Alcott_Mefistofele FINALE.qxp

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I
Fuori, un crepuscolo invernale, dove i fiocchi di neve
turbinavano nelle spire del vento, sospesi in un cielo
plumbeo sopra una terra nella morsa del gelo.
Dentro, una soffitta, buia, nuda e fredda come la notte
incombente.
Un giovane smunto stava in ginocchio davanti a una
piccola fornace, a ravvivare il fuoco con sul volto un’espressione di placida disperazione, che rendeva strana e
solenne quella semplice faccenda.
Accanto a lui c’era una catasta di manoscritti e, negli
occhi infossati, che guardavano i bianchi fogli bruciare,
ardeva una strana luce, terribile a vedersi poiché il giovane stava offrendo il primogenito del cuore e del cervello in olocausto a uno spietato destino.
Pian piano le fiamme cominciarono a levarsi e guizzare dai tizzoni e il fumo a riempire la stanza. Lentamente il giovane si rialzò in piedi vacillando, raccattava
i fogli sparsi e se li stringeva al petto per poi gettarli nel
rogo borbottando: “Di tutte le speranze e i sogni che riponevo nel mio strenuo lavoro non mi resta che questo.
Povero libro mio, scompariremo insieme senza lasciarci dietro alcuna traccia!”.
Si accasciò su una sedia e adagiò il capo su un tavolinetto dove da giorni non veniva apparecchiato cibo. Nulla
rompeva il silenzio nel solaio tranne il tenue crepitio
delle lingue di fuoco che gettavano un cupo bagliore su
quella inerte figura. Fuori, le tenebre ventose infittivano
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mentre più chiaro si faceva il fatale bagliore e più ansante il respiro che usciva da un petto ormai stanco di vivere.
D’un tratto, alcuni passi risuonarono su per le scale, qualcuno bussò alla porta e non ricevendo risposta gridò:
“Aprite!”, in tono di comando. Bastò quell’ordine a riscuotere il giovane dalla sua trasognata immobilità che
gli ottundeva tutti i sensi, e lo costrinse a obbedire.
“Il Diavolo!” esclamò quella stessa voce imperiosa
allorché la porta si spalancò, lasciando entrare una nube
di vapore nocivo, come per salutare il nuovo arrivato: un
uomo di alta statura e di pelle scura che si stagliò sulla
soglia contro il buio dell’esterno.
“Chi è?... Oh, entrate!” disse il giovane, arretrando
di qualche passo, debole e confuso.
“Non posso, a meno che non rendiate sicuro il mio
ingresso. Vi chiedo scusa se vi ho interrotto... distolto dal
suicidio. Sono venuto qui per aiutarvi, ma se voi preferite l’altra cosa, ditelo, e tolgo subito il disturbo,” disse lo
sconosciuto senza varcare la soglia. Il suo sguardo, mobilissimo, perlustrava la soffitta in ogni suo angolo.
“Per amor di Dio, restate!” disse il giovane, corse
alla finestra, la spalancò con un gesto brusco, raccattò il
braciere ardente e lo depose sul tetto innevato, dove
prese a sibilare e risplendere come un essere malvagio.
Quindi andò a sedersi sull’unica sedia e attese, tremante, che l’ospite sconosciuto entrasse.
“Per amor del diavolo, piuttosto. Io amo le cose eccitanti... e a quanto pare qui potrò trovarne,” bofonchiò il
nuovo arrivato con una risatina. Guardava il giovinetto
con curiosità. Una folata d’aria fresca entrò nella stanza
e lo fece rabbrividire. Poi aggiunse distintamente, accettando quel tanto di ospitalità che lo squallido ambiente
poteva offrire: “Sono Jasper Helwyze, per servirvi”.
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La fioca luce e la pesante cappa non lasciavano vedere altro che un pallido volto dagli occhi penetranti e
un’esile mano che reggeva un cartiglio sul quale il mancato suicida lesse il proprio nome: Felix Canaris.
Allora domandò: “Siete qui per aiutarmi? Quale angelo buono vi manda, signore?”. Nella sua voce vibrava
un barlume di speranza, poiché il tono, lo sguardo, la
mano che reggeva il cartiglio gli avevano fatto avvertire l’influenza di una natura superiore, sicché, senza volerlo, ci credeva e vi si aggrappava.
“Un angelo cattivo, dovreste dire, dato che si tratta
dell’uomo che ha rifiutato il vostro libro e vi ha negato
l’aiuto che gli chiedevate,” rispose l’intruso con un tono
di voce soave che contrastava con il vigore del suo linguaggio. “Un puro caso mi ha guidato là da lui, quest’oggi, e l’occhio mi è caduto su una lettera che giaceva aperta sulla sua scrivania. La singolare calligrafia mi
ha attratto e Forsythe, il destinatario della missiva, me
l’ha letta ad alta voce... e mi ha narrato la vostra storia.”
“E voi avete riso della mia miseria... mentre io ero
pronto a porvi fine con un gesto estremo?” domandò il
giovane con una timida smorfia delle labbra delicate
che formulavano quella rampogna.
“Noi tutti ridiamo di una simile, appassionata follia,
quando le siamo sopravvissuti. Ne riderete anche voi, di
qui a un anno. Quindi non pensate male di me, ma ditemi piuttosto, in breve, se siete capace di lasciar perdere
la poesia e accontentarvi della prosa per un po’ di tempo.
In parole povere: intendete lavorare invece di sognare?”
“Sì.”
“Benissimo! Allora venite a stare da me, per un mese.
Sono rimasto assente da casa per un lungo periodo e la
mia biblioteca è in disordine. C’è da risistemarla e credo
che voi siate la persona adatta, se Forsythe mi ha detto
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il vero. Mi ha raccontato che vostro padre era greco e
vostra madre inglese – entrambi defunti – e che voi siete
un giovane in gamba, ambizioso, che si ritiene un genio...
e che non perdona al mondo di aver dubitato di ciò che
lui, peraltro, non è riuscito a dimostrare nella pratica.
Dico bene?”
“Benissimo. E aggiungete che sono senza amici, senza
un quattrino, e disperato a diciannove anni.”
Una breve e patetica storia, narrata con più eloquenza dai digiuni che trasparivano da quel volto sparuto,
dallo squallore dell’ambiente, dalla povertà degli abiti,
dalla disperazione dello sguardo piuttosto che dalle parole pronunciate con un piglio di sfida.
Bastò uno sguardo all’intruso per intravedere quella
meschina tragedia e trovare di suo gusto il protagonista
di essa poiché, nonostante le sue disgrazie, quel giovane
possedeva bellezza, gioventù e le alte aspirazioni che
son dure a morire: tre doni spesso irresistibilmente attraenti per coloro che li hanno perduti tutti e tre.
“Aspettate un mese,” disse, “e può darsi che vi accorgerete, alla fine, di esservi procurato un amico, denaro e
il diritto di sperare ancora. A diciannove anni si dovrebbe
avere il coraggio di affrontare il mondo, e domarlo.”
“Mostratemi in che modo e io lo troverò, il coraggio.
Una parola di simpatia mi ha già reso possibile vivere!”
disse Canaris e, afferrata la mano che gli offriva aiuto,
la baciò con la grazia impulsiva e l’ardore della razza di
suo padre.
“Quando potete venire a stare da me?” gli domandò
Jasper Helwyze, rialzandosi in piedi e avvolgendosi nel
suo mantello.
“Subito... stasera stessa, se volete. Non possiedo nulla
al mondo oltre ai poveri panni che vesto... che dovevano essere il mio sudario... e le reliquie del libro con cui
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ho acceso il mio ultimo fuoco,” rispose il giovane, con
la bramosia nello sguardo e un brivido dovuto al vento
freddo che entrava dalla finestra.
“Venite, dunque... altrimenti un padrone più potente
di me potrebbe reclamarvi prima di giorno.... perché la
notte si prospetta tremenda. Spegnete la vostra pira funeraria, Canaris, avviluppatevi nel vostro sudario, radunate le vostre reliquie e seguitemi. Se non altro, da me
riceverete un benvenuto più caloroso di quello che ho
avuto io qui,” concluse Jasper Helwyze nell’uscire dalla
stanza con quella sua risata sardonica.
Prima che fosse giunto, tentoni, in fondo alle scale
buie, Felix Canaris lo raggiunse e, fianco a fianco, uscirono insieme nella notte.
Un mese dopo, i due sedevano faccia a faccia in una
stanza arredata lussuosamente: una nobile biblioteca,
intima, ben riscaldata e silenziosa: la riposante atmosfera che studenti e studiosi amano ne era pervasa e libri
rari tappezzavano le sue alte pareti. Poeti e filosofi contemplavano le loro opere, con immortale soddisfazione,
dall’alto dei loro busti di marmo. I due uomini che occupavano la stanza ben si addicevano al sontuoso ambiente.
Jasper Helwyze sedeva su un’ampia poltrona accanto a un tavolo ingombro di libri che, curiosamente, tradivano l’inclinazione di una mente salda resa morbida
dalla sofferenza fisica. Il Dante di Doré esibiva le sue
tremende pagine di fronte a lui. Le antiche tragedie greche erano sparse intorno e lui teneva in mano il Faust di
Goethe.
Il suo aspetto era fragile e a prima vista tutt’altro che
imponente, la sua età difficile da indovinare, poiché la
sofferenza gioca strani scherzi e talvolta preserva negli
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adulti una giovanile delicatezza in cambio del vigore
che ha distrutto. Ma a un secondo sguardo, l’occhio si
faceva più attento perché un’indefinibile espressione di
potenza pervadeva quel volto glabro con le labbra sottili e i lineamenti ben marcati, incolore come l’avorio. Un
paio di ciocche ribelli di capelli neri gli piovevano sulla
fronte alta e, sotto, risaltavano i tratti di una imperiosa,
singolare fisionomia: due occhi intensamente neri e
così grandi che sembravano appesantirgli la faccia. Orbite violette li circondavano, denunciando notti insonni, languori giornalieri e lunghi anni di sofferenza, sopportati con severa pazienza. Ma negli occhi sembrava
concentrarsi tutta la vitalità dell’indomito spirito di
quell’uomo, intenso e brillante come una fiamma che
nulla potesse spegnere. L’espressione era, di volta in
volta, meditabonda, malinconica, penetrante oppure
sprezzante, e variava con stupefacente rapidità, a meno
che non fosse padroneggiata da un’affettazione che mascherava la spontaneità, attraente o repellente a causa di
un magnetismo cui poche persone potevano opporre resistenza.
L’alta fronte appoggiata a una mano, immobile come
una statua, Jasper Helwyze stava leggendo. Un repentino, irrequieto movimento del suo compagno lo indusse
a sollevare il capo e scrutarlo in silenzio, con un’attenzione che poteva passare per ammirazione, dato che Felix
Canaris era bello come il Narciso effigiato sulla parete,
alle sue spalle, o poco meno.
Questo creava uno spiccato contrasto fra i due uomini, poiché il giovane emanava vigoria nella ben proporzionata corporatura, dove forza e grazia si fondevano
armoniosamente; la salute splendeva nel colorito del
suo volto classicamente modellato e nella lussureggiante chioma che in anelli lucenti gli circondava il viso,
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dalla bassa fronte alla candida gola. La felicità veniva
irradiata dai grandi occhi sognanti e sorrideva dalle labbra voluttuose. Insomma, una indescrivibile luminosità
e forza pervadeva tutto il suo aspetto, impedendo che la
sua bellezza risultasse effeminata.
Era dunque avvenuto un grazioso miracolo poiché il
ragazzo smunto di poco tempo prima si era trasformato
in un giovane straordinariamente leggiadro, la cui naturale eleganza e l’innato agio rendevano adeguato ad adornare quel fascinoso ambiente e a godere del lusso che i
suoi sensi, amanti del piacere, agognavano.
La penna gli era caduta di mano e, adagiato contro la
spalliera di una poltrona, con gli occhi fissi nel vuoto,
sembrava immerso in sogni scaturiti da una inattesa prosperità che diventava sempre più preziosa di ora in ora.
‘La gioventù è senz’altro la bellezza del diavolo, e
questo ragazzo potrebbe esser giunto qui direttamente
dalla cucina delle streghe dopo aver bevuto un elisir fatato,’ pensò Jasper Helwyze richiudendo il libro. Quindi
soggiunse fra sé e sé, con temerari accenti: ‘Di tutte le
visioni che infestano il suo ambizioso cervello nessuna
è tanto selvaggia e ostinata quanto la fantasia che infesta la mia mente. Perché allora non assumermi il ruolo
del destino e portare a termine ciò che ho iniziato?’
Regnava adesso un silenzio più portentoso di quanto
entrambi immaginassero.
Poi Helwyze ruppe l’incanto, dicendo: “Felix, il tempo
è scaduto”.
“Sì signore, lo so. Devo andarmene o restare?” Così
dicendo, Canaris si alzò in piedi con aria alquanto sbigottita mentre i suoi splendidi castelli in aria si dissolvevano come nebbia al sole.
“Resta, se vuoi. Ma forse la vita qui è troppo tranquilla per uno irrequieto come te... e io sono una com-
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pagnia alquanto noiosa. Te la sentiresti di sopportarmi
per un anno intero?”
“Anche per venti! Voi siete stato molto cortese e generoso con me, signore, e per un mese mi è sembrato di
vivere in paradiso, dopo le ristrettezze da cui mi avete
riscattato. Lasciate che vi dimostri dunque la mia gratitudine servendovi fedelmente, se posso,” esclamò il giovane, avvicinandosi al suo maestro, come gli piaceva
appellare il suo benefattore.
“No, grazie. Io agisco per soddisfare il mio piacere.
Non è da tutti poter avere accanto a sé la classica bellezza in carne e ossa oltre che in marmo e in effigie. Mi
piacerebbe assai, infatti, tenermi caro il bel segretario
come l’unico ornamento che mancava alla mia biblioteca, finora.”
Canaris arrossì come una fanciulla e si strinse sdegnoso nelle spalle, ma la sua vanità era stata comunque
solleticata. E lo tradì lo sguardo in tralice che lanciò alla
porta a vetri che rifletté la sua figura a mo’ di specchio.
“Oh, no! Non accigliarti e arrossire, uomo. ‘La beltà
è di per sé la scusa del suo esistere’ e tu puoi ringraziare gli dèi per questo. Perché, se non fosse per essa, io
dovrei mandarti via, a combattere da solo contro i tuoi
draghi,” disse Jasper Helwyze con un impercettibile
sorriso. Poi aggiunse, sporgendosi col busto per meglio
scrutare un volto che non poteva più celarsi a lui dietro
una maschera: “Ebbene, tu mi farai dono della tua libertà per un anno e io ti aiuterò a dimostrare che Forsythe si è sbagliato sul tuo conto”.
“Pubblicherete il mio libro?” disse Cararis, di slancio, e un lampo di gioia si irradiava da ogni suo lineamento.
“Perché no? Sazierò in tal modo la fame che ti divora, sebbene tu cerchi di celarla. Non posso prometterti il
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successo, ma tentar non nuoce. Se superi la prova, fama
e fortuna prenderanno posto al tuo fianco. L’amore e la
felicità starà a te procacciarteli come li desideri.”
“Voi avete indovinato il mio anelito. Ho fame e sete
di celebrità. Me la sogno ogni notte, la sospiro e vagheggio di giorno, ogni pensiero e ogni mia aspirazione verte
su questo desiderio. Se non mi nutrissi di tale speranza,
perfino la splendida casa che mi offrite mi parrebbe una
prigione. Devo attingere al successo, che è quanto gli uomini bramano e ammirano maggiormente, e per cui soffrono e si affaticano... e moriranno contenti se l’avranno ottenuto sia pure per poco. Datemi questa opportunità e io sarò vostro, anima e corpo. Non ho nient’altro
da offrire in cambio.”
Canaris aveva parlato in tono appassionato e protese
una mano come se fosse pronto a genuflettersi, sacrificio
di poco conto rispetto al premio cui ambiva.
Jasper Helwyze strinse quella mano con calcolata
freddezza, e serrò lentamente le dita con l’aria di uno di
fronte alla cui volontà qualsiasi ostacolo crolla. Poi disse:
“D’accordo. Ora mostrami il libro e vediamo se riusciamo ad aver partita vinta, stavolta.”
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