Portogallo verso gli USA per andare a
lavorare nei campi agricoli di cafe, thP, cacao, ecc… nell’era
della diffusione dell’industria.
III.2.2.3
Gli
Europei
moderni:
negazione
epistemologica,
indebolimento totale (tabula rasa) e colonizzazione.
La negazione epistemologica accompagnata da quella teologicospirituale vige già dal X° con gli Arabi, si perpetua al XV/XVII
ss. e illumina l’ideologia colonialista che si affermerà nel XIX°
secolo a Berlino ( 1885 ) con la divisione politica artificiale
dei popoli africani tra le grandi potenze occidentali. Quando si
riabilita il nero in quanto “ persona umana “, lo si considera
come uomo sì ma incapace di accedere al sapere come l’uomo bianco.
Può al massimo intendere e volere ma non può saper né costruire il
sapere come il bianco. Non ha scienza, non ha arte, non ha Stato
né governo; non scrittura né alfabeto come il bianco o come
l’arabo. Ecco la giustificazione del processo di colonizzazione.
Questa ultima viene giustificata dal fatto che il nero è un uomo
sì, ma inferiore, incivile, bisognoso di assimilazione della
civiltà occidentale per accedere al vero statuto d’uomo. La
colonizzazione fu presentata come opera di bene, di beneficenza,
di amore dell’Occidentale a favore degli Africani.
55
Secondo le ricerche del prof. KESTELOOT(46) dall’inferiorità
genetico-epidermica si passò tranquillamente alla’affermazione
della deficienza intellettuale dell’uomo nero. La riduzione
epistemologica afferma così la totale incapacità del Nero
nell’intelligere il cosmo, nello sfruttarlo, trasformarlo alla
maniera degli antichi Greci, Romani e dei loro discendenti
dell’età moderna. Lévy- Bruhl poteva così scrivere : “Race noire,
race inférieure”(47). L’autore tedesco afferma che la razza nera è
di inferiorità inaudita, per tanti fatti, tra cui il non aver né
scrittura, né alfabeto né nessuno scrittore, poeta, romanziere, né
nessuna inventore. La dichiarata inferiorità fondata sulle ragioni
epidermiche portò tranquillamente l’uomo dominante ad una prassi
più
qualitativamente
e
quantitativamente
perfetta:
la
colonizzazione.
Kesteloot
scrive
appunto
che
il
discorso
colonizzatore fu fondato sulla convinzione che occorreva inculcare
al nero la propria inferiorità insita nel colore della sua pelle
per dominarlo e fargli desiderare la civiltà occidentale e la
presenza dell’uomo bianco.
Guardate che lo stereotipo regge ancora oggi! Ho fondato due
Cliniche ospedaliere in Congo. Le mie raccomandazioni sul rispetto
del Regolamento interno non sono mai osservate, vengono osservate
invece le raccomandazioni di un Infermiere spagnolo che ho
portato! Ci sono molti detti e aneddoti in Africa per designare la
superiorità e la perfezione dell’uomo bianco, il muzungu, mundele,
kana ka mukuta makasa. Nel 1998, un proprietario di una villa a
Kinshasa in Congo mi ha risposto alla mia domanda di affitto, che
la sua casa la poteva affidare solo ad un bianco e mai ad un nero!
Questi fatti li troverete e li vivrete, sarete più rispettati dei
Ministri e Alti Funzionari di pelle nera quando sarete in Africa.
Una provocazione al vostro lavoro di educazione allo sviluppo,
creare fiducia negli Africani stessi sulle loro capacità e
potenzialità.
III.2.2.4 Gli Europei religiosi: negazione teologica e missione
religiosa civilizzatrice
Ai popoli e uomini senza civiltà,
incapaci di intendere fu
successivamente negata anche la possibilità di conoscere il Sacro,
di penetrare i misteri del vero Dio, il Dio degli Occidentali, il
Dio di Gesù Cristo. Fu negata la capacità non solo di conoscerlo
ma anche di credere in Lui, e quindi di accedere alla salvezza, al
Regno di Dio. Gli dèi degli Africani furono considerati “ stregoni
“; la loro fede “ superstizione “. Qualche aveva pur dubitato del
fatto che l’uomo nero avesse un’anima identica a quella del bianco
e quindi se poteva andar in Paradiso come l’altro. A quella
domanda sulla salvezza dei Neri che si poneva nei circoli dei
Missionari europei dell’Epoca, l’auto-risposta dell’interrogatore
fu: “ il Nero è un uomo, ma non può aver un’anima uguale a quella
del
bianco,
e
quindi
egli
è
irrimediabilmente
destinato
all’inferno “.
56
Segnalo
che
vi
fu
all’Epoca
una
Teologia
appropriata,
giustificatrice dell’ideologia in voga e quindi sulla quale
partirà ( sfortunatamente ) l’Opera missionaria del XIX° s. in
concomitanza con la colonizzazione.
Quale è la dinamica della riduzione teologica e spirituale? Una
teologia colonialista appropriata usò la Sacra scrittura per
spiegare l’inferiorità della razza nera e la sua maledizione. Essa
interpreta il versetto di Gn 9, 24-25 che tratta della maledizione
di Cham il secondo figlio di Noe. Secondo loro ( gli interpreti ),
la razza nera è la razza dei discendenti di “CHAM IL MALEDETTO”.
Cham è uno dei tre figli di Noe che fu maledetto dal suo padre per
disobbedienza.
Questa
concezione
noachica
insegna
che
le
sofferenze passate, attuali e future dell’uomo nero sono frutto
della discendenza da quel figlio di Noe, con la relativa
relegazione
all’inferno.
L’”antico
anatema”,
frutto
della
affiliazione bio-spirituale della razza a Cham ha colpito per
sempre l’uomo del Sud del Sahara: “ Quando Noe fu svegliato
dall’ebbrezza, seppe quanto gli aveva fatto il figlio minore;
allora disse: “ Sia maledetto Canaan! Schiavo degli schiavi sarà
per i suoi fratelli “ ( Gn 9, 24-25 ). E la Bibbia aggiunge che da
quando fu cacciato dal padre Noe, Canaan diventò scuro! Gli
elementi interpretativi ideologici del testo genesico sono i
seguenti. Notiamo anzitutto che ad essere maledetto non è Cham ma
il suo discendente Canaan.
Il problema è che questi stereotipi sono ben radicati nella
psicologia individuale e collettiva da una parte e dall’altra,
dagli Occidentali come dagli Africani. Lo scopo dell’antropologo
pratico, colui che usa e fa usare l’antropologia ( applicata ) è
di offrire strumenti conoscitivi quale chiave per sradicare,
cancellare tali stereotipi e quindi consentire agli uomini e donne
del nostro pianeta, di costruire una umanità dove tutti i soggetti
del genere umano si riconoscono membri di una stessa grande
società, del villaggio globale.
Sez. 3 Il rifiuto africano del modello occidentale
Dagli anni della colonizzazione ad oggi e soprattutto anni 1960/70
gli operatori occidentali hanno consentito enormi sacrifici per
portare il loro modello di benessere nelle aree africane. Si sono
cambiate idee, politiche e strategie. Ma la tanta incantata e
ambita modernizzazione è avvenuta soltanto a livello delle
infrastrutture: “ La civiltà occidentale, costruendo palazzi,
fabbriche, strade, creando Stati, distretti, comuni sul modello
moderno si è fermata a modernizzare l’Africa, lasciando gli
Africani,
nella
loro
situazione
mentale
tradizionale.
Ci
ritroviamo davanti ad una società in bilico, al bivio, tra una
modernità mai raggiunta e una tradizione incompatibile con le
esigenze reali della propria inevitabile partecipazione allo
dispiegamento planetario dell’umanità “ ho scritto recentemente
(48).
57
Gli Africani, disperati, disillusi, hanno rifiutato lo sviluppo
offerto dall’Occidente. Lo denuncia
chiaramente tra tanti altri
intellettuali la scrittrice camerunese Axelle Kabou nel eloquente
volume “ Et si l’Afrique refusait le développement?(49).
Che l’ideale dello sviluppo sia fallito nel continente africano,
lo riconoscono ormai moltissimi pensatori africani e non africani
di oggi, qualche volta rimpiangendo la tramontata società
ancestrale pura ; altre volte rimpiangendo l’era della bella era
della colonizzazione.
Il maliano Tidiane Diakite tra tanti altri, ci offre interessanti
spunti di riflessione sulla difficile marcia della modernità
occidentale in Africa(50). Diakite sembra rimpiangere il passato
ancestrale e afferma che secondo le società tradizionali africane
precoloniali avevano le loro tare. A queste però si sono aggiunte
poi quelle create dai sottoprodotti della società di consumo
occidentale. All’inverso, i valori incontestabilmente umani e
positivi delle società africane tendono a sparire sotto il peso di
queste nuove tare. Tutte le virtù dell’Africa ancestrale stanno
diventando dei miti quasi superati : ospitalità, rispetto degli
anziani,
semplicità,
convivialità,
senso
comunitario,
ecc…
Assistiamo
ad
una
società
mercantile
e
artificiale.
Il
materialismo spietato, che tende a caratterizzare le società
africane
dei
nostri
gironi,
è
un
fattore
d’impoverimento
spirituale e di degenerazione morale dei popoli dell’Africa. Si è
così creato un ambiente sociale lunghi dall’essere favorevole allo
sboccio intellettuale e spirituale ma anche all’esplosione del
genio africano.
Tidiane Diakite conferma le sue considerazioni sulla penetrazione
del “ dannoso “ spirito mercantile occidentale evocando la
testimonianza di un anziano avoriano riferito dal quotidiano
francese “ Fraternité-Matin”, la quale ( testimonianza ) segnala
tre momenti caratteristici dell’evoluzione culturale delle società
africane:
“ Nell’Africa tradizionale – avrebbe detto l’anziano- gli uomini
erano bravi, onesti e sinceri; c’era l’aiuto reciproco e la
solidarietà. C’era lavoro in comunità e la vera fraternità. Per
noi era bella epoca, i bambini erano liberi, passavano il tempo a
cacciare gli uccelli nei campi e a sorvegliare le mucche…Poi
arrivarono i primi momenti della colonizzazione. A quel tempo ,
non c’erano strade, i Bianchi venivano da lontano a piedi: in
seguito, si è incominciato a trasportarli in amaca. … Avevo
portato i bagagli fino a perdere i mie cappelli. E poi, occorreva
aprire le strade, gettare i ponti; malgrado i duri lavori, le
guardie ci picchiavano ferocemente, abbiamo sofferto la sete, al
fame e il freddo…”.
Infine la terza fase di questa
rifiutato spirito mercantile:
58
storia,
che
simboleggia
il
“ I cantori tradizionali , musicisti professionisti, cantavano per
le grandi feste ed erano le guardie della tradizione orale.
Cantavano la vita, l’amore e gli eroi africani. Purtroppo, adesso,
i cantori tradizionali non cantano più che le glorie di color che
gli offrono soldi, cibo e vestiario. Questi musicisti senza
dinastia s’improvvisano cantori consuetudinari “ (51).
Il discorso di Tidiane Diakite riassume lo spirito d’insofferenza,
di odio ideologico, di conflitto permanente, frutto del già
evocato contenzioso storico che continua ad animare il pensiero
degli intellettuali africani a tutt’oggi. C’è un atteggiamento
anti-occidentalista
diffuso,
che
impedisce
una
franca
collaborazione alle proposte di sviluppo da parte degli operatori
occidentali.
Sez. 4 La problematica dell’inculturazione del modello
occidentale in Africa
Nel racconto del vecchio avoriano vengono poi fuori alcuni
elementi obbiettivamente validi che possono giustificare il
rifiuto del modello di sviluppo occidentale nel contesto africano.
L’elemento fondamentale risiede nell’argomentazione antropologica.
La proposta del modello occidentale, frutto dei pregiudizi e della
violenza antica non ha tenuto conto dell’integrazione o del
rispetto dei valori ancestrali africani. Viene accusato
a più
riprese ( in questo discorso dell’anziano ) lo spirito mercantile
e viene evocato più volte lo spirito di gratuità che caratterizza
profondamente l’anima africana e che va direttamente allo scontro
con lo spirito dell’economia di mercato, base dello svolgimento
delle attività atte allo sviluppo economico e sociale. Il discorso
di Tidiane Diakite dimostra quanto sia difficile far passare
a
lungo termine i progetti di sviluppo nelle aree rurali sul modello
proposto p.es. nell’ipotesi franceschettiana.
Il successo di tali progetti esige in ogni un previo lavoro di
studio antropologico da parte degli operatori ed inseguito
d’inculturazione delle proposte nella realtà indigena africana.
Non
solo
penso
anzitutto
che
occorre
far
un
lavoro
di
riconciliazione con i ceti degli intellettuali africani, i quali
sono pieni di pregiudizi verso l’uomo occidentale e quindi sono
secondo i responsabili occulti o dichiarati del fallimento o del
successo di molti progetti. Ecco perché secondo me, , oltre alle
conoscenze tecniche e ideologiche che portano in Africa,
risulta
necessario agli operatori dello sviluppo occidentale, essere
informati sui contenuti del contenzioso storico che oppone uomini
africani ( soprattutto gli intellettuali
e i politici )
all’Occidente.
IL
problema
che
si
pone
rimane
quindi
quello
della
contestualizzazione non meramente sociologica delle proposte di
sviluppo ma della loro inculturazione. Si tratta di far penetrare
59
i contenuti delle ideologie e proposte progettuali di benessere
nel tessuto mentale degli uomini e donne che vivono al Sud del
Sahara.
Cerco qui di dare alcune linee guida di questa problematica che è
complessa e che va trattata ampiamente in altre sedi. Parlerò
anzitutto della difficoltà dell’unicità o unitarietà della cultura
africana,
ed
inseguito
indicherò
gli
elementi
costitutivi
dell’unitaria cultura di tutti gli uomini dell’Africa nera
subsahrariana che è il contesto della nostra trattazione.
III.4.1 Il
operative
Le
Afriche:
diversità
continentali
e
difficoltà
“Con quale approccio ci si può avvicinare all’Africa, sterminato
continente di 30 km2?”, si domanda un articolo dell’Annuario Stato
del
Mondo
(52).
Il
suo
anonimo
autore
avanza
–sempre
ipoteticamente- sei criteri di approccio, nello stesso tempo offre
risposte e considerazioni che valgono la pena d’essere segnalate.
Il nostro autore si chiede, in primo, ci si può avvicinare
l’Africa con un’approccio inerente al paesaggio? Risponde. L’unico
elemento unitario è l’unità geologica, testimone dell’originaria
terra
di
Gondwana.
L’orizzontalità
domina
nei
bacini
sedimentari(Niger, Ciad, Alto Nilo, Congo, Kalahari) e nelle
distese degli altopiani poco elevati dell’Africa occidentale. A
questa monotonia si contrappone l’Africa delle “Terre Alte”:mentre
la zolla si è sollevata dall’Etiopia ai Drakensberg, è invece
sprofonditata nella Rift Valley, sommersa dai grandi laghi,
Tanganika, Malawi, Kivu… Alle fratture sono connessi i vulcani più
alti: Kilimandjaro, Kenya, Virunga, mentre a nord si profila
l’Atlante più giovane.
In secondo luogo: con un approccio climatico? Risponde. Tra la
grande umidità delle zone equatoriali e l’aridità estrema dei
deserti del Sahara, del Kalahari, del Namib e del Corno d’Africa
esiste tutta una serie di clima intermedi. La contrapposizione tra
alisei continentali e monsoni oceanici da una parte e la
differenziazione
secondo
le
altitudini
presiedono
alla
distribuzione delle piogge. Agli estremi, il Maghreb e la
Provincia del Capo spiccano per caratteristiche mediterranee. Ne
deriva un mosaico di formazioni vegetali, dalla foresta pluviale
al deserto, che degrada in foreste secche, savane e steppe.
In terzo luogo: con un approccio antropologico? La distribuzione
della
popolazione
è
dovuta
alla
diversità
delle
risorse
ambientali. Il forte popolamento di alcune zone costiere(Africa
del Nord, Abidjan), della Nigeria, della Valle del Nilo, delle
terre Alte, costituisce un elemento originale in un contesto in
cui dominano basse densità demografiche. Alle zone umide di
produzione di tuberi nelle terre di montagna, contrastano con i
popoli di pastori del Sahel, costretti alla mobilità. Tale
60
approccio induce un ripiego ancestrale sull’etnia che alimenta le
immagini più irrudicibili del continente: i Masai, i Peul, i
Tuareg, i Pigmei, i Boscimani, i Dogon, i Zulu.
In quarto luogo: secondo il retaggio coloniale? La conoscenza
dell’Africa è rimasta a lungo frammentaria. Le coste e le isole
sono entrate a far parte degli spazi commerciali delle civiltà
antiche, poi degli europei e dei cinesi. Il Nilo è servito da via
di penetrazione alle dinastie egizie che si sono spinte fino in
Nubia. La prima conquista continentale è stata quella del mondo
arabo nell’Africa del Nord, che ha diffuso l’islam tramite le vie
commerciali dal Sahara fino ai “paesi dei neri”, in Ghana, Mali,
nelle città haussa e fino a Zanzibar. Poi gli olandesi si sono
insediati nell’Africa del Sud. Nel XIX° secolo, i grandi fiumi,
Congo, Niger, Senegal, Zambesi, hanno consentito le scoperte dei
missionari. In Tal modo Livingstone, Brazza e Stanley –tra gli
altri- hanno aperto la via alla conquista militare . Il congressso
di Berlino(1884) ha posto fine alla competizione tra europei
procedendo a una divisione coloniale per zone d’influenza.
In
quinto
luogo:
con
un
approccio
statale?
Risponde.
L’indipendenza è intervenuta a partire dal 1960. I separatismi
regionali hanno trionfato a scapito del panafricanismo. La
dipendenza dall’estero è cresciuta con la guerra fredda; molte
ribellioni sono state soltanto dei conflitti per procura tra URSS
e Stati Unti. Alcuni paesi hanno tentato la soluzione marxista o
socialista rivoluzionaria(Guinea, Tanzania, Ghana, Egitto, Mali,
Congo, Algeria), ma tali progetti si sono trasformati spesso in
dittatura individuale e del partito unico. Nella maggior parte dei
casi,
ha
continuato
a
permanere
il
clientelismo
rispetto
all’antica potenza tutelare. La situazione attuale del continente
è ampiamente tributaria dell’organizzazione istituita all’epoca
coloniale: frontiere tracciate nel vuoto, predominio dell’islam a
Nord a partire del Sahel, frattura tra paesi anglofoni, francofoni
e lusofoni, permanenza della zona del Franco, persistenza della
gestione basata sulla rendita delle economie nazionali, importanza
degli spazi costieri e delle città a detrimento dell’intero e
delle zone rurali.
Infine:
con
un
approccio
basato
sull’attualità?
Risponde
concludendo. All’incrocio tra l’apporto delle società autoctone e
del modello importato coesistono molteplici realtà. Benché la
crescita demografica sia ancora forte (2,6% l’anno), tuttavia sono
percepibili i primi sintomi di una transizione. L’esplozione
urbana (più del 600% tra 1950 e 1980), alimentata dall’esodo
rurale, contraddistingue la fine del millennio. Gli embrioni di
città costituiti dalla colonizzazione sono diventati metropoli
(Johannesburg, Il Cairo, Kinshasa, Lagos, Abidjan), centri di
potere, dove sono concentrate le strutture sanitarie e della
formazione sommersa sempre più attiva. Miseria e opulenza
convivono e nel frattempo si delineano nuove solidarietà e la
contestazione dei poteri autoritari e dei clan predatori. Con la
61
crisi
degli
Stati,
la
violenza
ha
guadagnato
caratterizzando, a torto, tutto il continente.
terreno,
Tuttavia è vero che numerosi colpi di Stato e rivolte, creando il
caos, hanno di ridotto gli aiuti allo sviluppo al puro fatto
umanitario
e
hanno
prodotto
stanchezza
nei
finanziatori.
Ciononostante compaiono nuove entità: in Nigeria e in Sudafrica
sta emergendo una classe ambiziosa che potrebbe polarizzare i
paesi a Sud del Sahel. Cosa accadrà nel Zaire? Intanto l’Africa
del Nord, isolata dal resto del continente dal Sahara, non è forse
nell’orbita dell’Unione europea? L’Africa, pedina minore sullo
scacchiere
economico
mondiale,
resta
sostanzialmente
sotto
controllo sia che il suo futuro dipenda dall’applicazione dei
programmi di riassetto strutturale imposti dal FMI, della
ricomposizione delle influenze oppure dall’emergere di élite
nazionali competenti e responsabili.
Malgrado l’afro-pessimismo che la caratterizza dall’inizio alla
fine, questa pagina dell’Annuario è utile nella informazione
generale sugli elementi geopolitici e socio-economici generali più
caratterizzanti della situazione del continente africano nel suo
insieme. Tantissime sono però le sue affermazioni discutibili che
non possiamo qui rilevare. Mi sono chiesto tra altro come mai
l’autore
non
ha
potuto
richiamare
nella
sua
analisi
ed
approfondirli, gli elementi legati agli approcci etnologici ed
antropologici? Credo che probabilmente il filo conduttore della
sua riflessione consisteva nel dimostrare il dramma socio-politico
che sta attraversando il continente africano in questo periodo.
Non importa. La cosa più spiccante da rilevare è che non è facile
parlare del continente africano come una unità omogenea. Quando si
parla d’Africa, quando si lavora in Africa, quando si scrive
sull’Africa, occorre tener presenti le peculiarità dei soggetti e
specificare i contesti.
Vuol dire, in ultima analisi, che una cultura africana unitaria
non esiste? La mia opinione, che è quella della maggioranza degli
studiosi antropologi è che malgrado le innumerevoli differenze di
tradizioni, usi e costumi, un fondo comune di cultura percorre
tutte le civiltà africane, intendendo dire quelle dell’Africa nera
subsahariana.
III.4.2 Uomini neri d’Africa: la loro anima, la loro cultura
Quando dico ”uomini neri d’Africa” alludendo così alla situazione
geografica dei soggetti in discussione, lo faccio appositamente in
riferimento agli “uomini neri d’America” o “d’Asia”. La differenza
antropologica, cioè non si situata all’aspetto morfologico
epidermica ma sta nel profondo. Nei modi di sentire, di pensare la
vita e l’universo, di organizzarla. La differenza sta quindi al
livello mentale e culturale.
62
Il modo di atteggiarsi dinanzi alla morte e di vivere il lutto per
il nero d’America che vive in Florida rispetto al nero d’Africa
che vive in Senegal rimangono sostanzialmente uguali e diversi
rispetto all’uomo nero che vive in India. Metto quindi in risalto
alcuni elementi che diano informazione sull’identità culturale dei
beneficiari dello sviluppo, nel frattempo parlo anche delle loro
implicazioni sul profilo umano degli operatori di sviluppo.
Vedremmo anzitutto l’origine del termine “nero”, per avere esatta
conoscenza dello stereotipo razziale ed affrontarlo in modo sereno
in campo operativo; e alla fine metterò in risalto alcuni elementi
pilastri, le “costellazioni cardini” della cultura africana
tradizionale.
III.4.2.1
scura.
Del
termine
“
Nero”
applicato
agli
uomini
di
pelle
Prima di tutto sta in una errata e xenofoba interpretazione
biblica. Canaan indica nel XVI° s. av.C. una popolazione urbana e
commerciante della costa mediterranea, nelle parti dell’Egitto (
allora chiamata Kemi ). Era una popolazione degli uomini di pelle
scura. L’interprete yawhista ideologo riavvicina Canaan a Cham e
agli abitanti di pelle scura dell’antico Egitto e fa designare i
Neri i “ discendenti di Cham il Maledetto “, soddisfacendo così
gli ideologi xenofobi del suo tempo! Da allora ( XVI av. C. )
tutti gli uomini di pelle scura furono chiamati secondo le diverse
idiote “ Neri “, “ carbonati “.
In secondo luogo, sta in un trasferimento linguistico dell’antico
greco e dell’ebraico classico. Ci lo rivela lo storico egittologo
il senegalese Cheik Anta Diop(53). Cheik fa una analisi e da
spiegazione di queste parole : “ In Ebraico antico Kham
che è
nome del figlio di Noe proviene dalle radici Khum che significa
marrone; Khom ch vuoldire calore; Khama che vuol dire il caldo, il
sole “; mentre in Egiziano antico: Cham proverebbe da Khem = nero,
carbonato; e da Ham = caldo, nero. In tale contesto linguistico è
ovvio che gli abitanti di pelle scura dell’Egitto antico, del
Kham, non potevano che essere i discendenti di Canaan il
maledetto; essi rappresentano la razza destinata all’inferno,
maledetta.
In terzo luogo, c’è la parola “ Etiopia “ che fu usata dagli
antichi Greci per designare quella parte del mediterraneo con
abitanti di pelle scura . La parola “ etiopia “ nell’antico Greco
significa “ faccia bruciata, nera “. Da allora anche per i Greci,
gli Etiopici furono tutti gli uomini di pelle scura.
Per porre rimedio a queste aberranti interpretazioni e portare la
verità utile alla convivenza tra razze, il pensatore CHARLES
PASCAL offre concilianti riflessioni nelle sue pubblicazioni sul
tema(54). Nelle sue conclusioni Charles rivela che la maledizione
di Cham, figlio di Noe, non ha nulla a che fare con la vita e la
63
storia dei Neri africani, anche per il fatto che tale maledizione
non ha nessun fondamento nella Scrittura. Quest’ultima parla di “
peccato di Cham “, certo; ma la maledizione che fa cadere Noe
tornato addirittura dalla sua ubriachezza “ non è su Cham che
cadde, è su uno dei figli di Cham: su Canaan eccetto su tutti li
altri “ . “ Veramente –scrive Charles- i negri dell’africa di oggi
non avevano a che vederecon quella vicenda “. Quindi una forzatura
ideologica è l’interpretazione della maledizione noachica!
III.4.2.2 L’anima nera: le sue costellazioni
implicazioni sul profilo dell’operatore outsider
cardini
e
ed
Si tratta di una comune visione dell’uomo e del cosmo che ha
radici antichissimi, occulti nella plurimilennaria storia del
continente e che ha resistere alla dominatrice invasione della
cultura occidentale ed oggi delle culture orientali. E’ quel fondo
comune di cui parliamo al singolare in termini di “ cultura
africana “. Ho detto che esiste “ una cultura una e plurima “;
esiste una “ cultura unitaria “ e non unica(55). Dagli studiosi
non africani, venuti da fuori, con cervelli ed occhi preclusi dal
loro universo mentale, quella realtà culturale africana è stata
concepita e chiamata con ogni appellazione peggiorativa: cultura
primitiva, cultura dei clan e delle tribù o ancora vuoto di
cultura.
Invece io osservo ed affermo che una cultura tipicamente africana,
un modo di pensare e di organizzare il vissuto tipicamente
africano, esiste e c’è. Esso, secondo le parole di Elungu Pene
Elungu, riveste le caratteristiche di una totalità esistenziale,
totalità in movimento (56). Abbiamo studiato e scoperto ormai che
la storia ha creato, tra quei popoli dell’Africa subsahariana di
età differenti, di collocazioni geografiche differenti, una
visione del mondo e della vita più o meno omogenea dove i modi di
pensare, di sentire, di atteggiarsi dinanzi ai fenomeni più
caratteristici della vita come l’esistere, il nascere, il
soffrire, il morire, ecc…, assimilano uomini, etnie e tribù
africane gli altri. Perciò nessuno si stupisca mai nell’osservare
che
malgrado
le
legislazioni
ed
organizzazioni
moderne
statistiche, il potere politico in Africa rimane e rimarrà ancora
concepito ed esercitato come un potere clanico e tribale, mistico
e misterioso, di origine sopranaturale.
Sottolineo quindi il fatto che al di là di ogni considerazione
delle particolarità, c’è e ci deve essere una considerazione delle
generalità accomunanti. Tali generalità, usando il linguaggio del
teologo congolese Oscar Bimwenyi Kweshi, le ho chiamate le
costellazioni-cardini della cultura tradizionale africana. Le
costellazioni-cardini costituiscono ciò che il sociologo chiama i
fatti-tipi. Il filosofo antropologo li chiama la forma di
pensiero, che corpo e materia ai fatti sociali. Le costellazionicardini costituiscono il modo tipicamente africano di concepire la
vita e di atteggiarsi dinanzi ai suoi fenomeni come la disgrazia,
64
la malattia, la vecchiaia, la comunità, la persona umana, il
Sacro, la morte, il celibato, la prole, etc. Le costellazionicardini sono i pilastri mentali e concettuali intorno ai quali
sono stati elaborati e tradotti in usi e costumi le varie realtà
della vita da parte degli antenati che li hanno poi stampati nella
tradizione orale, mediante i miti, le leggende, i proverbi, le
fiabe, le storie, i canti, etc. Vale la pena menzionare le
costellazioni più rilevanti a titolo di orientamento della
riflessione sull’universo africano di operatività per lo sviluppo.
Offrire questi elementi pur in modo assai breve come lo faremmo è
come rispondere alla domanda fatta all’inizio della prima lezione:
“l’africano: chi è “, al di là della specificità geografica ed
epidermica che ovviamente lo identifica nel pianeta? Sono tante le
costellazioni, ne menzioniamo soltanto quattro ai fini della
nostra lezione.
III.4.2.2.1 La costellazione del primato e l’onnipresenza della
forza vitale
Gli antropologi hanno definito questa costellazione in termini di
“vitalismo
antropocentrico
relazionale”
quale
elemento
più
unitario delle culture africane; talmente unitario che fa di
queste culture africane una “cultura” africana. Secondo molti
pensatori, il vitalismo antropocentrico relazionale costituisce il
principale filo conduttore della cultura africana nelle sue varie
ramificazioni
tradizionali.
E’
intorno
al
vitalismo
antropocentrico relazionale che si è costituito un castello
culturale formato da tanti altri elementi che definiamo “cardini”
della concezione africana dell’uomo e del cosmo.
.
Qualche autore lo designa come “panvitalismo”. Per ogni africano
che nasce, cresce e vive nelle terre del Sud del Sahel, tutti gli
esseri possiedono un principio misterioso, occulto, che li
mantiene in perenne movimento, in vita, che li anima e li fa
animatori di altri. Si tratta di una energia fluida, naturale,
trasmettitrice della forza di sussistenza che il Padre Tempels
chiamò forza vitale, e che è presente in ogni essere. Sta nelle
piante, nelle pietre, negli animali, negli uomini di questa terra
visibile, in quelli della terra invisibile, e soprattutto negli
dèi.
La credenza in questa sostanza animatrice presente dovunque porta
l’africano a considerare che ogni essere possiede la vita e fa
vivere. Donde l’idea filosoficamente formulata di panvitalismo e
di animismo. Il fatto di vedere in ogni ente una realtà animata ed
animante. Ecco perché gli Africani considerano la presenza del
Sacro in ogni essere esistente, dalle pietre agli alberi della
foresta, che considerano come animati non perché si muovono -nel
senso della cosmologia occidentale- ma per il semplice fatto che
esistono, “sono lì”, e quindi possiedono ciascuno la propria forza
vitale(57). Il missionario belga, Placide Tempels, è considerato
come uno dei primi pensatori a formulare, in maniera nello stesso
65
astratta
e
concreta,
questa
constatazione
riguardante
l’attaccamento quasi viscerale degli Africani alla vita. Questa
vita alla quale sono così attaccati, Tempels crede che la
concepiscono come forza, la forza vitale. “Sappiamo, scrive il
nostro missionario, come l’animo ed il pensiero sono concentrati
su questa realtà unica: la vita, la forza, il rinforzamento
dell’essere e come tutto l’animo si è avverato non essere che
un’aspirazione verso la vita piena e forte, l’essere” (58). Se
tale visione è fondata, ciò spiega il relazionismo animistico
presente nelle popolazioni africane.
Quando arrivi in alcuni villaggi dell’Africa, ti diranno che tale
foresta non è coltivabile, tale albero non si può tagliare, tale
pietra non si può toccare, quel bosco è abitato da spiriti buoni,
quell’altro dai cattivi e quindi non la si può coltivare; tale
pianta trasmette forze mistiche; tale sorgente d’acqua ne
trasmette di più, etc…
Secondo l’osservazione di Tempels ormai condivisa da vari
antropologi, nella visione africana tradizionale, questa forza la
quale è suscettibile di accrescimento o di diminuzione, non abita
solo negli uomini, ma anche in tutti gli altri esseri. Questi
hanno ciascuno la capacità di trasmetterla ad altri secondo le
peculiarità specifiche a ciascuno. Si pensa soprattutto che la
trasmissione
della
forza
vitale
segua
la
dinamica
della
successione gerarchica degli esseri nel tempo storico. Ecco perché
l’anzianità è un elemento fondante delle relazioni tra uomini nel
mondo africano. Ci torneremmo.
Come implicazioni, consiglio all’operatore dello sviluppo di usare
la legge della gradualità d’approcci nel proporre le varie
attività del progetto. Inoltre egli deve armarsi di senso di
umiltà, di pazienza e di umorismo di fronte agli atteggiamenti
delle persone locali. E’ bene non pregiudicare o disprezzare gli
usi e costumi delle popolazioni locali. Occorre ascoltare,
ascoltare e ascoltare. Ascoltare con atteggiamento di amore,
accompagno gli interlocutore con atteggiamento non da sapiente
civilizzatore o da modernista rivoluzionario. Tale atteggiamento è
stato quello assunto negli anni della colonizzazione; e ne
conosciamo i tristi risultati. Occorre saper tener il silenzio di
giudizio su alcuni fatti sociali posti dai vostri interlocutori e
che vi possono sembrare “strani” e forse anche freno alle vostre
proposte mentre per loro sono questione di vita e di morte.
Evitare contrasti verbali sui quei argomenti, specie con gli
intellettuali del luogo.
E’ meglio suggerire le proprie proposte, con semplicità di
linguaggio e d’atteggiamento. Consiglio anche di non generalizzare
i giudizi e le considerazioni con parole tali: “ io non vi capisco
voi altri”; “siete ancora molto indietro, siete primitivi”; “se mi
capite rimarrete tali per secoli, o fate come vi dico io o oppure
niente, piego i mie bagagli e vi lascio”. In caso di divergenza di
66
vedute su un argomento, se veramente l’operatore è ben convinto
della solidità ed efficacia del proprio punto di vista per il
successo del progetto, è bene proporre magari con gradualità di
tempi e delicatezza di linguaggio, fermandosi sul particolare
argomento e in discussione, e mai generalizzare attaccandosi
all’assetto culturale globale degli interlocutori. Dico tanto
perché ho visto molti operatori piegare bagagli e tornare in
Europa forzatamente o volontariamente prima della fine del mandato
ricevuto. Molti perché l’imprudenza li porta ad alimentare
conflitti con gli intellettuali o leaders politici locali, si
creano così nemici e rendono difficile l’ambiente sociale della
loro opera.
III.4.2.2.2 La costellazione dell’assolutezza dell’essere umano
Al centro della concezione della vita e dell’esperienza africana
del cosmo c’è l’uomo, e non le cose, gli oggetti, e nemmeno
l’Essere, il Dio. L’uomo però non è, secondo gli Africani, un
essere isolato né separabile dal cosmo, dagli altri esseri
esistenti. Egli è in comunione profonda con loro. Si tratta della
cosiddetta “comunione cosmica”. Per l’Africano di ogni tribù,
etnia o lingua, tutto è e esiste per l’uomo; tutto l’universo è
stato, creato e organizzato a misura dell’uomo e non il contrario.
L’uomo non può essere a servizio di nessuna altra realtà
dell’universo, mentre ogni realtà è e deve essere al servizio
dell’uomo.
Dobbiamo tuttavia star attenti perché il fatto di considerare la
natura cosmica come una realtà in profonda comunione ontologica
con l’uomo porta gli Africani ad un ambientalismo tradizionale che
alcuni osservatori considerano come freno allo sviluppo economico,
e di cui parleremo nelle pagine che seguono. Ciò si spiega per il
fatto quando si arriva in ogni villaggio africano, bisognerà saper
che ci sono tradizioni, usi e consuetudini che regolano in modo
preciso lo sfruttamento delle savane e foreste. Ci sono spazi
coltivabili e spazi non coltivabili; ci sono tempi di lavoro e
tempi di astensione al lavoro secondo per esempio il ciclo delle
lune, delle stelle, del sole, etc. Sono usi di cui tener conto
quando si va in un villaggio perché i paesani ci credono
fermamente. Attivare i progetti ed organizzarli secondo i
calendari e la cosmogonia
esclusivamente occidentali può essere
una violenza e violazione che avranno conseguenze nefaste sulla
sostenibilità del progetto nel futuro.
Ritorniamo all’uomo. Secondo il parere di alcuni pensatori, la
religione
nel
contesto
africano
tradizionale,
non
è
una
contemplazione di Dio, una ricerca delle cose divine fuori dal
mondo, ma una maniera per l’uomo di assicurarsi la vita qui in
terra, di comprendersi nella sua posizione nel cosmo. Affermazioni
discutibili
ma
che
implicano
solo
l’antropocentrismo
come
fondamento mentale della visione africana del reale.
67
Riporto alcune affermazioni di illustri pensatori africanisti su
questo punto. Alfred Kagame, che è tra i primi promotori della
filosofia bantu africana, parlando dell’antropocentrismo nella
cultura tradizionale africana, ha scritto in un articolo che lo ha
reso famoso: “Vado ad enunciare una eresia, arrivando nella mia
conclusione ad una religione di cui Dio non è il centro. Tale è
invece la religione dei Bantu… Dio gioca un ruolo determinante in
questa religione. Ma i Bantu hanno stimato che il Creatore stesso
aveva istallato l’uomo al centro della religione… Il fine ultimo
del “muntu”(uomo africano) non è Dio, ma l’ottenimento di tre beni
essenziali all’uomo, quelli della fortuna, della persona(salute,
onori, longevità), e della prole. Le categorie del Ntusimo sono
costituite partendo dall’uomo: l’uomo è l’essere che agisce
dall’intelligenza, gli altri si definiscono con riferimento a lui.
Da cui il detto: gli esseri-senza-intelligenza sono la proprietà
degli uomini” (59). Dopo il suo studio presso l’etnia dei Dogon,
Zahan è arrivato alla stessa considerazione, e scrive: “A tutti
livelli, la posizione centrale dell’uomo si trova così affermata.
Questo
antropocentrismo
del
pensiero
religioso
dei
Dogon
costituisce la migliore cauzione della sua coerenza e della sua
unità“(60). Ngindu Mushete, che è nella stess linea d’idee
afferma: “Si può caratterizzare la religione africana come una
religione fondamentalmente antropocentrica. Ogni espressione, ogni
approccio religioso ha per finalità essenziale la condizione
umana”(61). Infine, secondo Holas che ha condotto un interessante
studio presso l’etnia Bété: “La filosofia religiosa bété è
identificabile nello stesso tempo dal suo antropocentrismo e dal
suo dinamismo…Nell’Africa nera, è l’uomo che è l’Assoluto: l’uomo
appare come il valore fondamentale, il valore primo, intorno al
quale gravitano tutti i problemi”(62).
Le affermazioni di questi autori sottolineano a sufficienza la
centralità dell’essere umano nella visione africana del cosmo e
della vita come tale. In tale contesto gli operatori dello
sviluppo dovranno essere vigili nel proporre le loro idee. SI
consideri tra altro il fatto che l’africano non dà al guadagno e
quindi il lavoro il primo posto nella sua mente e nella sua
organizzazione sociale come per esempio lo è qui in Italia.
L’Africano non potrà mai capire il dettato dell’Articolo 1 della
Costituzione della Repubblica italiana, che recita: “L’Italia è
una Repubblica fondata sul lavoro”. L’Africano non potrà mai
accettare che la sua vita dipenda dal lavoro; per lui, è il lavoro
che dipende dalla sua vita.
III.4.2.2.3 La costellazione della relazione “io-in”, “io-con”
Preciso che questo antropocentrismo africano non è del tipo
occidentale. Quest’ultimo è un antropocentrismo con configurazione
individualistica e dualistica: considera l’uomo come soggetto
individuale capace di tutto da sé stesso; padrone del mondo; che
deve sfruttare al proprio beneficio esistenziale. L’uomo africano
invece non pone dinanzi a sé la natura, il cosmo, gli altri
68
esseri. Non li oggettiva. Anzi, l’uomo africano
natura cosmica come uno dei membri di questo
africano, centro di ogni cosa, non è un individuo
essere essenzialmente comunitario e relazionale.
parla dell’antropocentrismo relazionale.
si pone nella
universo.L’uomo
isolato, ma un
Ecco perché si
Possiamo così capire perché l’ospitalità viene generalmente
considerata
come
peculiarità
più
caratteristica
dell’anima
africana. Per l’Africano, ogni uomo, essendo uomo, essere identico
a me stesso, è un fratello. Lo si deve accogliere, nutrire e poi
dopo far domande sulla sua origine. In tal senso gli operatori
vedranno che quando arrivano nei villaggi africani, vengono
immediatamente
accolti,
salutati
con
gioia;
qualche
volta
immediatamente invitati a pranzo, a cena, da persone appena
conosciute. Mentre in Europa, quando s’incontra una persona per la
prima volta, dopo un saluto spesso senza stretta di mano o forse
senza mai salutarla, ci si interessa anzitutto alle sue origini,
alle sue provenienze, e spesso anche al suo atteggiamento esterno.
Ci si chiede se è bello, brutto, ben vestito, mal vestito,
simpatico, antipatico, etc. Nel mondo rurale africano, non è così.
Tale atteggiamento non viene tollerato. Anzi viene condannato.
Mentre nelle relazioni nell’Europa latina per esempio, si parte da
Lei e successivamente si arriva al Tu, dopo esperienze di vita
condivise, in Africa si va immediatamente al Tu.
III.4.2.2.3.1 Implicazioni onto-antropologiche della relazione
Lo studio più tecnicamente antropologico ci porta a due categorie
di considerazione della costellazione della relazione, ovvero “ la
relazione interpersonale, io-con; e la relazione intra-comunitaria
io-in. L’io-con implica la relazione nel senso verticale e quindi
la gerarchia degli esseri; l’io-in implica la relazione nel senso
orizzontale.
La vita di relazioni nelle sue due sfere e specialmente nella
sfera verticale ha portato l’anima nera africana a vivere
costantemente il suo mondo come un universo dove gli esseri
gerarchizzati.
Nel mondo dei visibili: 1°. Il cosmo: è il primo nato del cosmo;
esso ha preceduto l’uomo; l’uomo è nato sul suolo, e quindi ha
trovato il cosmo già esistente; gli deve ogni rispetto; ecco
perché si parla facilmente in Africa della “ Madre-Terra “; 2°.
Gli anziani ed i genitori: sono i secondi esseri del mondo
visibile, che dopo la terra, hanno preceduto l’uomo; 3° I primi
nati, siano essi della propria famiglia o di altre famiglie o
tribù: anche loro hanno visto il sole prima di me e quindi gli
devo ogni rispetto; 4°. Gli esseri inferiori; sono: a) gli uomini
post-nati cioè i nati dopo di me; b) gli oggetti fabbricati dalle
mani umane; c) gli esseri del cosmo come per esempio le piante od
altri prodotti realizzati dal lavoro umano.
69
Nel mondo dei non visibili: 1°. I defunti; 2°. gli Antenati; 3°.
gli dèi; 4°. il Dio Creatore.
Da questa descrizione emergono alcune considerazioni di fondo in
relazione alla nostra tematica.
La prima. Vivere, per l’uomo africano, è vivere in comunione con
tutti questi esseri, ma nel rispetto assoluto delle norme che
regolano tali relazioni. Porsi in isolamento, sia nel villaggio,
sia nella foresta o nella savana, per l’Africano, è già morire.
Una delle pene più capitali che si possa infliggere ad un reo
africano è isolarlo dalla sua comunità. Il giudizio che porta sui
suoi compaesani in materia della relazionalità, l’africano lo
imputa anche all’operatore straniero. Nella scelta degli operatori
da inviare in Africa, occorre tener presente il fatto che
l’apertura e la relazionalità debbano distinguere il profilo
psicologico ed umano dei partenti. Chi non è naturalmente dotato
di relazionalità, sia sufficientemente allenato all’apertura verso
gli autoctoni. Ogni proposta fatta agli indigeni verrà presa in
considerazione o rigettata secondo il giudizio che essi hanno
dell’operatore sull’operatore in materia di apertura relazionale.
La relazionalità con gli uomini è la chiave per aprire la porta di
ogni cuore e di ogni casa degli africani.
L’esperienza
mi
ha
insegnato
l’importanza
di
questa
considerazione, al punto tale che consiglio gli operatori o
cooperatori nei progetti di sviluppo di porre in atto ogni
possibile gesto che esprimi non falsa e superficiale simpatia –
perché la gente se ne accorge- ma profondo affetto, amicizia ma
forse anche amore nei confronti degli individui e gruppi delle
località di lavoro. Una presenza ad un funerale, una visita ad un
ammalato del villaggio, una discreta assistenza finanziaria ad un
collaboratore o un paesano bisognoso p.es. di cure mediche o
d’istruzione del figlio ma sprovvisto di mezzi, etc…, sono gesti
che valgano e contano più di tante sedute di lezioni sullo
sviluppo sostenibile. Ho visto anche molti operatori guadagnarsi
stima e considerazione e quindi garanzie psicologiche per il
successo delle loro iniziative quando, dopo essersi fatti alcune
amicizie, vanno comunque a stare insieme alla gente del villaggio
alcune serate intorno ad una tassa di vino bianco tradizionale,
locale.
Su questo punto do un altro consiglio frutto dell’esperienza.
Sconsiglio gli operatori outsiders di legarsi pubblicamente in
amicizie particolarmente intime con singole persone del villaggio
o comune di residenza per il progetto. Proprio perché tale legame
comprometterebbe il loro operato. Per esempio: gli amici ed i
nemici dell’amico locale possono facilmente diventare amici e
nemici dell’operatore, con tutte le conseguenze che possiamo
immaginare; l’operatore outsiders è per gli autoctoni come una
“giovane donna” libera come tutti o tanti uomini desiderano avere
70
come compagna, una volta che si lega ad uno solo, tutti gli altri
si allontanano.
Inoltre, legarsi ad una sola persona o famiglia implica il rischio
di limitare la propria libertà di pensiero e di azione, di
comprometterla con i pareri dell’amico che a lungo andare può
diventare un consigliere buono o cattivo, etc. Ancora più grave e
meno consigliato è legarsi in amicizia di particolare affetto con
persona di altro sesso, uomo o donna della località di lavoro. E’
meglio
che
tale
rapporto
sia
chiaramente,
ufficialmente
conosciuto;
altrimenti
tale
fatto
potrebbe
compromettere
gravemente tutto il progetto perché il contesto tradizionale è un
contesto ancora legalista e moralista al massimo. L’operatore ha
successo nelle sue proposte non solo per le sue capacità tecniche
professionali ma anche per il suo prestigio morale.
La seconda considerazione. La relazione vivificante in Africa ha
nel Dio Creatore e negli dèi il suo punto più cardine. L’Africano,
dico bene ogni Africano, è fondamentalmente religioso. L’Africano
prega e prega sempre. Prega prima di zappare la terra; prega di
cominciare la caccia. Perché per lui la vita, tutta la vita con i
suoi averi e doveri è stata donata. Donata dai genitori mentre
loro stessi l’hanno ricevuta dai loro genitori.
Il percorso mentale porta a considerare fermamente che dopo gli
antenati, primi ed antichissimi donatori e protettori della vita,
c’è un essere antico più antico di tutti, che si chiama Dio, il
Mvidi Mukulu, il Dio più antico degli dèi, secondo i Baluba del
Congo-Kinshasa. Quel Dio, che è Creatore e nello stesso tempo
Padrone e Giudice dell’uomo, rimane la principale fonte fornitrice
dell’energia vitale. Egli in grado non solo di produrre tale
energia, forza vitale, ma anche di aumentarla, diminuirla o
spegnerla al suo volere. Nel frattempo egli protegge la medesima
vita mantenuta con la sua forza contro le forze malefiche visibili
od invisibili, come gli stregoni, i gelosi ed invidiosi, gli
spiriti del mondo occulto, etc. Con tale concezione l’Africano
vive di preghiera: questa è concepita come luogo di comunicazione
con i divini ed il Divino per ottenere le necessarie forze utili
per ogni circostanza particolare e per la permanente protezione.
Ecco perché anche il lavoro agricolo od ogni attività di
produzione della ricchezza che è benedizione degli spiriti
creatori e protettori, non possono essere avviati e svolti senza
ricorso alle divinità e alla Divinità per eccellenza. Pertanto è
auspicabile che gli operatori dello sviluppo outsiders tengano ben
conto di questa peculiarità nell’esercizio delle loro menzioni.
Qualcuno di loro se non credente od indifferente si risparmi di
nuocere al proprio lavoro offendendo in parole od atteggiamenti le
pratiche degli individui o gruppi locali che sono generalmente e
fondamentalmente religiosi.
71
Si sappia che uno sviluppo senza ricorso al Dio creatore è una
realizzazione senza avvenire. Per le popolazioni africane, lo
sviluppo è sostenuto e durevole in Africa se i partecipanti sono
ben consci che dalla sua ideazione alla realizzazione, ogni
pratica è radicata nel volere del loro Dio. Tale consapevolezza
viene maturata quando gli operatori ed i partecipanti hanno
costantemente fatto ricorso al divino nelle loro prassi. Perché
per i locali africani è durevole, solo quella realizzazione che è
voluta e sostenuta dal Creatore. Un’altra considerazione che
comunico su questo punto sta nel fatto che l’operatore outsider
dovrà aver un atteggiamento di libertà, di indifferenza nei
rapporti con le persone locali sugli aspetti dello confessione
religiosa.
Nell’Africa dei villaggi, incontrerete tra i vostri interlocutori
persone di varie confessioni: animasti, cristiani cattolici o
protestanti, musulmani, uomini delle sette religiose, etc…
L’operatore ousiders se è credente dovrà usare di saggezza perché
la sua religiosità non limiti il circolo delle sue relazioni. La
sue fede lo deve portare ad essere amico di tutti, una persona
superparte, perché il progetto di sviluppo è una realtà che raduna
tutti gli abitanti della località.
Queste segnalazioni trovano argomentazioni più tecniche nei
discorsi di alcuni antropologi africanisti. Secondo Joseph KiZerbo: “La filosofia africana è familiare a visioni e spiegazioni
globali dell’universo. Sono grandiosi sistemi dove tutto trova
posto, dal volgare insetto fino al demiurgo fabbro del cosmo”(64).
Ancora più esplicito al riguardo, è Ndaw, secondo chi, “non esiste
il bisogno di dominare il mondo, ma un sentimento di alleanza tra
l’uomo e la terra, una sorta di comunione con la natura e se
sentimento di equilibrio e di armonia, mantenuto con vigilanza
grazie ad un insieme di tecniche e di riti compensatori… civiltà
dell’accordo dell’uomo con l’ordine universale e l’ordine sociale”
(65). Viene da pensare ad un francescanesimo tradizionale
africano, dove uomini ed esseri naturali non intelligenti si
ritrovano fratelli con un stesso padre, il Dio Creatore ed una
stessa madre, la Terra. Stiamo attenti, perché si tratta soltanto
di una coincidenza ontologica e non fenomenologia. Sappiamo bene
ed abbiamo visto come la superiorità dell’uomo sulla natura viene
esaltata nel pensare africano.
Molti sono i pensatori che concordano nell’affermazione secondo
cui una delle caratteristiche più essenziali della cultura
africana sta nella centralità od il primato del valore della
relazione. J. Kenyatta, dopo lunghissimi anni di studio sui
contenuti della civiltà degli uomini del Sud Sahara, dichiara in
conclusione: “La chiave di volta di questa civiltà è il sistema
tribale, che si basa sul gruppo familiare e sui gradi di età nei
quali sono integrati gli uomini, le donne ed i bambini che
compongono la società… Non c’è un individuo isolato: egli è
anzitutto il parente ed il concittadino di un
gran numero di
72
persone; la coscienza che può avere della sua “unicità” gli appare
come un fatto secondario… Possiamo riassumere dicendo che se per
l’europeo l’individualismo è un ideale di vita, per l’africano
l’ideale è di stabilire giusti rapporti tra gli individui”(66).
Secondo Gravrand: “La definizione della nozione della personalità
africana, deve comportare due elementi: un “io” ed un “io
comunionale”, un “io in comunione”. Un “io”…in vivo contatto con
il cosmo, con il mondo invisibile, con il gruppo”(67). Oscar
Bimwenyi Kweshi precisa: “Il muntu è un essere di relazioni. Per i
bantu questo uomo è essenzialmente un membro”(68). Secondo Joseph
Ki-Zerbo: “Uno degli elementi di base della personalità africana ,
è il suo spirito collettivista. L’individualismo è agli antipodi
della mentalità negra tradizionale”(69). Quanto a Magona: “Ogni
individuo è libero… Ma tale libertà cede il passo agli interessi
di gruppo. A questo livello nessun disordine viene tollerato”(70).
Occorrerà quindi per l’operatore di sviluppo, cercare di conoscere
le regole fondamentali del contesto dove è chiamato a lavorare,
perché il progetto non sia disintegrato dalla vera realtà mentale
e culturale dei suoi beneficiari e portatori.
III.4.2.2.3.2 Implicazioni socio-economiche della relazione
La relazione intesa come luogo di scambi interpersonali vitali
implica che in realtà nella società esiste una ramificazione di
rapporti tra uomini, di cui essi vivono e in cui si promuovono
vicendevolmente, secondo le varie sfere dei rapporti sociali.
La vita familiare è evidentemente fatta di relazioni tra
generazioni che si succedono e tra alleati. La fraternità di
sangue, la relazione di paternità-filiazione, la relazione
primogenito-cadetto, sono scrupolosamente rispettate e forniscono
un punto di riferimento a molte altre relazioni. Ci sono poi le
alleanze con lo scambio di sangue; le relazioni di classi di età,
quelle tra colleghi di un consorzio iniziatici, o che appartengono
ad una stessa società segreta; relazioni importantissime al punto
tale che, in certe società tradizionali africane, un individuo
espulso dalla sua classe di età, viene espulso anche dalla sua
famiglia.
In
Africa,
non
esiste
peggiore
sanzione
penale
superiore
all’isolamento. Si tenga presente che generalmente nell’Africa
tradizionale la pena di morte per un reo non esiste. E’ utile
segnalare anche il fatto secondo cui le relazioni di parentela si
estendono al di fuori dei legami biologici. Un vero amico di
famiglia viene totalmente inserito e diventa membro di famiglia a
quasi tutti gli effetti. L’operatore outsider non si stupisca nel
vedere che un nascituro di una famiglia amica porti i suoi nome e
cognome ( di quell’operatore ).
La vita economica è fatta, anche essa, di relazioni di
solidarietà. In Africa, l’individuo è raramente e pochissime
73
occasioni economicamente autonomo. Il lavoro agricolo si fa spesso
in comune. Le donne si alleano tra membri del clan, tra amiche e
lavorano a turni reciproci nei rispettivi campi dalla coltivazione
al raccolto. Il lavoro si fa meglio in gruppo al ritmo dei canti
melodicamente proporzionati. Popoli della musica e della danza,
gli Africani lavorano raramente in silenzio. Inoltre, in queste
società dove vige la differenziazione armonica tra sessi e età, le
donne hanno le loro tipologie di lavoro e strumenti così come gli
uomini. Tradizionalmente, la zappa era lo strumento riservato alla
donna per lavorare la terra delle savane mentre l’accetta era lo
strumento riservato all’uomo, per tagliare gli alberi delle
foreste, che richiedono più energie fisiche. Cambiati i tempi,
oggi non esiste mai più distinzione, ma in linea generale, la
donna tradizionale rimane legata alla zappa e l’uomo all’accetta.
Una altra sfera di relazioni è quella della vita politica. Anche
essa è fatta di rapporti ma più gerarchizzati. Certamente le
società africane non presentano lo stesso grado di concentrazione
di
potere,
d’interdipendenza
politica.
In
quel
contesto
tradizionale, l’individuo è molto dipendente dagli altri; egli è
preso in una gerarchia serrata che limita al massimo i suoi
movimenti nel pensare e nell’operare. Il sentimento di sudditanza
è molto determinante negli individui africani. Sudditanza rispetto
all’anziano in età fisica; sudditanza nei confronti del superiore
in termini di ruoli o funzioni sociali stabiliti. In Africa, ogni
cosa è al proprio posto come ogni persona mantiene il proprio
rango.
Come implicazione nella nostra tematica, sottolineo questa
peculiarità interessantissima nella distribuzione dei compiti
nell’ambito dell’organizzazione dei progetti di sviluppo. Non
basta la qualifica accademica per meritare il dovuto rispetto da
parte dei suoi sudditi. In Africa, oltre la qualifica, l’età
fisica e forse anche l’appartenenza naturale ad una casta di
comando ha un valore quasi fondamentale per il successo
nell’esercizio del potere. L’ideale sarebbe di trovare un
responsabile o capo-progetto che sia accademicamente qualificato
mentre è naturalmente più avanzato in età od in posizione sociale
rispetto agli altri.
Concludo a questo livello la descrizione delle costellazionicardini della cultura tradizionale africana. Non ho potuto
trattarne tutte, ne ho selezionato soltanto quelle che hanno
rapporto diretto con la problematica dello sviluppo umano durevole
in terra africana. Per ampie informazioni, rimando il lettore al
mio libro già citato “L’Africa che canta la vita”.
74
Elementi conclusivi generali
Nel suo libro “Une utopie post-tiersmondiste. La dimension
culturelle du développement», Marc Poncellet“(71) considera che la
principale causa del non raggiungimento degli scopi di progetti di
sviluppo in Africa sta nella incapacità o distrazione delle
scienze sociali e dell’economia dello sviluppo di “ metter in
conto la dimensione culturale dello sviluppo “(72).
Secondo
me
il
futuro
dell’ideologia
dello
sviluppo
umano
sostenibile riposa proprio su questa sfida. Gli diamo ragione
Particolarmente per quanto riguarda l’Africa, come abbiamo già
detto i progetti di sviluppo essendo portati agli uomini e donne
che hanno tutta la peculiare realtà ontologica, storica e sociale
nonché psicologica, occorre che gli operatori abbiano tutta la
competenza
non
soltanto
tecnica
ma
anche
e
soprattutto
antropologica. Il Padre Luciano Sandrin, in un buonissimo libro, “
Capire e aiutare il malatto “(73) consiglia agli operatori
sanitari di usare la strategia seguente perché il trattamento sia
efficace: prima di tutto , far enorme sforzo per conoscere la
biografia del malato ( la diagnosi psicologica antropologica ) e
inseguito far la diagnosi bio-fisiologica e passare allora se
necessario al trattamento.
Per quanto riguarda l’applicabilità del modello occidentale in
Africa, dopo la necessità dell’approccio intellettuale e storico
nel dialogo con la realtà, il secondo ed importante livello è
quello dell’importanza della previa e profonda conoscenza della
cultura africana tradizionale. Nessuno può vivere o operare bene
in un contesto che ignora. Mi sforzo qui di presentare alcuni
elementi costitutivi della personalità mentale ( “ la mentalità “
) e culturale ( “ la cultura “ ) degli individui e collettività
africane con lo scopo di aiutare alla costruzione del bagaglio
degli operatori che andranno nelle zone africane.
Nelle aule di lezioni o nelle semplici discussioni,sento spesso
parlare dell’Africa e degli Africani come di una unità monolitica
dal punto di vista culturale. Oggi non è più facile di parlare di
cultura africana tout court. Andar a lavorare tra i Bamiléké del
Camerun non sarebbe la stessa di andare a lavorare dai Baluba del
Congo ex Zaire. Sposarsi con una donna tutsi non implica vivere
con lei nella stessa maniera con cui un altro amico vivrà con la
sua sposa hutu dello stesso Rwanda.
Ai fini del nostro corso, lascia a parte le divergenze di ordine
socio-culturale che implicherebbero lungaggini di ricerca e
discorsi. Anzitutto desidero indicare quando parlo di “Africa”
qui,
intendo
le
popolazioni
situate
al
Sud
del
Sahara,
generalmente chiamate l’Africa nera; lascio da parte l’Africa del
Nord di cui la matrice culturale generale è arabo-islamica e di
cui il grado di civiltà è ben diversa da quello della prima
75
Africa. In secondo luogo, palerò dell’Africa subsahariana come di
un insieme. Tuttavia richiamo ancora i lettori a sapere che i
Bassar del Togo non hanno socialmente molto in comune con i Tuareg
del Sénégal; che la suddivisione delle stagioni di lavoro dai
Pigmei delle foreste del Congo-Kinshasa hanno poco da condividere
con i sistemi dei Kanuri della Nigeria. Non dimentico neppure il
fatto che ogni Stato africano, a causa della propria situazione
storica, economica e sociale si confronta con altri in peculiarità
ben specifiche.
Ho cercato quindi d’isolare gli elementi di divergenze segnalando
che sono ben importanti da considerare, ma in sede sociologica.
Nella dinamica di una riflessione antropologica culturale che mira
a fornire elementi di valutazione per le attività di promozione
globale delle popolazioni, mi riferisco al mio libro “L’Africa che
canta la vita “. Metto in sintesi i vari elementi che
costituiscono l’unitarietà e parlo allora di profilo culturale
degli africani beneficiari dei progetti di sviluppo come di una
realtà omogenea. Trattandosi però di una riflessione scientifica,
mi permetto di sollevare la problematica dell’unitarietà culturale
degli Africani, prima di darne gli elementi suggestivi utili agli
operatori dello sviluppo.
E’ ora di guardare al positivo e quindi superare il contenzioso
storico in vista di una serena collaborazione tra uomini d’Africa
e uomini d’Occidente per la costruzione di una nuova umanità.
Al mio parere, l’Occidente ha ormai integrato l’Africa e quindi
gli Africani nei processi della costruzione del nostro pianeta.
Benché il cammino sia ancora lunga e ci sia ancora molto da fare,
abbiamo alcuni piccoli fatti ed eventi che devono portare al
rasserenamento
dei
rapporti
e
quindi
ad
una
proficua
collaborazione.
La Tratta e la colonizzazione permisero ai figli degli africani
d’istruirsi. Ecco che all’inizio e alla seconda metà del XX° s. (
anni 1930-50 ) nacquero molti movimenti di lotta contro il
razzismo
e
successivamente,
negli
anni
1960
contro
la
colonizzazione. Così in America lo slogan “ Black is beautifull “
conduttore della lotta non violenta di Martin Luther e in Europa
la Negritudine di Léopold Sédar Senghor e Aimé Césaire, veicolata
nella loro rivista L’Etudiant Noir con sede a Parigi, etc…,
portarono alla riconquista della dignità onto-antroplogica globale
negata in passato. Negli anni 1950, Senghor che fu ormai
Professeur in uno dei prestigiosi Istituti di studio di Parigi, si
sposò con una donna bianca francese e fu successivamente eletto
Deputato al Parlamento francese.
Benché continuato nell’Apartheid in Africa del Sud, lo stereotipo
razzistico fu sconfitto in Africa del Sud medesima con la elezione
di Nelson Mandela a Capo di Stato, dove ha guidato con estrema
dignità un paese composto da bianchi e neri. Nel frattempo, nel
76
1994 l’egiziano Boutros Boutros Ghali fu eletto Segretario
Generale delle Nazioni Unite e fu poi succeduto dal danese Koffi
Annan che ne è a capo fino ad oggi; mentre il Direttore Generale
della FAO è Jacques, un nero africano di origine senegalese. In
Vaticano guidano importanti dicasteri della Chiesa Universale, due
africani:
il
beninense
Bernard
Gantin,
ex
Prefetto
della
Congregazione per i Vescovi e il nigeriano Francis Arinze,
Prefetto del Pontificio Consiglio del Dialogo intereligioso.
Tanti
fatti
illustrativi
dell’avvenuto
riconoscimento
delle
capacità dell’uomo africano da parte del partner occidentale e
quindi la presenza di un contesto favorevole alla chiusura del
contenzioso storico ed una collaborazione fraterna per il bene del
pianeta in cui africani ed occidentale sono chiamati per naturale
responsabilità ad operare con una mentalità di amicizia, amore e
fratellanza.
La triplice negazione che comunque vige ancora nell’immaginario
collettivo ha indebolito psicologicamente l’uomo nero, creando in
lui degli stereotipi che gli fanno considerare l’uomo bianco,
l’occidentale e la sua civiltà come entità suprema, ideali da
perseguire e raggiungere per stabilire dignità e benessere in
terra. Il più grande incubo e il più gran mito, l’idolo dell’uomo
nero africano è tra altri l’uomo bianco, è l’occidente. In un
libro molto interessante lo scrittore congolese Kä Mana dice che
uno dei grandi che l’Africano deve distruggere è dopo la sua “
Tradizione “, “l’Occidente “(74). I nuovi operatori dello sviluppo
nell’Africa contemporanea, se vogliono davvero portare successo ai
progetti di realizzazione di uno sviluppo umano sostenibile
integrato devono far anche opera di educazione sui questo
fondamentale aspetto psicologico dei destinatari del progetto.
77
78
Note
1)Molte informazioni che vi comunico su questa problematica
dell’evoluzione della dottrina dello sviluppo mi provengono da
DIZIONARIO DELLA GLOBAZZAZIONE. LE IDEE E LE PAROLE DELLO
SVILUPPO, a cura di BOSCARO, A., Zelig, Editore, Milano, 2002 .
2)LANZA, A., Lo sviluppo sostenibile, Il Mulino, Bologna, 1997, p.
14.
3)KABOU,
A.
Et
si
l’Afrique
refusait
le
développement?,
L’Harmattan, Paris, 1991 .
4) Vedi SACHS, W., Dizionario dello sviluppo, Edizioni Gruppo
Abele, Torino, 1998
5)Op. cit., p. 244.
6)UNDP, 1990, Human Development Report 1990, cap. 1, box 1.1, p.
10.
7)FRANCESCHETTI, G. & FUSETTI, G., Lo sviluppo sostenibile.
Un’ipotesi progettuale in una Regione Africana, Ed. Unipress,
Padova, 1993, p. 11
8)cfr IBID..
9)DIZIONARIO DELLA GLOBALIZZAZIONE, op. cit., p. 249.
10)Citato da LANZA, A., Op. cit., p. 15.
11)Cfr LANZA, A., Ibid., p. 19 .
12) cfr GERSCHENKRON, A., Il problema storico dell’arretratezza
economica, Einaudi, Torino, 1974; ROSTOW, W. W., Gli stadi dello
sviluppo economico, Einaudi, Torino, 1962 .
13)PREBISCH, R., The economic Development of Latin America and its
problem in United Nations, New York, 1950; FURTADO C., Teorie
dello sviluppo economico, Laterza, Bari, 1972; FRANK A.G.,
Sociologia dello sviluppo e sotto-sviluppo della sociologia,
Lampugnani-Nigri, Milano, 1970.
14)cfr LEWIS, A. W. – SINGH, S. P., ( a cura di ), L’economia dei.
Paesi sottosviluppati, Feltrinelli, Milano, 1966; - LEWIS, A.W.,
La pianificazione dello sviluppo, Feltrinelli, Milano, 1968; IDEM,
Teoria dello sviluppo economico, Il Mulino, Bologna, 1973.
15)ROSSITO C., Un’idea di progresso “ non filosofica “ nell’antica
Grecia , in AA.VV., La categoria del progresso fra mito e realtà,
Libreria Gregoriana – Ed. Euganea Comunicazioni, Padova, 1988, p.
39 .
16) cfr MONDOLFO, R., La comprensione del soggetto umano
nell’antichità classica, La Nuova Italia, Firenze, 1958, pp. 629739 ).
17) Ibid. p. 635.
18)cfr EDELSTIN, L.,L’idea di progresso nell’antichità classica,
Il Mulino, Bologna, 1987; ed. originale: The idea of Progress in
Classical Antiquity, The Johns Hopkins Press, Baltimore, 1967
19)The Ancient Conception of Progress, in ID., The Ancient Concepì
of Progress and Other Essays on Greek Literature and Belief, At
the Clarendon Press, Oxford, 1973, pp. 1-25
20)ARISTOTELE ED ALTRI, Divisioni, introduzione, traduzione e
commento di ROSSITTO, C., Antenore, Padova, 1984, p. 93.
79
21)cfr
MUTSCHMANN,
H.,
Divisiones
quae
vulgo
dicuntur
Aristoteleae, praefactus edidit testimoniisque instruxit, in
Aedibus, B.G. Teubneri, Lipsiae, 1907.
22)DIOGENE LAERZIO, III 100; la traduzione è di GIGANTE, M., in
DIOGENE LAERZIO, Vite dei filosofi, Laterza, Bari, 1983, p. 131.
23)Questa definizione ci è data da COTTA, A., Le capitalisme,
Presses Universitaires Françaises, Paris, 1977, pp. 3-4.
24) IBID., p. 5
25) Citato da BURY, J., Storia dell’idea di progresso, tr. Ital.
GIURO ( DI ), V., Milano, 1964, p. 138.
26)L’idea è riportata da SASSO, Tramonto di un mito, op. cit., p.
114.
27)SPINOZA, B., Ethica, I, 18,
28)Per Hegel “ lo scopo assoluto del mondo si adempie nel mondo “
29) Feurbach parla esplicitamente del “tramonto del cristianesimo”
30) FEUERBACH, L., Necessità di un cambiamento, 1842/43, trad.
ital., di ASCHERI, C., De nomine, 1966, n. 19-20, p. 262
31)MARX, K., Thesen über Feuerbach ( tesi XI ): “ I filosofi hanno
solo interpretato il mondo in modi diversi; ora si tratta di
mutarlo “ ( “ Die Philosophen haben die Welt nur versischieden
interpretiert, es kömmt drauf an, sie zu verändern “ : MARX, K.,
Frühe Schriften, hrsg. Lieber-Furth, Stuttgart, 1971, vol. II, p.
4.
32)GUZZO, A., Il pensiero di Spinosa, Torino, 1964, p. 285
33)Non a caso Feuerbach nello scritto Grundsätze der Philosophie
der Zukunft vede in Spinoza “ Il Mosè moderno dei liberi pensatori
e dei materialisti “; sul punto vedi FEUERBACH-MARX-ENGELS,
Materialismo dialettico e materialismo storico, introd., trad. e
note a cura di FABRO, C., Brescia, 1964, p. 45.
34)L’affermazione è riportata da STORIG, H.J. Breve storia della
filosofia, trad. it. Di POCAR, E., Milano, 1955, p. 341.
35)BURY, Storia dell’idea di progresso, p. 119.
36)IBID., p. 118.
37)LOWITH, K., La fatalità del progresso, in Storia e fede, trad.
it. di A. MAZZONE, A. e POZZAN, A.M., Bari, 1985, p. 152.
38)Per questi paragrafi, mi riferisco ovviamento al già citato
libro di FRANCESHETTI G. & FUSETTI, G., Ibid. pp. 115 ss.
39)cfr SHAMUANA MABENGA, J., L’Africa che canta la vita, Ibid.,
cap. XIII )
40)IBID., pp. 115 e 121 .
41)FRANCESCHETTI G. & FUSETTI, G., Ibid, p. 116.
42) cfr SHAMUANA MABENGA, J., Ibid.,
43) Per ampie informazioni sulla storia dell’Africa subsahariana,
vedi JOLLY, J., Histoire du continent africani ( des origines à
nos jours ), 2 t., L’Harmattan, Paris, 1989; BIMWENYI, O.K.,
Discours théologique négro-africain. Problèmes des fondements,
Présence Africane, Paris, 1981 .
44) Op. cit.
45)Vedi FONTETTE ( DE ), F., Le racisme, coll. Que sais-je?, Ed.
Presses Universitaires Françaises, Paris, 1975, p. 39 .
46)Su queste affermazioni, leggi KESTELOOT, C., Antologie négroafricaine.
Panorama
critique
des
prosateurs,
poètes
et
80
drammaturges noirs du XXè siècle, Coll. Marabout, Ed. Gérard & C°,
Verviers, 1967, pp. 35-36 .
47) LEVY-BRUHL, Race noire, race inférieure, Ed. PUF, Paris, 1789.
48) SHAMUANA MABENGA, J., L’Africa che canta la vita. La cultura
africana della vita alla luce dei suoi proverbi, EdUp, Roma, 2000,
p. 342 .
49)Vedi KABOU, A., Et si l’Afrique refusait le développement?,
L’Harmattan, Paris, 1991: leggere soprattutto la seconda parte “
Le refus du développement “, pp. 92ss.
50)Sul discorso di questo autore, vedi DIAKITE TIDIANE, L’Afrique
malade d’elle-même, Karthala, Paris, 1986, pp. 40-41..
51)DIAKITE TIDIANE, Op. cit., p. 15.
52)Per
tutti
questi
paragrafi
riguardanti
le
diversità
continentali, ci riferiamo all’articolo dI STATO DEL MONDO,
Annuario economico e geopolitico mondiale, Ed. Il Saggiatore,
Milano, 1998. .
53)cfr CHEIK, A.D., nel suo famoso libro “ Antériorité des
civilisations nègres. Mythe ou vérité historique, Ed. Présence
Africaine, Paris, 1967, pp. 241- 243.
54)cfr CHARLES, P., Les aspirations indigènes et les missions
protestantes,
in
Compte-rendu
de
la
Troisième
Semaine
missiologique de Louvain, Museum Lessianum, Louvain, 1925, pp. 1728 ; ID, Les Noirs, fils de Cham le maudit, in Nouvelle Revue
Théologique, Louvain, 1928, pp. 721-738 .
55)cfr SHAMUANA M.J., L’Africa che canta la vita, Ibid., p. 36.
56)ELUNGU, P.E., Tradition africaine et rationalité moderne,
L’Harmattan, Paris, 1987, p. 6 .
57)Su queste tematiche si legga TEMPELS, P., - La philosophie
bantoue, Présence Africane, Paris, 1948;- Notre rencontre, Ed.
CEP, Léopoldville, 1962; THOMAS, L.V., & Al., Les religions
d’Afrique noire. Textes et traditions sacrées, Fayard-Dénoël,
Paris, 1969
58)TEMPELS, P., Op. cit., p. 34 .
59)KAGAME, A., La place de l’homme et de Dieu dans la religion des
Bantu, in Cahiers des Religions Africaines, Kinshasa, 3, 1969, pp.
8-9 .
60)ZAHAN, D., La viande et la graine, Présence Africane, Paris,
1969, p. 174.
62)NGINDU, M., Propose t problèmes concernant le culte des morts
chez les Baluba du Kasayi, in Cahiers des Religions Africaines,
2/4, Kinshasa, 1969, p. 101.
63)HOLAS, B., L’image du monde bété, Presses Universitaires
Françaises, Paris, 1968, p. 24.
64)KI-ZERBO, J., L’édification des jeunes nations, AfriqueDocuments, Dakar, 1968, p. 16 .
65)N’DAW, A., Peut-on parler d’une pensée africane?, Présence
Africane, Paris, 1966, p. 38 .
66).KENYATTA, J., Au pied du mont Kenya, Maspéro, Paris, 1967, p.
201.
67)GRAVRAND, H., La dignité sérère, in Colloque sur les religions,
Présence Africane, Paris, 1962, p. 90 .
81
68)BIMWENYI, O.K., Le Muntu à la lumière de ses croyances en l’audelà, in Cahiers des Religions Africaines, Kinshasa, 2, 1968, p.
83.
69)KI-ZERBO,
J.,
La
personnalité
négro-africaine,
Présence
Africaine, Paris, 1962, p. 139.
70)MABONA, A., Eléments de culture africane, Présence Africane,
Paris, 1959, p. 120.
71)PONCELET, M., Une utopie post-tiermondiste. La dimension
culturelle du développement, L’Harmattan, Paris, 1994,
72)IBID., pp. 20ss .
73)cfr SANDRIN, L., Capire e aiutare il malato, Ed. Camilliane,
Torino, 1989
74)cfr KA MANA, L’Afrique va-t-elle mourir? Essai d’Ethique
politique, Karthala, Paris, 1994.
82