L`incontro Una donna riversa sul letto, le persiane

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L`incontro Una donna riversa sul letto, le persiane
L’incontro
Una donna riversa sul letto, le persiane socchiuse, un
raggio di sole si insinua supplice e chiede che qualcuno
apra. Il silenzio della casa taglia l’anima in due; una sospensione tra presente e passato: un salto da fare attende
da anni.
L’addome dolorante, la donna chiede aiuto, non ce la fa
a girarsi; pensava di essere sola; invece due occhi grandissimi verdi, i capelli sconvolti, la canottiera mette in rilievo
la forza del corpo ancora giovane. “Amore va bene così?”.
L’uomo la pone supina, il dolore si disfa, un ricordo si
apre in mezzo alla fronte, lo stomaco si contrae, il cuore
fibrilla: è il suo vero, grande amore.
Si può dimenticare un amore? Un uomo che ti è vicino
da anni, ti accompagna all’aeroporto, al mare, al lavoro, in
palestra, sulle piste da sci?
I baci a Ventotene, il profumo della sabbia, gli occhi
avviluppati nella passione, i piedi scalzi sul cruscotto della
macchina, i vetri appannati dietro la pioggia incessante che
batte. “Non prendiamoci troppo sul serio!” aveva detto lui
con aria birichina e imberbe. Lei, donna vissuta, l’aveva
guardato; taceva, ma sapeva che non sarebbe scappato.
Il Lago Maggiore in fiore, il profumo del melograno,
l’orecchiuto San Carlone era testimone dei primi baci, andirivieni delle strade in salita e discesa, la terra del Mottarone da percorrere in bici. Il silenzio ovattato della piccola
casa in cima alla montagnola, la vista che si allarga e si
scorcia, mentre l’amore si apre dentro il ventre materno.
Un incontro non proprio casuale sulle scale di una scuola, un fremito irresistibile aveva percorso il corpo della giovane donna: odore di borotalco.
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Giovanna Albi
Lei non lo conosceva, lo guardava da lontano; entrava lentamente nella sua vita come un sogno apollineo, un
amore lento e profondo, un gusto di Plasmon, un odore di
bambino piccolo.
Irresistibile: occhi verdi di biglia di vetro, jeans con
bretelle, camicia a quadretti, scarpe da ginnastica, fare da
dandy, sorriso smaliziato.
Le sembrava troppo per lei, bello, flessibile come un
giunco, il fare un po’ sfaccendato. Lei lo ammirava, lo
vedeva irraggiungibile, ma non per la bellezza, ma per la
diversa qualità dell’anima. Si guardava la donna allo specchietto di bellezza: i capelli bellissimi neri ma sconvolti, un
acuto dolore al lobo sinistro della fronte; due occhi verdi
intensissimi, ma un evidente esoftalmo, un sorriso bello,
ma non più naturale. Una domanda dolorosa in mezzo al
petto: “Ma io, io chi sono?”.
Tutti in corsa, affaccendati, col loro quotidiano da curare, tutti senza domande, tutti in apparente equilibrio. Lei
correva all’impazzata col suo cuore, andava avanti e dietro,
lo guardava e trasecolava, lo guardava e gli rubava un pezzo di segreto dell’anima.
Un giorno di pioggia fece riemergere acuto il dolore del
ritorno; gli disse: “Facciamo un giro in macchina?”. Lui:
“Certo!” Come la cosa più naturale del mondo. La pioggia
batteva, il ricordo si gonfiava nel petto: la vita passata premeva e, più la schiacciava, più prendeva forma inquietante. Lui tranquillo, il capo appoggiato al sedile allungato, le
mani massaggiavano ritmicamente i capelli, una sigaretta
si spegneva dentro un sogno dimenticato. “Ho amato una
donna ‒ lui disse ‒ si chiama Roberta, ma fa parte del passato oramai, sono pronto a ricominciare.” Ricominciare? ‒
lei pensò. ‒ Perché si può ricominciare? Io sto nel passato,
vivo di passato, nutro il mio passato, lo tengo a me attaccato perché non mi fugga. Da dove posso io ricominciare?
La sua bocca scivolò lungo il suo collo: odore di bambino piccolo; ecco da dove ricominciare, col rischio di liberarsi davvero.
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Odore di bimbo
Roma: profumo di primavera, rione Parioli, zoo, tartufo
pasticceria Ciampini, la zia la tiene per mano, l’accompagna lungo la vita, un giorno le lascia la mano, le è nata una
figlia; non è più nulla per lei.
Una parte della vita si chiude e ora si riapre: accappatoio con le papere, carezze di borotalco, torta al limone.
Si fermano in una pasticceria; ordina una fetta di torta al
limone. Risente lo stesso sapore, lo stesso profumo, le
stesse emozioni. “Basta! ‒ si dice ‒ Io voglio qualcosa di
nuovo!”. Si alza, si rivolge al pasticcere: “Una porzione di
budino al cioccolato!”
Si siede distesa, palestrata dentro i jeans attillati, il seno
profumato, la voglia di esserci.
Il ricordo recente di Marco, le rose regalate, la casa
nuova, la marca di borotalco. Il profumo Poison. Tutto nuovo. Gli armadi svuotati: il silenzio, la passione e la noia
dell’avvocato. La follia di Aiace, la sindrome d’amore
s’impossessa di lei.
Una sindrome atipica, sottile, un fuoco che brucia lentamente, uno scambio di sguardi fanciullesco, una pace
rasserenante, come se il torbido dell’anima si sciogliesse e
tornasse all’infanzia.
Un senso di purezza, d’innato candore, l’esito di una
ricerca che va a coincidere col suo inizio; una sorta di risveglio lento, dolce, cullante.
Rientrano in macchina mentre la strada è sgombra; è
notte: il cielo è testimone del loro amore. Un bacio appena
sfiorato; i capelli dentro le carezze, un marocchino vende
una rosa, smette di piovere. Sentono il vuoto della mente,
un fanciullesco riposo, lei rivede la copertina a quadretti rosa dell’infanzia, le finestre spalancate sul mondo, il
sorriso della maestra, le scorribande con i compagnucci di
scuola, l’odore delle matite, le copertine cerate di libri con
Pinocchio.
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La nuova vita
I balconi sono in festa, dentro la mente si sente una
gioia rinascere; lo prende per mano e lo conduce dentro la
casa. Sente la porta cigolare; che strano: non ci aveva mai
fatto caso. Capisce che è tutto da rinnovare.
Prende le foto della sua famiglia di origine e, mentre
lui sorseggia una Coca-Cola con la cannuccia, si rivede sul
sofà a leggere Topolino e a bere l’orzata. Si osserva nello
specchio dell’infanzia, dentro quel treno perso tra le beghe
di una famiglia, e per la prima volta sorride. Grida al mondo la sua felicità e sente un rimbombo sordo dentro il bagno
nel quale si è chiusa.
Esce e lo vede sdraiarsi su quel divano a quadretti che
ha lustrato la precedente mattina; lei si avvicina cauta come
a un gattino randagio da spulciare; lui si apre in un sorriso
di perla e le dice: “Fai di me ciò che vuoi!”. La notte è lunga
e intensa, solo il mattino restituisce i corpi alla loro libertà
primigenia. Lui prepara il caffè e ancora lo fa, e non solo
nei giorni di festa; la donna si stropiccia gli occhi: vede i
gerani in fiore sul balcone illuminato. L’umidità della notte
le scivola lungo le gambe, lui la raccoglie e la porta ancora
addormentata sul letto. Lei fa uno scatto felino verso la sveglia e le dice: “Smettila di battere sempre la stessa ora! Non
sono più una bambina; non chiedo a nessuno il permesso di
godere.” Chiude rapidamente nel cassetto tutte le foto della
sua antica famiglia, dalla nonna alla mamma, al padre, alla
sorella e scappa via al lavoro.
Sbaglia strada; non è ancora abituata a distinguere la
destra dalla sinistra e ancora oggi quando le chiedono
un’indicazione stradale, lei, prima di rispondere, osserva la
mano con cui scrive per procedere con le indicazioni. Ri-
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Odore di bimbo
corda che, quando la madre la mandava dal pizzicagnolo, si
perdeva pur in un piccolo centro, inseguendo la strada della
memoria, e si perdeva tra i vicoli antichi, e, vicino all’anfiteatro, ruotava come una gattina in calore a osservare dal
basso la casa del suo primo amore.
I viaggi nella memoria sono la sola vita possibile per
lei, l’unico risarcimento al male del vivere e pur si perde
e perde e cammina quasi con la testa rivolta indietro. Uno
strano meccanismo si è impossessato di lei: vede la sua storia al contrario.
Eppure quella battima dei primi di maggio salta come
una cavalletta impazzita dalla gioia e ricorda nitido, quasi
fulgido, il tailleur arancio pesca, le scarpe coloniali, il sorriso presente sul mondo, la gioia di esserci, il corpo sinuoso,
il portamento quasi sfrontato, l’atteggiamento di sfida al
mondo. E si sente esattamente come allora, come quella
mattina in cui si era scaricata del più grande fardello della
sua vita, di un peso ineffabile, che non si può dire. L’ha
rincontrata quella donna che aveva salutato distratta all’aeroporto di Ciampino, ma che era cresciuta con sé, dentro il
suo immaginario, e ora, ragazze più che mature, si scambiavano tranquille le loro reciproche storie. Lei, Francesca,
era fidanzata da una vita con lo stesso amore, l’altra ha gironzolato di letto in letto alla ricerca di sé.
Ora finalmente ha capito: quando si fa l’amore non per
l’altro, ma per amore e attaccamento a sé, il tormento non
può che crescere e l’altro, chi è mai l’altro, su cui ci si specchia per la durata di una notte? Un nulla, una possibilità
su un milione sulle macerie di sé. Finalmente Chiara l’ha
capito: vivere in costruzione per sé e per l’altro è l’unica
strada che richiede uno sforzo sovrano, ma senza tirannide.
Si sentì libera quel giorno che Chiara rivide Francesca:
un varco si aprì nella sua memoria, vi passò dentro come
Mosè nelle acque del mar Rosso; finalmente il mare infecondo divenne per lei navigabile e disse a Marilina: “Oggi
ci sono e domani pure; io ci sono.” Lei con i suoi occhi
intensi, non ancora colpiti da una terribile malattia, non
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Giovanna Albi
capì: non poteva capire. Lei aveva una vita regolare: il solito tran-tran, lo stesso uomo da anni, due figlie intelligenti
e tenaci, il cane, la villa, la cena il sabato con gli amici, un
apparente distacco emotivo dal mondo.
Chiara: i capelli scompigliati dalla passione, il girovagare anche cieco dentro la memoria, le notti in discoteca,
le giornate con gli amici, l’aperitivo la sera, la cena fuori, gli amari ingurgitati con la voglia di cancellare. “Devi
stare, solo stare, espellere, non fagocitare, rubare i giorni
al sole e non farteli rubare!”. Finalmente ci era riuscita, si
era rispecchiata per un pomeriggio, due ore?, negli occhi di
Francesca e aveva capito che non era lei il problema, ma il
problema, se mai ve n’era, era suo e solo suo.
Capì che aveva pagato l’affitto dei suoi castelli in aria
allo psicoanalista; si alzò dalla poltrona del lavoro con fare
prepotente e si avviò verso il suo studio; entrò come Renzo
nella casa del curato e gli gridò in faccia: “Io non me ne
faccio niente del suo psycologicorum e vaffan...!”
Non potete immaginare la liberazione di quelle parole
accompagnate al rituale gesto. Il gesto, l’unico gesto, che
racchiuse il significato della sua esistenza fino a quel punto
e l’inizio di una nuova vita.
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