VAN GOGH TERRA MIA - Corriere Sera (17/10/14)

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VAN GOGH TERRA MIA - Corriere Sera (17/10/14)
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Sabato 18 Ottobre 2014 Corriere della Sera
Eventi
La guida
Quarantasette opere
in un percorso
che guarda all’Expo
A Palazzo Reale di Milano, fino all’8 marzo 2015, la
mostra Van Gogh. L’uomo e la terra. Promossa
dal Comune di Milano-Cultura, organizzata e
prodotta da Palazzo Reale, Arthemisia Group e 24
ORE Cultura – Gruppo 24 ORE in collaborazione
con Kröller-Müller Museum, è curata da Kathleen
Adler e realizzata anche grazie al contributo
Gruppo Unipol, main sponsor. Con il sostegno di:
Viabizzuno, Trenitalia, Trenord, Atm, UNA Hotels,
Canale ARTE e Miffy, sponsor tecnici, e di Publitalia
‘80, Coop Lombardia, la Rinascente e Radio
Montecarlo. Sono 47 le opere. Catalogo: 24 ORE
Cultura - Gruppo 24 ORE. L’allestimento è di Kengo
Kuma. La mostra partecipa a Milano Cuore
d’Europa, il palinsesto culturale promosso dal
Comune di Milano. Il titolo rimanda al tema di Expo
2015, partner della mostra. Prenotazioni: tel.
02 54913, ticket.it/vangogh. Biglietti: intero € 12,
ridotto € 10. Social: twitter.com/24Cultura,
hashtag: #VanGoghMi. Info su vangoghmilano.it
La mostra A Milano, nelle sale di Palazzo Reale, le tele
dell’artista segnate da un legame religioso con l’universo
rurale. Nell’allestimento creato da Kengo Kuma emerge
il fascino che il Giappone esercitò sull’estetica di Vincent
VAN
GOGH
«I
TERRA MIA
di Roberta Scorranese
contadini e i
pescatori dei
piccoli paesi,
ovunque si vada, sono diversi. Ricordano la terra, a volte sembra che
ne siano plasmati». In quel fluviale dialogo scritto che per
tutta la vita lo legò al fratello
Theo, Vincent Van Gogh tracciò
una metafisica del lavoro rurale
che non è mai identificazione. I
contadini che descriveva, dipingeva, frequentava nei soggiorni nella campagna del Brabante e poi della Francia, erano
altro da sé: erano oggetto di
ammirazione, studio, ascolto.
Erano un approdo spirituale:
è nella vita nei campi che si nasconde l’intima natura della
purezza da raggiungere. È questo il filo che cuce le 47 opere in
mostra da oggi a Palazzo Reale
in Van Gogh. L’uomo e la terra,
un progetto che mette in scena
uno degli aspetti più profondi
dell’olandese. «Una visione
spirituale della terra, che racconta le figure umane, le nature morte e i paesaggi con la
stessa lingua», dice la curatrice, Kathleen Adler.
E sembra di vederlo, il fragile
Vincent, mentre osserva i contadini «ispidi come uno spinone» che mangiano in silenzio,
mani nodose e sporche («Ma
un quadro con contadini non
deve essere profumato», scrive
a Theo). Li vedeva da lontano
quando, da bambino, tutta la
famiglia faceva lunghe passeggiate all’aria aperta e poi si leggeva tutti ad alta voce. Li vedeva
già allora con l’occhio acceso
del padre, pastore calvinista,
una piccola comunità da tenere
insieme in un territorio dominato da cattolici. Li vedeva
semplici, puri nella preghiera,
stanchi e silenziosi. Certo, co-
SOGNO DI UNA NATURA PERDUTA
LA VITA CONTADINA È METAFORA
DELLA PUREZZA DA RAGGIUNGERE
me li aveva visti il suo amato
pittore Jean-François Millet, il
primo ad ideare un’estetica della terra che influenzerà anche
Dalí. Ma in Vincent è diverso.
Qui, il Seminatore con cesta
e lo Zappatore in un momento
di riposo (1881), le Contadine
che raccolgono patate (1885) e
la litografia che precede il capolavoro del quale porta il nome, I mangiatori di patate,
vanno oltre. C’è una santificazione del lavoro, una mistica
febbrile della fatica che corre
nei tratti durissimi, realistici
(com’erano diverse le figure se-
Lo stile
La curatrice Kathleen
Adler: «La stessa lingua
per uomini, nature
morte e paesaggi»
mi idealizzate di Millet) dei volti contadini. Sembrano i protagonisti di uno dei sermoni del
padre tutto «rigore, fede e lavoro». Ecco l’evoluzione da Millet, che passa anche attraverso
Gustave Courbet, padre del realismo e cantore degli ultimi:
Van Gogh fonde la spiritualità
del primo con il gusto naturalista del secondo, fino a ottenere
quello che voleva: un’allegoria
del sacro purificata nel sudore.
«Van Gogh ha cercato spesso
conforto nella religione e ha
seguito i sermoni del predicatore battista Charles Spurgeon», ricorda Adler. Ma, negli
anni in cui Vincent si avvicina
alla pittura, dalla fine del 1881,
le città europee sono percorse
da una vena mistico-sociale:
Dostoevskij ha appena pubblicato I fratelli Karamazov, nel
1883 Nietzsche scrive Così parlò Zarathustra e nello stesso
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In quella gioia per i fiori
la sensibilità verso gli ultimi
Composizioni
L’olio su tela
«Rose e
peonie»
(1886),
proveniente dal
Kröller-Müller
Museum,
Otterlo,
in Olanda
Soggetti minori della pittura, terapeutici per la sua mente
di Francesca Bonazzoli
S
ono stati i fiori i prodotti della terra più
amati da Van Gogh. Monet con le ninfee
aveva semplicemente ingaggiato un ossessivo corpo a corpo con la luce; Van Gogh,
invece, dipingeva ogni tipo di fiore perché quell’esercizio gli procurava gioia. «Sto dipingendo
con l’entusiasmo di un marsigliese nel mangiare
la bouillabaisse, e non ti sorprenderebbe se ti dicessi che sto dedicandomi ad alcuni girasoli. Se
riesco a portare avanti questa idea si tratterà di
una dozzina di dipinti. L’intero lavoro sarà una
sinfonia di giallo e blu», scriveva al fratello Theo
nel 1887, mentre si impegnava nella prima delle
due serie dedicate ai girasoli terminate con il più
audace di tutti gli accostamenti: il giallo dei petali su fondo giallo. L’apoteosi della gioia, motivo
decorativo pensato per la stanza preparata ad Arles per l’amico Gauguin.
Ma c’erano altre due ragioni per cui Van Gogh
dipingeva tanti fiori. La prima va ricercata nel fatto che erano, da secoli, il soggetto umile dell’arte
Pennellate
Vincent Van
Gogh (sopra
uno degli
autoritratti,
in mostra)
nacque nel
1853 e morì
nel 1890. Nella
foto a destra,
«Paesaggio
con covoni
e luna che
sorge» (1889).
In basso,
uno scatto
dall’allestimento della mostra
a Palazzo Reale
(foto: Duilio
Piaggesi per
Fotogramma)
— tema minore rispetto alla pittura di figura, religiosa o eroica — quasi un passatempo per dilettanti, accusa da cui si era dovuto a suo tempo difendere anche Caravaggio. Questa semplicità
piaceva a Van Gogh che, per la sua sensibilità verso gli ultimi, aveva trascorso la prima parte della
vita fra i minatori del Borinage condividendone
gli stenti. Sempre a corto di soldi e dipendente
economicamente dagli aiuti del fratello, i fiori
erano inoltre un soggetto cui poter attingere senza affrontare la spesa per i modelli che van Gogh
faticava a trovare fra i conoscenti. «Mi sono mancati i soldi per pagare dei modelli, altrimenti mi
sarei dedicato completamente alla pittura di figura, ma ho fatto una serie di studi sui colori dipingendo semplici fiori, papaveri rossi, fiordali-
Un gusto particolare
Mentre dipingeva la serie di girasoli,
scriveva al fratello Theo: «Lavoro
con l’entusiasmo di un marsigliese
nel mangiare la bouillabaisse»
anno muoiono Wagner e Marx.
Van Gogh matura una visione
panteistica della natura, che
non poteva però prescindere
da una riflessione sul reale, riverberata negli still life come
Natura morta con patate o Natura morta con statuetta di
gesso e libri — in esposizione.
Nascono così anche i bellissimi ritratti in mostra, primo
tra tutti Ritratto di Joseph Roulin (1889): la serenità del postino di Arles non affiora tanto
dal personaggio quanto dal
gioco di rimandi orientali (i
fiori, lo sfondo): Vincent aveva
scoperto il Giappone, un’estetica nuova attraverso la quale
guardare la sua campagna. «La
Provenza è il mio Giappone»
dirà mentre aspettava l’amico
Gauguin nel Midi. In quell’universo incontaminato (il Paese
era appena uscito dall’isolamento durato oltre due secoli,
conservando intatti i valori culturali) vedeva una strada dolce
e pura per raggiungere una dimensione di assoluta bellezza.
La mostra corre lungo i toccanti scritti di Vincent, che accompagnano le opere. Si legge:
«Nell’amore così come in tutta
la natura c’è un appassire e un
rifiorire, ma non una morte definitiva». Un’intuizione profonda che porta dritti all’ultima
parte della mostra, quei paesaggi senza la linea dell’orizzonte che fondono la sensibilità occidentale con la prospettiva libera, tipica dell’arte orientale. Una sintesi? Non sarebbe
un termine giusto: ogni fase di
Van Gogh è stata una conquista
strappata al tempo. Verso la fine, quando sentiva avvicinarsi
l’indicibile, scrisse: «Lavoro
febbrilmente, di fretta, come
un minatore che non vede via
di scampo». Anche qui non rinunciò a sentirsi uno degli «ultimi» che aveva raccontato.
[email protected]
si, myosotis; rose bianche e rosa, crisantemi gialli» racconta l’artista.
La seconda ragione era il fascino esercitato su
di lui dalle stampe giapponesi, molto ben conosciute da Van Gogh che aveva fatto per un periodo il commesso presso il più grande mercante
d’arte del tempo, Goupil. In quelle stampe c’erano fiori dappertutto che diventavano protagonisti, come mai si era visto prima nella pittura occidentale, e come Van Gogh ha rifatto, per esempio, nel suo splendido ramo di mandorlo fiorito
che occupa l’intera tela come un arabesco: petali
perlacei che si stagliano in un cielo turchese dipinti in occasione di un altro motivo di gioia: la
nascita del nipote. Anche gli iris del Paul Getty
Museum, con gli steli sinuosi in primo piano
mossi dal vento, sono un’idea mutuata dagli artisti del Sol Levante che non amavano, come succedeva invece nella pittura occidentale, ritrarre il
vaso di fiori recisi apparecchiato in una tavola
elegante. La natura aveva una sua propria bellezza, assoluta, senza dover diventare, come nelle
nostre nature morte barocche, una decorazione
di lusso.
E infine non bisogna dimenticare le volte in
cui Van Gogh ha usato i fiori per riempire lo sfondo dei ritratti: da quello di Madame Augustine
Roulin a quello di suo marito, il postino Joseph
Roulin. Solo Matisse, dopo di lui, sarà altrettanto
audace. I fiori furono dunque una terapia della
gioia, un alleggerimento per la mente, una liberazione del talento e della creatività, una fuga
dalle ossessioni negative, dopo il periodo scuro
in cui Van Gogh aveva tentato di mettere la pittura al servizio della sua missione umanitaria, celebrando la fatica di contadini e minatori con i toni
bruni della scuola olandese di Rembrandt e Hals.
La scoperta del colore avvenne proprio grazie all’esercizio sui fiori, ricercando le contrapposizioni del blu con l’arancione, del rosso con il verde,
del giallo con il violetto. Chissà se Allen Ginsberg
conosceva questa storia quando nel 1965 coniò il
termine «flower power».
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