Carla Muschio romanzo popolare

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Carla Muschio romanzo popolare
Carla Muschio
romanzo popolare
Capitolo primo
La carrozza aspettava le signorine sotto il portico d'ingresso della villa. Carlotta era in
ritardo, come al solito. Mentre erano già sulla porta della cucina, le cartelle in mano e qualche
briciola di torta nelle pieghe della ricca gonna di lana pesante (perché faceva freddo a Milano a
quei tempi; d'inverno c'era la neve e bisognava coprirsi bene) si era ricordata di dover prendere
la cassetta dei colori. Si faceva acquerello quel giorno al ginnasio. Carlotta corse in camera sua,
su per il grande scalone, a prendere i suoi strumenti. Isabella rimase lì ad aspettare e, senza che
lo volesse, si creò una piccola piega di noia in mezzo ai due begli archi delle sue scure
sopracciglia.
Carlotta era la sorellina piccola. Anche se aveva solo due anni meno di Isabella ed era
relativamente grande anche lei, tanto da frequentare lo stesso istituto della sorella, Carlotta era e
sarebbe sempre stata la piccolina di casa. A farne la "piccolina", oltre al verde dei suoi anni, erano
i riccioli biondi, le fossette sulle guance e quella eterna distrazione che la ragazza non faceva
nulla per correggere. Dimenticava tutto, aveva anche rotto l'orologio del babbo girando la
rotella nella direzione sbagliata, ma niente: invece di punirla tutti la trovavano deliziosamente
bambina e così Carlotta persisteva nella sua sbadataggine. L'unica ad irritarsi e a soffrirne era la
sorella maggiore, Isabella, che si sentiva incompresa in quella casa di bambole dove davano
più ascolto alle ingenuità di un'ochetta che alle aspirazioni elevate di lei, la sorella grande, che
voleva essere "grande" veramente. Da grande, appena fosse riuscita a uscire di casa, Isabella
voleva essere una grande donna. Grande in cosa non lo sapeva ancora. Sicuramente in amore.
Voleva un uomo magico, attraente, che riunisse tutti i tratti di tutti gli uomini che aveva amato
nelle sue letture: Amleto, Werther, Alessandro I di Russia, Benjamin Franklin, Lancillotto. E oltre
all'amore? Arrivò Carlotta con la cassetta in mano a interrompere i sogni.
"Signorine, in carrozza." Il cocchiere era Luigi, il tuttofare della famiglia. Oltre che
cocchiere era anche giardiniere, uomo di fatica e persino calzolaio. I contadini una volta
dovevano saper fare tutto perché i servizi esistevano solo nelle grandi città ed erano cari.
Quindi un uomo del popolo cercava di ingegnarsi in tutte le arti a cui le sue mani riuscissero
ad arrivare e Luigi, quando viveva ancora in cascina con la sua famiglia d'origine, era
diventato, tra le altre specialità, calzolaio. I Valleolona, la famiglia di Carlotta e Isabella, erano ben
lieti di poter risparmiare qualcosa facendo svolgere ai loro dipendenti quelle mansioni che nelle
botteghe non potevano che essere più care.
Qui si presenta l'occasione per parlare delle condizioni economiche della famiglia.
Come altre famiglie non nobili, ma di grandi sostanze in una società in trasformazione come
quella italiana nei primi decenni del Novecento, i Valleolona non sembravano saper
trasformare la loro ricchezza in imprenditorialità. Possedevano una bella villa nella periferia di
Milano, là dove d'autunno la nebbia forte isolava la casa e faceva pensare di essere sperduti in
un'immensa campagna, perché non si vedevano né case né luci attorno, se si eccettuava la
luce guizzante del lampione sotto il portico. Tanti loro amici erano diventati industriali,
avevano automobili da corsa, palchi alla Scala e, le donne, gioielli vistosi. Arturo Valleolona
con la moglie Marina disprezzava questo modo di vivere. Diceva: fanno la bella vita alle spalle
degli operai, si credono chissà chi e poi non sanno neanche distinguere un Lambrusco da un
Barbera.
Lui i vini li distingueva benissimo e anche le pietanze. Il riso in bianco doveva essere
fatto come diceva lui e gli ossi buchi, a sua detta, erano la cosa più difficile da cucinare. Solo
Rosina, la cuoca di casa, li faceva veramente buoni. La cotoletta alla milanese invece, diceva a
volte per stupire gli altri commensali, era una ricetta viennese, roba da "tudesch" che bastava
avere una padella per saper fare.
Non che Arturo non lavorasse. Aveva ereditato dal padre una filanda, come si chiamava
allora, dove si lavorava la seta e si confezionava biancheria fine. La biancheria era fine veramente,
ma i ricavati modesti. Permettevano alla famiglia di vivere senza pensare al denaro, ma non per
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l'abbondanza di questo bensì per la sobrietà di vita dei Valleolona che, con lombarda
parsimonia, non avrebbero sprecato un tozzo di pane. Il pane avanzato si poteva grattugiare o
dare alle galline o mettere a bagno nel latte per fare la torta di pane.In vacanza si andava "in
campagna", in una casetta semplice, in mezzo a terre di loro proprietà, nel Novarese. Al mare o
in viaggio nessuno aveva mai pensato di andare e quindi soldi in più a casa non ne servivano. Per i
posti alla Scala, la carrozza e le feste il denaro bastava, quindi non c'era alcun bisogno di allargare
la filanda o aprire nuove vie commerciali. Vestirsi poi non costava niente. Rosina, la cuoca, cuciva
tutti gli abiti delle ragazze e solo per la festa dei diciotto anni di Isabella, già se ne era parlato, la
mamma voleva portarla da una modista rinomata del centro: le famose sorelle Galimberti della
Corsia dei Servi. La biancheria intima era gratis ed era tutta rigorosamente di seta.
Capitolo secondo
Carlotta e Isabella frequentavano il Liceo Classico Ludovico Ariosto in una via stretta,
ombrosa d'estate ed umida d'inverno, del centro di Milano. A piedi, da casa loro avrebbero
potuto raggiungere la fermata del tram e con quello la scuola, ma i genitori non si fidavano a
lasciare andare in giro due ragazze "giovani e al bacio", per usare un'espressione della mamma,
da sole. Perciò le facevano accompagnare il mattino e riprendere alla fine delle lezioni dal
buon Luigi. Le ragazze si vergognavano di fronte alle compagne di questo lusso. La gita in
carrozza da e per la scuola pareva loro un segno di superbia che poteva essere mal interpretato
da qualche compagna più povera e invidiosa. Pensare che loro, invece, non nutrivano proprio
nessuna invidia per le compagne più alla moda, se non per una cosa sola: i balli. Ludovica, la
compagna di banco di Isabella, apparteneva a una famiglia ricca e allegra. Il padre era banchiere.
Possedeva, cioè, una banca, una fortuna fiorente e una moglie piacente. Ludovica era figlia
unica e i genitori non le facevano mancare niente, né beni né allegria. Mentre i Valleolona
rispettavano l'etichetta del buon tempo di "Carlo Codega" (mitico essere di un immaginario,
remoto passato milanese che nessuno sapeva bene chi fosse) e imponevano a Isabella e
Carlotta di sospirare il compiersi dei diciotto anni per il debutto in società, i genitori di Ludovica
avevano ammesso la figlia, appena lei l'aveva desiderato, alle gioie del bel mondo. Tutte le
esperienze amatorie di Ludovica (Lulù per le amiche più care) consistevano in scambi di
sguardi, goffe civetterie, scarpette di raso e una scollatura un po' più maliziosa del consueto
nell'abito da ballo. Nel racconto che si faceva a scuola, però, dopo le uscite serali, i timidi sguardi
lievitavano in occhiolini, i sospiri in lunghi baci, perché Ludovica amava stupire il suo uditorio
scolastico.
Carlotta sapeva poco di queste cose. A lei bastava essere carina e ammirata dal papà
e dalla mamma. Tra l'altro, era una ragazza allegra e le bastava poco per essere felice. Invece
Isabella, doveva ammetterlo, soffriva d'invidia. Invidia per la mondanità della sua compagna e
invidia per il gran mondo che sospettava esistere nelle belle vie del centro che percorreva la sua
carrozza per arrivare a scuola, dietro le gelosie alte, le finestre tonde che davano luce alle scale
dei palazzi e, a dire il vero, dietro ogni finestra, anche la più modesta, di ogni abitazione. Chi
viveva lì? A cosa pensavano? Cosa facevano? Perché lei così piena di desiderio doveva stare a
languire
nelle versioni di latino e greco quando c'era un mondo, anzi, tutto il mondo da esplorare e
scoprire?
Per questo mal sopportava la scuola, pur essendo brillante negli studi. Studiava per
sfogare in qualcosa le sue energie ed otteneva buoni risultati, ma in realtà disprezzava i suoi
professori ed il mondo che le presentavano. Era mai possibile che qualcuno trovasse gusto
nell'algebra o provasse piacere a leggere l'Eneide in lingua originale per tutti gli anni della sua
vita? Isabella studiava senza particolare trasporto le lezioni che le assegnavano. Ciò che la
rendeva brava negli studi e, a volte, brillante, aveva una segreta ragione, ignota al corpo
docente. Erano le letture con cui lei occupava i pomeriggi, quando non doveva uscire con la
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mamma per acquisti, non aveva lezione di violino e non giocava in giardino (a palla, a
cerchietti, a tamburelli) con la sorella. Erano comunque tante ore alla settimana, perché il tempo
scorreva lento nella villa dei Valleolona. C'era una stanza biblioteca nella casa, con un tavolo e
un bel divano sotto le finestre dove si poteva leggere senza accendere la luce fino all'ultimo
raggio di sole. Quando veniva buio lì, era buio tutto il mondo ed era comunque ora di andare a
cena.
Non che i Valleolona fossero intellettuali, tutt'altro, ma ambedue i genitori avevano
"studiato in una buona scuola" e avevano buon gusto. C'erano i classici, italiani, greci e latini,
qualche traduzione di classici europei e una profusione di libri di viaggio. Questa era una
collezione del padre di Isabella, Arturo, che al suo desiderio di altri lidi, invece che con una vita
avventurosa, dava domestica espressione con questa raccolta di trattati di geografia illustrata,
racconti di viaggio, piante di città a lui sconosciute, resoconti sugli usi e i costumi del mondo.
Le ore in biblioteca corrispondevano per Isabella alle feste da ballo di Lulù. In fondo
non aveva fatto nulla di male quando si alzava dal divano, riponendo nello scaffale uno di quei
libri, eppure sarebbe arrossita se le avessero chiesto cosa aveva letto, come per una domanda
molto intima. Per lei leggere era come andare in quei luoghi. Non avendo mai fatto viaggi veri,
se non le estati in campagna e, una volta, un mese a Firenze presso certi amici di famiglia,
queste ore sul divano della biblioteca erano esse stesse dei grandiosi viaggi, da cui tornava alle
dimensioni consuete della vita con un senso di irrealtà. Ella regolava l'espressione del viso,
nell'entrare nella sala da pranzo per la cena, come uno si cambierebbe bruscamente d'abito
dopo essere stato, poniamo, a potare alberi, prima di presentarsi a una cena di gala. Eppure,
come il giardiniere, pur cambiandosi d'abito, si tradirebbe facilmente per una foglia rimasta tra
i capelli o una pagliuzza tra le dita, così Isabella aveva un brillio negli occhi che avrebbe rivelato,
a volerlo osservare, in che pensieri aveva indugiato fino a quel momento.
Capitolo terzo
Era una mattina d'ottobre, una di quelle giornate in cui l'aria ha una speciale trasparenza
che fa pensare all'estate. A quello che si immagina sia l'estate, perché l'estate a Milano è calda e il
cielo, a meno che non ci sia vento, è di un azzurro spento dall'afa. Ma quando si torna a
scuola, nell'autunno, l'afa si dimentica e si pensa all'estate come a una festa di azzurro, libertà e
abiti bianchi. Isabella, mentre il moto della carrozza che la portava a scuola la cullava, facendola
ritornare allo stato di sogno che aveva a malincuore lasciato alzandosi dal letto, scivolò senza
accorgersi in un giro di pensieri, meglio, di immagini attizzate dalla speciale trasparenza di quel
cielo. Il cielo azzurro generò il ricordo di una camicetta azzurra che portava d'estate, con il
ricamo di un uccellino su un ramo. Vide gli alberi del viale e anche lì c'erano uccelli. Erano
fermi a un incrocio e Isabella osservò due passeri che si contendevano con rabbia un pezzo
di focaccia sull'erba. Tutti vogliono essere felici. Anch'io non chiedo altro. Perché porto
questa gonna a pieghe? Non mi piace. Era una gonna grigia di vigogna, di buona stoffa e di buon
taglio, sobria come tutte le cose di casa sua. Isabella avrebbe preferito, e subito se l'immaginò in
tutta la sua lucentezza, una gonna di raso di quel verde un po' spento che aveva l'erba quel
mattino, del colore della salvia, spento ma anche lucente. E invece che a scuola la carrozza
doveva portarla al ballo delle debuttanti, con fiori nei capelli. Lei avrebbe staccato una rosa
dall'acconciatura e l'avrebbe data da tenere sul cuore come pegno d'amore al principe azzurro
che avrebbe incontrato al ballo. Qui si immaginò una grande sala come ne aveva viste nei libri
illustrati, piena di donne belle, dove suonava la musica e tutti i giovanotti si innamoravano.
Insomma, i suoi pensieri tornavano sempre allo stesso argomento. A diciassette anni è la natura
stessa a imporre questo pensiero sopra ogni altro. Per di più quando sopra c'è un cielo come
quello.
Intanto la carrozza avanzava e si fermò davanti all'ingresso della scuola. Isabella
dovette salutare con rispetto il professore di religione che entrava in quel momento dal portone,
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poi salutò, questa volta di cuore, il bidello Martino, il personaggio più simpatico della scuola, che
faceva anche da postino tra le ragazze tanto era cordiale. Si voltò a fare un cenno di saluto
anche a Luigi e finalmente infilò il corridoio che portava alla scala per cui si saliva alla sua classe.
Fuori dalla classe le ragazze, senza fretta perché mancavano cinque minuti all'inizio delle lezioni,
appoggiavano le cartelle, aprivano gli armadietti per infilarsi il grembiule. Il grembiule era nero,
più brutto ancora della gonna grigia, ma la bellezza traspariva ugualmente, in quel corridoio
di ragazze affaccendate come i passeri sull'albero che aveva osservato Isabella sulla via della
scuola. Traspariva dai capelli, lunghi o, per le più moderne, corti, dagli orecchini d'oro, dagli
occhi di tutti i colori. Isabella li aveva verdi e Carlotta azzurri. Non traspariva invece dalle
scarpe, perché era autunno e le scarpe da pioggia sono tristi per tutti.
Siccome era presto, Isabella aprì una finestra della sua classe e guardò in strada.
Riconobbe il retro della sua carrozza che si allontanava. Luigi proseguiva nel suo giro di
commissioni per la famiglia. Le ragazze continuavano ad arrivare. Ecco Bianca, la compagna
di banco di sua sorella. Che bel nastro aveva nei capelli stamattina! Isabella invidiava a Bianca
i riccioli neri, che davano al suo viso l'aria ribelle che avrebbe voluto avere lei. Isabella aveva
lunghi capelli ondulati, raccolti in una treccia che, liberando il viso, accendeva i suoi occhi verdi.
Era una bella ragazza, di una bellezza ancora acerba e insicura, ma che prometteva una fioritura
rigogliosa. Isabella però non lo sapeva ancora. Percepiva solo di non essere come avrebbe voluto
e si studiava di trovare il modo per essere bella anche lei come le altre. Lo diceva persino nelle
sue preghiere. "Signore, tu che puoi tutto, fammi crescere bella o almeno normale". Chissà cosa
pensava Dio di questa richiesta. Lei aveva una fede cristallina nella religione e si appellava a Dio
perché non avrebbe saputo a chi altri rivolgersi per uscire dall'insulsa normalità, come pareva
a lei, del suo aspetto e della sua vita.
Bianca era con un giovanotto. Chi poteva essere? Suo fratello? Un cugino? Ora era
proprio sotto la finestra e si vedeva bene. No, chiaramente era una persona di servizio perché
portava la cartella di Bianca e, nell'altro braccio, la sporta per la spesa. Seguiva la signorina
con l'affetto e la modestia di chi è, al contempo, molto vicino e molto distaccato. Come Luigi
per lei. Ad avere un problema, ne avrebbe parlato più volentieri con Luigi che con i genitori.
Lui le era più vicino e sembrava capire di più. Però non ci aveva mai provato. Luigi era un
personaggio della sua vita come tanti altri, come Rosina, come i cavalli e la mobilia: erano tanto
cari, c'erano sempre stati e le davano un senso generico di "casa", ma nulla più.
Capitolo quarto
La campanella era già suonata, la professoressa della prima ora, la Brambilla, stava
decidendo tra sé e sé se interrogare o spiegare il Parini. Il registro era aperto e le ragazze
aspettavano la sua decisione, con il libro sul banco, timorose (in particolare quelle che non
avevano studiato) ma anche distaccate, perché l'emozione della prima ora non sta nelle
interrogazioni né nel Parini ma in quello che hanno da raccontarsi le amiche dopo essersi
lasciate il mezzogiorno del giorno prima. Ludovica non c'era e perciò Isabella stava seduta tutta
compunta nel banco, guardando il libro di antologia aperto senza neanche vederlo. L'aveva
aperto su una pagina a caso con gesto automatico, per essere lasciata in pace. La Brambilla si
decise.
"Interroghiamo una a caso. Vezzoli."
"Questi casi sono poco fortuiti," ribatté con impertinenza la Vezzoli, come a dar segno
di essere vittima consapevole di un'ingiustizia, ma si alzò per avvicinarsi alla cattedra. Mentre
attraversava il corridoio col libro in mano, bussarono alla porta. Era Ludovica. "Lo sapevo che a
scuola ci veniva," pensò Isabella sorridendo all'amica che entrava. "Deve raccontarmi cos'ha
combinato ieri pomeriggio al Biffi Scala con la Maria e quei due ragazzi del Galilei."
"Mi scusi, c'era traffico, ho fatto tardi."
"Pazienza, vatti a sedere. Vezzoli, prendi la poesia a pagina 347 e commentala."
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"Ciao, Lulù."
"Ciao, Isa."
Bisbigliavano perché non era il caso di indispettire la Brambilla di primo mattino.
Chissà che punizione sarebbe andata a inventare. Meglio ricorrere al metodo più sicuro dei
bigliettini, la cui laconicità era completata da cenni, sguardi e tacite promesse di
completamento durante la ricreazione.
Ecco la corrispondenza che rimase registrata su un foglio del quaderno di brutta, poi
stracciato per evitare ispezioni. Pur scrivendo, Isabella e Ludovica tenevano gli occhi alla
cattedra così da far sembrare che seguissero il commento a quella poesia che non avevano
neanche capito a che pagina fosse.
"Allora?
Fantastico.
In quanti?
Cinque.
Chi è il quinto?
Si chiama Raffaele.
Cosa c'entra?
Niente.
Ti ha detto qualcosa?
Raffaele?
No! Il tuo G.
Sì e no.
Come?
Dopo spiego.
Ti ama?
Ho detto dopo.
E la festa?
Niente. E tu?
Io cosa?
Cos'hai fatto?
Niente.
Si sposano o no?
Chi?
Nel tuo romanzo. Franco e Benedetta.
Non sono ancora arrivata.
Che noia!
A chi lo dici. Visto che cielo?
Dove?
Qui, scema. Il cielo è blu."
Qui il quaderno venne chiuso bruscamente perché la Vezzoli stava tornando al posto
e la Brambilla stava per iniziare la trattazione del famoso Parini. C'era da prendere appunti
veramente, su un'altra pagina.
Alla ricreazione, mentre Isabella mangiava una michetta col prosciutto portata da casa e
Ludovica dei biscotti, sedute su una panchina del cortile senza alberi della scuola, venne
finalmente il racconto completo. A Ludovica piaceva tale G. (lasceremo anche noi solo l'iniziale
per non tradire il suo segreto), ma lo conosceva da poco e non si sapeva ancora nulla dei
sentimenti di lui. Il giorno prima erano andati in compagnia a fare un giro in centro. G. aveva
portato un amico, Raffaele, un ragazzo carino con i capelli neri a riccioli. Era stato
simpatico, si era parlato di tutto e di niente. Si era parlato di sci. Ludovica a Natale sarebbe
andata a sciare a Courmayeur. G. aveva detto che ci sarebbe andato volentieri anche lui. Doveva
convincere la sua famiglia a passare lì quella vacanza.
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"Allora gli interessi?"
"Magari gli interessa solo lo sci."
"Ma dai!"
"E Raffaele lo vuoi tu?"
“Non lo conosco neanche.”
"Appunto. Vuoi conoscerlo?"
"E come farei?"
"Vieni con noi un pomeriggio."
"Quando?"
"Venerdì pomeriggio ci troviamo per una cioccolata e un giro in centro. Vuoi venire?"
"Non so se mia mamma mi lascia."
"Dille che vieni a studiare da me."
"Allora quando?"
"Venerdì pomeriggio, alle quattro, sotto la statua di Leonardo. Ci sarà tutta la mia
compagnia."
"Uffa, già suona."
"Dai, andiamo."
Capitolo quinto
Il pomeriggio di quel giorno, era mercoledì, Isabella corse subito in camera sua a fare i
compiti con ancora in bocca l'ultimo boccone di mela.
"Ehi, dove corri? Hai qualche interrogazione?" disse Carlotta, che si sentiva sempre
trascurata dalla sorella e avrebbe voluto trattenersi con lei a chiacchierare nella pace del
dopopranzo.
"Lasciala stare, quando sarai in seconda anche tu non starai sempre a cincischiarti come
adesso," intervenne la mamma.
"Senti, Isabella!" Questa volta era il padre, Arturo, a farla tornare sui suoi passi quando
Isabella era già in corridoio.
"Cosa?"
"Sei tu che hai preso Il prigioniero di Rouen dalla biblioteca? Non lo trovo più."
"Guarda che io quella roba non la leggo. L'avrai appoggiato da qualche parte e Rosina
per fare ordine l'avrà messo nel posto sbagliato. Cosa offri per cercartelo?"
"Una torta al cioccolato se me lo trovi. E se non vuoi dividerla con noi la puoi anche
mangiare tutta tu."
"No, facciamo piuttosto una mancia extra di cinque lire." Isabella era stata svelta a
cogliere l'occasione del libro perduto per procurarsi il denaro per la pasticceria, venerdì.
"Ah, adesso ti interessi anche al denaro. Ma non dici sempre che i soldi non fanno la
felicità?"
"Dai, papà, non scherzare. Ho bisogno della mancia per andare in pasticceria venerdì
con le mie amiche."
Qui la mamma trovò occasione di inserirsi con un odioso buon senso da mamma.
"Scusa, hai così fretta di studiare e poi sprechi un intero pomeriggio in pasticceria?
"Prima di tutto chi ha detto intero? Volevo solo andare in centro per un'oretta.
Comunque va bene, non ci vado, va bene. Guarda, sai cosa? Venerdì pomeriggio vado a
studiare da Lulù, la mia compagna di banco. In effetti sabato abbiamo compito in classe di
matematica."
E così tutto era sistemato: il permesso di uscire venerdì e i fondi per la pasticceria. A
mentire le ragazze imparano presto. La scuola serve anche a questo. A furia di inventare scuse
per i professori ci si ritrova maestri di inganni. Ora però c'era da trovare il libro. Isabella dovette
ispezionare più di una stanza. Il papà era distratto e poteva averlo lasciato da qualsiasi parte. In
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corridoio, sul tavolino con il vaso di dalie, non c'era. In salotto neppure, neanche nelle pieghe
profonde della poltrona di papà. Non c'era in cucina, dove comunque il signor Arturo non
andava mai. Nella sala da pranzo non si nascondeva nessun Prigioniero di Rouen, ma si trovò in
compenso una foto realizzata in giardino nell'estate, che Isabella non trovava più da tempo.
Era Rosina che l'aveva tenuta lì da far vedere a una sua cugina che era venuta in visita
recentemente. La ragazza salì al piano di sopra, dove erano le camere da letto. Provò nel punto
più ovvio, il comodino di papà, e infatti lì era il libro, infilato col dorso verso il muro tra due tomi
più grandi che ne nascondevano la vista. Vittoria!
Il papà era ancora a tavola a bere il caffè. Mentre Carlotta finiva di raccontare le sue
novità del mattino, Isabella entrò danzando con il libro in mano, fece un elegante volteggio e
con un inchino finale lo pose davanti al padre.
"Cinque lire s'il vous plait!"
"Ma brava la mia Isabella. Dov'era?"
"Sul tuo comodino. E la tua testa dov'era?"
"Sempre a preoccuparsi per te, cara mia."
"Perché, che preoccupazioni vi do? Sono così brava..."
"Sì, ma le ragazze belle come te sono pericolose. Non si sa mai che grilli possono
avere per la testa."
"Dai, papà, dammi i soldi che l'estate è passata e i grilli sono in letargo. Capite o no
che ho fretta?"
"Tieni, anima mia." Arturo tirò fuori le cinque lire più o meno promesse e Isabella corse
in camera sua, con la cartella in mano, per finire in fretta il romanzo di cui si era parlato la
mattina con Ludovica: Franco e Benedetta si sposano o no?
Capitolo sesto
Franco e Benedetta si sposarono, come non era difficile aspettarsi. Isabella lo raccontò
all'amica Lulù, che era così pigra e viziata da preferire i romanzi raccontati alla lettura personale.
Isabella poi raccontava così bene. Nell'intervallo, sulla solita panchina del cortile (perché il bel
tempo reggeva e, anche se l'aria era fredda, si stava bene fuori al sole) l'amica lettrice raccontò
all'amica mondana la fine del libro, aggiungendo anche ulteriori dettagli romantici che il libro
non aveva.
"E poi, Lulù, sai che domani ho il permesso di venire con te in pasticceria? Sono
riuscita: a) ad avere il permesso di uscire, con la scusa che vengo a studiare a casa tua; b) ad
avere una mancia extra, perché ho ritrovato un libro che mio padre aveva perso; c) a fare metà
dei compiti per sabato. Oggi faccio l'altra metà e così domani non mi devo preoccupare di
nulla."
"Come sei scrupolosa. Io invece non ho nessuna voglia di preparare matematica.
Tanto mi va sempre male lo stesso."
"Se vuoi ti aiuto davvero a fare gli esercizi, come ho detto ai miei genitori."
"Sai che si fa? Vieni a casa con me dopo la scuola domani. Facciamo davvero
matematica dopo pranzo, poi andiamo in centro, tu ti innamori del famoso Raffaele e tutti
vissero felici e contenti. Amen."
"Sempre a parlare d'amore voi due!" Era Carlotta che si stava avvicinando.
"Siediti, tesoro," disse Lulù, che si sentiva in dovere di essere gentile con la sorella
della sua amica del cuore. Le fecero posto sulla panchina, ma cambiarono discorso. "Allora,
come va, piccolina?"
"Smettetela di dirmi piccolina perché mi fate sentire una deficiente. Bene, benissimo,
grazie. Nessuno mi vuol bene, ho un foruncolo sul naso e ho appena preso un tre in geografia,
però sto bene, grazie."
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Intervenne allora Isabella, che sapeva come prendere Carlotta per il verso giusto. "Ma
dai, Carlotta, se sei la più carina della famiglia e la cocca della mamma? I foruncoli si
schiacciano e poi non li avrai più. Domani mattina sarai bella come il sole un'altra volta. Guarda:
bella come il sole di oggi. E dov'è Bianca?"
"Non so, non è mica la mia gemella siamese. Noi non stiamo appiccicate come voi due.
E del mio voto cosa mi dite?"
"Si vede che non avevi studiato oppure che la tua professoressa ha litigato con il suo
amante."
"Sì, quella non me la vedo proprio con un amante. Se ne avesse uno, per prima cosa lo
interrogherebbe in geografia. Ve l'immaginate? Sono lì nel letto e lei: qual è la capitale del
Guatemala? E le risorse economiche della Campania meridionale? Quanti abitanti fa Pechino?"
"Tesoro, a letto si fanno altre cose. Quando sarai più grande te ne accorgerai."
"Perché voi a letto ci state spesso, eh? Fate tanto le grandi ma a letto ci andate da sole e di
romantico avete solo i libri da leggere. E' vero o no, sorellina?"
"Beh, per ora sì, ma abbiamo speranze."
"La speranza è l'ultima a morire. Io spero che quella odiosa professoressa di
geografia sprofondi in un vulcano. Adesso come lo dico alla mamma?"
"Glielo dico io, - la consolò Isabella - tanto a te perdonano sempre tutto. Ti difenderò
io. Tu vai a giocare e non pensarci più. Guarda, ecco lì la tua Bianca. Fatti consolare da lei."
Scaricata la sorellina, le due amiche ripresero il conciliabolo.
"Parlami ancora di questo Raffaele. Pensi davvero che possa piacermi?"
"Cosa ti devo dire d'altro? Anch'io l'ho appena conosciuto. Quello che so te l'ho già
ripetuto due volte. Vieni e vedi."
"Allora G. lo ami proprio?"
"Eh, sì, cara. - Lulù si dava sempre molta importanza. - Il cuore spasima, ma sono
ancora giovane, non credere che non guardi gli altri. Mi avrà chi più mi merita."
"Beata te che sei così sicura, - replicò Isabella. - Per me sarebbe già tanto averne uno. Ti
rendi conto che ho diciassette anni e non ho mai baciato un uomo? Se avessi un ragazzo io, lo
amerei con tutta l'anima per tutta la mia vita."
"Dici così perché ancora non ce l'hai. Quando comincerai ad avere successo con gli
uomini, li cambierai così spesso come si cambiano i guanti, come faccio io."
Scelga il lettore se credere o non credere alle parole di Lulù.
Capitolo settimo
Finalmente era venerdì. Tanto passano in fretta i giorni anonimi in cui non si aspetta
nulla, quanto tardano a venire gli appuntamenti aspettati, e più sono aspettati più tardano. Per
far venir prima il venerdì pomeriggio Isabella dedicò tutto il giovedì allo studio, assorbendo
con zelo, da onnivora, tutto ciò che c'era da sapere. Venne la sera, ma era soltanto la sera del
giovedì. Isabella avvertì in famiglia che pranzava fuori e scelse con cura i vestiti per l'indomani.
C'era poco da scegliere però nel suo guardaroba. C'erano tante cose, tutte nuove ed
eleganti, ma nulla che la soddisfacesse veramente. Accosta questo, accosta quello, il risultato che
ne usciva era sempre una mise stile collegiale acqua e sapone, che era l'ultima cosa che avrebbe
voluto sembrare. D'altra parte cosa poteva mettersi per andare in pasticceria? Poteva forse
presentarsi in sottoveste di seta e calze velate? Alla fine scelse gli abiti più nuovi che aveva, che
almeno avevano la grazia della novità: una gonna che arrivava alla caviglia, fasciata sui
fianchi, che lasciava intuire se non vedere l'agilità delle sue gambe snelle; una semplice camicetta
bianca con il collettino tondo, aggraziata da un fiocchetto di raso dello stesso colore della
gonna, e un giacchino corto, blu, l'unico pezzo di cui fosse sicura. Il giacchino infatti faceva
notare la sua vita sottile e non schiacciava la linea elegante del seno, anzi, la sottolineava con
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una pince al punto giusto. Per una volta Rosina aveva cucito come Isabella voleva. Era stata lei a
insistere per quel modello invece di uno più classico. Bene, poteva quasi andare.
La mattina del venerdì Isabella, nel fare colazione, aveva gli artigli pronti per rispondere
a chi le avesse detto: "Ti sei messa così carina per studiare matematica?" Ma per fortuna
nessuno le fece questa osservazione. In fin dei conti era vestita normalmente e alla sua
espressione animata i familiari erano già avvezzi. Gli oggetti dei suoi entusiasmi variavano,
ma entusiasmi ne aveva sempre.
Superato lo scoglio della colazione, venne quello della scuola. Si trattava di far passare
un'intera, eterna mattinata, ma in qualche modo ce la fecero. Ludovica trovava un po' esagerata
l'eccitazione dell'amica perché per lei era un pomeriggio come tanti. La grande novità per
Ludovica era piuttosto la visita di Isabella a casa sua dopo la scuola.
I genitori di Ludovica furono molto cordiali con l'amica che sapevano essere tanto
preziosa per la figlia. Il pranzo fu squisito: c'era pesce, perché era venerdì, verdure in crosta,
che Isabella non aveva mai mangiato, e torta alla crema. A casa sua la torta si mangiava solo di
domenica, e non sempre. E che tovaglia elegante, e le posate d'argento! A Isabella davvero i
beni materiali non interessavano, ma quell'atmosfera di opulenza e eleganza le dava l'allegria di
una coppa di champagne.
Dopo pranzo si studiò veramente matematica. Isabella non era stata poi del tutto
bugiarda con i genitori, infine.
Le quattro era l'ora convenuta per uscire di casa. Ludovica insistette per mettere un po'
di rosso sulle gote dell'amica. Isabella non aveva mai provato e acconsentì. Nel guardarsi allo
specchio si sentì un po' ridicola. Il rosso, in un tono innaturale per il suo colorito ancora dorato
dall'estate, e così intenso, inseriva una nota falsa che contrastava con l'eleganza del suo corpo e
del suo aspetto. Isabella se ne accorse con rabbia, ma non voleva lavarselo via. A Ludovica
piaceva. Così, una rubizza e l'altra rubiconda, si avviarono all'atteso convegno.
Come d'accordo, c'era tutta la compagnia di Ludovica: la Maria, G., Alma, Riccardo,
Cristina e il Raffaele promesso. Si passeggiò un po' in Galleria perché, per disgrazia, si era
messo a piovere, poi i ragazzi si accomodarono, unendo due tavolini, in una pasticceria.
Ludovica civettava senza posa, soprattutto con il suo amato G., che però, così parve a Isabella,
non la prendeva poi tanto sul serio. Anche la nostra Isabella avrebbe voluto essere allegra e
arguta, ma gli amici di Ludovica non le badavano molto, neppure il tanto decantato Raffaele.
Era effettivamente un bel ragazzo, fine e con il profilo delicato di una statua greca, e in più
aveva quei famosi riccioli neri. Era simpatico, raccontava barzellette e faceva ridere imitando la
voce di suo padre, tuttavia Isabella non trovò alcun punto di contatto. Qualcuno si lagnò della
pioggia e Isabella citò dei versi che amava sulla pioggia d'autunno, ma nessuno apprezzò la
citazione né continuò il discorso. Nel corso del pomeriggio le rivolsero poche domande
formali e nulla più. Chissà cosa non era piaciuto. Il belletto o i vestiti o lei stessa? Isabella
sarebbe stata abbattuta dalla delusione se non fosse stato per la pasticceria. Per gli altri era
normale perché spesso si incontravano lì, ma per Isabella fu una vera festa. Pareti color crema
con i dettagli color panna, sedie imbottite e linde tovagliette rosee sui tavoli. Cameriere che
parevano esse stesse dei confetti portavano trionfalmente alzate di dolci, e c'erano sfogliatelle,
babà, beignet, pastine da tè, pasticcini di pasta frolla, pasta di mandorle, praline al cioccolato,
croissant, meringhe... C'era di che innamorarsi del pasticciere.
Isabella aveva portato con sé la cartella e quando la sua tazza di ottima cioccolata fu
vuota sperò che la compagnia si sciogliesse presto. Appena potè saltò sul tram così da arrivare
a casa prima che facesse buio, come le aveva raccomandato la mamma.
A cena le fecero pagare con il sarcasmo il suo belletto.
"Ma guarda com'è arrossita questa ragazza. O si dice arrossata?"
"Isa, hai preso troppo sole?"
"Ma la tua amica si mette così bianca e rossa anche lei come una contadinella?"
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Isabella dovette spiegare che sì, avevano provato a truccarsi per gioco, ma lei stessa capiva
che il rosso sulle guance non le donava.
Capitolo ottavo
L'insuccesso mondano spinse Isabella a rintanarsi ancor più nel suo mondo di libri,
dove si sentiva più sicura che in quello frivolo e vuoto, come pareva a lei, dell'amica. L'amicizia
come tale non ne uscì incrinata perché le due amiche ebbero inconsciamente l'accortezza di
attribuire scarsa importanza alla delusione del venerdì. La delusione, tra l'altro, era stata da
ambedue le parti. Ludovica si era indispettita nel vedere Isa così impacciata in compagnia di
ragazzi come lei. Credeva di aver offerto alla compagna un aiuto per uscire dal suo guscio, forse
innamorarsi, e tutto il suo ringraziamento era quella faccia imbarazzata e quello sfoggio di
saccenza con una poesia che non interessava a nessuno. Ecco i bei risultati del fare i piaceri
alle amiche.
"Ma io sono superiore a queste cose - diceva tra sé Ludovica, la sera del venerdì,
rievocando il pomeriggio. - Non vuole lasciarsi andare, tanto peggio per lei. Le verrà il muso
lungo e quei suoi occhi verdi resteranno in penombra per sempre. L'ha voluto lei. Si arrangi."
Nello stesso momento, rifugiatasi in camera sua subito dopo la cena, Isabella pensava:
"Si vede che non piaccio, cosa devo fare? Io avrei voluto tanto divertirmi ed essere
allegra come le altre, ma cosa devo fare se nessuno mi rivolge la parola? La prossima volta che
mi promettono di farmi conoscere un ragazzo non mi monterò la testa come oggi. Bel tipo,
poi, quel Raffaele. I belli sono sempre così: diventano subito altezzosi. Meglio io che sono
bruttina ma almeno cerco di mettere le persone a loro agio."
Non si rendeva conto Isabella di essere stata scostante lei stessa per la prima in quel
piovoso pomeriggio.
"Però a Ludovica non devo dire niente perché lei aveva buone intenzioni. E poi è la mia
amica del cuore. Che c'entra se Raffaele mi ha guardata o no? Spero domani di non arrossire nel
riparlarne."
L'indomani non le toccò arrossire perché, come si è detto, si parlò d'altro e l'episodio
venne dimenticato.
Le giornate scorrevano calme aspettando le feste dei Morti. Le lezioni di violino
procedevano con successo e il maestro, di solito parco di lodi, disse una volta: "Oh, qui vedo
della stoffa!"
"Ah, stoffa! - mise tutto in ridere lei. - Allora faremo una camicetta! O un frac per i
vostri concerti alla Scala!" Ma dentro di sé era fiera della lode preziosa e si sentì incitata ad
esercitarsi facendo anche più di quanto il maestro le assegnava.
La principale gioia di Isabella però restava sempre la lettura. In quell'autunno da
diciassettenne le era venuta l'idea di "farsi una cultura". Aveva pensato: invece di rimpinzarmi
la testa a caso tirando su dalla biblioteca la prima storia che capita, per una volta voglio
imparare sistematicamente qualcosa. Per esempio: ecco un libro che ho già letto, il resoconto
di un viaggio in Russia. Chi è l'autore? De Custine. Bene. Invece di andare avanti come un'oca a
spulciare qua e là adesso mi voglio mettere e leggere tutti i libri della biblioteca che parlano di
quello, così avrò una competenza anch'io. Non sarò la ragazza più ammirata del liceo ma almeno
avrò sicurezza in qualcosa.
Isabella fu fortunata perché la Russia era stata ed era anche un interesse del padre e
prima di lui aveva affascinato il nonno. Tanti libri erano in francese, ma lei il francese lo studiava
a scuola e lo leggeva bene. Teneva accanto il vocabolario, sicuro, ma le soddisfazioni superavano
di gran lunga le fatiche della lettura. Era valsa la pena l'anno prima di leggere la prima storia in
francese, un libriccino piccolo, Candide di Voltaire. L'aveva scelta per un equivoco. Credeva che
il titolo indicasse un nome di donna, Candida, e che il padre l'avesse acquistato in francese per
evitare che le ragazze si riempissero la testa di storie romantiche superiori al loro
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comprendonio. Invece non risultò essere un libro proibito ma semplicemente un'opera
istruttiva e divertente che fece scoprire a Isabella che leggere in francese era una cosa accessibile
anche a una ragazzetta come lei.
Torniamo alla Russia. Isabella lesse con passione due o tre resoconti di viaggio dopo il
primo di De Custine. Più leggeva più ne sapeva e più ne sapeva meno ne capiva. Non le
tornavano i conti in quel mondo. Era uno stato come il nostro, con il re e la regina, anzi,
l'imperatore e l'imperatrice, uno stato moderno, che aveva sconfitto Napoleone, però i servi
si punivano a scudisciate, la nobiltà parlava francese invece che russo, c'era gente che moriva
di fame e chi mangiava caviale a cucchiaiate a colazione. A Natale si costruivano le città di neve
e le ragazze scappavano di casa con gli ussari della Guardia. Come stava insieme tutto questo?
Capitolo nono
Il giorno dei Morti tradizionalmente a Milano è quello in cui si mette per la prima volta
il cappotto. Le ragazze Valleolona erano pronte a sfidare Mago Gelo ciascuna a suo modo:
Carlotta con un anticipo, perché voleva sfoggiare almeno una settimana prima il cappotto
nuovo, rosso, con la mantellina e i guanti di capretto proprio dello stesso tono di colore del
cappotto; Isabella invece sperava in un prolungamento dell'estate di San Martino,
perché quando si mette il cappotto vuol dire che ogni speranza è perduta e non resta altro da
fare che aspettare la primavera. Inoltre, era una sua idea, "di notte tutte le gatte sono bigie",
sotto il cappotto tutte le ragazze sono belle uguali perché le forme del corpo sono rese ottuse,
attutite dalla linea pesante del drappeggio. E' facile dissentire dalla sua posizione, ma non è
questo il luogo. Comunque, neanche a farlo apposta, la domenica prima della festa dei Morti
Carlotta non potè sfoggiare i suoi rossi perché era un giorno di sole tiepido, il giorno dei Santi
lo stesso, e invece proprio in quella notte scese la prima brina. La mattina dei Morti tutti i
Valleolona uscirono dalla porta di casa, ciascuno avvolto nel suo cappotto, per andare a visitare
le tombe dei loro morti al cimitero. Era ancora mattina presto, le otto e mezzo di un giorno di
festa e in certe case le luci erano ancora spente, ma la mamma e il papà tenevano a fare tutto
per bene e per tempo ed avevano detto a Luigi di prepararsi pronto con la carrozza di
buon'ora. La strada da casa Valleolona al cimitero Monumentale, dove erano le tombe del
nonno e dell'altra nonna, era tutta segnata dalle gocce di ghiaccio della brina. Ogni stelo
d'erba, ogni dettaglio, anche un pezzo di carta caduto a qualcuno per strada, acquistava magia
per via di quella sottolineatura in bianco che rimandava, raddoppiati, i profili. Nessuno parlava
in carrozza. La mamma, il papà e le due figlie erano seduti in silenzio, abbandonati ciascuno ai
suoi pensieri. Il lutto della nonna materna era ancora recente. Era morta nell'anno appena
passato, era la sua prima festa dei Morti.
Ecco i pensieri di Isabella così come le venivano alla mente. Allora, nonna, anche tu
oggi fai festa. Peccato che non vedrai la mia festa dei diciotto anni. Chissà se saresti contenta
di me a essere qui. Che bei fiori! Mi piacerebbe fare la fioraia. Stare fuori, anche al gelo, a
sorridere a tutti distribuendo bellezza, come le fanciulle nelle allegorie (si riferiva a un quadro
che aveva visto). Se fossi un fiore sarei una rosa. No, è troppo banale. A essere un fiore sarei
un iris, di quelli viola con il cuore giallo. Sarei la più profumata. E mia sorella un crisantemo!
Poverina, penso sempre male di lei solo perché è più piccola e invece lei mi vuole bene. No,
facciamo che Carlotta sia una rosa bianca come la sua amica. Ecco, siamo arrivati. Come sono
duri i sassi del viale. Da morta metteranno qui anche me. No, io sono Valleolona e andrò nella
tomba del papà. Sembra impossibile morire. Il mondo è così bello e tutto ciò che deve
succedermi non è ancora successo.
Per Isabella le gioie erano simili alla Fata Morgana. Come quando d'estate si va, pare
di vedere un grande lago davanti a sè sulla strada, ma poi, arrivati lì, il lago non c'è ed è più
avanti, ancora più avanti, si vede sempre e non si raggiunge mai, così erano i piaceri aspettati.
Quando ci si arrivava, le gioie attese erano sempre diverse da come Isabella le aveva
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aspettate. Magari erano gioie lo stesso, ma lei già non le guardava più perché il suo animo andava
oltre, al meraviglioso lago che l'attendeva più avanti sulla strada. Così, la felicità pareva sempre
sfuggirle.
Intanto che Isabella pensava avevano portato un vasi di crisantemi dorati alla nonna,
uno color cremisi, fiori gonfi, traboccanti di vita al nonno paterno, avevano scambiato saluti
con i pochi visitatori mattutini e, risaliti in carrozza, erano arrivati alla loro chiesa in tempo per
la messa.
Capitolo decimo
La sera del due novembre (era un'altra tradizione di famiglia come il giorno in cui
mettersi il cappotto) i Valleolona invitavano la cerchia dei parenti a casa loro. Si accendeva il
camino nel grande salone, su al secondo piano. Dapprima si diceva tutti insieme il rosario in
suffragio dei morti di famiglia, poi il signor Arturo, mandando via tutti quelli che volevano
aiutarlo (erano soprattutto i cugini piccoli, che non conoscevano ancora le regole della casa)
accendeva il fuoco. Intanto già in cucina la cuoca, Rosina, aveva preparato le castagne. Si metteva
da parte un po' di brace e cominciava l'operazione delle caldarroste. Qui il signor Valleolona era
già più disposto a cedere il campo perché era ormai accaldato per avere accudito il fuoco fino ad
allora, ma non mancava di fare le sue raccomandazioni.
"Ti affido la padella, ma bada bene, le devi rigirare spesso per non farle bruciare. Hai
capito bene?"
Il cuciniere di turno pareva aver capito, ma si sbagliava. Un Valleolona capace di arrostire
le caldarroste al punto giusto non era ancora nato, perlomeno ai tempi della nostra storia e agli
occhi di Arturo. Allora il novello apprendista caldarrostaio veniva sostituito da un altro tra i
giovani. I bambini piccoli riprovavano a candidarsi come aiutanti, ma venivano
allontanati concordemente dai rappresentanti di tutte le generazioni: le mamme, che temevano
scottature; i padri, che temevano per le caldarroste; i giovani, che li minacciavano con le molle
perché stessero alla larga. In qualche maniera veniva pronta la prima padella, rovesciata su un
piatto e versata con un cucchiaione nei piatti. Qui venivano buoni i bambini che, scottandosi,
lasciando cadere qualche castagna, urtandosi e ridendo portavano ai più fortunati tra i convenuti
il loro bel piattino caldo. Con la seconda padella di caldarroste, in ordine di età, si
allontanavano le seggiole dal fuoco e, senza averlo prestabilito, ci si divideva in sottocerchie che
erano le stesse ogni anno: donne, uomini (i lembi estremi dei due gruppi, ambedue disposti
attorno al tavolo grande, erano misti), giovani (attorno al camino) e bambini per tutto il resto
della sala. La prima padella di caldarroste era stata al centro dell'attenzione, la seconda attesa dai
negletti della prima tornata, invece la terza avanzava sempre per metà. Infatti a quel punto era
già arrivata Rosina con la sua giovane nipote che veniva ad aiutarla quando in casa c'erano feste,
aveva solennemente appoggiato al centro del tavolo lo zabaione caldo e, tutt'attorno, due gran
piattoni di biscotti speciali che sapeva fare solo lei. Le conversazioni erano avviate e quando la
pendola suonava la mezzanotte coglieva tutti di sorpresa.
"Già mezzanotte? Ma pensa! Allora è ora di andare. E domani si torna a scuola! E i
bambini, guarda come sono svegli. Pensare che di solito alle nove vanno a letto. Allora andate
veramente? Sì, cara, perdonaci, è stata una bellissima serata, ma dobbiamo proprio andare."
E a poco a poco il parentado rincasava. Per l'una nel salone erano rimaste solo Rosina e
la nipote a spegnere il fuoco e sparecchiare.
Così ogni anno. Nessuno dei parenti si era imposto quei comportamenti e quei discorsi,
solo che casualmente ogni anno capitava sempre così. Era faticoso organizzare tutto questo,
soprattutto le castagne. Si raccomandava a Luigi mille volte di scegliere proprio le più belle del
mercato, grosse, sode, e che non fossero bacate. Fino al momento in cui le aveva tra le mani
belle arrostite Marina Valleolona temeva, poi assaggiava la prima e, se non era bruciata, si
rassicurava. Sullo zabaione era più tranquilla perché di Rosina si fidava ciecamente. I biscotti poi,
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prima dell'arrivo degli ospiti, con una scusa o con l'altra, li avevano già assaggiati tutti in famiglia
e non erano quindi causa di nessun batticuore. Dunque, era una grande fatica invitare e
intrattenere tutti, ma ogni anno si ripeteva, anche perché i parenti se l'aspettavano.
Anche quella volta tutto andò come ogni anno. Isabella e Carlotta si divertirono con i
cugini, che vedevano raramente ma a cui erano affezionate. La seccatura, per Isabella, furono i
convenevoli con le zie, zia Fosca e zia Olga, le sorelle del papà. Anche i discorsi delle zie non
erano nuovi, si ripetevano già da qualche anno, ma la irritavano profondamente lo stesso.
"Ma come sei cresciuta! Che classe fai? Quanti anni hai? Oh, che bella ragazza ti sei fatta!
E il fidanzatino ce l'hai? Ah, sei arrossita. Allora ce l'hai. Ah, ai nostri tempi non era certo così.
Io portavo ancora le mutande fino alle caviglie quando avevo la tua età e il povero zio me
l'hanno presentato i miei genitori. Ah, altri tempi! E la scuola come va? Oh, e tra poco farai
diciott'anni. E la musica? Quando ci manderai gli inviti ai concerti? Con quegli occhietti verdi
chissà dove guardi, birichina!"
Le zie, con sorrisetti e risatine, facevano il loro spettacolino quasi in solitudine perché
Isabella rispondeva con poche parole, pensando tra sé:
"Possibile che non si ricordino di quando avevano la mia età? Non posso credere che
non si rendano conto di essere odiose. Forse che lo facciano apposta?"
Ma, a parte le zie, come si è detto, si era divertita. Giuseppe, il suo cugino preferito, aveva
annunciato che era stato ammesso all'accademia navale e avrebbe studiato a Venezia. Lei e
Carlotta si offrirono subito per andarlo a visitare.
Capitolo undicesimo
In uno dei primi giorni di novembre Isabella era seduta su una panchetta scomoda
dell'atrio della sua scuola. Di fronte a lei brutti gufi, civette e altri uccelli più gentili la
guardavano
da
una
delle
vetrinette
sparse
per
la
scuola
al
fine di accrescere, peraltro senza successo, le conoscenze naturalistiche delle giovani allieve.
Simmetricamente, sull'altro lato del portone d'ingresso, era collocata una vetrina più allegra con
semi e fiori secchi, disposti vicino a goffi acquerelli con scritte in latino che mostravano la
pianta a cui quei semi e fiori erano stati carpiti.
"E io devo stare qui un'ora in mezzo a questi morti, - il riferimento era ai fiori e ai gufi,
ma anche genericamente all'ambiente stantio della scuola - mentre tutte le mie amiche stanno
già per mettersi a tavola."
Era capitato che la professoressa di latino e greco, la Sommaruga, si era finalmente
ammalata prendendo freddo durante le feste dei Morti. Non capitava mai che quella donna
forte e severa fosse assente. La scuola non era riuscita a trovare una supplente per quel giorno
e quindi aveva lasciato uscire le ragazze della classe di Isabella con un'ora di anticipo, perché
greco il giovedì era all'ultima ora. Carlotta però avrebbe finito le sue lezioni regolarmente
all'una e un quarto. Isabella doveva perciò stare lì un'ora a gingillarsi nell'atrio aspettando che
Luigi passasse a prendere le due signorine alla solita ora. Invece le sue compagne, sole o
accompagnate, erano già uscite tutte. Isabella aveva fame, non perché le fosse mancata la
merenda ma a causa della solitudine inattesa e della forzata inoperosità di quell'ora che faceva
nascere il desiderio di un riempimento qualsiasi. Già riempirsi lo stomaco sarebbe stato
qualcosa.
Avrebbe potuto iniziare a fare i compiti che le avevano assegnato in mattinata ma non
ne aveva nessuna voglia. Perciò si mise a seguire la fuga delle piastrelle del pavimento del lungo
corridoio della scuola. C'era da perdersi in quell'inseguirsi di linee. Le piastrelle erano a forma
di rombo, grigie, nere e rosse e creavano un disegno che, secondo l'angolo da cui venivano
osservate, ora faceva sembrare che le piastrelle si ergessero in rilievo sul pavimento come le
scaglie di una corazza, ora che scivolassero via portando l'occhio sempre più lontano nel
girotondo dei colori. Se si distoglievano gli occhi dalla visione per un attimo, quello tornava ad
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essere un pavimento e se poi si attaccava discorso con qualcuno, svanivano come per incanto
dapprima tutti i colori delle mattonelle, poi le vetrinette, i fiori e, buon ultimo, anche lo sguardo
del gufo. Ma Isabella non aveva nulla di speciale da fare o pensare in quel momento e quindi
lasciava che i suoi occhi sostituissero i piedi danzando leggeri sui fili di colore, mentre la mente,
con la stessa leggerezza di tocco, lasciava scorrere il flusso gentile di pensieri lievi. Ma a un
bel momento sorse un intralcio. La fila dei rossi su cui correva l'occhio venne interrotta da un
paio di scarpe di cuoio pesante. Salendo oltre le scarpe, gli occhi di Isabella videro un accenno di
calzerotti di lana grigia, pantaloni di flanella, una giacca di velluto da cui spuntava il collo di una
camicia di stoffa pesante e infine due occhi di un azzurro chiarissimo, come il ghiaccio sotto il
cielo d'inverno, e una chioma di capelli biondissimi e fini, quasi infantili. Isabella non lo
riconobbe subito, ma sentì che chiedeva al bidello:
"Scusa, quanto manca alla fine della scuola? Oggi non ho orologio. Se c’è dieci minuti
vado dalla prestinaia a prendere pane, se no dopo."
"Tra cinque minuti suona la campanella, - rispose Martino - veda lei."
"Faccio ancora in tempo. Scusa che vi ho dato disturbo, ma non avevo orologio."
Allora Isabella, dopo aver seguito con attenzione il dialogo, pur tenendo gli occhi
bassi per non essere importuna, capì di chi si trattava. Era l'uomo che accompagnava Bianca a
scuola. Si fece allora avanti lei dicendo:
"Scusi, lei aspetta Bianca, vero?"
"Sì. Voi sua amica?"
"E' amica di mia sorella. Vada pure dal panettiere. Lo dico io a Bianca, se mai arrivasse
prima, di aspettare."
"Grazie signorina." E uscì dirigendosi con passo svelto alla bottega del panettiere prima
che chiudesse.
Quando tornò, pochi minuti dopo, stavano giusto uscendo le ragazze dell'ultima ora.
Isabella distinse nella folla vociante che scendeva le scale il volto bello della sorella, i capelli neri
di di Bianca. Prese Carlotta per mano, con un senso di liberazione si spinse fuori e saltò in
carrozza.
Capitolo dodicesimo
"Com'è andata la scuola, sorellina?" disse Isabella.
"Non c'è male. Tu?"
"Io vado bene. Sai che all'ultima ora sono stata libera? Oggi la Sommaruga non
c'era."
"Ehi, che fortunata. Magari si ammalasse qualcuno dei miei professori."
"Sì, vero. Però non è che mi sia divertita. Ho dovuto lo stesso aspettare te. Santa
polenta, che fame!"
"Sarebbe bello che ci fosse la polenta."
"Dai, giochiamo a chi indovina cosa c'è da mangiare. Io dico... scaloppine."
"Allora io dico - fece Carlotta - polpette."
"E chi indovina cosa vince?"
"Se vinco io devi fare una partita a dama con me."
"Se vinco io mi accompagni al pianoforte in un pezzo che voglio suonare. Anzi, no. Ho
un'idea migliore. Pensiamo un desiderio. Se indoviniamo cosa c'è da mangiare il nostro desiderio
si realizza."
"Bene. Allora io dico che a tavola ci sarà il pane."
"Dai, non barare. Allora? Io cambio e dico: brasato. E il desiderio... un momento... ecco,
l'ho pensato."
"Anch'io il desiderio l'ho pensato, ma resto sulle polpette. Quindi, è così: se a tavola
troviamo brasato, si realizza il desiderio tuo, se no il mio."
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"Beh, si realizza il tuo se Rosina ha preparato le polpette, i 'mundeghitt', come dice
il papà."
Mentre dicevano questo il cavallo svoltò attraverso il cortile aperto nel viale d'ingresso
che conduceva al porticato, su cui davano da una parte la cucina della villa e dall'altra l'atrio
padronale. Isabella e Carlotta entrarono in casa dalla cucina chiedendo subito cosa c'era per
pranzo.
"Minestrone."
Niente desideri realizzati allora. Ma era stato tutto uno scherzo. Isabella aveva messo
in piedi quel gioco solo perché non riusciva a chiedere a Carlotta ragguagli sull'accompagnatore
della sua compagna Bianca. Avrebbe potuto semplicemente domandarlo en passant, era una
curiosità come un'altra, ma la scena da nulla intercorsa tra lei e quell'uomo biondo, chissà perché,
la imbarazzava. Le pareva che la sua voce non sarebbe stata naturale nel chiedere quella notizia, e
così, non sapendo come incominciare, parlava animatamente d'altro, per cancellare il senso di
vicinanza con quell'uomo che pareva esserle rimasto addosso, nelle pieghe degli abiti e del
sorriso con cui l'aveva lasciato andare dal panettiere. Come rimane addosso l'odore, appunto,
del pane anche dopo essere usciti dal negozio. Ma era un sentimento così sottile che nel corso
del pranzo se ne dimenticò.
Nel pomeriggio, giocando a dama con la sorella per fare una pausa nello studio,
finalmente le chiese, a quel punto con reale noncuranza, chi fosse quell'uomo.
"Carlotta, mentre ti aspettavo ho sentito parlare quell'uomo che accompagna Bianca.
Ma chi è? Perché parla in quel modo?"
La storia che Carlotta raccontò era molto più ricca di quanto Isabella si aspettasse.
Capitolo tredicesimo
L'accompagnatore di Bianca si chiamava Fedor, come lo scrittore Dostoevskij. Di
diminutivo faceva Fedja, ma in casa Portolenghi, tale era il cognome della famiglia di Bianca,
venne chiamato classicamente Fedro dai padroni (Fedor si legge in italiano "Fiodor" e Fedro era
il nome più vicino che fosse a loro conosciuto). Il personale di servizio, che milanesizzava ogni
appellativo, lo battezzò Fedìn, el Fedìn. L'imponente famiglia Portolenghi: Emanuele e
Antonietta, i genitori, con Bianca e Alessandro, i figli, erano per la servitù, quando parlavano tra
loro: el sciur Manuel (con la "e" aperta), la sciura Antunieta, la Bianchina e el Sandrin. Non c'è da
stupirsi perciò se il nuovo collega Fedja ebbe dal primo giorno, grazie alla prontezza linguistica
della cameriera a cui venne presentato, il suo buon nome milanese di Fedin o, altre volte, el
Biundin.
El Biundin era nato in Russia, in una nobile famiglia del governatorato di Samara. Nel
1914 aveva diciotto anni e, come consueto per i giovani della sua classe e del suo tempo, stava
compiendo il grand tour, il viaggio attraverso tutta l'Europa che dava a un giovanotto di belle
speranze quella conoscenza del gran mondo necessaria per passare dallo status di nobile di
provincia a quello di uomo istruito e partito interessante. Nell'estate di quel 1914, dopo aver
visitato la Germania e la Francia ed aver trascorso un breve periodo nelle Alpi svizzere, Fedja
soggiornava nel sud della Francia, in quella dolce costa di Provenza il cui sole sa trasformare in
miele la pelle candida delle genti del nord. Fedja era all'Hotel Beau Rivage di Nizza e da lì,
appena l'estate avesse accennato a svanire, intendeva proseguire il suo tour toccando le città
d'arte italiane, Venezia, Padova, Parma, Bologna, Firenze, Roma, giù giù fino al porto di
Napoli, da dove, nella primavera dell'anno successivo, si sarebbe imbarcato per il Mar Nero,
raggiungendo poi da lì la sua tenuta di Voskresenskoe, dove lo aspettavano i genitori e i
fratelli.
Il lettore potrebbe voler domandare perché Fedja viaggiasse solo. Anche i suoi genitori
gli posero questa domanda mentre Fedja faceva i preparativi per il viaggio. Il grand tour era una
giusta tappa nell'educazione di un giovane e, forse, l'anno più bello della sua vita (così disse il
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padre di Fedja, che all'estero era stato solo una volta, a Karlsbaad, per le cure termali), ma
perché da solo? Ma Fedja aveva letto Byron e, al suo sguardo romantico, solo il peregrinare in
solitudine avrebbe permesso il compiersi di fantastiche avventure e incontri fatali. Se fosse
partito con un compagno o con un istitutore avrebbe corso il rischio di percorrere l'Europa à-laRusse, come diceva lui, cioè senza distaccarsi dalla lingua e dalle abitudini del suo paese e vedendo
tutto solo come una sequela di cartoline illustrate. Quanti suoi conoscenti erano stati all'estero e
tornati in patria con la valigia piena di paccottiglia e la testa immutata! Anzi, tali persone si
lamentavano anche: quei barbari in Europa non sanno fare il tè come lo facciamo noi, i
pirozhki non sanno neppure cosa siano e non hanno neanche il bagno! Infatti in Russia almeno
una volta alla settimana tutti si lavano alla banja, una sorta di bagno turco o sauna finlandese
ignota alla cultura europea. Fedja non voleva essere come questi provinciali, voleva viaggiare
veramente e fu quindi risoluto nel voler partire da solo.
Tutto andò bene per i primi mesi. Fedja era deliziato da tutto ciò che vedeva; la sua
conoscenza del francese era ormai così perfetta da permettergli di passare per parigino (del resto,
parlava francese da quando era nato), ma una grande disgrazia venne a turbare il suo anno da
favola: la Grande Guerra. La Russia entrò in guerra e Fedja, come ragazzo di leva, venne
chiamato a combattere. I suoi genitori gli inviarono un telegramma per avvertirlo di
rimpatriare, ma il ragazzo si sentiva molto più spinto verso la sua avventura europea che verso i
sentimenti del patriottismo e decise di compiere il grande passo: non rispondere alla chiamata
alle armi e restare in Europa, forse per il resto della sua vita.
Quando Carlotta fu giunta a questo punto della storia Rosina chiamò per la cena e la
ragazza, perfidamente, sfruttando il potere che aveva acquisito sulla sorella, rimandò il seguito
al pomeriggio dell'indomani.
Capitolo quattordicesimo
Facciamo anche noi una pausa e seguiamo Isabella la mattina successiva, un venerdì, in
cui di nuovo ci sarebbe stata la lezione di greco ma di nuovo la Sommaruga non era né risanata
né sostituita. Le ragazze vennero divise in quattro sottodrappelli e affidate alle cure sbadate
delle insegnanti di quattro classi diverse. Isabella e Ludovica capitarono nella IIC, dove era in
corso una spiegazione di matematica. Le ragazze erano state avvertite di spostarsi con le
loro sedie. Disposero le sedie a crocchio in fondo alla classe e, mentre le povere allieve della
IIC si sottoponevano a dure prove di geometria, iniziarono un chiacchiericcio sommesso che
non faceva più rumore di una quercia scossa da una brezza di primavera.
Si venne a parlare della verginità. Isabella e Ludovica, nel corso del dibattito, si
trovarono ciascuna a capeggiare una fazione. Il partito di Isabella sosteneva che se un uomo
vuole "abusare di te", allora "non ti rispetta", "non ti ama veramente". Inoltre, la chiesa e
tutte le religioni prescrivevano la verginità prima del matrimonio. Una ragione doveva esserci.
L'obiezione del partito avverso era: perché allora dopo il matrimonio il sesso è permesso?
Dovrebbe essere vietato anche allora se la donna deve essere pura. E che differenza ci sarà
mai tra un giorno prima e un giorno dopo il matrimonio? - Il sacramento. - Sì, ma intanto lo
sai che una mia amica è stata sedotto proprio da un prete? - Che c'entra, io parlo della chiesa
come dovrebbe essere. Tutti possono sbagliare. - Allora posso sbagliare anch'io e finire nel letto
del mio ragazzo invece che nel mio. - Eh no, perché tu ci vai volontariamente. - Ma allora
qualsiasi ragazza potrebbe dire che è stato il suo uomo a insistere, lei non voleva. - Troppo
facile come scusa. - E quella tua amica che è stata sedotta dal prete cos'ha fatto? - Niente, il
suo confessore era lui e quindi non aveva niente da confessare a nessuno. Lui sapeva da sé
come erano andate le cose. - Ma scusate, voi che siete tanto contro la verginità, che ci date delle
santarelline, dove andate a fare all'amore? Mia mamma non mi lascia neanche uscire la sera
dopo cena. - Eh, cara mia, i modi si trovano sempre...
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L'ultima a parlare, si sarà riconosciuta la sua voce, era Ludovica, che amava contornarsi
di un'aura di mistero facendo intuire grandi cose senza peraltro compromettersi in racconti
dettagliati. Nessuno osò chiedere che modi avesse trovato lei per l'amore ma quando la
campanella dell'intervallo sciolse la piccola assemblea di fanciulle, esse si separarono con un
sospiro per la lontananza dei loro sogni d'amore, una segreta invidia per le esperienze di chi
già aveva una fiamma e un vago senso di incompletezza, il desiderio di qualcosa che non c'era e
a cui non si sapeva dar nome. E' quel sentimento che si prova all'inizio della primavera, quando
l'aria diventa frizzante, si vuole correre e non si sa dove andare.
Le due campionesse del dibattito a loro volta avevano delle confessioni da farsi.
"Sono così innamorata!" disse Ludovica.
"Ma lui si è dichiarato o no?"
"Tu ti aspetti le dichiarazioni come nei romanzi rosa. Non si è dichiarato in senso
stretto, ma mi ha fatto capire."
"Avete..." e Isabella fece un gesto con le mani.
"Sì, qualcosa, ma soprattutto mi ha detto una frase che mi dà speranza. A Natale riceverai
un regalo speciale che non ti aspetti..."
"E tu pensi che sia..."
"Certo! Ah, Isa, quasi me ne dimenticavo. Sai che Raffaele ha chiesto di te?"
"Ma no!"
"Sì, te lo giuro. Mi fa: ma quella tua amica carina che ci hai presentato non la porti
più? Forse temi la concorrenza..."
"Non ci credo neanche se me lo giuri."
E infatti non era vero. Ludovica esagerava per far piacere all'amica, però era vero che
Raffaele aveva chiesto di lei ed era anche vero che Ludovica desiderava cancellare il senso di
amaro lasciato anche in lei dall'uscita precedente con una nuova offerta.
"Non ti dico che gli piaci, ma chissà... da cosa nasce cosa. Noi si va a pattinare sul
ghiaccio domani pomeriggio, ci vuoi venire?"
"Figurati! Primo: non so pattinare. Secondo: non ho i pattini da ghiaccio."
"Dai Isabella, ti prego, fallo per me. I pattini si noleggiano e magari qualche bel
giovanotto ti terrà la mano per insegnarti a stare in piedi. Su..."
"Senti, lo chiedo in casa. Se mi lasciano ci vengo. Però che Raffaele mi ama non me lo
dai a bere. Se gli piacessi anche solo un filo mi avrebbe guardata un po' di più alla pasticceria."
"Veh, non sono mica tutti svelti come te a capire le cose al primo giorno. Allora,
siamo intese. Cerca di farti trovare libera. Uffa, la campanella. Andiamo in classe."
Capitolo quindicesimo
Come aveva promesso nell'interrompere il racconto di Fedja, Carlotta il giorno
successivo lo concluse.
Fedja si trovava a Nizza con una discreta somma di denaro in lettere di credito, bastante
per vivere ancora circa sei mesi in Italia e pagare il passaggio per nave fino al Mar Nero. Se
però decideva di non tornare più in patria, di che mezzi sarebbe vissuto una volta esaurita quella
somma? Passò in rassegna tutte le possibilità. Poteva chiedere dei soldi ai suoi genitori, ma era
imbarazzante. Per cominciare, forse glieli avrebbero negati. Anche a riceverli, l'Europa non
era la Russia. In Russia avevano terre, boschi e la vita costava poco in campagna. La somma
che i suoi genitori avrebbero eventualmente potuto inviargli, in Italia sarebbe bastata solo
per un'esistenza stentata. Una vita da studente, non da giovane nobile. Inoltre, i fratelli
sarebbero stati gelosi. Loro fermi o mobilitati in un paese in guerra e il fratello in Italia a godersi
la vita. Non andava bene.
Un'altra questione era la durata della sua latitanza. Come disertore non sarebbe mai più
potuto tornare nell'impero di Russia. Non poteva più rivedere la sorella Nastja, i suoi due fratelli,
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i genitori, il vecchio nonno? Era una scelta pesante, eppure, d'altro canto, lui così pieno di
ideali e alti pensieri poteva forse darsi all'assassinio? Così lui considerava il soldato: assassino.
Una persona che andava in giro aspettando l'occasione di ammazzare un coetaneo di un altro
paese. Non lo poteva neppure immaginare. Non che giudicasse male i ragazzi che andavano
soldati. Per l'amor del cielo, ci andavano costretti, piangendo nel lasciare le madri, le fidanzate o
le spose, e ci andavano per ignoranza, per ineluttabilità, ma lui non voleva essere dei loro.
Se però si fosse stabilito in Europa, doveva cercarsi un'occupazione. Al suo paese tutto
sarebbe stato facile. Prima dello scoppio della guerra si era figurato in vari modi il suo futuro,
senza mai sceglierne uno in particolare. In una versione pensava di interessarsi alle terre di
famiglia sostituendo a poco a poco il padre. Voleva praticare l'agricoltura moderna, farsi
mandare semi dall'estero, studiare. Altre volte sognava di stabilirsi a Pietroburgo o Mosca
e servire nell'amministrazione centrale dello stato, godendo delle delizie della vita di una
capitale. Pensava anche di iscriversi all'università, ma non aveva ancora scelto in che facoltà.
Altre volte ancora sognava di percorrere la terra russa così, andando dove gli occhi ti
portano, come facevano i pellegrini, vivendo di espedienti, in modo da vivere una vita piena e
conoscere veramente la sua terra e il suo popolo. Ora questa disgraziata guerra portava Fedja
di botto dal mondo dei sogni a una realtà di totale durezza: cosa può fare in Europa un
giovane russo senza denaro e, benché istruito, senza una laurea?
Durante la settimana in cui Fedja, soggiornando nel suo hotel di Nizza, rimuginava questi
pensieri capitarono nello stesso albergo i Portolenghi, per un mese di vacanza. Bisogna sapere
che la sera, negli hotel della Riviera, tutti gli ospiti si siedono sulla veranda a prendere il fresco, i
camerieri servono sorbetti e limonate, il sole tramonta sul mare e il buio non viene subito. In
quell'ora di crepuscolo tra il tramonto e la notte, mentre pian piano si accendono le stelle e la
luna in cielo, si è disposti alle confidenze. Spesso si tratta di confidenze molto banali: avete
visto la signora Tale che è andata a fare una passeggiata da sola con il vecchio generale? Che
noia questo vento! Come sono buoni i ravioli (con l'accento sulla "i") che fanno in questa città!
E voi avete visitato i resti del teatro romano? Come, non conoscete Cannes! Tuttavia accade
anche che si scambino confidenze sincere e che nascano amicizie reali o addirittura amori.
I Portolenghi una sera si trovavano seduti nella cerchia di Fedja, dove si parlava di
cavalli. Si parlava in francese, naturalmente. Il signor Emanuele Portolenghi seguiva le parole
del ragazzo senza veramente ascoltarlo, solo per capire se fosse madrelingua oppure no. Troppo
curioso per aspettare, a un certo momento glielo chiese. (La conversazione è riportata in
italiano.)
"Giovanotto, mi sovviene che abbiamo dimenticato di presentarci. Ingegner Portolenghi,
di Milano," e gli porse la mano.
Fedja la strinse, chinò il capo accennando un inchino e rispose: "Fedor Antonovich
Koshkin, russo."
"Ma che interessante, russo! L'anima russa! Mi permetta di presentarle la mia famiglia."
Da quella sera capitò più di una volta ai Portolenghi, soprattutto, per la verità, al padre,
di intrattenersi con il ragazzo. Nacque una profonda simpatia tra i due, confermata
dall'affinità dei gusti musicali: ambedue amavano Mozart più di ogni altro compositore e,
coincidenza ancora più strana, ambedue non sopportavano Schubert.
Quando Fedja ebbe confidato la sua situazione di vita, dopo qualche giorno l’ingegner
Portolenghi ebbe un’idea: propose a Fedja di andare a vivere con la sua famiglia a Milano, in
qualità di maggiordomo. Avrebbe avuto le carte in regola, una casa, uno stipendio e padroni che
lo trattavano da pari. E poi, a Milano c’è la Scala.
Fu così che la famiglia Portolenghi acquisì di punto in bianco tale singolare maggiordomo.
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Capitolo sedicesimo
“Hai visto, Isabella, che storia romantica! L’avresti mai immaginato?” disse Carlotta alla
fine del racconto.
“No, neanche con la più fervida fantasia. Quindi Bianca ha per maggiordomo un nobile
russo! Come se Luigi fosse barone o marchese.”
“Sì, in effetti è strano, ma per loro è normale. Fedro è un bravo ragazzo, è molto
affezionato alla famiglia. Che poi sia il conte Koshkin per loro conta poco. E per lui è sempre
meglio stare con i Portolenghi che mendicare. Quindi, nella disgrazia è stata una fortuna.”
“E Bianca cosa dice?”
“Niente, cosa vuoi che dica? Per lei è una persona come un’altra. Lei preferirebbe che non
l’accompagnasse a scuola perché essere accompagnati a scuola è una cosa da bambine. Tante
ragazze anche della nostra classe vengono a scuola da sole.”
“Eh, lo so, ma certe famiglie ci tengono. Guarda noi. Anch’io vorrei andare a scuola in
tram.”
“A me invece - disse Carlotta - piace andare a scuola con Luigi perché così dormo ancora
cinque minuti da casa a scuola. Senti, ma tu hai parlato con il Fedin? Cosa vi siete detti?”
“Nulla. Voleva sapere a che ora uscivate, per fare una commissione. Mi sono incuriosita
perché parlava in modo così strano.”
“Sì, in effetti anche a me è capitato di sentirlo parlare. Non dice bene certe lettere e salta
gli articoli. Però per essere russo parla bene l’italiano.”
“Da quanti anni è qui?”
“Eh, ormai sono due anni. Da quando Bianca è venuta al ginnasio.”
“Povero Fedin, mi fa compassione. Avrà tanta nostalgia della sua terra, dei suoi parenti.
Oppure no, chissà. Io per esempio vorrei vivere da sola e viaggiare per tutto il mondo. Ad essere
come Fedro sarei accontentata.”
“Sì, ti vorrei proprio vedere fare la cameriera in mezzo alla steppa.”
“Per prima cosa maggiordomo non è cameriere. E’ una professione più seria, non sei
proprio uomo di fatica. E poi cosa credi, io non so fare niente perché non mi hanno insegnato
niente, ma non vorrei mai essere una bambolina come te. Sì, guarda, farei proprio volentieri la
cameriera nella steppa.”
“Così incontri Michele Strogoff messo dello zar!”
“Non mi scherzare, sai! Ti racconto piuttosto una cosa. Se la mamma mi lascia, domani
vado al Palazzo del Ghiaccio con la compagnia di Ludovica.”
“Dirò alla mamma di non lasciarti se non porti anche me.”
“Ah, ricatti? Dille quello che vuoi. Per me ci puoi anche venire. Non ho niente da
nascondere io, cara!”
Invece Isabella nascondeva certe cose a Carlotta. Era in confidenza con lei sulle questioni
da poco, ma non le confidava le grandi idee. Sentiva che confidate a Carlotta, più piccola e meno
idealista di lei, le idee o le vicende uscivano come sminuite, prive del brillio che avevano prima di
essere raccontate. Al contrario, e per questo Isabella amava tanto confidarsi con Ludovica, con
l’amica del cuore capitava che anche l’idea più banale assumesse tinte fantastiche attraverso la
lanterna magica del raccontare e dell’ascoltare, come la pastella finendo nell’olio bollente diventa
frittella.
Isabella ripensò e riraccontò a se stessa tutti i dettagli della storia di Fedja (lei tra sé lo
chiamava così, né Fedro né Fedin). L’aveva colpita moltissimo perché apriva il suo sguardo verso
mondi lontani. E poi era proprio russo, come i personaggi dei libri che stava leggendo in quel
periodo. Stava leggendo La figlia del capitano di Pushkin quella settimana. Pensò che l’indomani a
scuola avrebbe cercato di guardare meglio quell’uomo, ora che conosceva la sua storia.
Intanto erano le cinque, aveva finito i compiti e la sorella era in camera sua a fare chissà
che. Isabella quatta quatta salì i gradini della grande scalinata dal soffitto affrescato a putti e
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nuvoloni e fece per raggiungere il suo amato divano nella biblioteca. Entrando trovò la luce
accesa. Al tavolo, nel cerchio di luce della lampada, c’era la testa di suo padre.
“Papà, cosa fai qui?”
“Come, cosa fai qui? Guarda che questa biblioteca è più mia che tua. Sono io che ospito
te nella mia biblioteca, bricconcella.”
“No, intendevo dire: perché non sei in ufficio?”
“Il padrone sono io e in ufficio vado quando voglio. Oggi sono uscito per incontrare una
persona e poi non ho avuto voglia di ritornare. Accomodati, cara. Cosa stai leggendo?”
“La figlia del capitano.”
“Di Giulio Verne?”
“Ma cosa dici? Pushkin.”
“E’ vero. L’ho comprato io. E’ una bella storia di avventure. Ho notato dai libri spostati
che pascoli molto negli scaffali di letteratura russa. T sei messa a russare, eh?”
“E tu hai imparato a fare lo spiritoso, vedo.” Poi, approfittando della giocosa confidenza
che si era instaurata col padre, chiese ed ottenne per sé e la sorella il permesso di andare a
pattinare con i compagni.
Capitolo diciassettesimo
Il venerdì a casa Valleolona si mangiò, così parve alle ragazze, con lancinante lentezza.
Rosina non si sbrigava mai a portare la frutta dopo il merluzzo fritto con le patate, che era stato il
piatto principale. Finalmente la frutta arrivò: cachi proprio della loro pianta, belli morbidi e
succosi. Erano il vanto di papà e la disperazione della mamma, che non amava molto questo
frutto ma si sentiva in dovere di non comprare altra frutta quando la messe di cachi era così
abbondante, per non offendere il giusto orgoglio ortofrutticolo del marito.
Risolta la frutta sorse subito un ostacolo: l’attesa della chicchera di caffè di mamma e
papà, che non arrivava mai, e intanto durava una stentata conversazione tra genitori e figlie sui
regali di Natale da preparare per le zie.
Per la verità quel pranzo del venerdì si stava svolgendo come tutti gli altri pasti di casa
Valleolona, quelli senza ospiti, intendo dire: con ordine e semplicità, senza fretta e senza indugi.
Ciò che faceva apparire insopportabile l’attesa era che Isabella e Carlotta avevano fretta di uscire.
L’accordo era di trovarsi all’ingresso del Palazzo del Ghiaccio alle tre e loro, così era stato
convenuto con papà, ci sarebbero andate con Luigi, in carrozza, “perché il Palazzo del Ghiaccio è
lontano e fin che ci arrivate fanno in tempo a rapirvi”. Ma adesso era ora di partire, loro erano
sulle spine e quel caffè non finiva mai. Quando anche la mamma, dopo il papà, ebbe vuotato la
sua bella tazzina di terraglia bianca (quelle di porcellana di Sassonia, il servizio buono, si tenevano
per quando c’erano ospiti), le ragazze sia alzarono, si congedarono e corsero a prepararsi.
Isabella, che aveva letto tropi romanzi d’amore, pregustava genericamente incontri
romantici che, come si sa, si verificano tipicamente nel mezzo delle piste di pattinaggio. Carlotta,
più semplicemente, era eccitata per il fatto che usciva con ragazzi più grandi. Su Raffaele, che
avrebbe potuto essere il fulcro delle aspettative di Isabella, non c’erano attese. Lei aveva deciso di
non aspettarsi nulla per evitare la cocente delusione dell’incontro precedente.
Con tuta la fretta che avevano avuto per partire, arrivarono per prime. Dopo di loro, a
poco a poco, convennero all’ingresso del Palazzo del Ghiaccio tutti i ragazzi e le ragazze della
“compagnia”. Qualcuno aveva i propri pattini, altri, come Carlotta e Isabella, li noleggiavano. Il
bel Raffaele, che sfoggiava un paio di pattini nuovi perché i precedenti gli erano scappati di
misura, fu il primo a entrare in pista.
Ludovica aveva avuto ragione: il non saper pattinare attirava l’attenzione dei maschi e
creava l’occasione per parlare e tenersi per mano. Con la sua goffaggine su quel lago di ghiaccio,
Isabella si sentiva molto più a suo agio di come si era sentita in pasticceria. Fu proprio Raffaele ad
aiutarla: le insegnò le poche regole basilari del pattinaggio e, reggendola per il braccio, l’aiutò a
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fare i primi passi. Carlotta, un po’ intimidita, stava vicino alla sorella. Dopo Isabella fece anche lei
i primi volteggi e anche la prima caduta. Non si fece male. Raffaele le tese le mani per aiutarla a
sollevarsi e il pattinaggio vero e proprio incominciò. C’era qualcuno che aveva già frequentato
molto quel luogo e volteggiava con maestria al centro della sala. Altri si rincorrevano. Ludovica e
G. si sfidarono in una gara di velocità.
Le due sorelle si tenevano accanto ai margini del campo, pronte ad afferrarsi alle sbarre
della ringhiera in caso di difficoltà, ma pattinavano con discreto successo. Ogni tanto si
fermavano a scambiare due battute con qualcuno della loro compagnia, ma poi l’eccitazione di
scivolare sul ghiaccio era più forte della paura di cadere e si rilanciavano in pista. Per i primi dieci
minuti Isabella e Carlotta rimasero vicine, dandosi coraggio a vicenda, ma poi, come per un tacito
accordo, si separarono, incontrandosi ogni tanto, ma circolando ciascuna per conto proprio,
affidata al suo charme invece che alla rassicurante vicinanza della sorella.
Tale politica diede subito i suoi frutti. Raffaele, che forse davvero aveva voluto rivedere
Isabella, fu carino con lei quella volta. Le domandò qualcosa sulla scuola, sui suoi passatempi,
raccontò di una brutta influenza che aveva avuto ai primi freddi. Mentre parlavano erano fermi
accanto alla balaustra e guardavano distrattamente i pattinatori. A un certo punto Raffaele disse:
“Guarda, guarda la tua sorellina… com’è graziosa!” Carlotta, in un angolo della pista, ora
che aveva un po’ di confidenza col ghiaccio, stava tentando di imitare i pattinatori più abili e,
solcando il ghiaccio con un solo piedino ben lanciato, sollevava sempre più l’altro piede
bilanciandosi con le braccia. La mantellina rossa le svolazzava dietro catturando i più lunghi dei
suoi riccioli biondi. Isabella si rivolse a Raffaele per continuare la conversazione, ma il ragazzo era
ancora assorto a seguire Carlotta. Isabella scivolò via senza che lui se ne accorgesse, ma non se ne
amareggiò.
“Si sa, i ragazzi sono sempre superficiali, soprattutto questo. Lo sapevo prima di venire
qui.”
Però dovette impegnarsi per riprendere il sorriso.
Capitolo diciottesimo
Una mattina di dicembre Carlotta aveva, proprio nelle ultime due ore di scuola, compito
in classe di latino. Il latino non era la sua specialità e infatti il giorno prima si era fatta aiutare dalla
sorella a preparare bigliettini con lo schema di varie coniugazioni e declinazioni, che aveva
sistemato in varie pieghe della sua tenuta: tasche, astuccio delle penne. Schemi di frasi soggettive e
oggettive erano stati collocati addirittura nel reggiseno, con l’intento di una consultazione al
gabinetto che poi non le servì perché, a suo modo di vedere, di frasi oggettive nella sua versione
non ce n’erano e soggettiva era l’interpretazione di tutto il compito in generale. Un due
assicurato, era rassegnata.
Suonò il segnale della liberazione, l’ultima scampanellata del mattino, all’orologio della
scuola. Antonia, una compagna più ardita delle altre, alzò la mano e pregò il professor Righetti di
concedere almeno cinque minuti di tempo per finire il compito. I tempi supplementari vennero
concessi. Subito le teste indaffarate si rituffarono nei compiti per concludere alla meglio la prova,
mentre fuori rumoreggiava la gioia di tutte le altre ragazze della scuola che uscivano verso l’aria
frizzante dopo una mattinata al chiuso. Con la stessa irruenza con cui un cagnolino corre in
cortile appena si apre la porta d’ingresso della casa, anche nei giorni più gelidi, così sciamava la
massa delle scolare sulla via.
Isabella si trovò fuori, raggiunse Luigi accanto alla carrozza, vide che Carlotta non era
ancora arrivata e indovinò il motivo del ritardo. Disse a Luigi:
“Starà finendo il compito in classe di latino, c’è da aspettare.”
Poi spinse gli occhi tra le figure in attesa attorno al portone di rovere della scuola e le
venne in mente di avvertire il Fedin, che subito distinse tra gli altri volti, del ritardo di Bianca. Se
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l’approccio fosse stato programmato sarebbe arrossita, invece l’urgenza del caso le permise di
conservare la sua naturalezza. Chiese a Luigi di aspettare, si avvicinò al giovane e gli disse:
“Mi perdoni, mi chiamo Isabella. Sono la sorella dell’amica di Bianca. Volevo avvertirla.
Forse lei è preoccupato. Bianca sta finendo il compito di latino.”
Il Fedin non era affatto preoccupato, ma fu lieto che quella bella ragazza gli rivolgesse la
parola. Non l’aveva mai notata prima. Non ricordava neanche l’incontro precedente con lei.
Isabella aveva gli occhi chiari come le ragazze russe del suo paese, però verdi invece che azzurri.
E aveva la pelle liscia e un po’ brunita delle donne del sud, cosa che per i poeti russi è simbolo di
mistero e passionalità.
“Grazie, signorina. Vedo che voi sapete chi sono. Fedor Koshkin, maggiordomo di casa
Portolenghi.”
Non c’era niente da dirsi, ma i due restarono a guardarsi per qualche secondo come se fili
invisibili rendessero difficile il distacco. Fu un attimo, perché poi, contemporaneamente, ambedue
distolsero gli occhi e li alzarono al cielo. E in cielo, come per magia, comparvero i primi fiocchi di
neve.
Non si era sicuri all’inizio che si trattasse di neve e quindi nessuno dei due voleva parlare
per primo. Il cielo era grigio, ma trasparente come la madreperla, in alcuni angoli c’erano sprazzi
di luce e in altri chiazze più cupe. Isabella tese la mano e guardò la manica del cappotto: era
proprio neve. Mostrò il braccio teso a Fedja, che si aprì in un sorriso e allargò a sua volta le
braccia:
“La neve!”
“Per voi non sarà una gran novità.”
“Ah, sapete già tutto di me.”
“No, non so niente, ma mia sorella mi ha raccontato qualcosa. Io amo tanto la Russia,
sapete?” Senza accorgersi era passata dal “lei” al “voi”, come nei romanzi russi.
“E cosa sapete voi della Russia? Ci siete stata?”
“Isabella, vieni, sono qui. Salta su che ho una gran voglia di arrivare a casa presto. Che
freddo!
Isabella sorrise al Fedin, salutò fugacemente e corse subito in carrozza, con le guance
rosse.
“Carlotta, hai visto che nevica?”
Carlotta non rispose all’osservazione della sorella perché era ancora sotto l’effetto
raggelante del compito di latino. Tirò fuori la brutta della versione e si mise a correggerla con
Isabella.
Capitolo diciannovesimo
Arrivarono a casa. Subito a pranzo la mamma chiese a Carlotta come fosse andato il
compito e la ragazza, che era sincera, rispose la verità. Il papà raccontò di una grana di lavoro e,
siccome a volte nel racconto si rivolgeva a Isabella, ella dovette rispondergli, ma trovava
faticosissimo tenere nella mente quello che le veniva detto. Infatti alla fine del discorso, visto
che suo padre guardava lei, tanto per dire qualcosa gli chiese: "E in ufficio, papà, come ti va?"
Il papà e la mamma si scambiarono un'occhiata, poi il signor Arturo rispose:
"Ma Isabella, dove hai la testa? Di cosa abbiamo parlato fino ad ora?"
Carlotta rideva e questo offese Isabella, la offese più di quanto non avrebbe dovuto. Il
pranzo proseguì con una discussione politica. Si parlava della guerra, che dal 1915, cioè
dall'anno precedente al dicembre in cui si svolgevano questi eventi, aveva coinvolto anche
l'Italia. I Valleolona non avevano nessuno della famiglia al fronte, quindi la guerra era per loro
una faccenda più astratta che per altri, ma purtuttavia restava una grande angoscia. Le
ragazze seguivano poco la politica e solo Isabella, ma anche lei non tutti i giorni, sfogliava il
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quotidiano, però non si poteva non sentire, anche nell'agio e nel calduccio della loro solida vita
milanese, che era in pericolo tutto il mondo.
Isabella ascoltava i discorsi dei genitori senza intervenire e mangiava distrattamente. Non
che fosse presa da pensieri suoi, anzi, al contrario: aveva la testa perfettamente vuota, non
riusciva a concentrarsi su nulla e percepiva solo un grande nervosismo. Appena il pranzo fu
finito si ricordò che alle cinque sarebbe venuto il maestro di violino per la lezione e lei non
aveva ancora studiato il pezzo da provare. Cominciò a suonare, ma tutto andava
storto, l'archetto non sembrava più lui e decise di lasciar perdere. Voleva pensare, ma in
questo appunto stava il problema che la rendeva nervosa: l'evento del mattino con il Fedin era
stato così grande da non poter essere ripensato. Era troppo grande per il cuore di Isabella e
troppo nuovo. Isabella si avvicinò alla finestra e solo allora si placò: tutto, tutto il mondo era
coperto di neve. I fiocchi cadevano fitti fitti e piccoli. "Questa è la neve buona che resta, pensò - non è la solita neve che diventa subito pioggia." Aprì la finestra per raccoglierla dal
davanzale, fece una palla e la tirò a Luigi, solo perché casualmente Luigi stava attraversando il
cortile con un vaso in mano. Richiuse in fretta il vetro, come una bambina, per non farsi
vedere e senza cappotto uscì in mezzo al cortile. Luigi stava depositando sotto il porticato il
suo carico.
"Signorina Isabella, viene anche lei a prendere freddo? Cosa le occorre?"
"Niente, volevo toccare la neve." Raccolse una palla e gliela tirò.
Luigi rise, si ripulì la giacca con il lembo della sciarpa e soggiunse:
"Ma allora è stata lei anche prima?"
"Chi, io? A tirare palle di neve? Sarà stata mia sorella." E scoppiò a ridere insieme a
Luigi, che, con la sua risata, dava segno di aver capito lo stato d'animo della padroncina.
Tornata in casa, finalmente Isabella riuscì a pensare.
"Mi è piaciuto tutto di lui. Mi è piaciuto quel tono della voce con cui mi ha detto... cosa
mi ha detto precisamente? Fedor Koshkin, russo. Perché non ha detto di essere conte? Per
modestia. Chissà che figura ho fatto io. Una signorina che rivolge per prima la parola a un uomo.
Però ho fatto bene. Che sorriso... Di sicuro non l'ho disturbato, era evidente che gli faceva
piacere. Chissà se è stato così gentile per cortesia o se gli piaccio? Ma cosa dico... Come ti può
piacere una ragazza appena la vedi? Questo succede solo nei romanzi illustrati. Però
sembrava intendere più di quello che ha detto. Mi guardava con quei suoi occhi chiari chiari...
come i miei. Sono i capelli che mi piacciono, così dritti e fini fini. Chissà chi gli fa quel taglio
alla paggio, non è un taglio che usa qui. Ah, allora ho un innamorato anch'io come Ludovica? E
domani glielo racconto? E se lui non mi vuole? E se per caso lui mi vuole?"
Qui Isabella si spaventò. Era la prima volta che diceva a se stessa che le piaceva un
uomo. Già questo la faceva sentire in vergogna. E quasi sperò che la cosa finisse in niente,
perché se finiva in qualcosa... in cosa poteva finire?
"E cosa posso aspettarmi? Di rivederlo domattina. Meno male che oggi non è
sabato. Chissà se lui pensa a me. Signore aiutami. Dio mio perdonami. Ma perdonarmi di
cosa, se non ho fatto niente? E come farò adesso a fare i compiti? E quella lezione di
violino... Vorrei che fosse subito domani mattina. Anzi, meglio. Forse ho sognato tutto e tutto
il mondo resta come prima. Eppure no, perché la neve è vera. Vado a vedere come va.
Scese in cortile, si accertò che la neve fosse ancora soffice, ghiacciata e ben
attaccata a terra. Ne fece una palla, se la sfregò sul viso e andò in casa a fare i compiti.
Capitolo ventesimo
La neve a sera smise di fioccare, ma non si sciolse. Il freddo della notte trasformò lo
strato di neve più alto in una crosta dura e i portieri la mattina dell'indomani ebbero il loro bel
daffare a spalarla da cortili e androni. Luigi si dovette svegliare un'ora prima del solito. Vide
che la pioggia non aveva fatto il lavoro di pulizia delle strade e che quindi questa incombenza
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toccava a lui. Isabella si svegliò, cosa strana per lei, mezz'ora prima del solito. Per prima cosa
aprì le persiane e anche la finestra, ancora in camicia da notte, per controllare il tempo. La neve
era tutta rosa nel cortile perché il sole si era ritagliato un angolino di alba nel cielo peraltro
ancora minaccioso e la neve rifletteva quest'alba come uno specchio opalescente. Negli angoli
dove la luce non era ancora arrivata la neve era grigia e dava un senso di freddo, ma Isabella
richiuse subito la finestra e si mise a scegliere la sciarpa più bella (che risultò essere quella rosa)
da sfoggiare quel mattino, perché, a meno che Bianca non fosse stata assente da scuola, il Fedin
doveva presentarsi per forza.
Fece fretta a Carlotta, "perché chissà che traffico con tutta questa neve e guai se faccio
tardi stamattina" ed il suo incitamento ebbe un certo successo: riuscirono a uscire di casa
cinque minuti prima del solito e ad arrivare a scuola cinque minuti prima della campanella.
Isabella disse a Carlotta:
"Entra pure, tesoro, che avrai freddo. Io aspetto qui una mia amica."
Carlotta subodorò qualcosa ma non protestò. Corse però in fretta in classe a
spogliarsi per potersi mettere alla finestra e vedere chi aspettava la sorella.
Isabella temette che il Fedin fosse già arrivato e ripartito, ma continuò a scrutare
nella direzione da cui sapeva sarebbe dovuta arrivare Bianca. Mancavano solo due minuti
all'ultima campanella, tutte le ragazze entravano scuotendo gli ombrelli, perché intanto aveva
ripreso a nevicare, e solo all'ultimo si presentò anche la bella Bianca. Bianca aveva un vezzoso
ombrello a spicchi di tutti i colori mentre Fedja era senza ombrello. Gli copriva la testa un
cappello di pelo spruzzato di fiocchi bianchi.
Isabella salutò Bianca, che entrò subito dal portone, poi si rivolse al Fedin, che le prese la
mano, gliela baciò e la salutò rispettosamente:
"Buongiorno, signorina."
Isabella rimase colpita da quella galanteria all'antica: il baciamano. Arrossì leggermente e
chiese al giovane:
"Come mai senza ombrello?"
"Da noi in Russia l'ombrello si usa per la pioggia. La neve è come sole: ti bagna e ti tiene
caldo. Davvero."
Isabella avrebbe voluto dire tante cose, indugiare ancora nell'ascolto di quella voce, ma la
campanella stava suonando e non c'era proprio più tempo. Entrò a scuola.
Per le prime due ore fu soprappensiero e preparò un discorso da fare a Ludovica su
tutto quello che le era successo, ma poi quando venne l'intervallo si dimenticò di tutte le frasi
preparate e parlò di tutt'altro. Se ne ricordò solo mezz'ora dopo, ma era tardi. "Meglio così pensò - si vede che volevo tenerlo per me."
Alle undici cominciò a guardare spesso l'orologio aspettando l'ora dell'uscita.
Quando, con gran fatica, il tempo fu passato e si potè correre fuori della scuola, Isabella ebbe
una serie di brutte delusioni. Per cominciare non solo non nevicava più, ma pioveva e la
pioggia stava trasformando la magnifica neve bianca del mattino in una fanghiglia marrone
che frenava le ruote delle carrozze e penetrava nelle scarpe. Inoltre, sulla
porta della scuola c'era Raffaele, che si rivolse proprio a lei, a Isabella.
"Ciao, come va?"
Isabella era indispettita ma non poteva essere scortese. "Bene, grazie, cosa fai qui?" E
intanto cercava con gli occhi, con la scusa di aprire l'ombrello, il suo Fedja. Fedja stava
guardando verso il portone della scuola e i loro occhi si incontrarono, ma senza salutarsi. Fedja
abbassò subito lo sguardo, richiamò Bianca e, brandendo la cartella, a passi veloci si
allontanò. Isabella si sentì così disperata che temette di scoppiare a piangere, ma Raffaele
era lì e doveva ascoltarlo. Intanto si era avvicinata anche Carlotta.
"Cosa faccio qui? Sono uscito dalla mia scuola mezz'ora fa e ho pensato di venirvi a
salutare. Oh, ecco anche Ludovica."
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Anche Ludovica si stupì della visita di Raffaele, ma piacevolmente. Fu allegra e cordiale
con lui, anzi, si fece accompagnare a casa da Raffaele, perché lei a scuola ci andava da sola e
quindi non stava trattenendo nessuno, mentre Luigi era già seduto a cassetta e continuava a
guardare le signorine facendo capire, pur senza dirlo, che aveva fretta di partire.
Raffaele fu molto simpatico con le ragazze, rivolse pari attenzione a Isabella e Carlotta e
chiese:
"Ma voi dove abitate? Mi piacerebbe una volta venirvi a trovare a casa."
Isabella indugiò nella risposta, anche perché aveva preso la parola la sorellina.
"Ma certo, che bella idea!" Diede il loro indirizzo, che Raffaele scrisse sulla prima
pagina del vocabolarietto di francese, il primo pezzo di carta che gli era capitato in mano.
In carrozza, Isabella commentò: "Che barbaro quel ragazzo! Sciupare così un
vocabolario."
Carlotta non rispose neppure perché aveva notato il gesto ed era tutta occupata a pensare
alla prospettiva della visita del simpatico giovanotto.
Capitolo ventunesimo
Trascorsero alcuni giorni uggiosi, di freddo umido. Per Isabella quel brutto freddo era
anche nel cuore e per sentire un po' di calore doveva stare o appiccicata al fuoco del camino o
rintanata
a
leggere
in
biblioteca.
Per
il
resto tutto le era venuto a noia: scuola, amicizie, famiglia, progetti. Raffaele, dopo averle
rovinato i primi approcci con Fedro, non si era più sentito ed erano ormai passati quattro
giorni, tra cui una domenica, giorno in cui Carlotta, sicura che il ragazzo si sarebbe presentato
allora, aveva rifiutato di mangiare la sua fetta di torta a pranzo così che ne avanzasse per il
pomeriggio. Anche Isabella non aveva voluto la torta in omaggio al suo umor nero.
Rispetto a Fedja, Isabella aveva deciso di non compiere passi che la rendessero
ridicola. Lei continuava a pensare a lui, doveva ammetterlo, e continuava a sentire la sua
presenza in ogni angolo della via della scuola. A ogni entrata e uscita, e anche affacciandosi alla
finestra nel corso della mattinata, Isabella sentiva che Fedja poteva essere là. Era eternamente
combattuta tra il timore e la speranza che avvenisse tra loro un nuovo incontro. Di incontri
in effetti ce ne furono, ma sia Fedja che Isabella alla vista dell'altro facevano finta di niente e
distoglievano gli occhi, così che i loro sguardi non si incontrarono mai per un'intera settimana.
Isabella era ella stessa stupita di come questa brutta situazione la facesse soffrire, ma anche la
tranquillizzasse. Le dimostrava che il mondo in fondo continuava come sempre,
indipendentemente dai suoi entusiasmi.
Un bel giorno, nel mezzo del pomeriggio, suonò il campanello di casa Valleolona.
Rosina andò ad aprire, fece aspettare il visitatore e andò a chiamare le ragazze dalle loro
camere: una visita proprio per loro. Era Raffaele.
Carlotta fece persino in tempo nonostante l'emozione a mettersi un bel nastro ai
capelli. Isabella scese un po' immusonita, ma Raffaele portava allegria. Si sedettero a
conversare nel salotto buono, accesero il camino, fecero preparare a Rosina la cioccolata calda e
nel complesso passarono un magnifico pomeriggio. Non avrebbero saputo riferire di che
avessero parlato, ma passando davanti alla porta più di una volta la signora Valleolona sentì
ridere e parlare forte. Carlotta cinguettava come un passerotto perché sentiva di piacere. Isabella
invece, per quanto non gliene importasse gran che, provava sempre più intensamente il
sentimento contrario. Le pareva che Raffaele, pur sforzandosi di essere cortese anche con lei,
rivolgesse sempre maggiore attenzione a Carlotta. Perciò anche le domande che Raffaele
rivolgeva a lei presero a rattristarla. Pensava:
"Cosa crede, di farmi l'elemosina? Crede che sia cieca e non veda che gli piace
quell'oca di mia sorella? E spero bene che non creda di farmi dispetto con le smancerie che fa
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con Carlotta, perché a me, caro Raffaele, non importa proprio nulla di te. Anzi, adesso trovo una
scusa per allontanarmi."
Isabella si fece sempre più taciturna, lasciava che la conversazione si svolgesse solo tra
Carlotta e Raffaele. Appena trovò una pausa per inserirsi, si scusò presso l'ospite e disse che
doveva assolutamente ritirarsi a studiare. Carlotta, sollevata dalla partenza della sorella,
condusse Raffaele in camera per mostrargli la sua collezione di cartoline illustrate.
Isabella rivide Carlotta solo a cena e le sorelle non dissero una parola su Raffaele, né
quella sera né l'indomani.
Capitolo ventiduesimo
Isabella era proprio giù di morale. Come per farle dispetto, Carlotta invece nei giorni
successivi alla visita di Raffaele era ancora più graziosa e raggiante del solito. Isabella si stupiva
della differenza tra le reazioni sue e quelle della sorella. Per lei esistevano solo le grandi passioni e
quindi si sarebbe aspettata che Carlotta fosse o del tutto indifferente alle moine di Raffaele,
oppure folle d'amore per lui. Invece Carlotta non dava segni né dell'una né dell'altra cosa.
Continuava a svolgere tutte le sue attività di sempre: scuola, musica, giochi, con quella sua grazia
da gattina, felice, sì, di essere piaciuta a Raffaele, ma senza che questo aprisse abissi nella sua
anima. Godeva della gioia dei primi approcci d'amore ed era felice già di quello, pur restando
sempre aperta a gioie maggiori. Isabella la disprezzava per questo suo atteggiamento, ma anche
segretamente la invidiava. Inoltre, era anche un po' delusa per il fatto che Carlotta non aveva
scelto lei come confidente. Siccome tutto questo stato d'animo le pesava, decise di prendere lei
l'iniziativa con la sorella. Una mattina, mentre andavano a scuola, Isabella disse a Carlotta:
"Non abbiano mai commentato la visita del tuo amico Raffaele."
Carlotta ignorò il tono polemico del "tuo amico Raffaele" e rispose:
"Sì, è vero, cosa ne dici? A me ha fatto molto piacere."
"Solo piacere?"
"Cosa vuoi dire, Isabella?"
"Non mi dirai che non ti sei innamorata?"
"Innamorata? Io mi sono divertita e basta. Non è mica il mio fidanzato."
"Ma scusa, Carlotta, perché credi che sia venuto fino a casa nostra? Credi che i ragazzi
vadano così dalle ragazze, solo per passare il tempo?"
"Sì, perché no? Sei tu che credi una cosa sbagliata. Comunque ti vorrei dire una cosa: sei
stata proprio scontrosa con lui."
"Lo credo bene. Era lì tutto svenevole con te, cosa dovevo fare?"
"Ma che svenevole! Comunque, cosa ti posso dire: per me è un ragazzo simpatico e
voglio frequentarlo ancora. Se a te non piace stai fuori dalla nostra compagnia. Dimmi la
verità, Isabella: ci avevi fatto un pensierino sopra tu, a Raffaele?"
"Verità per verità. Sì, devo ammettere che, da stupida, mi ero aspettata chissà che, ma
adesso, te lo giuro, non me ne importa proprio niente. Non importa di nessuno a me."
"Isabella, cara, sei così infelice? E il maggiordomo di Bianca non lo senti più?"
"Allora avevi notato che gli avevo parlato."
"Sì, certo. Me l'ha detto anche Bianca. Fedro ha chiesto a Bianca tante cose di te."
"Davvero? - Isabella si illuminò. - Accidenti, siamo già arrivate."
Per tutta la mattina Isabella aspettò di riprendere il discorso con Carlotta. Mentre
rincasavano si parlarono da sorelle, senza l'asprezza di prima, e Isabella spiegò a Carlotta di
come Fedro l'avesse interessata, del baciamano e poi del suo tirarsi in disparte dopo aver visto
Isabella con Raffaele.
"E adesso non so più cosa fare. Vorrei chiarire l'equivoco ma non voglio neanche
importunarlo. Mi piacerebbe tanto che lui tornasse a parlarmi."
Carlotta non rispose a Isabella ma sentirono di essersi capite.
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Isabella aveva l’animo alleggerito dopo aver parlato con Carlotta. A cena fu allegra e
raccontò delle barzellette che aveva sentito da una sua compagna. Finito di mangiare andò a
leggere in biblioteca con suo padre. Lesse alcune pagine da un'antologia di poesia russa e
s'imbattè in una poesia che conosceva già, di Lermontov.
La vela
C'è una vela da sola, tutta bianca
Nella nebbia celeste del mare.
Che va cercando in terre lontane?
Che sta lasciando nel luogo dove è nata?
Rilucono le onde, il vento sibila,
Scricchiolando l'albero si flette.
Ahi! Non è felicità quello che cerca
E non è dalla felicità che fugge.
Sotto, limpido azzurro più che in cielo,
Sopra, raggi del sole come oro...
L'inquieta vela cerca le tempeste
Quasi che in queste fosse la sua pace.
1832
La lesse due volte, rapita dalla bellezza di versi così semplici. Dopo la seconda lettura
ebbe un'illuminazione. Andò in camera a prendere un foglio di carta da lettera elegante, si
sedette al tavolo e ricopiò in bella scrittura tutta la poesia. In fondo al foglio, aggiunse:
"Gentile signor Fedro, gradite questi versi e i miei ossequi. Vostra Isabella."
La mattina dopo diede a Carlotta la busta sigillata perché la facesse arrivare a Fedro
tramite Bianca.
Capitolo ventitreesimo
Quella stessa mattina era l'ultimo giorno di scuola prima delle vacanze di Natale. C'era
una certa animazione nell'aria, anche se le lezioni si svolgevano nel modo consueto,
perlomeno nelle prime tre ore. Unica concessione al senso di festa imminente che tutta la scuola
sentiva, tranne la direttrice e gli insegnanti più severi, fu la lectio brevis di quella vigilia di vacanza.
Alle undici le ragazze, classe per classe, sciamarono dalla scuola per partecipare alla messa di
Natale. Dopo l'ultimo amen erano libere e lì, sul sagrato, si scambiarono i loro piccoli pensieri di
ragazze. Carlotta ricevette un temperamatite da Bianca, in omaggio alla sua vocazione artistica,
e dei dolci di marzapane da un'altra. Isabella scambiò un regalo solo con Ludovica. Lei era
isolata nella classe e, pur essendo cordiale con tutte, non era veramente amica di nessuna delle
compagne. Le due ragazze si fecero le ultime confessioni e raccomandazioni prima della
separazione di due settimane che le aspettava. Ludovica, che non frenava mai i propri
sentimenti, era eccitata oltre misura. Saltava facendo sventolare la sua sciarpa rossa mentre
raccontava a Isabella che anche la famiglia di G. sarebbe stata a Courmayeur per quelle
vacanze, anche se solo da Capodanno in poi. E lei si aspettava grandi cose. E poi lo sci.
"Isabella, adesso che abbiamo scoperto che sai pattinare devi imparare a sciare. Non ti
voglio vedere più così malinconica come sei stata quest'autunno. Vedi di divertirti e fare
un bel veglione di Capodanno, perlomeno."
"Sì, con i miei genitori."
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Ludovica non aveva tempo di appianare il malumore dell'amica perché aveva fretta di
arrivare a casa a preparare la valigia. Isabella e Ludovica si scambiarono un bacio di buon
augurio, poi la prima, trovata con gli occhi la sorella già pronta accanto a Luigi, si avviò,
dispiacendosi che, a parte Ludovica, le dispiacesse così poco lasciare le compagne per le
vacanze.
Fu silenziosa nel viaggio di ritorno e per i primi due giorni di vacanza. Non sapeva
dove stare, leggeva fino a farsi venire gli occhi rossi, per di più un libro che nemmeno le piaceva
ma che non riusciva a lasciare, un po' per scrupolo (magari più avanti sarà meglio) un po' per
timidezza, un po' anche per curiosità. Era L'idiota di Dostoevskij, sempre nel filone della
letteratura russa che l'aveva fatta sognare per tutto l'autunno.
Però di fronte alla dolcezza del Natale dovette cedere anche lei. Prima di tutto si fece il
presepe, su nella sala grande. Erano statuine di terracotta che erano state della nonna
materna, grandi più del consueto. Carlotta aveva ricevuto il permesso di restaurare quei pezzi
che, a furia di essere trasportati, toccati e mal riposti avevano perso dettagli e colori.
Isabella, le cui abilità artistiche erano meno stimate, ebbe l'incarico di ritagliare e
incollare in cielo la grande stella cometa e di disporre del muschio a segnare i bordi della via di
sassolini bianchi per cui i pastorelli, insieme a tutti gli altri personaggi, arrivavano a Gesù. Era
una cosa da bambini ma Isabella quella sera, per la prima volta, fu contenta.
La mattina era bello dormire fino a tardi. Anche se la mamma non mancava mai di
affibbiarle qualche commissione, che si aggiungeva ai compiti nel "toglierle la vita", come si
esprimeva lei, il tempo che restava era comunque tanto, più che sufficiente per fare e pensare ciò
che aveva in mente. E ciò che aveva in mente Isabella, dopo il primo giorno intero passato a
casa, qualsiasi cosa facesse, era sempre lo stesso giro di frasi: "Fedja non ha risposto al mio
biglietto. Ancora una volta ho sprecato il mio amore. D'ora in poi non mi aspetterò più nulla da
nessuno. Cercherò di essere la ragazza più immorale di Milano."Non era chiaro neanche a lei in
cosa consistesse questa sua desiderata immoralità, ma l'amarezza e il dolore di quei giorni freddi
prima di Natale non si dissiparono mai, a parte la vicenda del presepe, fino al giorno di
Natale stesso.
Capitolo ventiquattresimo
La mattina del venticinque dicembre, a dispetto di tutte le cartoline di Natale piene di
neve che si vendevano nei negozi, c'era un sole limpido come di primavera. L'aria era fredda e
così secca che pareva vibrare. Non si poteva stare in casa e Isabella, che a messa era già stata
la sera prima, a mezzanotte, con tutta la famiglia, si offrì di accompagnare il babbo in
centro, a comperare il famoso panettone di Cova. Volle unirsi anche Carlotta e il pasticciere, che
sentiva il Natale anche lui, regalò un frutto di marzapane a testa alle sue giovani clienti. Carlotta
scelse un limone e Isabella un'arancia. Con i loro trofei, mentre il papà reggeva ben stretto il
panettone per non schiacciarlo, arrivarono a casa. A mangiare il cappone con la mostarda erano
convenute le due solite zie, Fosca e Olga, la famiglia dei cugini piccoli e la vecchia mamma del
signor Arturo. Quando il pasto fu terminato e zia Fosca, che ci teneva particolarmente, cominciò
a preparare il tabellone e le cartelle per la tombola ("e giocheremo a soldi" annunciò) Rosina
si affacciò alla porta e chiamò Isabella nel corridoio.
"Isabella, stamattina hanno portato questa mentre eravate fuori." E le consegnò una
piccola busta bianca.
Isabella si fece rossa e salì in camera per aprire la busta in solitudine. La dicitura
sulla busta, in una calligrafia elegante e con un inchiostro fine fine, era semplicemente
questa: "Signorina Isabella Valleolona", senza indirizzo. Isabella strappò la busta malamente,
senza prendere il tagliacarte, per la curiosità. Il foglio che la busta conteneva diceva così:
"Mia dolce Isabella, il mio stato e le mie condizioni hanno trattenuto il flusso di queste
parole fino ad oggi, ma non posso più tacere. Da che i miei occhi hanno lambito l'acqua chiara
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dei vostri, mi è entrata nel cuore una luce che giorno e notte mi spinge a voi, stella da cui quella
luce si propaga.
Bene hanno scelto i vostri genitori di darvi nome Isabella! Bellezza è ciò che si legge in
ogni vostro tratto, in ogni vostro gesto, nella grazia infinita che vi circonda.
Isabella! Vi ho amata dal primo momento in cui vi ho vista, ma quante sono le pene di
chi ama! Osavo e non osavo sperare. Quando vi vidi allegra e festosa, all'uscita della scuola, in
compagnia di altri giovani, pensai che non fosse destinato a me il vostro fiore e cercai di
spegnere in me la passione, ma invano. Un fuoco mi bruciava dentro e per questo distoglievo
gli occhi da voi, per paura che avvampasse bruciando anche me.
Ma ecco che, due giorni fa, ricevetti il vostro sublime scritto. Non so dirvi quanto ne fui
felice. In un attimo le più belle speranze riaffiorarono nel mio cuore.
Isabella, mia tenera vela bianca, non sarete più sola nell'oceano. La mia vela vibrerà
accanto alla vostra raccogliendo tutti gli aliti delle onde e correremo lontano. Ci saranno forse
bufere, ma anche bonaccia. E, a differenza di quella vela, noi troveremo la felicità. Isabella, vi
amo. Vostro Fedor Koskin."
Isabella giocò a tombola tutto il pomeriggio e vinse molti centesimi, più di una lira.
Quando tutti si alzarono stanchi dal tavolo da gioco raccolse il suo gruzzolo e lo regalò alla
cuginetta più piccola, Costanza.
Capitolo venticinquesimo
Isabella quasi non dormì nella notte della vigilia di Santo Stefano, ma nessuno se ne
accorse perché dopo la festa tutta la casa era caduta in un sonno dolce e tranquillo. Inoltre,
anche l'indomani sarebbe stato giorno di festa. La ragazza rilesse la lettera di Fedja fino a saperla
a memoria. Sì, ora non c'erano proprio più dubbi: era amata. Verso l'alba però nella ridda dei
pensieri gioiosi di Isabella si intrufolò un dubbio: come poteva Fedro aver scritto quella
lettera in un italiano così perfetto? Che ci fosse lo zampino di Bianca? E se Carlotta sapeva
tutto? Se sì, perché non parlava? E cosa sapeva Rosina? E cos'avrebbero detto i suoi genitori di
tutta quella vicenda? Per sfuggire ai dubbi, Isabella si addormentò.
Nei due giorni successivi Isabella studiò Carlotta per capire dalla sua espressione quanto
sapesse, ma Carlotta era la solita ragazza semplice e allegra e non dava segno di nulla. Isabella
decise di aspettare il ritorno a scuola per intraprendere nuove azioni amorose.
Invece, la vigilia di Capodanno, la sorella minore invitò Isabella ad accompagnarla in
visita da Bianca. Che fosse un invito alla confessione? No, impossibile, perché Carlotta era
troppo piccola e troppo semplice per aspettare tre giorni a parlare di una cosa del genere.
Evidentemente non sapeva nulla.
Isabella dedicò tutta la mattina per scrivere una risposta alla lettera di Fedja. Per il primo
paio d'ore cercò un'altra poesia da dedicargli, visto il successo della prima, ma capitavano
sempre poesie sbagliate. Così, si decise a scrivere una lettera d'amore tutta sua, resistendo alla
tentazione di copiarla da qualche romanzo ("perché poi si viene sempre scoperti") e
resistendo al pudore. Insomma, scrisse una lettera d'amore coi fiocchi, che non citeremo per
lasciare un po' di mistero anche a lei. La chiuse nella busta insieme a una stella alpina secca che
teneva da tempo in un cassetto senza saper che farne e, col prezioso carico in tasca, andò in
visita.
Isabella non era mai stata a casa di Bianca. Le piacque molto l'atmosfera
Portolenghi. Era una casa molto ricca e c'era da aspettarselo. Per avere il maggiordomo nel 1916 a
Milano bisognava appartenere a un certo ceto. Anche loro Valleolona, che pure stavano bene, se
la cavavano alla buona, solo con Luigi e Rosina. I Portolenghi erano ricchi, ma la loro
ricchezza si esprimeva nella semplicità degli arredi e dei modi, non nella ridondanza di forme
che Isabella aveva notato a casa di Ludovica. Questo le piacque. Le piacque anche la grazia
leggera di Bianca che seppe mettere a loro agio le sorelle, intrattenerle e divertirle per tutto il
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pomeriggio. Sfogliarono insieme dei libri illustrati che Bianca aveva ricevuto per Natale. A
metà pomeriggio giocarono a palla in cortile perché erano stanche di stare in casa, e fu lì che
Isabella finalmente rivide Fedja. Si era affacciato a una finestra per caso, senza sapere che lei fosse
lì. Al vederla gli mancò il respiro. Come per riprendersi da un malore spalancò la finestra di botto
e si affacciò. Lei lo notò e Fedro fece un ampio cenno di saluto con la mano, poi la finestra si
richiuse.
Isabella per tutto il pomeriggio continuò a sperare in un incontro, ma evidentemente
Fedja, proprio perché l'aveva vista, non osava scendere. Nel congedarsi da Bianca Isabella
cavò di tasca la sua busta e la pregò di farle da messaggera.
"Al ritorno a scuola vi spiegherò tutto," disse arrossendo per prevenire le domande di
Bianca e Carlotta.
Capitolo ventiseiesimo
Isabella apprezzò molto il fatto che Carlotta, che aveva visto benissimo la consegna della
lettera per Fedro a Bianca, non le rivolgesse domande. Da una parte lei avrebbe avuto un gran
desiderio di confidarsi con qualcuno, ma non voleva affrettarsi. Era ancora troppo stordita per
mettere in parole i suoi sentimenti. Inoltre non aveva ancora deciso in che proporzione fosse
disposta a spartire con la sorella le sue emozioni. Quella frase venuta così, "al ritorno a scuola vi
spiegherò tutto", le permetteva di temporeggiare.
Intanto i giorni scorrevano e Isabella dimenticava il suo amore solo quando la lettura di
un romanzo si faceva intensa e il flusso della storia la portava lontano dal suo mondo. Per il
resto era distratta e sempre con la testa alle sue congetture d'amore. Ma anche nel mezzo del
romanzo più coinvolgente rispuntavano i soliti pensieri, perché lei si identificava tanto con i
personaggi da passare subito ai confronti: "Ecco, questo matrimonio è stato contrastato.
Speriamo non capiti a me. E lui le ha mandato a dire che l'amava da una zia. Questo non mi
piacerebbe. Perché poi a Cinzia piace il nero? Io lo detesto. Anche a Fedja sono sicura che non
piace. Già, quali saranno i suoi colori preferiti? Devo scrivergli una lettera per chiederlo.”
Ne iniziò tante di lettere in quella settimana, ma non ne concluse una perché tutto ciò
che scriveva le pareva troppo banale per un amore sublime come il loro.
Un giorno di quelle lunghe vacanze, insieme al resto della posta venne recapitato un biglietto
per "le gentili signorine Valleolona". Era il signor Portolenghi, il padre di Bianca, che invitava
Isabella e Carlotta alla Scala per assistere insieme alla loro famiglia a una recita del Flauto magico.
Anche i Valleolona andavano spesso a sentire musica, ma non avevano un palco e non andavano
certo a sentire tutte tutte le opere della stagione. Per le ragazze era una bella occasione di vedere
un bello spettacolo in bella compagnia. I genitori scrissero un biglietto di ringraziamento ai
Portolenghi e la sera dopo, fresche e graziose come rose, Isabella e Carlotta scesero di
carrozza proprio sotto il portico della Scala, davanti all'ingresso, e subito nell'atrio
trovarono ad aspettarle Bianca, i genitori e... Isabella rimase così sorpresa che non lo
riconobbe neanche subito: anche Fedja era stato invitato per il Flauto magico.
Isabella, una volta seduta nel palco Portolenghi, non vedeva l'ora che si spegnessero le
luci e lo spettacolo iniziasse. Con accanto il suo amore, ma anche in mezzo a persone del tutto
ignare, lei sperava bene, dei suoi sentimenti, non sapeva come comportarsi. Non sapeva
neanche se trattare Fedja, di fronte ai Portolenghi, come un servitore o alla pari. Quindi, restò
ad osservare quello che facevano gli altri. Scoprì che per i suoi padroni Fedja era davvero come
un membro della famiglia, per quanto gli pagassero uno stipendio e usufruissero della sua
opera professionale. Questo rispetto per Fedja, al di là del suo ruolo, le piacque immensamente.
A Isabella toccò proprio il posto accanto a Fedro. Dall'altra parte aveva Carlotta. Era
felice e rapita dalla musica, dalla scenografia, dalla storia, da tutto. Si sentiva bella e leggera e le
pareva che al mondo tutti fossero belli e buoni come i signori Portolenghi che l'avevano invitata.
A un certo punto della recita, in una scena un po' buia, Isabella sentì un tocco leggero sulla
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sua bella mano, che teneva appoggiata a un ginocchio. Si volse leggermente, sorrise e trattenne
quella mano calda facendo scorrere le sue dita da violinista tra le dita di Fedja. Fu un attimo,
perché la scena stava cambiando e tornarono le luci.
Isabella osservò bene le espressioni dei visi all'intervallo: nessuno si era accorto di nulla.
Capitolo ventisettesimo
Due giorni dopo nel grande piatto dell'ingresso dove veniva depositata la posta c'era una
letterina per Isabella senza mittente. La ragazza stava per aprirla subito lì, ma immediatamente
si ricordò di avere un amore. Perciò prese la lettera con aria indifferente e andò a leggerla nella
sicurezza della sua camera. Aveva fatto bene, perché era un biglietto di Fedja. Doveva essere
stato scritto in fretta e spedito senza supervisioni, questa volta, perché diceva così: "Isabella,
luciente stella di Natale mia, cercate venire sola alla processione dei Re Magi di chiesa
Sant'Eustorgio. Sempre vostro Fedor."
Naturalmente Isabella ci andò. Non le fu difficile essere sola perché i suoi genitori non
erano interessati a quelle cose e Carlotta preferiva andare alla messa delle undici con mamma e
papà piuttosto che alzarsi presto in un giorno di festa. A sua volta, Fedro non ebbe
difficoltà tecniche per organizzare il suo primo appuntamento d'amore in quanto
semplicemente quella mattina non era di servizio.
Isabella credette di essere arrivata per prima quando il vetturino la fece scendere sul
sagrato della chiesa di Sant'Eustorgio, già pieno di famiglie, fiorai, caldarrostai, banchi di
dolciumi, bambini, carrozze, piccioni e odori di festa. Ma invece no, quando entrò in chiesa
Fedja era già lì, appena oltre la porta così da non poterla mancare. Le baciò la mano senza
parlare e, sempre reggendo con delicatezza le sue dita tese, l'accompagnò a sedersi. Fu una
fortuna che la messa iniziasse subito, perché in fondo i due giovani non si erano mai veramente
parlati ed era più facile stare seduti vicini così, senza dover dire nulla, provando solo la
dolcezza della vicinanza. Questa vicinanza placò il batticuore che ambedue sentivano e,
quando alla fine della messa si uscì all'aria aperta e saltarono fuori i tre Re Magi, di cui uno
tutto nero (un nero fatto scaldando un turacciolo al fuoco), già in arcione sulle loro cavalcature
bardate "all'orientale", con i doni in mano, e tutti si misero dietro ai Magi procedendo in fila
disordinata verso il Duomo, le parole vennero naturali come se Isabella e Fedro si fossero parlati
già tante e tante volte.
Si confessarono tutte le incertezze, le ansie e le gioie dei giorni precedenti. Fedja disse
anche a Isabella: "Non posso credere che una donna bella come voi sia mia. Deve essere sogno."
"Si dice: deve essere un sogno. Devo insegnarti a usare gli articoli. Oh, scusate, vi ho
dato del tu."
"Da noi in Russia non si fa così a passare al tu. Se usciamo dalla processione e ci
fermiamo sul marciapiede vi insegno come si fa." Ubbidiente, Isabella, seguendo la mano del
giovane, lasciò la fila, salì sul marciapiede, dove i passanti erano fermi a guardare i Re
Magi, stringendosi al muro si districò dalla folla e, svoltando in un vicolo, si fermò di fronte
a Fedro nella rientranza di un androne. Il ragazzo le abbracciò le spalle e le disse: "Chiudete
gli occhi." Dopo un bacio timido, ma tenero e lungo Fedja disse:
"Ecco, da noi in Russia dopo il primo bacio ci si può dare del tu. Vieni, amore,
andiamo."
"Fedja, caro, ti darò sempre del tu."
Capitolo ventottesimo
Isabella tornò a casa per il pranzo con l'impressione di volare. Quella non era Milano che
le passava sotto gli occhi dal finestrino ben chiuso della carrozza, ma una terra fatata piena di
persone gentili che le sorridevano perché le leggevano in faccia il suo segreto: Isabella ha un
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amore. Però quando ebbe varcato il cancello e, nell'attraversare il cortile, le venne fatto di
controllare l'orologio per vedere se era in tempo per il pranzo (che nelle feste era sempre all'una)
si accorse anche che non poteva presentarsi a tavola con quella faccia raggiante. Si passò una
mano tra i capelli, aggiustò il colletto del cappotto ed entrò in casa.
Nell'atrio c'era sua mamma, intenta ad aggiustare un mazzo di rose in un vaso troppo
basso. Non sapeva se tagliare i gambi o cambiare vaso. Come Isabella la vide e, nel togliersi
il cappotto, prese coscienza di essere arrivata a casa, cambiò bruscamente di espressione in
viso. Capì che non avrebbe mai saputo spiegare alla mamma, ma nemmeno a papà e Carlotta,
cosa le era successo quella mattina. La posta in gioco era troppo alta per rischiare. Magari
saltando qualche particolare, Isabella avrebbe potuto cominciare a dire di "avere una simpatia",
ma allora i genitori avrebbero avuto tutto il potere di deridere, fraintendere, vietare. Solo a
pensarlo Isabella ebbe un fremito. Ritirò in sé il suo sorriso, che rimase lì, per tutta la giornata,
come luce che illuminava da dentro i suoi tratti e i suoi occhi dando loro un lucore quasi
inquietante per chi la guardava.
In famiglia non era solo Isabella a pensare all'amore. Un pomeriggio la mamma disse alle
figlie di vestirsi bene perché dovevano accompagnarla dalla sua amica, la moglie di un generale
di
cavalleria,
la
signora
Caterina,
che
desiderava tanto vedere "come erano cresciute le ragazze".
"Non vi annoierete, perché anche lì ci sono dei ragazzi come voi."
La mamma ci teneva tanto, le aveva anche avvertite con qualche giorno di anticipo perché
si tenessero libere, insomma, Carlotta e Isabella ci dovettero proprio andare. Ora che erano
ambedue al liceo volevano avere una vita loro e non andare più in visita con la mamma, ma quella
volta non c'era via d'uscita.
Arrivarono e trovarono una tavola magnificamente apparecchiata per una merenda
anche troppo sontuosa persino per la golosità di Carlotta: ci fu una torta che non riuscì ad
assaggiare. La signora Caterina aveva una figlia secca secca di quindici anni, che studiava alle
magistrali, e un figlio maggiore, Guglielmo, un ragazzotto esuberante che si diede subito da fare
per accogliere le giovani ospiti. Guglielmo era già all'università, studiava ingegneria, ma pur
essendo già grande aveva ancora uno sguardo limpido da ginnasiale. Si interessò soprattutto a
Isabella, mentre Carlotta venne invitata dalla sorella minore a visitare la serra. Guglielmo faceva
tante domande e cercava di apparire brillante, ma Isabella nel complesso si annoiò. Ora che
aveva un vero innamorato si sentiva più sicura dei suoi sentimenti verso i maschi: se
Guglielmo era noioso non c'era niente da fare, era noioso e basta.
La sera, a casa, la signora Marina Valleolona prese da parte la figlia maggiore e le
chiese, con aria significativa, come le fosse parso questo Guglielmo. Isabella finse di non
capire il suo tono e rispose: "Normale, simpatico," ma la mamma insistette. "Sai, Caterina ci
spera tanto."
Allora Isabella venne presa da un accesso di odio sordo verso la madre, la famiglia, la
signora Caterina e tutto il mondo. Le avevano creato quella trappola di torte per rifilarle un
ragazzo da sposare? Roba da matti. E credevano di ingannarla così facilmente? Dalla rabbia
Isabella scoppiò a piangere e disse alla madre:
"Non sapevo che tu fossi una serpe!"
La signora Valleolona cominciò a temere che per Guglielmo si dovesse cercare un altro
partito.
Capitolo ventinovesimo
Ma avevamo quasi dimenticato Carlotta, che nel suo piccolo era innamorata anche
lei. Dopo la visita ai Valleolona Raffaele si era convinto di piacere alla sorellina minore e non si
era sbagliato. Per essere più sicuro l'aspettò all'uscita della scuola un paio di volte e sempre
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venne accolto da Carlotta con una radiosa giovialità che gli toccava il cuore. Ma di amore
ancora non si parlava e Raffaele si fece l'idea di dover essere lui ad aprire la partita.
Invitò Carlotta ad uscire con lui un pomeriggio e la ragazza, che era più piana di
Isabella in tutto, anche nei rapporti con i genitori, avvertì semplicemente che usciva a fare una
passeggiata con un amico. Isabella neppure vi fece caso perché era tutta assorbita
dalla lettura dei romanzi russi e dalla sua corrispondenza con il Fedin, che era continuata anche
dopo il primo bacio e dopo gli innumerevoli altri che seguirono.
Raffaele non era tanto interessato all'arte, ma invitò Carlotta a visitare la pinacoteca di
Brera per far piacere a lei, che amava la pittura, e per avere un posto caldo dove sfuggire al
freddo di gennaio. Percorrevano le sale quasi vuote, si fermavano davanti ai quadri, si
sorridevano, parlando solo a tratti. Nel lasciare una sala Raffaele prese Carlotta per mano e,
siccome la sala era vuota e la mano di Carlotta si era annidata ben calda nella sua, afferrò
anche l'altra e disse: "Carlotta, io ti amo."
Carlotta, che era una ragazza semplice e non conosceva le frasi fatte, rispose con la sua
disarmante spontaneità: "Oh! E forse che io no?"
Si sarà già capito che seguì un bacio.
Da allora Raffaele e Carlotta si considerarono "fidanzati", ma di un fidanzamento
giovanile, senza i progetti per il futuro che impegnavano Fedro e Isabella. A loro bastava vedersi,
parlarsi e baciarsi per essere assolutamente felici. Le occasioni si creavano facilmente: all'uscita
dalla scuola, al pattinaggio, in belle passeggiate per la città, da soli o in compagnia. Si
trovavano anche a fare i compiti insieme, qualche volta, l'uno a casa dell'altro, stando attenti
però a non rivelare alcuna intimità quando potevano essere visti dagli adulti.
Solo Luigi, nella famiglia Valleolona, era al corrente degli amori di Carlotta, oltre
naturalmente a Isabella. Luigi era un amico fidato e non avrebbe mai messo i bastoni tra le
ruote a una padroncina. Anzi, gli piaceva quel senso di tacita combutta che s'era creato tra lui e le
due sorelle nei viaggi da e per la scuola. Lui era svelto a ripartire appena scaricate le ragazze a
scuola e non faceva loro fretta per il ritorno a casa quando le andava a riprendere. Marina e
Arturo Valleolona notarono che il ritorno da scuola delle ragazze si era spostato in avanti di
cinque minuti e commentarono così:
"A Milano c'è sempre più traffico. Di questo passo chissà dove andremo a finire."
Capitolo trentesimo
Il dodici di gennaio Fedja fermò Isabella all'uscita della scuola con una grande proposta:
"Lo sai che per noi russi stasera è Capodanno?"
"Come, non è il trentun dicembre? Cosa dici mai?"
"Sì, è il trentun dicembre, ma il trentuno di dicembre per noi è oggi, anima mia."
“Voi russi siete matti in tutto.Adesso scopro che siete originali anche nel calendario."
Fedja spiegò che in Russia non c'era stata la riforma del calendario avvenuta
nell'Europa occidentale qualche secolo addietro e che quindi, col tempo, si era creata una
discrepanza di dodici giorni tra il calendario ortodosso e quello del resto d'Europa. Così, il
trentun dicembre russo corrispondeva al dodici del gennaio milanese. E siccome era un anno
molto speciale che iniziava, "il primo anno dell'era di Isabella", lo voleva festeggiare con lei.
Era già tutto organizzato: la sarebbe andata a prendere alle otto per condurla al ristorante a
festeggiare il capodanno. Isabella doveva solo ottenere il permesso di uscire. Ma come
informare Fedro se i genitori non l'avessero lasciata?
"Appunto. Ti devono lasciare per forza. Stasera, fatti trovare pronta per le otto."
Isabella pensò che il modo più plausibile per ottenere di uscire da sola, di sera, per la
prima volta in vita sua, visto che non c'era tanto tempo, era di dire la verità. Cioè, quasi la
verità. Spiegò che aveva conosciuto un giovane russo ed era invitata a una festa di espatriati
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per festeggiare il loro capodanno. Così non sembrava che uscisse sola con un uomo. Marina e
Arturo la sentirono tanto sicura di sé che acconsentirono.
La cena al ristorante fu magnifica. Fedja e Isabella "stavano insieme" solo da una
settimana e il loro amore era ancora più un bocciolo che un fiore, ma proprio per questo era
pieno di tutta la magia dei princìpi. Isabella portava un semplicissimo abito di velluto blu,
aggraziato da un colletto di pizzo che segnava il suo lungo collo sottile. Anche Fedja era molto
elegante, negli abiti come nei modi. Faceva il maggiordomo, d'accordo, ma era pur sempre il
conte Koskin.
Dopo la cena, siccome erano solo le dieci, decisero di andare a piedi fino alla villa di
Isabella. Era una notte fredda, ma piena di stelle. Isabella aveva le chiavi di casa così da non
dover svegliare nessuno al ritorno. Aprì il cancello piano piano e, nel buio del cortile,
abbracciò stretto il suo amato.
"Non vorrei lasciarti mai! Mi vien male ad andare nel mio letto freddo dopo una serata
così bella."
Nel dirlo le venne un'idea. Per trattenere Fedja ancora un pochino, gli volle mostrare il
giardino dietro la casa. C'era poco da vedere tra il buio e il gelo, se non la cura con cui gli arbusti
più delicati erano stati protetti con la paglia dal buon Luigi. In fondo al giardino c'erano
alcune basse costruzioni di servizio: la legnaia, la stalla, il fienile. Isabella aprì la porta del
fienile. Fedja la spinse delicatamente dentro e richiuse la porta. Il silenzio attorno faceva quasi
paura. Oltre il giardino c'era solo la campagna, dormiente sotto la luna. I giovani si
abbracciarono e scivolarono sul fieno profumato d'estate.
Fu semplice la scena d'amore che seguì, anch'essa come l'estate. Isabella, come tutte
le ragazze, desiderava e temeva l'amore. Quello che accadde fu diverso da come se l'era
aspettato: temeva un'esplosione dolorosa dei sensi e invece fu un bagno di dolcezza seguito da
una grande pace.
"Mamma mia, che freddo - si riscosse Isabella. - E ho il vestito pieno di pagliuzze."
"Io anche pagliuzze. Anima mia, non prendere freddo. Ricopriti, ti porto subito a casa."
Spazzolarono gli abiti alla bell'e meglio con le mani e a passo svelto raggiunsero di
nuovo il cancello. Un rapido bacio con la bocca ridente, poi Fedja si allontanò nella notte e
Isabella corse in casa a scaldarsi.
Capitolo trentunesimo
La signora Valleolona aveva considerato solo temporanea la sua sconfitta diplomatica nel
fidanzare Isabella con il figlio dell'amica. Infatti all'amica stessa, rincontrandosi con lei, aveva
detto che "Guglielmo aveva fatto una buona impressione", "se son rose fioriranno" e altre
frasi generiche che avevano tenuta in caldo l'idea di unire le due famiglie in un matrimonio
conveniente per tutti: la finezza di Isabella si sarebbe ben sposata, in tutti i sensi del termine, con
il solido patrimonio di Guglielmo e gli altrettanto solidi valori della famiglia di cui egli portava il
nome. E sappiamo che i Valleolona erano gente sobria e nella ricerca di un partito per la
figlia badavano solo alla sostanza, non alle frivolezze.
"L'amore viene poi, vero caro?" diceva Marina al marito sulla scorta della sua
esperienza. "E viene di sicuro se il matrimonio è ben combinato." Un'altra frase di Marina
Valleolona nel discutere col marito della sistemazione della figlia era: "L'amore è da Dio, ma
le nozze sono nelle mani di noi mortali". Questa frase in realtà non era sua: l'aveva letta sulle
pagine di una rivista femminile, ma l'aveva ormai ripetuta così tante volte da dimenticarne lei
stessa la fonte.
Un pomeriggio di domenica, a sorpresa così da non incontrare ostacoli nell'ostinazione
di Isabella, i Valleolona invitarono tutta la famiglia di Guglielmo per una merenda. Ci furono i
soliti convenevoli tra i genitori, i complimenti per "le belle figliole". Dopo il tè i quattro
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giovani si appartarono per chiacchierare. Guglielmo continuava a ciondolare attorno a Isabella
come se fosse sempre sul punto di dirle qualcosa, ma non le disse niente di speciale.
La sera, dopo la cena, i genitori chiesero a Isabella di seguirli in salotto perché volevano
parlarle. La ragazza intuì subito quale sarebbe stato l'argomento e, con la faccia seria, si dispose
ad ascoltare. Era proprio così: i genitori le chiedevano se fosse disposta ad accettare il
corteggiamento di Guglielmo. Isabella, sentendosi messa alle strette, pensò che la miglior
difesa sarebbe stata l'attacco e rispose così:
"Mi dispiace, non se ne parla neanche, anche perché sono già impegnata con un altro."
"Come, impegnata con chi?" chiese il padre.
"Un nobile russo, se vuoi saperlo."
"Non mi racconterai che ti sei invaghita di quel maggiordomo?"
Il fatto che dicessero "maggiordomo" faceva capire che qualcosa i genitori avevano
intuito degli amori della figlia, ma non conoscevano, naturalmente, a che punto fosse
l'impresa. Loro speravano ancora che si trattasse di vaghi sogni di fanciulle. Non sospettavano
quell'amore radicato che Isabella difendeva con la fierezza della sua natura.
Ma così era. Isabella spiegò brevemente, nei toni più neutri possibili, chi fosse il suo
Fedja. Disse che si erano dichiarati il loro amore e che erano fermamente intenzionati a
sposarsi.
"Sposarvi? Ma a te deve mancare qualche venerdì, - si accalorò il padre. - Come
pensereste di vivere?"
"Non so, a questi dettagli non abbiamo ancora pensato."
"Sì, capisco, ma un genitore è proprio a questi dettagli che pensa nel sistemare una figlia.
Vuoi forse andare a mendicare con uno spiantato russo? Eh?"
Isabella era offesa e potè solo rispondere che a lei non importava niente di partiti e
sistemazioni, voleva solo essere felice e vivere con il suo amore.
Ma, come c'era da aspettarsi, i genitori avevano pronti da sfoderare ricatti e vendette.
Le dissero così: non l'avrebbero più turbata con le proposte di Guglielmo, ma anche lei non
doveva turbare i loro sonni. Quindi, da quel giorno non doveva più frequentare quell'uomo.
Anche la corrispondenza era vietata. E, visto che si era rivelata una piccola ingannatrice,
avrebbero tenuto gli occhi più aperti sulle sue amicizie. E che restasse pure senza fidanzato, se
non le piaceva questo Guglielmo. Tanto peggio per lei.
Capitolo trentaduesimo
Isabella era irritata, disperata, confusa. Così confusa che quella sera bussò alla porta di
Carlotta. Carlotta sapeva che la sorella se la intendeva con il russo, gliene aveva parlato Isabella
stessa, come promesso, dopo le vacanze di Natale, pur se in toni generici e non con le parole
calde di chi apre il cuore rivelando il suo primo grande amore. La sorella minore si era risentita
inizialmente di tale reticenza, ma poi, quando lei stessa ebbe baciato il suo Raffaele, capì che
certe cose non c'è modo di raccontarle. Fu la dolcezza dei baci di Raffaele a prestare a Carlotta il
miele per lenire le ferite della sorella. Non si mise a difendere i genitori, ma neanche ad
accusarli. Con il suo carattere pratico, disse a Isabella:
"Ci sono due opzioni. Anzi, tre. O ubbidisci al papà e alla mamma e aspetti di
convincerli in futuro, o lasci che trovino un ragazzo che ti aggradi di più, oppure devi passare
alla clandestinità. Altre scelte non ne hai."
Il lettore avrà già capito che Isabella scelse la terza soluzione. Le venne il magone nel
parlarne, perché cosa poteva godere in un amore clandestino che la riportava nell'abisso della
solitudine, quando la felicità era lì, a dieci minuti di carrozza da casa sua? Le pareva una crudeltà
da non potersi sopportare. Anche Carlotta si mise a piangere, perché il cuore ce l'aveva caldo
anche lei, e per consolarla le suggerì:
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"Però io ho sempre Bianca e Bianca è dalla nostra. Ti faremo da messaggere io e lei
e poi si vedrà."
Bianca fece di più. Quando ebbe recapitato a Fedro il secondo biglietto di Isabella,
disperato e amaro più che mai (lei non l'aveva aperto, figuriamoci, ma lo lesse nel volto del
maggiordomo in quel pomeriggio di nebbia fredda) pensò di parlarne con i genitori.
I Portolenghi erano di mentalità particolarmente aperta, nello stile di
quell'anticonformismo milanese che coesisteva in quegli anni con il modello stantio di una
borghesia più fissa sui suoi princìpi.
Per i genitori di Bianca era una novità che Fedro si fosse innamorato, e proprio di Isabella.
"E noi che abbiamo invitato le tue amiche alla Scala, neanche a farlo apposta! I loro
genitori penseranno che siamo autori di tresche anche noi! Proprio una cosa da commedia
musicale."
Anche i Portolenghi non erano santi e, dopo aver appreso degli amori di Fedro, si
preoccuparono della loro sorte. Non avevano voglia di mettersi a cercare un altro
maggiordomo ora che ne avevano uno tanto fidato, ma certo, mai si fosse sposato con Isabella,
difficilmente il ragazzo sarebbe rimasto a servizio.
La signora Antonietta Portolenghi frenò la fantasia del marito. "Guarda che qui c'è solo
l'inizio di un amore. Non sono ancora scappati di casa. Dobbiamo semmai pensare a come
aggiustare le cose. Potremmo parlare noi con i signori Valleolona, sono gente perbene e magari
le cose si appianeranno. Ma prima bisogna sentire quel benedetto ragazzo."
"Ben detto, sciura Antunieta" disse il marito e mandò Bianca a chiamare il Fedin.
Capitolo trentatreesimo
I Portolenghi erano abbonati, oltre che a un quotidiano milanese, a un settimanale
francese, "L'Illustration". A Fedja questa rivista piaceva particolarmente perché era scritta in
francese, lingua che padroneggiava alla perfezione in quanto l'aveva studiata e praticata da
sempre, mentre la sua conoscenza dell'italiano, pur permettendogli ogni tipo di contatto sia
orale che scritto, restava comunque approssimativa. L'ultimo numero de "L'Illustration"
del marzo 1917 conteneva un grande servizio sulla Russia. C'era stato un grandioso sciopero
generale a Pietrogrado (perché dal 1905 San Pietroburgo aveva russificato il proprio nome): il
popolo, stremato dalla guerra e dagli stenti, voleva pane. Si era sciolta la Duma, c'erano stati
combattimenti di giorni per le strade della città. La settimana dopo i giornali dissero che
l'ordine era stato ristabilito. Kerenskij aveva preso in mano il governo e lo zar Nicola II aveva
abdicato.
Fedja, che seguiva sempre con molta attenzione le notizie riguardanti la sua patria, rimase
molto impressionato dall'abdicazione dello zar. Ora che lo zarismo capitolava, si rinnovava la
speranza della nascita di una nuova Russia, basata su idee di progresso, giustizia, pace. Forse in
questa nuova Russia che nasceva ci sarebbe stato un posto per pacifisti come Fedja, per gente
che aveva viaggiato e aveva aperto la mente alla cultura europea.
Il ragazzo sperava anche che la Russia ritirasse le sue truppe da una guerra che non era
più sentita da nessuno. A parte forse la classe militare, per la gente la guerra non era altro che
una croce in più addosso a un paese già martoriato. La speranza nella capitolazione della Russia
era associata per Fedja alla speranza del ritorno. Non era stato facile per lui decidere di
fermarsi in Europa e convincere la famiglia, con le sue lettere, a considerarlo con lo stesso
amore di un tempo. Ora la situazione politica era così radicalmente cambiata che, così riportava
la stampa, venivano liberati prigionieri d'opinione che languivano in carcere da anni. Anche se la
guerra non era finita, forse era il momento buono per Fedja per tentare di rimpatriare.
"Solo per una visita", spiegò peraltro a Isabella in una delle lettere che segnavano
quotidianamente il loro amore, da quando i Valleolona avevano deciso di diventare i carcerieri
della figlia. Anzi, uno degli scopi del ritorno in Russia di Fedja era quello di parlare di Isabella
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ai genitori, chiedere la loro benedizione per le nozze (perché le nozze, segrete o pubbliche,
si sarebbero dovute un giorno celebrare, quello era certo per ambedue gli amanti) e pensare
a come e dove organizzare la loro vita da sposati.
Fedja si rivolse all'ambasciata russa di Roma chiedendo un visto per ritornare al suo
paese. Nei giorni in cui aspettava la risposta, ricevette una lunga lettera della sua famiglia in cui
finalmente, dopo un mese e mezzo di preoccupante silenzio, gli davano tutte le notizie.
C'erano stati disordini anche nel piccolo paese di Voskresenskoe. Nella città, Samara, si
erano svolti scontri tra manifestanti e polizia, con morti da ambedue le parti. In paese, invece, la
piccola rivoluzione di febbraio aveva attizzato odii e rivalità locali, come sempre succede in
campagna: i grandi movimenti di idee si riducono ad aggiustamenti di conti personali. I
contadini del più potente latifondista della zona, Ivlenskij, avevano dato fuoco alla sua villa
padronale. La principale tragedia era stata che nella confusione era rimasto bruciato vivo
l'ultimo erede Ivlenskij, un bambinetto di quattro mesi. Dopo la tragedia, sepolte tra la
commozione generale le povere spoglie, gli Ivlenskij avevano lasciato Voskresenskoe, forse per
non tornare mai più.
I Koshkin invece, la famiglia di Fedor, erano rimasti fuori da ogni lotta. Essi erano
dei piccoli proprietari, stimati nel villaggio per due motivi: il conte Koshkin amministrava le
sue terre da sé, quando normalmente tutti i nobili affidavano il compito a rozzi
amministratori, e, secondo motivo, trattava i contadini con discreta giustizia.
Fedja fu molto sollevato dalle notizie. Scrisse ai genitori che stava per raggiungerli,
comperò il suo biglietto di treno, scrisse una commovente lettera di addio a Isabella
raccomandandole di aspettare il suo ritorno sapendolo innamorato per sempre, comperò dei
regalini per tutti, si fece dare da Isabella una foto da baciare in sua assenza e finalmente partì.
Capitolo trentaquattresimo
Fedja partì il primo di aprile dalla Stazione Centrale di Milano per un viaggio periglioso
che l'avrebbe fatto arrivare a casa, se tutto fosse andato bene, dopo una lunga settimana. Aveva
molte apprensioni nel lasciare la casa dei Portolenghi che gli aveva fatto da gentile asilo in terra
straniera. Provava anche un grande dolore nel lasciare la città dove viveva la sua Isabella.
Dopo che i Valleolona avevano vietato a Isabella di frequentare il giovane russo, i due
innamorati si erano ancora visti, ma solo fugacemente, perché Luigi aveva dovuto obbedire ai
padroni e accertarsi che Isabella entrasse e uscisse dalla scuola senza scene d'amore. La vera
vicinanza con l'amata si realizzava nei teneri messaggi che ogni giorno Bianca e Carlotta
mettevano in cartella, si scambiavano a scuola e passavano con un sorriso, un po' di
partecipazione e un po' di invidia, una volta tornate a casa, ai due innamorati.
I Portolenghi non si erano mai decisi a chiedere un incontro con la famiglia di
Isabella, pur avendone l'intenzione. Trovavano sempre scuse: questa settimana l'automobile è
rotta (perché loro erano ricchi e avevano anche l'automobile), la settimana prossima abbiamo
già troppi impegni... Quando Fedro fu partito tornarono a parlare del problema e pensarono
che quello fosse il momento più adatto per parlamentare. Il ragazzo era via, i Valleolona non
potevano più temere incontri segreti. Si poteva dunque allentare la vigilanza sulla figlia e,
forse, aprirsi a un po' di magnanimità.
Venne deciso di invitare Arturo e Marina Valleolona, insieme ad altri ospiti così da non
farli sentire troppo al centro dell'attenzione, a una cena. Durante la serata, secondo un copione
che avevano concordato in precedenza, Antonietta Portolenghi prese da parte per un attimo
Marina. Emanuele Portolenghi fece lo stesso con il signor Arturo. I due buoni genitori di
Bianca si sforzarono di parlare con leggerezza della scuola, dei figli, così da portare la
conversazione ai matrimoni "alla francese", in cui sono i giovani stessi a scegliersi a vicenda.
Ambedue i Valleolona, quasi si fossero messi d'accordo anche loro, risposero che sì, certo, è
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una bella cosa, moderna, giusta, ma quando si tratta dei nostri figli... "Non so se lei sa..." "Sì,
so. E quel povero ragazzo adesso è anche ripartito per la Russia." "Ah, davvero?"
Dopo quella cena i Valleolona non cambiarono opinione sul matrimonio "alla
francese", cui continuavano a preferire le loro solide consuetudini milanesi di combinare le
nozze, tuttavia allentarono la prigionia della figlia, ora che il suo amato non era in città. Anzi,
pensarono che il modo migliore per farle dimenticare quell'infatuazione fosse di farla divertire
con piaceri più consoni al suo stato e alla sua età.
A Marina Valleolona pareva che lo spasso maggiore per una ragazza di diciotto anni
fosse quello di scegliere il suo primo abito da sera. Perciò, dando seguito a intenzioni già
formulate da tanti mesi, in un bel pomeriggio di sole primaverile madre e figlia si fecero lasciare
da Luigi in un portone della Corsia dei Servi da cui si saliva all'atelier delle sorelle Galimberti,
modiste.
Isabella aveva la morte nel cuore perché da tre settimane non sapeva nulla del suo
amato, però è anche vero che scegliere il primo abito da sera è un'ottima cura contro la
depressione. Quando fu seduta con la mamma nel salottino delle modiste dimenticò del tutto
per un'ora le sue pene, presa dalla scelta di stoffe, modelli, pizzi. Ci volle del bello e del buono
per mettere insieme, in un abito solo, tutto ciò che Isabella e la mamma volevano: e una pince
qui, e un'arricciatura come questa, ma un taglio di maniche diverso. Dopo tanto discutere il
modello venne concordato, ma restava il problema del colore. L'incertezza era tra una seta
paglierino e uno chiffon di un rosa antico. Non era rosa confetto, che Isabella aborriva, ma un
rosa più malinconico, che le ricordava la tappezzeria della casa della nonna morta. Era bello e
stava bene con la sua pelle, ma il paglierino era più originale e la seta pesante poteva frusciare.
Venne scelto il giallo paglierino che sarebbe stato completato al momento buono da un bouquet di
mughetti veri.
Capitolo trentacinquesimo
Il primo di maggio a Milano non era la festa dei lavoratori come oggi, ma la festa del
maggio stesso, Calendimaggio, in cui le ragazze in fiore (il fiore della società agli occhi di madri e
padri ammirati) debuttavano nel loro primo abito da sera al loro primo grande ballo. Il ballo non
era solo per le diciottenni, ma anche per le madri che le seguivano dai tavolini della
balconata superiore, preoccupate che tutte le piegoline della mise fossero al loro posto, che gli
strascichi non si impigliassero nelle scarpette e che i giovanotti della brillante società notassero
proprio la loro figlia, che naturalmente era sempre la più bella. E ancora, il ballo era per i
giovanotti, che sorridevano per ammirazione e partecipazione alle mosse impacciate delle più
timide, a un profilo di seno più distinguibile degli altri, ai riccioli vezzosi e ai nastri e ai fiori che
decoravano vesti delicate. Certi, tra i baldi giovani, immaginavano in segreto le bellezze celate
dai vaporosi veli, altri muovevano inconsciamente i piedi pregustando la danza al suono dei primi
accordi dell'orchestra.
Anche gli orchestrali erano emozionati, perché via, anche loro sapevano con che
trepidazione le fanciulle avevano aspettato quel giorno. Si perdevano a guardare l'animazione
della sala e non finivano mai di accordare gli strumenti. Ma poi iniziò il primo ballo, un
walzer, e la grande macchina del grande ballo, con un sobbalzo, partì quando la prima coppia
entrò danzando fino al centro del parquet profumato della grande sala e innumerevoli altre
coppie la seguirono. E allora le ragazze che fino all'ultimo avevano temuto che nessuno le
invitasse a ballare ebbero sorrisi radiosi. Quelle che non avevano ancora un cavaliere
sorridevano anche loro, perché se fai il muso lungo non piaci a nessuno, le mamme gliel'avevano
spiegato. E infatti già al secondo pezzo della musica qualcuna tra loro sedeva accaldata accanto
alla mamma, raccontando le emozioni della prima danza, mentre altri boccioli di ragazza
entravano trionfanti nell'arena dietro a giovanotti belli e fieri o anche solo eleganti, ma
sicuramente ricchi e desiderosi di divertirsi.
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Isabella non avrebbe voluto partecipare a quel ballo perché le sembrava ingiusto fare
una cosa così bella, che aveva sognato negli anni precedenti così tante volte, senza il suo amato.
Ma l'incertezza era stata all'inizio. L'aveva offesa la sollecitudine di sua madre nel profondere
tempo e denaro per quel ballo, quando di Fedja non si faceva mai parola e lei aveva il pensiero di
lui sempre fisso nella mente. La madre doveva saperlo. Anche se Isabella aveva giurato a se
stessa di non parlare più dei suoi amori alla famiglia, neanche una parola, doveva sapere la
signora Marina Valleolona con che apprensione e terrore una giovane donna aspetta notizie dal
primo uomo che ha amato e con che tenacia affina i suoi sentimenti nella speranza della
felicità. Eppure Marina faceva finta di niente e discuteva solo di vesti e scarpette. Isabella, dopo
essere stata dalle sorelle Galimberti e aver scelto quella deliziosa seta paglierino, pensò:
"Quando si è in ballo bisogna ballare, il proverbio è giusto. Visto che sono in mezzo a questa
storia, cercherò di divertirmi."
E così fece. Nessuno avrebbe potuto immaginare che il suo cuore fosse già occupato
da un altro nel vederla con sguardo fiero e seduttivo in piedi accanto al buffet, con quei mughetti
profumati sulla cintura alta e un sorriso involontario sulle labbra. Era al ballo e voleva
divertirsi. Ebbe molti cavalieri quella sera e la madre l'indicava soddisfatta al signor Arturo
mentre anch'essi, i due genitori, ballavano il walzer, perché anch'essi erano discretamente
giovani e l'eccitazione di tutte quelle giovinette si era trasmessa anche a loro, come se quella sera
si decidesse qualcosa di speciale per le sorti del mondo.
Molti notarono Isabella, ma lei non notò nessuno in particolare. Ogni volta che
cambiava cavaliere si dispiaceva che il ballo fosse finito e che le toccasse avviare una
conversazione vana mentre il giovanotto di turno l'accompagnava al buffet, o a sedersi, o la
invitava per un ballo successivo. Solo ballare era bello, dimenticando ogni cura nel vortice della
musica.
A notte, tornata a casa, ricordò con un brivido che non aveva più visto Fedja da un mese,
neanche in sogno. Le venne il dubbio che tutto il suo grande amore fosse solo una sua fantasia.
Ma poi rilesse per l'ennesima volta la prima lettera di Fedro e si rassicurò.
Capitolo trentaseiesimo
Dopo qualche iniziale indugio Isabella aveva messo Ludovica a parte delle sue vicende
d'amore. Nelle vacanze di Natale destino aveva voluto che ambedue le ragazze avessero avuto
una svolta sentimentale. La sorpresa promessa da G. a Ludovica per le feste era un anellino con
un corallo a forma di cuore circondato da minuscole perline. Una cosa da poco, non certo un
anello di fidanzamento, tuttavia l'importante era che G. aveva dichiarato a Ludovica di amarla
e i due filavano d'amore e d'accordo con la celata benedizione dei quattro genitori, che
fingevano di non notare i giochi d'amore dei loro ragazzi.
Ben diversa era la situazione di Isabella. Come il lettore ben sa, alla poesia dei suoi
sentimenti i genitori avevano mischiato il fiele del diniego. Isabella se ne lamentava con l'amica e
traeva un qualche conforto dal parlarne, ma al contempo sentiva che Ludovica l'ascoltava solo a
metà. Cioè, stava sì a sentire il racconto dei guai di Isabella, ma la sua felicità amorosa le
impediva di condividere appieno i problemi della compagna. Lei non l'avrebbe mai dichiarato,
ma sotto sotto pensava che se un amore è impossibile, è meglio sostituirlo con uno possibile.
Che fosse quel pacioccone di Guglielmo o qualcun altro, l'importante, pensava Ludovica, era
godersi la giovinezza senza tante storie. Però, appena accennava qualcosa a Isabella, la invitava
a distrarsi o a lasciar perdere o a guardare anche gli altri, quella, pur senza dirlo, si sentiva tradita
e cambiava argomento. Alla fin fine questo portò a un raffreddamento tra le due amiche. Per
antica abitudine continuavano a trascorrere l'intervallo insieme in fitti conversari, a scambiarsi
trame di romanzi (per la verità era Ludovica che si faceva raccontare la trama dei libri letti da
Isabella, perché lei stessa era già tanto se completava le letture prescritte dalla scuola), ma i cuori
non si parlavano più.
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Isabella era un po' ingrigita tra l'attesa del ritorno di Fedja e il poco svago. L'unica
gioia pura che la faceva tornare per qualche ora l'Isabella di prima erano le lezioni di violino.
Si esercitava molto, aveva talento e il maestro era veramente contento di lei. Ad andare in
società invece non pensava e dopo il gran ballo del primo di maggio si dedicò a studiare per
finire con bei voti l'anno scolastico.
Un giorno di maggio però non fu come gli altri. A pranzo il papà le disse: "Sai che
abbiamo ricevuto una lettera dalla Russia? Te la faccio leggere."
Anche Carlotta era presente. Avrebbe voluto allontanarsi per non imbarazzare la
sorella, ma era curiosa e, visto che nessuno la mandava via, rimase lì. Il signor Arturo trasse
dalla tasca una busta grande con tanti francobolli colorati. Conteneva un gran foglio scritto in
cirillico, con una scrittura piena di riccioli che ricordava quella del nonno da giovane. Su un
altro foglio, più piccolo, Fedja aveva tradotto nel suo peculiare italiano la lettera che i suoi
genitori avevano indirizzato ai Valleolona. Qui la lettera viene riportata in una versione corretta
dai suoi inciampi grammaticali.
"Stimatissimo signor Arturo Valleolona, pregiatissima signora Marina!
Dopo anni di separazione abbiamo avuto la profonda gioia di riabbracciare il
nostro figliolo. Da qualche settimana sentiamo parlare dell'Italia, di Milano e soprattutto della
vostra gentile figlia, la signorina Isabella.
Fedor ci ha detto di essere innamorato e seriamente intenzionato a coronare i suoi
sogni d'amore. Noi siamo lieti di dare la nostra benedizione alle nozze. Pur non conoscendo
ancora Isabella, siamo sicuri che l'ameremo come una figlia e che il nostro Fedor avrà in lei
un'eccellente sposa.
Ci piacerebbe poter parlare con voi delle future nozze, ma la distanza ce lo impedisce.
Affidiamo perciò intieramente al vostro giudizio ogni decisione sul futuro dei nostri
giovani, sicuri che deciderete tutto nel migliore dei modi.
Fedor si tratterrà con noi ancora un mese, per poi far ritorno a Milano. Che Iddio
benedica voi e le vostre figlie, Isabella e Carlotta. Con un profondo inchino inviamo i nostri
migliori saluti.
Porfirij e Praskov'ja Koskin”
A parte c'era un altro biglietto, sempre nella scrittura di Fedja, che diceva così:
"Gentili signori Valleolona, care Isabella e Carlotta!
Vi invio la traduzione di una lettera dei miei genitori. Con affetto e stima
Fedor Koskin"
Capitolo trentasettesimo
Isabella finì di leggere la lettera, poi alzò gli occhi cercando di capire dall'espressione
dei genitori come l'avessero presa. Era una situazione strana, che non si sapeva da che parte
prendere. Fedja traduceva la lettera dei suoi genitori, ma non scriveva niente di personale per
Isabella. Perché? Forse per non irritare i Valleolona con una sua intrusione, dopo che era stato
intimato a Isabella di smettere di frequentarlo. Però i genitori di Fedja avevano scritto a quelli
di Isabella ignorando del tutto i divieti posti da questi ultimi. Forse Fedro non aveva parlato
degli ostacoli, ma solo delle virtù di Isabella ed i genitori, in buona fede, gli avevano creduto
agendo conseguentemente. Ed ora era una bella patata bollente. Per un paio di minuti tutti e
quattro girarono gli occhi tra la lettera, il tavolo, i quadri alle pareti, i disegni del tappeto, il viso
degli altri, finché il signor Arturo non prese la parola.
"Fanno tutto facile questi russi. Come se non ci volesse niente a dare in sposa una
figlia. Ma dove vivono? Hai letto anche tu, Isabella. Cosa ne pensi?"
"Cosa devo pensare, papà? Mi fa piacere che anche i conti Koshkin nutrano per me la
stessa stima che il loro figlio mi ha esternato."
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A volte, quando era imbarazzata, Isabella parlava in modo forbito, apposta per
controllare meglio i propri pensieri e l'attenzione degli interlocutori.
"Sì, sì, - si intromise la signora Marina - per esternarla l'ha esternata di sicuro, ma
non c'è da andarne fieri. Da che mondo è mondo la mano di una figlia si chiede ai suoi genitori,
non a lei."
"E infatti - la rimbeccò subito Isabella - è proprio a voi che i conti - Isabella accentuava
intenzionalmente la nobiltà della famiglia di Fedja - si sono rivolti. Hai visto, senza neanche una
parola per me, il che, tra l'altro, mi dispiace davvero."
"Sì, va bene, ma via, queste sono tutte bambinate. Se non ti avessimo fermata noi, cara
mia, chissà dove saresti finita tu con il tuo Fedro. E i genitori possono scrivere quanto vogliono,
ma non è così che si organizzano i matrimoni."
"E allora - riprese Isabella - cosa intendete rispondere?"
"Io non intendo affatto rispondere, perché nel rispondere mi troverei ad offendere delle
persone che non conosco neppure, - si inserì Arturo. - La nostra risposta sarà il silenzio."
"Bella risposta, una risposta da struzzo” commentò Isabella.
"Struzzo o non struzzo, questa è una cosa che non sta in piedi. Ti innamori del primo
spiantato, questo si monta la testa e ci fa scrivere dai genitori, ma dove andremo a finire? Cara
Isabella, noi ti abbiamo fatto leggere la lettera perché non vogliamo tenerti all'oscuro, ma stai
pur certa che con quel Fedro non caverai un ragno dal buco. Te lo ripeto, non risponderò
neanche."
Così concluse le trattative il signor Arturo e Isabella potè solo rispondere
sarcasticamente:"E' veramente gentile da parte vostra. Veramente comme il faut".
A rispondere ai Koshkin provvide lei, Isabella. La busta della lettera dei Koskin era
rimasta appoggiata sul buffet. Lei, tornata più tardi, sola, nella stanza, ricopiò l'indirizzo. Poi
scrisse a Fedja una lettera lunga, tenera, appassionata, in cui gli spiegava tutte le sue pene, la
nostalgia per lui. Gli diceva quanto i genitori fossero irremovibili nell'opporsi ai suoi sentimenti
e quanto lei fosse irremovibile nell'amare lui e lui solo. Riferì anche, con la massima sincerità, la
vicenda della lettera, anche se le faceva male mostrare i suoi genitori, sangue suo, in tale cattiva
luce. Ma così erano, che fare? Fece in tempo a spedire la lettera qualche giorno prima della fine
della scuola, data che coincideva con l'inizio della villeggiatura. Quell'anno infatti la signora
Marina aveva pensato che un soggiorno in campagna il più lungo possibile avrebbe potuto
placare gli animi di tutti. Per la verità nessuno si placò. L'inquietudine di Isabella si era
trasmessa a tutti, ma un po' di pace c'era. Era nei boschi del Novarese, nel colore tenero dei
prati, nelle nubi e nel silenzio della campagna. Quell'estate Isabella imparò a cucinare.
Capitolo trentottesimo
Per Isabella, una consolazione nel forzato isolamento in campagna c'era: Fedja non
aveva il suo indirizzo di lì, quindi non poteva capitare che arrivassero lettere sue. Così ad
Isabella veniva risparmiata l'umiliante attesa del postino, il dubbio che fosse già passato, che
l'avrebbe spinta, a Milano, a controllare due o tre volte in una mattinata la cassetta delle
lettere. E pensare che Tommaso il postino, prima di depositare la posta nella cassetta suonava
sempre il campanello. Se Rosina o qualcuno gli apriva, consegnava il dovuto direttamente
nelle sue mani, e solo se nessuno gli rispondeva si affidava alla cassetta. Isabella però avrebbe
controllato lo stesso, lo sapeva. Invece in campagna di posta non ne arrivava quasi mai.
Questo l'aiutava a mettersi l'anima in pace ed aspettare pazientemente che le foglie ingiallissero
così che si potesse tornare in città.
Il primo di ottobre ricominciava la scuola, ma i Valleolona tornarono una settimana
prima. Il signor Arturo veramente era già in città da un pezzo e aspettava "le sue donne"
contando i giorni, perché non gli piaceva mangiare da solo. Isabella e Carlotta tornarono dalle
vacanze più agili e più colorite di quando erano partite, più grandi anche, perché in due mesi
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alla loro età cambiano molte cose. Carlotta si era fatta più alta e ancora più bella. Isabella
era più magra, ma più sicura di sé e pronta ai combattimenti dell'autunno. Era sicura che
Fedja in qualche modo, se solo fosse stato sano e vivo (con tutti i disordini della Russia non si
poteva mai sapere) si sarebbe fatto sentire. Lei era veramente decisa a non perdere la felicità che
vedeva in lui e ad andare contro tutti per realizzare i suoi sogni.
Infatti non si era sbagliata. Ancora prima che iniziasse la scuola Carlotta si mise in
contatto con Bianca, andò a farle visita e tornò a casa la sera con in tasca una lettera di Fedja,
che passò segretamente a Isabella. Ecco la lettera.
"Amore mio, Isabella! Non puoi immaginare quanto mi manchi. Non ti ho scritto
prima perché sapevo che saresti partita per le vacanze. Inoltre, speravo che, se i tuoi genitori
avessero risposto favorevolmente alla lettera dei miei, sarebbe iniziata una nuova epoca nei
nostri rapporti. Allora ti avrei scritto ogni giorno e tu avresti gioiosamente risposto alle mie
lettere come facevamo quando vivevo a Milano. Quanti ricordi! Invece tua madre e tuo padre
insistono nell'opporsi alla nostra felicità e costringono noi, poveri amanti, a una clandestinità
così faticosa. Vorrei poterti scrivere ogni giorno, Isabella, vorrei poterti parlare, baciare,
abbracciare... Ma non dovremo aspettare molto. Ho deciso di partire presto per raggiungerti e
questa volta per sempre.
E' stato molto bello tornare in famiglia. Non ero neanche consapevole di quanto fossi
affezionato alla mia gente e alla mia terra e di quanto mi mancassero a Milano. Ho anche
considerato l'idea di fermarmi qui e di portarti con me a fare la 'reginetta della steppa', come ti
dice tua sorella per prenderti in giro. Ho provato a pensare a come vivremmo qui io e te.
Felici, sicuramente, perché con te sarei felice anche su un'isola deserta. Però non ti vedo qui. E'
un mondo troppo lontano dal tuo e verresti presa anche tu dalla noia di cui si lamentano tutti i
personaggi dei romanzi russi che leggi. No, dolcezza mia, voglio darti la vita più brillante
possibile così che la tua bellezza possa fiorire in mezzo alla società raffinata cui sei abituata.
Non piacerebbe neanche a te diventare una signora di campagna. E' per questo che ho pensato
di stabilirmi a vivere in Europa. Le mie sostanze non mi permetteranno di vivere con la
larghezza che solo in Russia è possibile, ma sono sicuro che tu accetterai anche i sacrifici, se io
ti saprò amare quanto la tua bellezza richiede.
Lavorerò, Isabella, e manterrò con le mie fatiche la mogliettina più bella del mondo.
Aspetta solo che venga a prenderti per portarti via con me. Conto di partire verso la metà di
novembre e di essere a Milano per l'inizio di dicembre. Ti informerà Bianca del mio arrivo. I
Portolenghi sono una famiglia fantastica e sono dalla nostra parte. Ci aiuteranno sicuramente se
ne avremo bisogno. Ti bacio teneramente. A presto, amore. Tuo Fedja."
Capitolo trentanovesimo
Due mesi sono lunghi se passati ad aspettare l'uomo che si ama. Per ingannare il
Tempo e fargli credere che fosse già dicembre Isabella escogitò un bell'espediente: si mise ad
imparare la lingua russa. Non chiese nemmeno ai genitori di procurarle un ripetitore privato,
perché era sicura che si sarebbero opposti dicendo: "Pensi sempre a quel russo... non ti
vergogni?.. bada piuttosto a studiare... già ti paghiamo le lezioni di violino... eccetera eccetera".
Ma lei aveva dei piccoli risparmi e conosceva bene le risorse delle librerie di Milano. Alla libreria
Hoepli si procurò un "Corso pratico di lingua russa" e si mise di buona lena a studiarlo.
Due mesi sono lunghissimi, si diceva, per aspettare l'amato. Anche due giorni, se è per
questo, sarebbero un'eternità. Ma due mesi non sono niente se devono bastare per imparare una
lingua. Ogni minuto libero Isabella studiava. Svolgeva gli esercizi proposti dal libro, controllava le
soluzioni, correggeva gli errori. A parte teneva un quadernetto dove segnava tutte le cose che
imparava a scrivere o dire per il suo Fedja. Nelle prime settimane era solo "buongiorno", "come
va?" e simili scempiaggini, ma già a novembre sapeva scrivere in perfetto cirillico "Isabella ama
Fedja", "oggi andrò al parco con te", "mi piace la cioccolata" e altri pensieri affini. Scoprì che
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"annoiarsi" e "avere nostalgia" sono lo stesso verbo in russo e la sua esperienza lo
confermava. Se non avesse avuto la scuola, il violino, il russo da studiare e il suo orgoglio sarebbe
morta di nostalgia.
Si era imposta di far finta di nulla fino all'inizio di dicembre, ma il primo dicembre
stesso, un mercoledì, andò a scuola indossando un paio di orecchini con la perla che le aveva
regalato la nonna, i più belli che aveva, perché dicembre era arrivato ed ogni giorno era buono
per rivedere il Fedin. Magari era arrivato la sera prima ed aveva ripreso servizio come
accompagnatore di Bianca proprio quella mattina.
Tra l'altro, Fedja non era stato sostituito da nessuno in casa Portolenghi nell'incombenza
di accompagnare la ragazza a scuola. Bianca aveva approfittato della sua assenza per allargare la
sua libertà andando a scuola da sola. Chissà se ora Fedja avrebbe ripreso la consuetudine delle
passeggiate quotidiane fino alla scuola? Isabella non osò chiedere a Bianca. Salì in classe più
presto del solito, da lì vide Bianca arrivare da sola e varcare tranquilla il pesante portone. Fedja
non c'era. Nell'intervallo si avvicinò a Bianca per salutarla. La ragazza fu cordiale e calda come
al solito, ma di Fedja neanche una parola. La mattina dopo Isabella tentò di attirare Fedja a
Milano con una nuova acconciatura dei suoi capelli scuri, ma anche questo fu inutile. Il sei
dicembre, alla vigilia della festa di Sant'Ambrogio, si risolse a interrogare Bianca.
Anche Bianca era preoccupata, insieme ai suoi familiari. Disse che Fedja aveva scritto
loro più di una volta dalla Russia. L'ultima lettera dava il programma del suo viaggio di ritorno.
Sarebbe arrivato la mattina del due dicembre alla Stazione Centrale di Milano. Addirittura il
signor Portolenghi aveva mandato un uomo alla stazione ad aspettare il treno notturno da
Venezia su cui Fedja avrebbe dovuto viaggiare, ma Fedja da quel treno non era sceso.
"Il ragazzo è preciso - aveva sentenziato il signor Portolenghi. - Se non ha avvertito del
ritardo è perché avrà avuto degli intralci. Arriverà domani."
Ormai però di domani ce n'erano stati già quattro e di Fedro neanche l'ombra. Bianca
spiegò che sua mamma proprio quella mattina intendeva spedire un telegramma alla famiglia di
Fedja chiedendo conto del ritardo.
Tutti erano preoccupati, sia Isabella che i Portolenghi, ma gli adulti avevano un sospetto
che ai giovani non era ancora venuto: che a Fedja fosse successo qualcosa di brutto nei nuovi
disordini del suo disgraziato paese, che dall'inizio di novembre era di nuovo in sommossa. A
Isabella non restava altro da fare che proseguire i suoi studi e pregare il cielo che Fedja fosse
vivo. Ma dove poteva essere finito? Forse non tornava a Milano perché amava un'altra?
No, questo era impossibile. E allora Isabella, per capacitarsi del ritardo, prese a leggere tutte
le notizie sulla Russia riportate dal quotidiano che comprava suo padre.
Capitolo quarantesimo
Le notizie sulla Russia che i giornali riportavano erano ancora più difficili da capire
della lingua russa. Pareva che tutto cambiasse continuamente, da un giorno all'altro. All'inizio si
parlava di sommosse disorganizzate, poi la stampa disse a chiare lettere che si trattava di
"rivoluzione". Già la parola faceva paura. Isabella tra le rivoluzioni conosceva solo quella
francese e il Terrore che l'aveva accompagnata. Che fosse anche in Russia così? A volte pareva
di sì, quando si leggeva di intere case occupate, atti di giustizia sommaria contro i "borghesi",
moti anche nelle campagne, incendi alle proprietà dei nobili. Era raccapricciante e quasi
impossibile da credere che un paese di così alta civiltà fosse sceso a un tale livello di barbarie.
Ma oltre alle notizie allarmistiche arrivavano anche notizie buone. Il quotidiano che
comperava il padre di Isabella era scettico e ironico verso il nuovo potere russo, che aveva
anche un nome nuovo: bolscevico, non più zarista. Altri nomi che si incontravano erano:
leninista, sovietico, rosso, socialista per descrivere lo stesso governo. Isabella non era sicura
che fossero sinonimi, comunque trovava sospetta l'acrimonia del quotidiano di suo padre contro
quelle che invece a lei parevano notizie fantastiche, rivoluzionarie nel senso buono del
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termine, di riassetto dell'universo: progetti di riforma agraria, terra ai contadini, le fabbriche in
mano agli operai, democrazia diretta... Anzi, quasi le sarebbe venuto voglia di andare anche lei
in Russia ad aiutare la Rivoluzione. Infatti, sempre dal giornale, aveva appreso che era nato un
movimento spontaneo di giovani che lasciavano la loro ricca vita di borghesi europei per
sostenere il sogno comunista, anche con le armi. Lei non era molto ferrata in politica e
tantomeno nella scienza bellica, ma se si trattava di lottare per la giustizia non poteva che essere
pronta.
Sì, ma come spiegarlo alla sua famiglia? Anche solo la sorellina Carlotta non
l'avrebbe capita, le avrebbe dato della matta.
I signori Valleolona, che non potevano non ricordarsi ogni tanto del fatto che Isabella
covava un amore, si risolvettero a interrogare la figlia. Ella rispose sinceramente che non aveva
più ricevuto notizie dopo la famosa lettera dei conti Koshkin e che anche i Portolenghi non
sapevano nulla. I genitori non commentarono queste informazioni, ma in cuor loro erano
contenti. La sorte si metteva dalla loro parte. Era chiaro che il ragazzo si era stabilito nel
suo paese ("dove avrebbe dovuto restare fin dall'inizio", aggiunse Marina Valleolona) e che
Isabella se lo doveva togliere dal cuore.
Per aiutarla a rassegnarsi e al contempo riconquistare fiducia e un po' di affetto da quella
benedetta ragazza, che negli ultimi mesi si era chiusa nella sua malinconia tanto da rendere
impossibile un dialogo sereno, i Valleolona tirarono fuori dal cappello una sorpresa: Natale a
Parigi per tutta la famiglia.
Lo annunciarono a metà dicembre e la partenza sarebbe stata solo dopo una settimana.
Carlotta era eccitatissima, cominciò subito a esaminare il suo guardaroba per scegliere i vestiti
più belli da portare. Anche Isabella era contenta. Sognava quel viaggio da tanti anni, da quando
aveva iniziato a studiare il francese. Avrebbe voluto visitare tutto, parlare, conoscere,
frequentare i teatri, divertirsi...Al contempo, però, le spiaceva partire con la preoccupazione per
Fedja nel cuore.
A furia di pensarci, era giunta a definire la questione in questi termini: o Fedja non
mi ama più, vuol restare in Russia e non ha il coraggio di dirmelo, oppure mi amerebbe ancora,
ma è ferito, morto, isolato in un luogo senza telegrafo, prigioniero dei bianchi o dei rossi, chissà,
perché in Russia c'è guerra civile. In tutti i casi c'è da preoccuparsi e l'impotenza a conoscere
mi uccide.
Ma di restare a Milano mentre tutti andavano a Parigi non c'era neanche da parlare. Le
toccò mettere in valigia il vocabolario di francese, il libro di russo (per i momenti morti, per
sentirsi un po' legata al suo amore), i vestiti più caldi e partire.
Luigi li doveva accompagnare alla Stazione Centrale, ma al momento di partire si scoprì
che c'era troppo bagaglio e dovettero chiamare un vetturino in fretta e furia per dividere il carico.
"Colpa della cappelliera della mamma," disse Isabella. "Ah, e cosa dite allora della valigia
di Carlotta?" rimbrottò lei. Con Isabella non se la prese nessuno perché il carico più grosso
che portava era quello della sua apprensione. Per il resto era stata la più modesta nel preparare
i bagagli.
Capitolo quarantunesimo
La stazione era piena di vita, anche perché si era alla vigilia delle feste e si muoveva più
gente del solito. Tutti avevano fretta, anche chi non era in ritardo, perché anche loro credevano di
dover far presto a raggiungere il loro binario e il loro vagone. Ma i Valleolona avevano fretta
veramente. Il treno partiva a mezzogiorno in punto e loro entravano in stazione solo alle undici
e quaranta, e con tutto quel bagaglio.
"Tutta colpa di voi donne - borbottò Arturo Valleolona. - Se fosse per me mi basterebbe
avere lo spazzolino da denti." Tutti trasportavano qualcosa: Luigi aveva la valigiona dei padroni,
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il signor Arturo quella di Carlotta, Isabella portava la famosa cappelliera, Carlotta una sacca e
Marina, persino lei, aveva in mano un cestino.
La processione dei portatori si stava avvicinando a gran passi al binario, quando
Isabella si fermò di botto appoggiando a terra il suo carico e letteralmente gridò: "Fedja! Fedor
Koshkin!" Quegli si voltò. Era proprio lui. Riconobbe subito, pur nel viavai della stazione, i
cari tratti della sua amata. Le corse subito incontro senza guardare null'altro, anzi quasi
travolgendo un signore distinto che gli tagliava la strada, e si strinsero in un grande abbraccio. Ma
qui tutti i Valleolona contemporaneamente cominciarono a gridare: "Isabella! Isa! Sbrigati! Ma lo
sai che perdiamo il treno? Ho detto corri. Dai." E intanto la tiravano per il cappotto, per la
mano. Carlotta oltre alla sacca prese in mano la cappelliera, ma Isabella, pur dirigendosi al
binario, prese per mano Fedja e nel tragitto, a frasi rotte ma bastanti a comprendersi, si
ragguagliarono sui sei mesi trascorsi.
Tanto improvviso era stato l'incontro che aveva tolto agli amanti ogni timore. Isabella
riuscì anche a dire a Fedja: "Ja tebja ljublju" (Ti amo), per fargli vedere che ora sapeva anche il
russo. Il signor Valleolona stava mostrando i biglietti al controllore, che gli indicava la
posizione dei posti prenotati. Isabella e Fedja continuavano a parlare fitto fitto, ma a quel
punto davvero il treno stava per partire. Si diedero un bacio proprio sulla bocca, in spregio alla
presenza dei genitori, alle convenienze, alla fretta: non si erano visti da troppo tempo per
badare alle buone maniere. Isabella avrebbe ancora salutato dal finestrino, ma i posti assegnati
alla sua famiglia si affacciavano sull'altro lato del binario e il treno si stava muovendo. Allora
tornò subito in corridoio e fece in tempo a scorgere per un attimo i bei capelli biondi di Fedja, i
suoi occhi azzurri azzurri che l'avevano scorta e il suo braccio che salutava, che matti questi
russi!, proprio agitando un gran fazzoletto.
Fedja rimase fermo lì, così, finché il treno non se ne fu andato e poi per qualche
minuto ancora. Sembrava una favola. Dove andava quel treno? A Parigi. Perché anche loro a
Parigi? Quante coincidenze straordinarie! Ma Isabella lo aveva aspettato e lo amava ancora,
questo si era capito, e tanto bastava. Il resto gliel'avrebbe riferito Bianca all'arrivo a casa. Già,
quella dei Portolenghi era proprio una casa. Eppure non voleva andarci subito, era troppo
emozionato dopo l'incontro con Isabella. Visto che tanto (sapremo presto il perché) non
aveva bagaglio, pensò di andare a casa a piedi e ci andò piano piano, godendosi la vista della
Milano invernale che tanto amava, ripassando con lo sguardo angoli noti e scorgendone di
nuovi, perché lui non era proprio milanese e la città lo stupiva ancora.
Intanto Isabella era seduta al suo posto mentre davanti al finestrino sfilava
solennemente la bella campagna di Lombardia, che in quel mezzogiorno era riscaldata da un
sole pallido pallido appena bastante a tener lontana la brina. Ma il solleone lei ce l'aveva nel
cuore. Non sapeva di essere ancora capace di tanta gioia dopo tutti quei mesi di sofferenza.
Che fantastico incontro! Con che occhi l'avevano guardata tutti quando si erano baciati! Ma
neanche se fosse accorso tutto il personale della stazione sarebbero riusciti a frenare la loro
passione. Allora era vivo, era a Milano e l'amava! Aveva parlato confusamente di disastri,
rivoluzione, traversie di viaggio, ma ormai il più era passato, era in salvo. Oh, come non vedeva
l'ora di ritornare a Milano!
I suoi genitori la rimproverarono appena appena per la scena romantica alla stazione.
Tanto ormai c'era stata e c'era poco da recriminare. Piuttosto, i Valleolona non nascondevano il
loro disappunto per il ritorno di Fedro a Milano. Ora ricominciava la lotta interrottasi con
l'estate e, lo vedevano dalla sfrontatezza con cui Isabella si era gettata nelle braccia del
giovanotto, sarebbe stata una lotta accanita che solo la vittoria di una delle due parti avrebbe
interrotto. Ciascuno era sicuro di vincere, ma l'argomento non venne neanche toccato nella
conversazione. Mentre il treno procedeva a suo modo spedito verso il confine di Francia, si
discusse su dove passare la prima giornata a Parigi. Al Louvre, fu la decisione finale.
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Capitolo quarantaduesimo
Quando Fedja suonò il campanello del portone di casa Portolenghi era emozionato. Si
chiese chi gli avrebbe aperto, ora che il maggiordomo non era più lui. Ad aprirgli venne Bianca
in persona, perché era in vacanza e si trovava vicino all'ingresso quando il campanello suonò.
Quale non fu il suo stupore quando se lo vide davanti, dopo che quasi stavano rinunciando
ad aspettarlo. Gli chiese subito se dovesse chiamare qualcuno per il bagaglio, ma Fedja disse che
non ce n'era bisogno: non aveva bagaglio.
"Dio mio, Fedro, caro! Vorrei farti raccontare tutto subito, ma tu ti vorrai rinfrescare,
riposare. Come sono consolata nel vederti qui!" E lo abbracciò, perché Bianca gli voleva
proprio bene. Davvero Fedja era affaticato dal viaggio e dalle emozioni, ma voleva anche parlare
subito e nell'incertezza rimase fermo così, appena oltre la soglia, guardandosi attorno senza
rispondere.
"Dai, Fedro, la tua camera è sempre la stessa. Vatti a rinfrescare e io faccio preparare un
bel tè e chiamo anche la mamma."
Fedja si riscosse, salì le scale che conosceva così bene e si commosse nel ritrovare la
sua stanza così come l'aveva lasciata. Cercò subito la scatola dove riponeva i messaggi di
Isabella e anche quella era al suo posto. Baciò la scatola e, rincuorato, si affrettò a prepararsi. Si
lavò alla meglio, si cambiò d'abito e, ben pettinato, con la camicia più bella e una tenerezza
infinita per questa famiglia che gli voleva così bene andò a cercare dove venisse servito il tè.
Era nel salottino e ad aspettarlo c'erano tutti quelli presenti nella casa in quel momento: la
signora Antonietta, Bianca, Alessandro, la cameriera e la cuoca. Gli fecero una gran festa, tutti
gli davano un bacino di benvenuto, poi Alessandro dovette uscire e i servitori rispettosamente
lo lasciarono a bere il tè con calma con le padrone.
Fedja raccontava e le due donne avrebbero voluto lasciarlo parlare, ma non facevano
altro che interromperlo per sapere subito questo o quello. Lui, per rispondere, doveva cambiare
argomento e perdeva il filo. Visto che il filo era perso, anche lui chiedeva qualcosa e quelle un po'
gli rispondevano, un po' lo pregavano di continuare. Insomma, ci volle del bello e del buono
e tante tazze di tè bollente perché la sete di notizie si placasse e ciascuno cominciasse a capire
qualcosa del destino degli altri.
Ecco la storia di Fedja come la raccontò la signora Antonietta al marito appena lui ebbe
messo piede in casa.
"Non indovineresti mai chi è stato qui oggi. Anzi, è ancora qui. Non indovini, eh?
Fedro, il nostro Fedro. Lo dovresti vedere! Adesso è tutto a posto, ma quante ne ha passate,
poverino! Oh, povera Russia, che il cielo la protegga! E' anche dimagrito, con tutto quel
viaggiare. Sta' a sentire. E' arrivato in Russia all'inizio dell'estate. I suoi genitori, la sorella, i
fratelli: tutto era al suo posto come quando li aveva lasciati. L'hanno accolto molto bene,
non erano affatto incolleriti per il fatto che si era stabilito in Italia. Lui ha raccontato di Isabella
e i genitori hanno scritto una lettera ai signori Valleolona. E pensa loro che maleducati.
Continuano a rifiutare la passione di Isabella e non hanno neanche risposto. Chissà con chi
sperano di farla sposare! Fedro lo sa perché è Isabella che glielo ha scritto. Ma lui naturalmente
non ha cambiato idea, figuriamoci. Una ragazza così bella e alla loro età... Ti ricordi quando
eravamo così noi?" Il signor Arturo si ricordava, ma era anche curioso di sapere il seguito. Diede
un bacetto veloce alla moglie e la pregò di continuare.
"Dunque, - proseguì lei - sai tutti quegli orrori che abbiamo letto sulla Russia in questi
mesi? Bene, è tutto vero. Dice Fedro che è difficile persino da raccontare. La rivoluzione di
luglio da loro in campagna non si è sentita, ma quella di novembre... che poi in russo dicono
ottobre, fanno tutto alla rovescia loro... Quelle non sono più sommosse, caro mio. La zona
dove vive la famiglia di Fedro è in mano all'Armata Rossa, ma i fedeli dello zar lottano anche
loro, da partigiani... In altre regioni è al contrario. Dice Fedro che ogni giorno c'è una novità, la
gente è terrorizzata. E meno male che lì è campagna, almeno il cibo c'è, perché i commerci non
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funzionano più e le città non si sa come sopravvivranno all'inverno. Insomma, i conti Koshkin
per non avere grane con il nuovo governo hanno ceduto metà delle loro terre ai fittavoli, ma
hanno paura lo stesso, lì si fa in fretta a fare giustizia di questi tempi. E pensare che devono
essere proprio brava gente, ma sai, una folla inferocita non sta lì tanto a distinguere.
Comunque, lui ha visto l'inizio della rivoluzione, ma già aveva deciso di partire per l'Italia.
Aveva anche il biglietto, quello che doveva farlo arrivare all'inizio di dicembre qua. E infatti dal
suo villaggio è partito il giorno fissato, ma figurati... Dice che son cose inimmaginabili. Il paese
non ha più nessuna organizzazione e ciascuno cerca di arrangiarsi da sé. Assaltano i treni, avere
un biglietto non serve a nulla, si fanno largo a gomitate. Sono tutti così inselvatichiti che anche
il denaro non aiuta. Comunque in qualche maniera è arrivato a Mosca. Ma qui viene il bello. Per
cominciare gli hanno chiesto dei documenti speciali per l'espatrio, il passaporto di prima non
bastava più, e quindi ha perso dei giorni lì a Mosca a procurarseli. Poi non tutti i giorni c'era il
treno e in uno dei molti tentativi di partire gli hanno anche portato via tutto il bagaglio.
Malandrini di strada, sai com'è, che approfittano della situazione. Chissà cosa credevano di
trovare. E invece era solo biancheria e regalini per noi. Un bel giorno finalmente è riuscito a
lasciare il bailamme di Mosca e piano piano, con mille disagi, senza bagaglio e quasi senza
danaro, di treno in treno, è arrivato fin qui. E sai chi ha visto alla stazione appena arrivato?
Guarda certe volte com'è il destino. Proprio la sua Isabella, tu pensa. Io lo sapevo da Bianca,
partivano giusto oggi per Parigi."
Il signor Emanuele andò a bussare alla camera di Fedja per salutarlo, promettendogli da
subito, prima che si aprisse la porta, che sapeva già tutto e non l'avrebbe fatto troppo parlare: lo
voleva solo riabbracciare.
Capitolo quarantatreesimo
Isabella non voleva che il ritorno di Fedja le rovinasse la vacanza a Parigi e così non fu.
Pur se ogni sera contava sul suo calendarietto quanti giorni mancassero al ritorno, ogni mattina
si alzava allegra per la doppia felicità che l'aspettava: quella di visitare Parigi e la gioia profonda
di sapere che era amata, era "la donna più amata di tutte le Russie", come le aveva bisbigliato
Fedro nell'accompagnarla al vagone in quel fugace, magico incontro.
Siccome dell'amore di Isabella non si parlava, la vacanza a Parigi fu un bel momento di
confidenza e di gioia anche per tutta la famiglia. Il signor Arturo era felice come un bambino e
ordinava sempre un cafè creme et un croissant ogni volta che per riposarsi o scaldarsi si sedevano
in un locale. La Francia, come l'Italia, era una nazione in guerra, ma Parigi è sempre Parigi e
riusciva ad essere allegra a dispetto di tutte le tragedie del mondo.
Il giorno dell'Epifania il treno da Parigi riportò a Milano tutta la famiglia Valleolona.
Isabella pensò: "Per la prima volta ho voglia di tornare a scuola dopo le vacanze. Infatti domani
o vedrò Fedro, o avrò sue notizie da Bianca. Qualcosa di bello sicuramente succederà."
E fu proprio così. Bianca arrivò a scuola da sola, ma appena la vide disse a Isabella che
Fedro l'aveva pregata di riferire che si sarebbe fatto trovare quel giorno all'uscita. Isabella voleva
porre mille domande, ma era ora di iniziare le lezioni. Dovettero correre in classe.
All'intervallo però sì che volle sapere tutto il possibile dalla povera Bianca. Stava a sentire
anche Carlotta, che nelle vicende sentimentali della sorella aveva assunto la posizione della
Svizzera nella Grande Guerra: la più imparziale neutralità. Carlotta non riusciva a dar torto
ai genitori nell'opporsi a quell'amore troppo avventuroso, ma non poteva neanche non
simpatizzare con Isabella. Infatti in classe aveva già interrogato Bianca su tutto ed era stata
contenta anche lei di sapere che Fedro era riuscito a sopravvivere a tutte le traversie e a tornare
a Milano dalla sua bella.
Dopo l'intervallo Isabella non sapeva più cosa inventare per sopportare l'attesa. Tentò di
seguire una lettura in latino, ma non riuscì. Sentiva le singole parole, ma non riusciva a capire
cosa significassero. Ancora ancora poteva non capire il latino, ma anche con la lezione
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successiva, di storia, non andò meglio. Era come se fosse istupidita. Con la matita prese a
scrivere parole in cirillico sul margine del quaderno di appunti, alzando ogni tanto gli occhi
sulla professoressa di storia per fingere di seguire la spiegazione. Quando il campanile della chiesa
più vicina battè l'una si sentì meglio, ma al suono dell'ultima campanella sentì dentro una corrente
elettrica che quasi la paralizzava, come quando tirava troppo le corde del suo violino. Dio mio,
e ora cosa doveva fare?
All'uscita di scuola c'erano tutti: Luigi in attesa con la sua carrozza, Bianca e Carlotta,
arrivate nell'atrio proprio davanti a Isabella, e lì fuori, all'angolo dei gradini, "l'uomo più dolce
del panettone" (così l'aveva chiamato lei, golosa di panettone, in una lettera), Fedja. Isabella
lo abbracciò, pur sapendo che potevano vederla le compagne e magari qualche professoressa
invidiosa. Ma lei non ci pensava neppure e, aprendo tutti i tratti del viso in un sorriso, chiese:
"E ora che si fa?"
"Tesoro, ho pensato così: manda a dire a casa da Carlotta che hai un impegno e vieni a
fare una passeggiata con me."
Così fecero. Isabella sapeva quanto la mamma e il papà si sarebbero arrabbiati, ma se
avesse aspettato che le servissero Fedja su un vassoio d'argento sarebbe rimasta zitella per
sempre. Inoltre, la preoccupazione per la reazione dei genitori venne poi. In quel momento
pensava solo che aveva accanto il suo innamorato e che finalmente ci si poteva parlare con agio.
Si diressero a piedi verso i giardini di Porta Venezia. Mentre camminavano, quando
Isabella si fu saziata del calore della mano di Fedja stretta nella sua si rese conto di avere
una gran fame, dopo tutta quell'attesa. Entrarono in una pasticceria e Isabella prese ben tre
paste, ma così, al banco. Non voleva stare al chiuso in una giornata tanto bella. Dovevano
muoversi e dirsi tutto sotto quel cielo limpido simile a quello del giorno in cui si erano amati nel
fienile.
Anche nel parco era difficile parlare perché ogni minuto si interrompevano per
baciarsi, ma ugualmente riuscirono a concordare un piano. L'indomani Fedja avrebbe chiesto
formalmente la mano di Isabella ai suoi genitori.
"Ma ti ricordavi di me quando eri in Russia?"
"No, mai."
"Davvero mai?”
"Sì, neanche una volta. Isabella, che domande! Credevo di impazzire all'idea di tornare
trovandoti sposata con un altro."
"Sì, figurati, senza neanche aver finito la scuola. Proprio i miei genitori."
"Beh, con Guglielmo però ci avevano provato."
"E tu pensi che io sposerei qualcuno che non sia il più bello del mondo come te?"
Qui ci fu un altro bacio, col quale concludiamo anche questo lungo capitolo.
Capitolo quarantaquattresimo
L'ora concordata per l'arrivo di Fedja era le sette della sera, prima della cena, quando
Isabella sapeva che il padre e la madre sarebbero stati in casa di sicuro. Naturalmente lei non li
avvertì, perché voleva giocare di sorpresa, e nemmeno si tradì nel corso del pomeriggio. Fece
tranquilla i suoi compiti, si esercitò un po' al violino e poi verso le sei si sedette nel salotto,
dove la mamma ricamava una tovaglia. Il papà arrivò poco dopo, chiese ragguagli alla moglie sui
fatti del giorno e si mise a leggere un giornale finanziario. Ne capiva la metà o forse meno, ne
traeva scarse indicazioni per la conduzione della sua azienda, che tanto era piccola e andava
avanti un po' da sola, senza che la toccassero i grandi movimenti della finanza, ma lui
ugualmente aveva cura di sfogliare, se non leggere, tutte le pagine del giornale. Via, era un
industriale anche lui e doveva tenersi un po' al corrente, anche se avrebbe preferito attendere
l'ora di cena leggendo un libro di viaggi o giocando a carte con Luigi.
Si sentì suonare il campanello.
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"Chi sarà?" chiese Marina.
"Io non aspetto nessuno," replicò Arturo.
Un attimo dopo entrò Rosina annunciando "il conte Koshkin, per lorsignori".
I Valleolona si scambiarono un'occhiata allarmata, ma cosa si poteva rispondere?
"Fallo accomodare qui, Rosina, e voi ragazze andate di là, vi chiameremo noi."
Isabella, senza dire una parola, uscì in anticamera insieme a Carlotta, ma le ragazze prima
di ritirarsi in angoli più remoti si fermarono lì così da veder passare il giovane spasimante che,
scortato da Rosina, faceva il suo ingresso nel salotto. Si salutarono con gli occhi, ma subito la
porta si chiuse. Rosina tornò in cucina senza guardare le fanciulle. Capiva anche lei che
l'atmosfera era tesa. Isabella e Carlotta, senza confessarselo, erano tentate di restare lì ad
origliare, ma né l'una né l'altra osò proporlo. Era una cosa da bambine, troppo rischiosa e
imbarazzante. Pensarono di seguire Rosina in cucina, per non stare sole. Misero due seggiole
vicino alla stufa, ma non così vicino da intralciare la preparazione della cena, e cominciarono a
confabulare.
"Carlotta, credo che saprai cosa sia venuto a fare Fedja qua."
"Sì, a invitare mamma e papà per una merenda nella sua villa in Russia."
"Sorellina, ho tanta paura! Non so immaginare cosa farò se la mamma e il papà diranno di
no."
"Beh, lo stesso che hai fatto l'anno scorso. Tornerai cospiratrice."
"Ma capisci che lo amo? Che è tutta la mia vita! Dio, fa che vada tutto bene. E tu non lo
vorresti sposare il tuo Raffaele?"
"Sì, perché no? Ma io sono piccola, a queste cose non penso ancora. Non sono
romantica come te."
"Senti, Carlotta, cosa dici di quel gilet? Non sarà troppo sgargiante?"
"Quale gilet?”
"Non hai visto? Fedro si è messo un gilet a righe che non gli ho mai visto. Deve
esserselo fatto prestare da Alessandro. Se il papà lo trova volgare questo rovinerà tutto."
"Sì, un matrimonio rovinato per un gilet! Questa poi non l'ho mai sentita."
"Ma loro non lo conoscono, capisci? Giudicano solo da quello che vedono."
"Questo poi non è vero perché anzi ho sentito la mamma raccontare a una sua amica un
sacco di cose su Fedro."
"Davvero?"
"Ma certo. A te hanno vietato di vederlo, ma loro hanno raccolto informazioni, cosa
credi?"
"E allora, cosa pensi che diranno?"
"Non so proprio, Isabella. Tanto ormai tra pochi minuti sapremo."
In cucina risuonò il campanello dei padroni, che richiamava Rosina in salotto. Lei ci
andò, rossa in viso, e tornò subito dopo: "Isa, Carlotta, andate, la mamma e il papà vi
aspettano."
Le sorelle entrarono nel salotto con timidezza, senza sapere bene se sedersi. Il signor
Arturo Valleolona fece loro cenno di accomodarsi, indugiò con lo sguardo sul bel volto di
Isabella, che stette attenta a restituire lo sguardo senza voltarsi verso Fedja, e così esordì:
"Isabella, ho avuto oggi il piacere di conoscere questo giovanotto, che a te è già ben
noto."
"Il papà parla in modo pomposo, la cosa butta male," pensò Isabella.
"Isabella è sulle spine ma io devo fare la mia parte," pensò il signor Arturo e proseguì.
"Pochi minuti fa io e la mamma abbiamo avuto l'onore di ricevere dal conte Koshkin
una richiesta che ti riguarda. Egli chiede la tua mano."
Carlotta abbassò gli occhi, perché per la troppa emozione le veniva da ridere.
"Ora, figliola, ti domando: accetteresti di diventare sua sposa?"
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Isabella non sapeva cosa pensare. Rispose timidamente: "Sì," sempre senza voltarsi
verso Fedro.
"Isabella, accetteresti di diventare sua sposa, nella buona e nella cattiva sorte, uscendo
da questa casa senza un soldo di dote? Questa è l'unica condizione che poniamo alla vostra
felicità. Amerai il conte Koshkin anche quando non avrai la biancheria di seta del papà, la
carrozza di Luigi, la biblioteca del nonno? Quando dovrai forse lavorare tu stessa per avere di
che vivere? Rispondi."
Isabella era sconcertata. Ancora una volta, con una vocina sottile, rispose: "Sì."
"Bene, - soggiunse allora, con un altro tono, il signor Valleolona. - Allora facciamo
portare una bottiglia per brindare e da domani il signor Fedro potrà visitarti a casa come si
conviene tra fidanzati. A giugno, appena finita la scuola, celebrerete le nozze. Rosina!"
Rosina non era andata lontano. Si affacciò subito alla porta e, udito l'ordine, si sentì
felice anche lei. Portò su dalla cantina un bel lambrusco, preparò su un vassoio cinque bicchieri
di vetro decorati ad arabesco, i più belli, e servì l'aperitivo direttamente in salotto.
Ci furono sorrisi, battute allegre, abbozzi di conversazione. Poi, dopo il brindisi, Fedro
ingenuamente osservò:
"Forse dovrei andare."
"Sì, - disse sinceramente il signor Arturo - per noi è ora di cena."
Fedja si congedò. Isabella lo accompagnò alla porta e sulla soglia gli diede un bacio con
le labbra dolci di lambrusco.
Capitolo quarantacinquesimo
La festa di nozze fu in una data insolita, il primo di agosto, quando tutti i milanesi
sono in villeggiatura, e in un luogo insolito, la piccola chiesa di Santa Caterina nel paese della
campagna novarese dove i Valleolona avevano dimora estiva. Anche il ricevimento fu insolito:
oltre alla famiglia Valleolona, gli unici parenti erano la nonna paterna e il padre della signora
Marina, più le zie Fosca e Olga, che non si poteva trascurare di invitare perché si sarebbero
offese. Alle zie non pareva vero di essere quasi le uniche del parentado ad essere presenti alle
nozze, quindi le uniche in grado di spettegolare per tutta l'estate su come si erano svolte.
Anche da parte di Fedja era saltata fuori una parente, la sua zia Anastasija, che era
giusto emigrata dalla Russia in quella primavera post-rivoluzionaria, quando ancora era facile
farlo, stabilendosi a Parigi, dove la colonia dei nobili russi cresceva di giorno in giorno man
mano che la situazione politica in Russia andava inasprendosi.
La zia Anastasija era anticonformista come il nipote: giunse alle nozze con indosso un
antiquato vestito di seta pesante, al braccio un ombrellino parasole dello stesso tessuto e in tasca
un anellino di oro e zaffiro che era stato della nonna Koshkin, "perché le ragazze giovani devono
avere bei gioielli senza aspettare che muoiano i vecchi", come spiegò a Isabella nel fargliene
dono.
Luigi, tutto vestito a nuovo, ebbe l'onore di accompagnare Isabella e la sua famiglia in
carrozza fino alla soglia della chiesa. Anche se la casa era vicina alla chiesa, non si poteva andare
a piedi per non sciupare l'abito e affinché pochi potessero vedere la sposa prima dello sposo,
che l'attendeva davanti all'altare. Gli invitati erano pochi, ma la chiesa di Santa Caterina era
piena perché i paesani conoscevano i Valleolona da sempre e nessuno voleva mancare alle nozze.
Isabella era in bianco, con un abito di taglio semplice semplice, ma cucito con la seta
più bella delle seterie Valleolona, un broccato a piccoli motivi di foglie. In capo aveva la
tradizionale coroncina di fiori d'arancio a fermarle i capelli. Il velo era ampio e morbido, così
sottile che si agitava a ogni mossa del corpo di Isabella, quel giorno più grazioso che mai. Fedro,
"il giovane conte Koshkin" (così lo definivano i Valleolona parlando di lui ad altri) era al
colmo della felicità. Si era alzato presto quella mattina per arrivare lì da Milano, eppure non
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sentiva né sonno né fatica. Lo accompagnava, avevamo dimenticato di citarli, tutta la famiglia
Portolenghi, che aveva rimandato la partenza per le vacanze pur di assistere alle nozze.
Dopo la cerimonia e dopo che la sposa ebbe baciato tutti, ma proprio tutti quelli che
vollero esser baciati (perché un bacio di sposa porta sempre fortuna) si fece festa al fresco del
cortile di casa Valleolona.
"Non so cosa avremmo fatto in caso di pioggia - confidò Marina a un'amica nel
raccontarle della festa - perché tutta l'organizzazione era basata sul bel tempo. Rosina ha fatto
i suoi soliti miracoli, gli arrosti in particolare erano un bijou. Non ti sto a dire della torta, ma
quella l'avevamo fatta preparare a Milano da un pasticciere. Un incanto."
E così, vedete, i Valleolona avevano digerito il matrimonio di Isabella e ne parlavano
addirittura con fierezza. Il genero aveva forse una situazione economica inferiore alla loro, ma
"non capita tutti i giorni di veder diventare una figlia contessa", come diceva Marina alle sue
amiche per far accettare anche a loro il matrimonio.
Gli sposi avevano scelto Nizza come meta del loro viaggio di nozze e non c'è neanche
bisogno di dire che si fermarono all'Hotel Beau Rivage, dove era iniziata la vita milanese di
Fedja. E' altrettanto superfluo dire che fu la vacanza più bella, più spensierata, più matta della
loro vita, più bella ancora delle feste natalizie che tanto avevano segnato il loro destino.
La zia Anastasija, salutando Fedja dopo la festa di nozze, gli mise in mano una busta,
raccomandandogli di aspettare l'indomani per aprirla. Ma la busta e il suo contenuto
appartengono già alla seconda parte di questa storia.
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Carla Muschio
Isabella. Romanzo popolare
Immagine di copertina: Carla Muschio, Paesaggio velato
Edizioni Lubok
data di pubblicazione: 1 gennaio 2008
www.carlamuschio.com
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