Gli si gettò al collo
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Gli si gettò al collo
sotto il tiglio 4. Marko Ivan Rupnik “Gli si gettò al collo” Lectio divina sulla parabola del padre misericordioso “È il tempo quando fiorisce il tiglio” Lipa Indice © 1997 Lipa Srl, Roma prima edizione: marzo 1997 decima ristampa: gennaio 2012 Lipa Edizioni via Paolina, 25 00184 Roma & 06 4747770 fax 06 485876 e-mail: [email protected] http://www.lipaonline.org In copertina: particolare di un dipinto di Marko Ivan Rupnik Stampato a Roma nel gennaio 2012 da Abilgraph via Ottoboni, 11 Selezioni di copertina: Studio Lodoli Sud, Aprilia Proprietà letteraria riservata Printed in Italy codice ISBN 88-86517-24-6 Il contesto ........................................................................... Due specie di peccatori ......................................................... Vicini e lontani .................................................................... Invidia, mormorazione e peccato............................................ Un uomo aveva due figli ....................................................... Prendere le cose e perdersi .................................................... Spingere il creato nella menzogna........................................... Dal sentirsi schiavo al diventarlo............................................ Il paradigma padrone-schiavo................................................. Da Adamo alla pasqua........................................................... Leggersi in questa parabola.................................................... Seguendo la propria volontà................................................... Dall’umiliazione all’umiltà..................................................... Il vuoto del possedere............................................................ Rientrando in sé di fronte al Padre......................................... L’illusione di rientrare in sé ................................................... L’ultima tentazione ............................................................... Il principio religioso.............................................................. Il figlio prodigo oggi.............................................................. Incontrare il padre................................................................ Lasciarsi toccare dall’amore................................................... Gli si gettò al collo................................................................ Confessare il Padre misericordioso......................................... Rivestito da figlio.................................................................. La gioia di Dio e dei figli........................................................ La spiritualità della festa........................................................ Il momento di essere liberi nella fede...................................... Il dramma della testardaggine................................................. Non figlio perché non libero.................................................. Tutto ciò che è del Padre è nostro .......................................... Il nostro Dio è la libera adesione delle Persone........................ 9 10 12 14 17 19 22 26 27 28 30 33 36 37 38 40 43 46 47 49 51 53 56 58 60 62 64 66 73 75 78 3 Presentazione La gente della mia generazione — ho cinquantanni — rispetto alle generazioni precedenti è cresciuta molto più sensibile alla Bibbia: il Concilio Vaticano II, come si sa, ha rimesso in mano al popolo di Dio la Parola, coronando così gli sforzi decennali del movimento biblico all’interno del mondo cattolico. Senonché siamo rimasti invischiati nel “mare dei giunchi” (cf Es 13,18), compiendo un esodo a metà: i giunchi in questione si chiamano Formgeschichte, Redaktionsgeschichte e quant’altro ha occupato buona parte dello sforzo esegetico, soprattutto della scuola tedesca, da un secolo a questa parte. Pur con tutti i meriti e gli interessanti risultati acquisiti da questi metodi di indagine, il risultato finale era quello di trovarsi in un aridissimo deserto nel quale veniva voglia di porsi la domanda dei nostri padri: “Ma Dio è in mezzo a noi sì o no?” (cf Es 17,7). Ricordo ancora che dovendo preparare una settimana biblica proprio sul libro dell’Esodo, mi lanciai appassionatamente nella lettura del commento sul medesimo di Martin Noth, illustre esegeta di fama mondiale, ma che consegnava al lettore un testo biblico completamente vivisezionato e quasi inutile per una vita cristiana che si volesse nutrire della Parola di Dio. Stessa sensazione di dover ricavare acqua dalla roccia — ma senza essere muniti del bastone di Mosè — si ricava da molti commentari del Nuovo Testamento per i quali tutto il problema si riduceva a sapere se il tal mezzo versetto apparteneva agli Ipsissima verba Domini o no. Aldilà dell’ironia, intendo dire che la lectio divina, in 5 “ gli si gettò al collo” anni ancora recenti, finiva per essere un esercizio accademico deludente per il povero cristo che cercasse il volto di Cristo per orientare a Lui la propria vita. Così molti gruppi biblici sono finiti e ci sono stati quelli che hanno pensato fosse meglio tornare ai vecchi catechismi, un po’ astratti e freddini, ma almeno che si occupavano di cose concrete! C’è stato invece chi non ha mollato la presa — o meglio ha continuato a lasciarsi afferrare dalla Parola (cf Fil 3,12) — e ha cercato di leggere e comprendere il Verbum Domini restando aderente al testo, ma meditandolo saporosamente nella preghiera, coniugandolo con la grande tradizione dei Padri e teologica, e infine con le sfide che gli venivano dal rapporto quotidiano con il mondo contemporaneo, soprattutto con le istanze dei giovani. Il commento di Marko Rupnik a Luca 15,11-32 si pone a mio parere esattamente su questa linea e uno esce dalla lettura di questo volumetto arricchito da una infinità di spunti per la preghiera, di indicazioni per porsi in modo critico ma cordiale verso le grandi correnti culturali degli ultimi secoli, e soprattutto, con precise indicazioni per un itinerario spirituale personale e collettivo. Lectio divina ovvero lettura di una parola da cui esce pian piano il volto misterioso di un Dio incomprensibile al puro ragionare umano, ma finalmente affascinante! Sì, dobbiamo dirlo: il volto di questo Padre, quale esce dal commento puntuale ma di ampio respiro di Marko, è capace di essere “lampada ai nostri passi” (Sal 119 [118], 105) incerti, ribelli, impregnati di perbenismo, religioso o laico che sia. Un Padre così è interessante per tutti, credenti e non credenti, perché tutti siamo ignoranti del suo mistero d’amore. Alla luce delle riflessioni di Marko — dense di teologia 6 M.i. RUPNiK che da discorso su Dio fa venire voglia di discorrere con Dio — molte altre realtà si colorano e diventano vivaci e dense come i suoi quadri: l’uomo, chiamato ad essere figlio; il creato, da personalizzare attraverso una custodia che vinca la tentazione del possesso avido e cosificante; la pratica religiosa, che può diventare la tomba del rapporto con il Dio vivente, anziché il luogo d’incontro vivificante e festoso; la fraternità, che da lusso riservato ai buoni, si comprende essere il pane di cui ciascuno ha bisogno per vivere; il peccato, che da tabù da seppellire diviene l’occasione per scendere nel cuore di un Dio che non si vergogna di gettarsi al collo dell’uomo peccatore. Allora i drammi, le sfide e gli slogan di cui ci inondano giornali e telegiornali, possono trovare dei criteri ermeneutici per essere vagliate: in un’Europa polarizzata dall’idolo della moneta comune, bisognerà ricordare che “l’unione economica di regola finisce nella discriminazione ed è estremamente fragile” e che “le sostanze per rimanere tali hanno un solo percorso, che è quello dell’amore”. Ai giovani di oggi, tentati di ripiegarsi su se stessi in una chiusura mascherata dalle tante esperienze e viaggi, andrà ricordato che solo nella relazione Figlio-Padre, con tutta la fatica che comporta, si può ritrovare la propria identità. Di fronte all’“ateismo religioso” e alle nuove domande di religione che aprono la strada ad una infinità di sètte, occorre riconoscere che “la vera salvezza è lasciarsi salvare senza meritare la salvezza” e che “solo chi si scopre amato è in grado di comprendere il suo peccato”. Allora finalmente sarà festa, anche per questo mondo consumistico occidentale, benestante e annoiato, il cui disagio più profondo e inquietante è l’incapacità di fare 7 “ gli si gettò al collo” M.i. RUPNiK festa nella gratuità e di gioire dei doni del creato: siamo stati derubati della festa e spesso proprio dagli uomini religiosi, “intestarditi su cose sacrosante, rendendole così strumento per affermare la propria volontà”. Ancora una volta ho apprezzato la capacità di Marko di muoversi con agilità tra le parole chiave di questa parabola eterna del Padre e del Figlio con l’universo simbolico, evocativo, che nascondono, senza per questo scadere nella lettura allegorica, in cui si può dire quel che si vuole e il testo è solo un pretesto per dire le cose personali. Ancora una volta sono stato affascinato da una teologia dove la “relazione tra persone” è il cardine, la pietra angolare su cui tutto si costruisce: la comunione delle persone divine tra loro e con le persone umane, senza facili amori fusionali, nella disponibilità a uscire sul serio da se stessi per accogliere l’altro, disposti a perdere la vita, è l’unica vera “estasi” a cui tutti sono chiamati, l’unica via per mettere in salvo la storia del mondo. p. Paolo Bizzeti sj 8 il coNtesto Spesso accade che, guardandosi nel cuore e pensando a Dio, si provi un disagio difficilmente definibile, come se Dio non fosse contento delle nostre scelte, della nostra vita. Come se si avvertisse una sorta di paura ad apparire davanti a Lui, ad aprirgli i nostri scrigni nascosti, così intimi, personali, dove magari sentiamo anche un certo compiacimento per ciò che viviamo, che pensiamo e che scegliamo nella vita. Sì, alle volte questo disagio ci convince a fermare il nostro pensiero, ad abbassare lo sguardo, a non andare più avanti, a non interrogarci di più, a non alzare i sipari. Nell’uomo vive la strana convinzione che è un bene essere soli senza credere in Dio, senza farsi tante domande, e che in fin dei conti, anche dando uno sguardo agli altri, non ci si sente poi così fuori posto, così diversi. La questione fondamentale evidentemente rimane sempre quella dell’immagine di Dio. Quando l’uomo si lascia sorprendere da Dio, in maniera che Dio gli possa rivelare la sua vera immagine, allora e solo allora questo sguardo nel cuore cambia. Quando noi comprenderemo che Dio è la misericordia, l’amore, che Dio è come le viscere materne che fremono per noi, la vita sarà una festa. E guardare nel proprio cuore sarà sempre guardare nella libertà, quella libertà che si sente quando si è a proprio agio, quando si respira l’aria pulita, fresca, come in certe stagioni dell’anno, quando anche il corpo si muove con leggerezza. Per sostare un po’ davanti alla misericordia e alla bontà del Dio Padre del nostro Signore Gesù Cristo, 9 “ gli si gettò al collo” prendiamo una parabola che Gesù ha raccontato e che è passata poi come uno dei gioielli della sua narrativa. Si tratta della parabola del Figlio prodigo, ossia dell’Amore misericordioso del Padre, che si trova nel capitolo 15 di Luca. Già il vangelo di Luca come tale è stato chiamato dalla tradizione il “vangelo della misericordia”, ma questo capitolo è il cuore del racconto della misericordia. Il contesto è dunque quello della conoscenza della vera immagine di Dio. Il peccato ha oscurato l’immagine di Dio nell’uomo. L’uomo accoglie l’immagine di un Dio geloso di sé e delle sue cose, di un Dio non donatore, suo supremo rivale. Anzi, Dio è per lui l’impedimento alla propria realizzazione. L’uomo si trova così lontano da Dio, in una sorta di fuga davanti a Lui, isolato e rivolto a se stesso, convinto di dover fare da solo. Affidarsi a Dio gli appare come debolezza, come un anomalo istinto di contraddizione, giacché Dio non è benevolo verso di lui. Credere sarebbe un prolungare, un sostare in un infantile bisogno della madre, un non voler crescere, maturare. Un aver bisogno di essere apprezzati, appagati, premiati... DUe sPecie Di PeccatoRi Ci sono fondamentalmente due gruppi di peccatori: quelli come comunemente li si intende, le persone che rubano, che fanno del male, che confidano nelle ricchezze, le persone abbandonate alle passioni della propria carne, che si arrabbiano, che bevono, che si picchiano, che uccidono... Sono coloro che troviamo all’inizio del 10 M.i. RUPNiK capitolo radunate intorno a Cristo, che si stringono a Lui per ascoltarlo, magari per toccarlo, o anche sfiorare solo il lembo del suo mantello. Questi conoscono la notte del male, la solitudine e la profonda umiliazione che il peccato provoca nell’uomo. I peccatori di questo genere arrivano spesso ad essere esausti del proprio peccato, a non sopportare più neanche se stessi. Se un peccato può essere attraente, stare nel peccato è soffocante. Si pecca perché si vuole ottenere, dimostrare, sentire qualcosa. Ma ogni volta, dopo il peccato, il cuore è più stretto. Si riprova a peccare sperando, come Eva, di cogliere prima o poi il frutto che ci renderà simili a Dio. Si spera che quel frutto ci aprirà gli occhi per vedere come vede Dio, per essere come Lui. Ma ogni volta si rimane delusi; il frutto non è quello giusto, è un veleno che ci lascia un gusto amaro. Si comprende così perché ci sono proprio queste persone intorno a Cristo. Chi sperimenta la notte del peccato attende l’aurora come l’acqua lo smarrito nel deserto. E Cristo fu chiamato “amico dei peccatori” (cf Mt 11,19; Lc 7,34-35). Lui irrompeva nella loro solitudine, spaccava le loro lunghe notti, mangiava con loro e diceva di essere venuto proprio per loro, per i malati, non per i sani. C’è un altro gruppo di peccatori, quelli convinti di non essere tali, che si credono giusti, che non provano un bisogno vitale nel cuore di convertirsi. Sono le persone che si sentono a posto, che si sono impadronite anche di Dio, che lo hanno ridotto ad una sorta di legge, ad un rituale, un’abitudine. Stando alla regola, vivendo secondo il cliché prestabilito, si credono giustificate e si considerano autorizzate a giudicare tutti se11 “ gli si gettò al collo” condo la loro presunta perfezione. Sono le persone che pensano di essere buone, di essere in comunione con tutti, anche con Dio, ma che in realtà sono assolutamente sole, chiuse nella loro mentalità e nella loro psiche narcisista. Queste persone pensano di governare Dio con la loro bravura. In realtà hanno adeguato la legge al loro vizio, al compiacimento della propria volontà, rendendosi così capaci di viverla; e questo loro vizio lo chiamano bravura, addirittura una bravura religiosa. In realtà hanno fatto del proprio egoismo un idolo con un’etichetta religiosa. Non c’è peggior chiusura nell’uomo che quella di una falsa religiosità, quando si persegue la propria volontà, convinti di seguire quella di Dio, quando si osserva una legge fatta da se stessi, ma nella convinzione che è data da Dio, sostenendo magari la propria ipocrisia con dimostrazioni di opportunità, giustificazioni razionali, amicizie influenti, persino con pensieri devoti. Sono questo genere di persone coloro che troviamo all’inizio del capitolo e che, da lontano, mormorano, accusando Cristo di ricevere i peccatori e di mangiare con loro. Ed è a costoro che Cristo rivolge le tre parabole della misericordia. Sono proprio questi coloro che il pastore lascia nel deserto per andare a cercare la pecora smarrita. Vediamo così tratteggiata nei primi due versetti del capitolo la realtà umana segnata dal peccato. In queste due vedute sul peccato si può riconoscere ogni uomo. ViciNi e loNtaNi Il verbo “avvicinarsi” evoca una distanza. Solo la 12 M.i. RUPNiK distanza può essere lo scenario dell’avvicinarsi. Per avvicinarsi, bisogna sentirsi lontani. E siccome si tratta di Dio e dell’uomo, noi sappiamo che è l’uomo ad essersi allontanato da Dio. Adamo fuggì davanti al volto del Signore (Gen 3,8). E sin dalle prime pagine della Sacra Scrittura, si racconta di Dio che cerca di accorciare le distanze e scende già nella brezza del giardino chiamando l’uomo da dove si è nascosto. «Adamo, dove sei?», chiede la voce di Colui che ha creato l’uomo perché gli sia interlocutore e abiti nella sua casa tutti i giorni della vita (cf Sal 27,4). Il peccatore si allontana da Dio perché il peccato consiste proprio nello sbagliare la direzione, nel camminare nel senso opposto, così che la mèta rimane alle spalle. Avvicinarsi in questo nostro contesto significa il kairós, che il tempo è vicino (Ap 22,10), che i tempi messianici sono alla porta. Questo è il tempo favorevole. I peccatori vanno verso Cristo, ma perché Lui è venuto verso di loro. Dio si fa commensale dei peccatori. Un’immagine che nessun pensiero filosofico, né classico né moderno, è riuscito a comporre: l’Assoluto nel fragile, il Santo con i peccatori, il Vivente nella morte. Infatti, il termine “avvicinarsi”, “essere vicino”, lo troviamo in quel kairós in cui il Dio santo, eterno, il Signore della vita, l’Assoluto — cioè libero, slegato da tutto, senza paragoni — si è consegnato nelle mani dei peccatori, perché il peccatore gli si è avvicinato: colui che mi tradisce si avvicina (Mt 26,46). Il peccatore si è avvicinato e Dio gli si è consegnato, fino a diventare peccato (cf 2Cor 5,21). Dio è entrato nel peccato dei peccatori. Ogni peccatore conosce il suo peccato, per13 “ gli si gettò al collo” ché il suo peccato gli sta sempre dinanzi (Sal 51,5), gli è la cosa più familiare. È per questo che Dio, per annientare ogni distanza, per rivivere la vicinanza pensata nella creazione, entra proprio lì dove l’uomo è convinto di potersi nascondere da Dio, di poter vivere da solo la propria maledizione, il destino tragico della propria esistenza, il peccato. L’uomo isolato, senza relazioni personali d’amore, consegnato agli oggetti, reificato anch’egli in una cultura delle cose e del commercio, con una psiche tremante, pieno di immagini di paura e di inquietudine, vive una tragica distanza dalla sua verità. Perciò Dio viene e accorcia questa distanza consegnandosi come oggetto, come cosa, come vittima delle passioni, in maniera che l’uomo, abituato al possedere gli oggetti, lo possa trovare, abituato all’amore delle cose lo possa scoprire, abituato a soddisfare le passioni, scatenandosi su Cristo, lo possa avvicinare. Cristo è venuto tra i suoi, ma i suoi non l’hanno accolto (cf Gv 1,11). Ma i peccatori, considerati i “lontani”, si rivelano come i veri vicini. Infatti li troviamo proprio ai piedi di Cristo. Chissà oggi, che spesso si parla dei “lontani” dalla Chiesa, chi sono i veri vicini. iNViDia, MoRMoRazioNe e Peccato Proprio il suo popolo, quelli di Cristo, che appartenevano alla discendenza di coloro che lo attendevano, non solo erano lontani, ma mormoravano contro i veri vicini. I farisei, cioè i perfetti, e i radicali osservanti, cioè gli scribi, quelli che conoscevano la Parola di Dio... Ciò significa che coloro che pensavano di cono14 M.i. RUPNiK scere la Scrittura non la conoscevano e coloro che credevano di applicarla nella vita non la applicavano. Già Isaia dice che i brontoloni impareranno la lezione (cf Is 29,24). E qui troviamo proprio Cristo che impartisce la lezione. Questo mormorare è infatti una sorta di accusa a Cristo. Quello che non sopportano è la sua misericordia. Ma la misericordia è il nome di Dio (cf Sal 59,18; Sap 9,1, 2Cor 1,3), è la sua azione che si stende di generazione in generazione (cf Lc 1,50). E come mai chi conosce la Parola non riconosce il Volto di questa Parola? Perché coloro che si vantano di applicare alla lettera la legge non sono misericordiosi come è misericordioso il Signore? Come mai che a costoro dà così fastidio che Cristo si intrattenga con i peccatori? Perché all’uomo fa male vedere che l’altro è amato? Come è possibile che l’amore susciti odio e la bontà giudizio? Che cosa deve esserci nel cuore umano perché, vedendo l’amore, non gioisca, ma si rattristi? L’invidia deve essere una realtà così profonda e così legata alla radice del peccato, se per mezzo suo è entrata la morte nel mondo (cf Sap 2,24). Per mezzo dell’invidia è avvenuto il peccato e i presunti saggi e il potere religioso hanno consegnato per invidia Cristo nelle mani dei peccatori. La mormorazione è una malattia grave nella vita spirituale. Brontolare contro i fratelli o a causa dei fratelli è sempre un giudizio su Dio, e precisamente sul suo amore. Troviamo una scena simile anche nel capitolo 7 di Luca, dove Cristo viene giudicato dal fariseo Simone a causa della sua bontà verso la peccatrice pubblica. Il fatto che Cristo si lasci toccare dalla pec15 “ gli si gettò al collo” catrice è già per Simone un segno sufficiente per dubitare di Cristo come vero profeta. Se lo fosse, infatti, saprebbe chi e che specie di donna è colei che lo tocca (Lc 7,39). Ma Simone non sa che Cristo vede un cuore contrito e una donna nuova. Simone giudica in base ai segni esterni. Le prostitute si riconoscevano in base al vestito, al decoro. Cristo vede un cuore nuovo, rigenerato dal suo stesso sguardo. Simone giudica secondo il passato: lui sapeva che quella donna era peccatrice. Tutti lo sapevano in città. Ma è incapace di vedere la conversione, la novità causata dall’incontro con Cristo, che lui stesso ha invitato nella sua casa, ma che non ha incontrato. Si può invitare Cristo, stare con Lui, ma non incontrarlo. E Simone subisce un duro paragone: Cristo lo compara alla prostituta, solo che il paragone è ancora più fine: Cristo esalta ciò che ha fatto la prostituta, il modo in cui si è avvicinata a Lui, e per ogni passo mostra al fariseo che lui ha fatto molto meno di lei, non osservando neanche ciò che secondo la legge avrebbe dovuto (cf Lc 7,44-46). Ecco il brontolone che riceve la lezione. La lezione consiste nel venire paragonati a coloro contro i quali si brontola, un atteggiamento negativo che, a differenza di loro, ci fa rimanere fuori dall’incontro con Cristo. Si vede qui sullo sfondo una conoscenza del Signore astratta, teorica, facilmente pervertibile, che può diabolicamente trasformarsi anche in giudizio su Dio. Una conoscenza schiava delle proprie categorie, del proprio ragionamento, che non arriva alla soglia della logica agapica, della logica dell’amore e della misericordia. E si intravede una conoscenza da vicino, espe16 M.i. RUPNiK rienziale, dove proprio nel perdono si fondano un pensiero e una logica sapienziale capaci di riconoscere Dio e di vivere con Lui. È subito chiaro all’inizio del capitolo che il peccato non è circoscritto solo all’agire dell’uomo, ma coinvolge soprattutto la sua intelligenza, il suo pensare. C’è una mentalità, una sorta di ideologia, di sistema di pensiero che ostacola la conoscenza di Dio. C’è una logica che impedisce di amare, dunque una logica della schizofrenia. Non si può pensare in un modo e poi cercare di fare del bene e di amare. Pensare senza amare è già peccato. E il peccato significa separare l’intelligenza dall’amore. È un impedimento alla vera conoscenza delle persone, sia umane che divine. Un’intelligenza segnata dal peccato è già l’impossibilità a conoscere rettamente. Una filosofia elaborata con un’intelligenza non purificata, non imbevuta dalla carità, porta in un vicolo cieco. Ma quanto ci preoccupiamo oggi ancora della purificazione della mente? UN UoMo aVeVa DUe figli Disse ancora: «Un uomo aveva due figli.» (v. 11) Due è il principio della moltitudine, cioè dell’umanità, del genere umano. Ma anche il principio della diversificazione. Uno e due. E già diciamo tutto il problema dell’esistenza umana e, di conseguenza, quello dell’intelligenza: come risolvere l’unità e la moltitudine, l’uno e il molteplice? Nella Bibbia vediamo sempre il principio della diversificazione: due figli — Caino e Abele —, due fratelli — Esaù e Giacobbe —, due mogli — Agar e Sara. Si intravede, attraverso queste coppie, una certa anti17 “ gli si gettò al collo” nomia, che ci può indurre alle volte ad uno schema di pensare secondo il quale uno sia benedetto e l’altro no, uno libero e l’altro schiavo, uno vivo e l’altro ucciso. Ma nel nostro caso i due figli vogliono dire ancora qualche altra cosa. Vediamo, sì, una sorta di diversificazione iniziale — uno parte da casa e l’altro rimane, uno è libertino e l’altro servile —, ma qui l’accento è messo sul fatto che si tratta di un uomo che aveva due figli. Allora, la diversificazione consisterà soprattutto nella via per la quale arriveranno alla comprensione dell’essere figli, quindi alla conoscenza del padre e alla coscienza di essere fratelli. Da un lato, la mèta di questa diade è il terzo, il padre — giungere a lui —, dall’altro è costituita dal loro essere fratelli — giungere l’uno all’altro. Con questo la parabola vuole subito mettere in evidenza che lo sguardo sulla propria vita dipende dalla percezione che si ha del padre, cioè di Dio. Non si può racchiudere ogni relazione in un rapporto io-tu. Necessariamente la relazione arriva a sfondare nella sua origine — il Padre —, cioè noi. L’immagine di Dio che si ha determina il nostro stato e in base al nostro stato si stabilisce anche il rapporto verso l’altro. Scoprire l’altro come fratello è possibile allora solo nello scoprirsi come figli. Chi non conosce il padre, non conosce il fratello. Chi non riconosce il fratello non scopre il Padre e non sa di essere figlio. Cioè non sa di essere. Queste due semplici parole — padre e fratello — ci conducono alla soglia dei più profondi abissi del dramma umano: le relazioni interpersonali. Le relazioni sono infatti l’ambito delle più grandi sofferenze e della più grande felicità, luogo della morte e della resurrezione, luogo dell’identità della propria persona, luogo in cui diventia18 M.i. RUPNiK mo ciò che alla fine saremo. L’uomo diventa ciò che è in mezzo agli altri. Fuori dalle relazioni, praticamente non si esiste più. Uno sa quanto vive, sapendo quanto profondi sono i suoi incontri. La vita delle relazioni, gli incontri, sono il sapore, il colore e l’essenza stessa del destino umano. PReNDeRe le cose e PeRDeRsi Il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta. E il padre divise tra loro le sostanze. (v. 12) Il figlio più giovane è qui il principio della ribellione e della rivoluzione. La ribellione consiste proprio nel fatto che uno esige per sé, che uno prende una parte per sé, la strappa dall’insieme e la domina con la propria volontà. L’affermazione unilaterale della propria volontà è il principio della ribellione. Il patrimonio viene qui detto in greco ousía. Con questo termine si richiama tutto un grande capitolo della riflessione teologica dei primi secoli: ousía e ipostasi, termini che verranno impiegati per spiegare il significato teologico della persona. In fondo vogliono significare che la persona da un lato è qualcosa di assolutamente unico e irripetibile, dall’altro qualcosa di oggettivo nella sua natura umana, comune per tutto il genere umano. C’è qualcosa nella persona che trasforma tutto nell’amore, che può dare a tutto un’impronta d’amore. E l’amore ha sempre un volto personale. L’amore non è sostituibile. In questo senso, l’amore è sempre veramente personale. Ma il principio personalizzante — quello aga19 “ gli si gettò al collo” pico, d’amore — ha bisogno di una sostanza (ousía) da personalizzare, da assorbire nella persona. E allo stesso tempo, questa sostanza è l’ambito in cui si realizza il principio personalizzante. Possiamo vedere questo proprio nella creazione: Dio ha creato il mondo e lo ha affidato all’uomo, affinché l’uomo lo includa nella sua ipostasi, nella sua persona. L’uomo si compie nel mondo personalizzandolo, dando una impronta personale al creato. E allo stesso tempo, il creato è l’ambito in cui l’uomo si realizza. Oppure possiamo vedere questo stesso principio anche all’interno dell’uomo stesso, perché l’uomo è una persona con un principio personalizzante, agapico, d’amore, irripetibile, ma insieme costituito anche dalla sua natura, che è, come abbiamo detto sopra, comune per tutta l’umanità. L’uomo si realizza nella sua natura, ma allo stesso tempo questa natura umana generica, comune a tutti gli uomini, viene, in una persona concreta, personalizzata e segnata da un’impronta del tutto personale. Nella parabola evangelica c’è dunque il figlio più giovane che chiede la sua ousía, che reclama una parte del mondo solo per sé. Ora, la difficoltà fondamentale sta nel fatto che l’uomo, come creatura, non ha in sé la fonte inesauribile dell’amore personale con cui può personalizzare il mondo. L’uomo può personalizzare, può assorbire il mondo in un processo di personalizzazione solo se è orientato all’Ipostasi, alla Persona prototipo che è il Padre, il Creatore. L’uomo è persona in quanto è figlio del Padre. Solo nell’orientamento e nell’unione con il Padre, il figlio può realizzare se stesso nel mondo e personalizzare il mondo che gli appar20 M.i. RUPNiK tiene. L’uomo è un’immagine di Dio ontologicamente legata al suo Prototipo, al suo originale. Perciò la salvezza consisterà proprio nell’essere resi figli adottivi nel vero Figlio generato dal Padre. E in Lui riusciremo a personalizzare il creato e la nostra natura umana, conformandola ad immagine del Figlio. Staccandosi da Lui, o ribellandosi a Lui, l’uomo si avvia su un cammino tragico. Pensando che possa, come persona creata, sostituirsi a quella increata, l’uomo rischia uno sconvolgimento ontologico, cioè proprio nell’ordine dell’essere. Infatti, qui vediamo che il figlio prenderà la sua ousía, le sue cose — o se vogliamo anche la sua stessa natura — e partirà lontano, sinonimo della ricerca di realizzazione secondo la propria volontà nelle cose e con le cose che gli appartengono. Ma il figlio si può realizzare solo da figlio, cioè in riferimento al padre. Realizzarsi secondo la propria volontà, nella lontananza dal padre, è proprio la realtà del peccato. Questo desiderio di realizzarsi nel possesso delle sostanze, questa voglia di affermare la propria volontà sul creato corrisponde a ciò che il serpente suggeriva all’orecchio al primo uomo: sarete come Dio (cf Gen 3,5). Sentirsi creatore significa per l’uomo realizzare arbitrariamente la propria volontà. Dio è Amore, è Trinità, e compie la propria volontà nella comunione delle Santissime Persone. La stessa volontà di Dio è l’Amore. E l’Amore realizzato è la volontà di Dio realizzata. Ma il peccatore che afferma la propria volontà in maniera unilaterale, ribellandosi all’unione con il Padre, già si pone fuori dall’amore. E realizzare la propria volontà significa realizzare se stessi fuori dall’amore. L’amore è comunione, 21 “ gli si gettò al collo” essere orientati all’altro, essere insieme all’altro. Ma il figlio minore si sgancia proprio dall’altro, dall’unione. Perciò realizzerà la propria volontà fuori dall’amore. Di conseguenza, la realizzerà come distruzione. Affermare la propria volontà fuori dall’amore è peccare, cioè morire. Per questo non potrà neanche personalizzare le sostanze in un modo veramente agapico, d’amore. Questo significa che le sostanze di cui si appropria non gli gioveranno, non rafforzeranno la sua persona, non verranno assorbite nell’agape e che lui non si realizzerà in esse, ma vi si perderà. Il creato non esiste per essere posseduto. Possedendolo, già lo si spinge fuori dalla sua verità e dalla sua finalità. Infatti san Paolo dice che il creato geme sottomesso alla morte e aspetta la rivelazione dei figli di Dio (cf Rm 8,19). Il creato, posseduto da un principio di autoaffermazione, diviene schiavo e non riesce a vivere la propria verità che consiste nell’amore con cui e per cui è stato creato. sPiNgeRe il cReato Nella MeNzogNa Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto. (v. 13) Nella parabola si racconta che il figlio minore raccolse le sue sostanze, ma nella stessa frase si aggiunge che le sperperò in un paese lontano. Infatti, non è possibile per la persona creata raccogliere le sostanze e conformarle secondo l’agape, se non in riferimento alla Persona increata, cioè al Creatore. Chi non raccoglie con Lui disperde (cf Mt 12,30). Per l’uomo che ri22 M.i. RUPNiK nuncia all’amore per autoaffermarsi, non è possibile raccogliere. Alla persona che si impossessa delle sostanze secondo la propria volontà non è possibile raccogliere, perché in questa persona si attua un principio di ribellione. Il principio dell’avere, del possedere, non è un principio di comunione e di armonia. Il principio “economico” che intravediamo nella voglia di possedere secondo la propria volontà non è un principio della comunione. Creare un’unione “economica” è come quadrare il cerchio, significa cioè creare un’unione per modo di dire ed estremamente fragile. L’unione “economica” di regola finisce nella discriminazione, e perciò si dissolve. Le sostanze raccolte in base ad un principio autoaffermativo necessariamente si disperdono, si sperperano. Inoltre, in una unione “economica”, la realtà più importante non è la persona come tale, e neanche le sostanze, ma il loro possesso utilitarista, soddisfatto. Per questo motivo è chiaro che si guarda al benessere più ampio possibile, in maniera che raggiunga più persone possibili, perché più persone sono soddisfatte, più c’è consenso, ma nello stesso tempo tante dimensioni delle persone vengono sacrificate a causa del prestigio del possesso e dell’avere. L’uomo, volendo raccogliere le proprie sostanze per sé, per farne ciò che vuole, sottomette loro se stesso. Anche se guardiamo proprio all’uomo, costituito da questa inseparabile unione tra principio personalizzante e natura umana, vediamo che il peccato permette alla natura di dominare su tutta la persona. Infatti, la persona viene soffocata dalle esigenze generiche di una 23 “ gli si gettò al collo” natura ferita dal peccato, dunque diviene soggetta alle passioni che dominano sul principio agapico, personale. E questo disperdere la persona nella natura umana ferita, questo disperdersi nelle passioni, è come una sorta di cliché di tanti fenomeni in molti campi, in diverse sfere della vita personale e della vita sociale e culturale. Nel peccato di Adamo, l’uomo, invece di rimanere orientato al suo Creatore, al suo Prototipo, si orienta all’albero, cioè ad un oggetto, e da lui aspetta di diventare come Dio. Adesso, all’inizio di questa parabola, si ripropone la stessa immagine. Il figlio rompe l’armonia relazionale, si orienta alle sostanze, confidando in esse, ponendo in loro tutte le speranze di vivere questa magica attesa di essere padrone. C’è nell’uomo, come conseguenza del peccato, la passione incontrollabile di essere padrone, di gestire senza far riferimento ad un altro. Ma poiché egli è immagine che necessariamente rimanda al Prototipo, questa passione significa proprio il tradimento della sua stessa essenza. L’uomo tradisce se stesso quando non rimanda, quando rompe la relazione fondante, quella cioè con il suo Prototipo. L’uomo orientato alle sostanze, desiderando essere lui l’origine e il centro della loro totale gestione, tradisce la sua verità. Ponendosi fuori dalla relazione fondante, non potrà comporre con le sostanze un mondo di relazioni. E le sostanze, poiché non saranno in funzione dell’uomo e delle sue relazioni, non saranno per lui il bene. L’uomo non potrà instaurare e incarnare le relazioni, anche interpersonali, nelle sostanze e tramite loro. Le sostanze non 24 M.i. RUPNiK parteciperanno così al suo amore relazionale. In questo modo lui, nell’uso che ne fa, guarda come nello specchio l’uso che fa di se stesso. Nella stessa maniera in cui sperpera le sostanze, sperpera se stesso. Infatti la Bibbia dice che è vissuto da dissoluto. Il termine greco per dissoluto rimanda ad un comportamento corrotto, qualcosa di perverso. Il dissoluto è una sorta di libertino che può permettersi di vivere anche contro il corso stabilito dalla creazione. Allora, è ancora più esplicito che questo allontanarsi dal padre, autoaffermandosi nelle cose, sia per l’uomo un uscire fuori dalla verità della creazione stessa. Per questo l’uomo si distrugge nelle cose alle quali serve, pensando però sempre che siano le cose a servire alla sua volontà. All’opposto del dissoluto, nella Bibbia c’è l’uomo giusto, cioè l’uomo saggio. La sapienza ha il suo inizio nel timore del Signore (Sir 1,12), che significa praticamente non osare neanche pensare che un’altra cosa sia più importante di Dio stesso, non osare pensare che un’altra cosa sia Dio se non Dio stesso. Solo Dio è Dio e all’infuori di Lui non c’è senso per l’uomo. Perciò vivere con Dio significa vivere nella propria verità e servire Dio significa anche servire se stessi. Dare la precedenza alla volontà di Dio è trovare se stessi in tutto ciò che Dio ama, vuole e crea. Servire se stessi conduce invece a perdersi in tutte quelle cose che noi pensiamo di dominare. E questo è il dissoluto. L’uomo stringe in pugno le sostanze, ma viene il giorno in cui si accorge che queste sostanze sono state corrotte dal suo egoismo e che il vento gliele ha portate via come la pula. La passione è perciò passeggera. 25 “ gli si gettò al collo” Infatti il figlio minore viene preso da questa passione della ribellione e ha fretta di partire. Quando nella Bibbia c’è una espressione temporale — come dopo non molti giorni —, significa praticamente un atteggiamento dell’uomo espresso attraverso il tempo. Qui vediamo proprio la fretta: il figlio, senza un congedo, raccoglie le sue cose e parte. 26 M.i. RUPNiK Dal seNtiRsi schiaVo al DiVeNtaRlo Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. (v. 14) Il figlio minore sperimenta la casa paterna come troppo stretta, come limite alla sua libertà, e percepisce il padre come padrone. Perciò se ne va. E qui c’è una strana ironia di sottofondo. Se ne va da casa perché sente il padre come padrone, mentre vuole essere lui il padrone delle sue sostanze. La sua volontà di essere padrone — un progetto che lo fa vivere da perverso, contro la verità — si conclude nell’annientamento delle sostanze. Il padrone finisce per perdere le sue cose, quindi per non essere più padrone, dato che ha sperperato tutto. E si riduce ad andare a fare il servo ad un padrone in una terra straniera lontano dal padre. Lui voleva essere un padrone andando via da casa “da padrone”, e finisce nella carestia. Ora lui stesso, il padrone, si sente nel bisogno. Il termine greco per “bisogno” esprime proprio la mancanza dei viveri, non aveva cioè niente di cui nutrirsi. È la prima immagine della morte. Allora, che padrone è se le sue sostanze lo portano a sentirsi nel bisogno? Il bisogno costringe questo figlio a diventare realmente schiavo. A casa lui si sentiva schiavo. Adesso lo è veramente. Le sostanze che voleva gestire secondo la sua volontà lo hanno portato al punto da sottomettersi al bisogno, al punto di dover servire ad un padrone straniero. 27