Dai bordi dell`arte di: Franco Quesito Il 10 ottobre del 1921

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Dai bordi dell`arte di: Franco Quesito Il 10 ottobre del 1921
Dai bordi dell’arte
di: Franco Quesito
Il 10 ottobre del 1921 Freud incontrò a Vienna André Bréton, il fondatore del
Manifesto del surrealismo del 1924. I rapporti tra di loro, più che altro derivati dal
grande e originale interesse di Breton per Freud e la psicoanalisi, possiamo dire che
non ci furono, tanto erano distanti le loro diverse aspettative. Freud lo trattò con
sufficienza sbrigativa, tanto che Bréton ne uscì deluso e per anni faticò ad elaborare
la ferita narcisistica che quell’incontro gli provocò.
La loro successiva corrispondenza del 1932/33 chiarisce quanto ci fosse ancora in
Breton il desiderio di rivalersi di ciò.
Egli mantenne sempre, per onestà intellettuale, un formale elogio di Freud ma nulla
di più. A Freud non interessarono questi suoi “figli putativi”, non gli interessava il
surrealismo e incontrò il celebre surrealista Salvador Dalì, ormai alla fine della sua
vita, nel 1938 a Londra. Del loro incontro ci resta il noto ritratto di Freud che Dalì
schizzò; ne deriva una ben triste impressione, il ritratto di un volto scheletrico e
sofferente.
Eppure, sin dalla sua visita alla Pinacoteca di Dresda, del 1883, e dalla successiva
lunga lettera inviata alla fidanzata, possiamo dire ci sia un Freud affascinato dalla
vista dei quadri dei grandi pittori esposti, non di meno non lo troviamo – come ci si
potrebbe magari aspettare - intento a compiere una analisi del “significato
simbolico” delle opere, bensì attento alla loro “bellezza”. Questione che per altro è
presente anche successivamente in altre lettere diverse, allorché fa i suoi resoconti
delle visite compiute in diversi musei.
Il museo possiede quello che forse è il quadro più bello di Tiziano. È intitolato Amor
sacro e amor profano … Il titolo è privo di senso; che cos’altro il quadro possa
significare non si sa; basta il fatto che è molto bello (lettera alla famiglia del 21
ottobre 1097).
Basta pensare a ciò che la storia dell’arte ha espresso e conservato nei musei del
tempo per capire che in fondo il significato simbolico molto spesso si confondeva con
il contenuto della rappresentazione a sfondo religioso dell’opera, o con la ritrattistica
e i paesaggi.
Gli artisti “invitati” da Freud nel suo studio non mancano certo, Leonardo da Vinci
per primo, e non può sfuggire al lettore che egli tratta le opere come se fossero “le
fantasie del paziente” e, bisogna aggiungere nel caso del lavoro su la sant’Anna della
monografia del 1910, il suo interesse si punta sulle relazioni tra le memorie
dell’artista e le “figure nelle figure” presenti nel quadro.
Un po’ come avviene in una certa critica d’arte notissima a carico del celebre affresco
della creazione di Adamo nella cappella Sistina di Michelangelo, dove il mantello di
Dio vien fatto somigliare al profilo del cervello umano visto nella sua sezione.
Nel ritratto di sant’Anna infatti Freud – mi si perdoni se dico “erroneamente” –
rintracciò una sorta di memoria psicologica dell’artista nel contorno della figura di un
“avvoltoio” contenuto nella veste della santa e soprattutto vi interpretò con/fuse in
un’unica immagine le figure di sant’Anna e di Maria, pensando la cosa a partire dal
fatto che nella storia di Leonardo erano presenti una madre – che presto dovette
abbandonare essendo lei la concubina di suo padre – e la nonna che “dovette
probabilmente” funzionare da vice mamma quando il padre si sposò con un’altra
donna e, allontanando Caterina, tenne però il bambino con sé.
Al di là degli errori di “interpretazione” che Freud può aver compiuto, resta evidente
che la sua concezione dell’arte fosse quella di un tradizionale conservatore che
nell’opera cercava la bellezza del canone rappresentativo e che trattasse il prodotto
artistico o come esempio dell’animo umano che intendeva descrivere – e questo è il
caso di Shakespeare, di Goethe, di Dostoevskij –, o come parte espressa nell’opera
della psicologia e della storia stessa dell’artista sotto forma di parti altrimenti
rappresentate nel quadro.
È quindi con questo che trattò l’espressionismo, il surrealismo e il simbolismo del
suo tempo.
Nel giugno 1920 Pfister ebbe ad inviare a Freud un suo lavoro “sulle basi
psicologiche e biologiche” della pittura espressionista.
Il lavoro era condotto in contemporanea con l’analisi che Pfister andava sviluppando
con un pittore espressionista ed è per questo che lui propone di operare sulla
questione con la psicoanalisi e di trattare i disegni dell’artista che psicoanalizzava nel
suo studio come dei sogni.
Possiamo quindi dire che Pfister fosse “troppo” condizionato dalle interpretazioni del
suo analizzante per esprimere una posizione semplicemente laica sulla questione?
Il risultato fu però che il commento di Freud sullo scritto che gli venne presentato
esprime ancora – ove non bastasse – il suo pensiero sull’arte e soprattutto sugli artisti
del suo tempo:
… e per quanto riguarda questi “artisti” io sono in effetti uno di quei filistei e
lumaconi che lei mette alla gogna nella sua introduzione. Ma, tutto sommato, lei
stesso vede in modo chiaro ed esauriente perché questi individui non possono
pretendere al titolo di artisti (lettera a Pfister del 21 giugno 1920).
Come detto precedentemente, il “contatto” con il surrealismo – che resta pur sempre
la corrente artistica che più si è richiamata al sogno e alla psicoanalisi nella propria
posizione teorica e che si descrive così nel Manifesto del 1924:
Automatismo tipico puro col quale ci si propone di esprimere, sia verbalmente, sia
per iscritto, sia in qualsiasi altro modo, il funzionamento reale del pensiero. Dettato
del pensiero, in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di
ogni preoccupazione estetica o morale.
Il surrealismo si fonda sull'idea di un grado di realtà superiore connesso a certe
forme d'associazione finora trascurate, sull'onnipotenza del sogno, sul gioco
disinteressato del pensiero. Tende a liquidare definitivamente tutti gli altri
meccanismi psichici e a sostituirsi ad essi nella risoluzione dei principali problemi
della vita.
- per Freud avverrà solo nel 1938 e grazie ai buoni uffici dello stimato amico Zweig.
Di quell’incontro con Dalì ci resta una lettera di Freud allo stesso Zweig del 20 luglio
1938:
Fino a ora ero incline a considerare i surrealisti, che sembra mi abbiano prescelto
come loro santo patrono, dei puri folli, o diciamo puri al 95 per cento, come
l'alcool... Sarebbe davvero assai interessante esplorare analiticamente le origini di
una pittura del genere. Eppure come critico uno potrebbe … dire che il concetto di
arte resiste al fatto di essere esteso oltre il punto in cui il rapporto quantitativo tra il
materiale inconscio e l'elaborazione preconscia non è mantenuto entro certi limiti.
Cosa vuol dire Freud quando parla di “rapporto quantitativo tra il materiale inconscio
e l’elaborazione preconscia”?
Si riferisce ad una questione già presentata moltissimi anni prima, nel 1905, quando
nel suo Der Witz und seine Beziehung zum Unbewußten (Il motto di spirito e la sua
relazione con l'inconscio) si legge questa sua formula: “Un’idea preconscia è esposta
per un momento all’influenza dell’inconscio”.
In senso stretto allora ciò indica che il contenuto del vissuto quotidiano si impasta
con l’inconscio, ove sono contenuti desideri e pulsioni rimosse, e la loro
condensazione produce qualcosa dell’ordine del sogno e della fantasia. Il motto di
spirito così costruito, però, conterrebbe ancora troppo del “processo primario” per
essere ammesso alla coscienza e quindi il vero lavoro psichico consiste nel rendere
accettabile e anche piacevole ciò che invece risulterebbe sgradevole ove affiorasse
senza metodo. Esso può quindi avvenire solo a patto che ciò che viene ad esprimersi
abbia il dono d’essere anche piacevole per chi riceve il motto di spirito, suscitandone
il riso. Questo riso però è suscitato solo in coloro che sono in grado di apprezzare il
delicato equilibrio tra l’elaborazione preconscia e quella inconscia presente nel detto.
Se invece il guizzo dell’idea fosse soffocato da un turbinio di giochi di parole, il
risultato potrebbe essere più simile ad un vaniloquio e se invece il gioco di parole
fosse mediocre il risultato non sarebbe all’altezza della possibilità di compensare con
il piacere della battuta il colpo inferto alla censurabilità del tema trattato.
Per Freud insomma non esiste alcun valore artistico nel processo primario che, in
Dalì, pareva invece permettere che la sua abilità tecnica desse “troppo modo” di
adoperare un’idea preconscia, cioè comunicabile, per strutturare ciò che invece aveva
a che fare con i meccanismi inconsci.
Ma Freud era un uomo del suo tempo ed evidentemente sapeva di storia, sapeva
probabilmente che l’ordine che Nelson dette prima della battaglia di Trafalgar
dipendeva anche dal codice di trasmissione della flotta, che con le bandiere non
permetteva di comunicare velocemente la frase “L’Inghilterra confida che ogni uomo
farà il suo dovere”, perché la parola “confida” non era prevista nel codice di
trasmissione, mentre era previsto il segnale “si aspetta”. Fu così quindi che nacque la
celebre frase di Orazio Nelson: “L’Inghilterra si aspetta ….”.
Per Freud insomma alcuni grandi capolavori probabilmente si debbono al mezzo ed
allo stile permesso dalla comunicazione.
Potremmo provare a dire con Jurij, del Dottor Zivago di Pasternàk, che racconta di
come dopo qualche strofa composta venisse preso dall’ispirazione:
Il rapporto di forze che presiede alla creazione pare in tal caso capovolgersi: la
priorità non è più dell’uomo né del suo stato d’animo che egli cerca di rendere, ma
del linguaggio con cui vuole esprimerlo.
In questo senso troviamo diversamente espresso un concetto assai semplice: l’arte
nasce dall’arte e ciò non sembri banale; voglio dire che il nuovo artista subentra al
precedente in quanto introduce qualche cosa di nuovo in ciò che era prima presente in
chi lo ha preceduto e in questo “gioco” egli si trova così bene d’esserne conquistato
completamente.
Recuperando ancora una volta Freud, potremmo dire che, come lui sostiene in Il
poeta e la fantasia, si tratta di trovare il codice: nel bambino il gioco è un suo mondo
costruito ad arte nel quale egli si impegna e che prende assai sul serio.
Però il bambino – nonostante l’investimento fatto sul gioco – conosce assai bene il
mondo dei suoi giochi e il mondo della realtà, egli infatti li distingue così bene che
spesso appoggia le cose da lui immaginate sugli oggetti del mondo reale.
In questo consiste quindi la sua capacità di distinguere il “gioco” dal “fantasticare”:
il contrario del gioco non è ciò che è serio, bensì ciò che è reale. Crescendo però il
bimbo abbandona questo appoggio e poi adolescente invece di giocare fantastica.
L’attività fantastica nell’adolescente, e poi nell’uomo adulto, invece, smette di essere
comunicabile come il gioco del bambino e diventa un’attività imputabile di fantasie
di cui magari potrebbe anche doversi vergognare.
Così quest’attività combina tre tempi: l’impressione attuale, che suscita il lavoro
psichico stesso, il collegamento al ricordo di un’esperienza anteriore, in cui qualcosa
di quel desiderio era esaudito e quindi l’ideazione relativa al futuro, vera e propria
prospettiva di soddisfazione di quel desiderio: un vero e proprio sogno ad occhi
aperti.
Un’attività paragonabile al sogno notturno se non ne fosse diverso il tipo di
“linguaggio”.
Certo assimilare l’attività della fantasticheria con l’attività artistica non è totalmente
accettabile, esistono infatti prodotti artistici “canonizzati” che perseguono più la via
dello stile che la strada dell’invenzione.
È di questa infatti che dobbiamo occuparci: di quell’invenzione che sfugge al canone
del rigore stilistico, alla piega prestabilita. Si tratta quindi di capire, come nel Witz,
per quale via il materiale inconscio e già rifiutato con la rimozione possa divenire
comunicabile, non solo accettabile ma anche piacevole.
Dice Freud in Il poeta e la fantasia del 1907:
… la vera ars poetica consiste nella tecnica per superare la nostra ripugnanza, la
quale è certo in connessione con le barriere che si elevano fra il singolo Io e gli altri.
Possiamo supporre due mezzi di questa tecnica: il poeta addolcisce il carattere della
sua fantasticheria egoistica alterandola e velandola; e ci seduce con il profitto di
piacere puramente formale, e cioè estetico, che egli ci offre nella presentazione delle
sue fantasie.
Resta però quel punto sospeso: quella questione del segreto dal quale l’artista preleva
il materiale che userà per dar corpo alla sua ars poetica.
È di qui che desidero ripartire ritrovando quanto detto all’inizio circa il rapporto tra
Freud e Bréton.
Il suo racconto del momento in cui lui, giovane studente di medicina, trovò
l’ispirazione – cercando il metodo nella psicoanalisi – lo conduce ad un ricordo dei
suoi 18 anni (Point du jour, 1929).
Nel 1916, durante la prima guerra mondiale, si trovò a prestare servizio presso il
Centro neuro-psichiatrico di Saint-Dizier ed è lì che conobbe un soldato ricoverato.
Secondo costui le pretese ostilità altro non erano, su scala molto vasta, che
l’immagine di un tormento inflitto a lui soltanto, anche se non sapeva dire per quali
fini. Il soldato infatti era solito, durante l’infuriare della battaglia, stare in piedi sul
parapetto della trincea da dove tracciava con il dito la direzione che doveva prendere
il proiettile degli obici. Egli – che non venne mai ferito durante tutto ciò – sosteneva
appunto che si trattasse di un grande simulacro ove i morti e i feriti erano nottetempo
prelevati dagli ospedali e sistemati a bella posta per fargli credere dell’esistenza della
guerra: tutto era quindi fatto per fargli impressione, ma lui non ne veniva affatto
interessato.
È chiaro che non vi fu modo di fargli cambiare idea attraverso argomentazioni
ragionevoli, ma tutto ciò condusse Bréton a pensare che, se la psicoanalisi era una
pratica interpretativa … il surrealismo avrebbe preso radicalmente alla lettera il
significato del sogno quale realizzazione allucinatoria del desiderio e avrebbe puntato
diritto e innanzitutto alla liberazione dalle costrizioni. Insisto su Bréton affinché sia
chiaro che se diamo credito all’idea che l’opera d’arte derivi dall’attività
dell’inconscio, il surrealismo di Bréton è – certamente insieme ad altri innumerevoli
artisti – uno degli esempi più radicali di questo discorso.
In questo senso, allora, molta della espressività artistica diviene un racconto
dell’inconscio, ove – più o meno – possa avvenire che esso si sappia mescolare con il
tratto costituito dal canone della comunicazione tra Io e gli altri. Che cosa è in fondo
questo canone: è un linguaggio, è il linguaggio, e nel linguaggio ecco la parola.
Permettetemi quindi per finire di ripensare alla spesso citata questione della “parola”
presente nel Prologo del Vangelo di Giovanni:
In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio.
Ove appunto, nella totale difficoltà di una precisa, quanto impossibile, interpretazione
esegetica del testo, ben presto Verbo è stato tradotto con parola, trovandolo derivato
dal testo scritto in greco come Logos. Il termine logos in greco, però, contiene in sé
anche e ben altri significati e tra questi c’è che con logos si intende anche progetto
pronunciato, ovvero progetto formulato con la parola, nell’atto del dire e quindi,
sotto questa forma, potremmo dire che In principio era il progetto … ecc. con ciò che
ne consegue.
Insomma, provare a capire qualche cosa dell’opera d’arte implica tentate l’estremo
sforzo di calcolarne in essa anche la portata del canone storicamente determinato e
implicitamente ivi contenuto e questo ci farebbe pensare che Giovanni intendesse
riprendere alla medesima maniera proprio l’inizio del Primo libro della Genesi, che
nella Parashat Bereshit della Torah – alla quale volutamente mi rifaccio – dice:
In principio creò Iddio il cielo e la terra.
2 E la terra era deserto e solitudine, ed
oscurità era sulla faccia dell’abisso; ed
un vento di Dio [cioè fortissimo]
agitavasi sulla faccia dell’acqua.
3 Dio disse: Sia luce; e fu luce.
4 Iddio vide la luce essere buona cosa; e
Iddio separò la luce dall’oscurità.
5 Dio chiamò la luce Giorno, e l’oscurità
chiamò Notte. Così fu una sera, e fu
una mattina; (cioè) un giorno.
per stabilire invece un altro tempo della teologia, ove appunto non fosse più la
creazione e la successiva nominazione l’elemento fondamentale, ma, invece,
dall’esistenza stessa del progetto, prendesse il via dal Cristo un nuovo messaggio
interpretativo per intera umanità. Anche Giovanni quindi aveva una visione del
mondo e da essa si conduce a declinarla nel suo testo.
Perché dire tutto questo?
Per riprendere un concetto psicoanalitico troppo spesso trascurato, ovvero la
questione della rappresentazione, ove appunto la questione della realtà psichica è “la
questione”.
Si tratta cioè del confine nel quale si toccano il lavoro psichico e la cosa esterna, e
l’Io – ovviamente sempre meno padrone in casa sua – si trova nella difficile
situazione di stare al mondo, ma in un mondo popolato di altri con i quali egli deve
trovare il punto della sua soddisfazione nell’implicita difficoltà di scambiarla con
quella altrui attraverso un modo per comunicare.