Sara BIchicchi, FLusso Continuo

Transcript

Sara BIchicchi, FLusso Continuo
Sara Bichicchi, 4As, Liceo Scientifico Niccolò Copernico
Flusso continuo
La porta della stanza numero sei si spalancò con un cigolio e Annalisa, istintivamente, trattenne il fiato.
Senza contare la donna che s’era appena alzata, c’erano ancora due persone davanti a lei.
L’uscio si richiuse alle spalle della donatrice e un odore acre di medicinali invase le narici della ragazza,
rilassatasi impercettibilmente. Accanto a lei, un bicchiere mezzo vuoto giaceva a terra, lasciato in disparte, e
una bambina bionda si gingillava con un giocattolo insolito, un congegno formato da una decina di palline
rosse che, collegate con un filo a un’asticella, dondolavano e si urtavano a vicenda.
Quando le sferette colorate si allinearono, la piccola afferrò la prima e la tirò indietro, dopodiché la lasciò
andare a cozzare contro la seconda, che a sua volta colpì la terza. In questo modo il movimento si propagò
fino all’ultima biglia che, disegnando in aria una piccola semicirconferenza, ricadde sulle altre e infuse un
nuovo impulso al marchingegno.
Ogni globo ora era spinto dai precedenti e con essi creava un unico serpente ondeggiante, che quasi si
confondeva con il concitato viavai della sala d’attesa. Viavai che, per un istante, fu congelato
dall’intromissione di un’infermiera cordiale, apparsa sulla soglia sei per chiamare un uomo brizzolato.
Mentre il donatore si accomodava, dando il cambio alla signora di poco prima, un suono fragoroso, di
ceramica in frantumi, fendé il tramestio dell’ambiente ospedaliero. Presa alla sprovvista, Annalisa trasalì e
impiegò diversi secondi per realizzare che la bimba bionda, ricongiuntasi con la madre, aveva
inavvertitamente urtato un vaso, disseminando sul pavimento cocci e terriccio.
Al centro di una montagnola di terra umida, due crisantemi piegavano mestamente la corolla.
Le palline rosse del balocco, adesso tenuto in posizione obliqua, sembravano tante goccioline vermiglie che
scivolavano verso i fiori smorti, una dopo l’altra. A quella vista, Annalisa rimase immobile, sorpresa da una
flash back.
Aveva quattordici anni e cercava la camera di sua sorella Giuditta, operata d’appendicite la sera precedente.
Di fronte a lei, tuttavia, non c’era il reparto dei ricoverati, bensì un corridoio freddo e costellato di
ambulatori.
Uno dei vani aveva una mezza parete a vetri oscurata da una tapparella malconcia e Annalisa, sbirciando
dalle fenditure tra una costina e l’altra, riuscì a buttare un’occhiata all’interno. Al suo sguardo invadente
risposero le iridi verdognole e spaurite di una ragazzina pallida, stesa su un lettino. In piedi alla destra della
branda, un medico assicurava una sacca piena di liquido amaranto ad un apposito supporto.
Messo in sicurezza l’involucro, il dottore s’appressò alla paziente e le infilò cautamente un ago nel braccio.
Subito piccole stille di sangue macchiarono il tubicino che collegava l’ago alla sacca e, travolgendosi l’un
l’altra, confluirono nelle vene della ragazzina, i cui occhi ebbero un guizzo di vitalità. Il verde che attorniava
le pupille cambiò tonalità e, da quella spenta delle foglie marce, assunse quella dell’olivina.
La serratura della porta numero sei scattò nuovamente e Annalisa, tornando alla realtà, deglutì.
Quando avrebbe rivisto l’ometto gioviale che stava raggiungendo la solita infermiera, sarebbe stato il suo
turno.
« Andrà tutto bene, non preoccuparti. Anch’io ero nervosa alla mia prima donazione. » Una signora distinta,
infagottata in un cardigan nero, si rivolse alla ragazza con un sorriso incoraggiante.
Annalisa non rispose e si limitò a squadrare con attenzione la nuova arrivata. Quest’ultima era una donna
sulla sessantina, i capelli acconciati in un crocchio ordinato, le mani nodose ricche di anelli e il volto
illuminato da un’espressione particolare, scaltra ma premurosa, che ad Annalisa ricordava molto quella di
un’altra persona, non presente, che le mancava terribilmente: sua nonna.
Nonna Elvira era morta da due mesi, dopo una lunga battaglia contro il cancro, ma, prima che la malattia
glielo impedisse, aveva donato il sangue per una decina d’anni.
Aveva iniziato nel lontano 1998, quando suo marito era tragicamente scomparso in un incidente stradale, e
non perdeva occasione di parlare alle nipoti, riempiendosi d’orgoglio, di quell’attività solidale.
« Donare il sangue, ragazze, » diceva con passione, « è la forma più alta di solidarietà. È vita, vita pura che
scorre in un flusso continuo. »
« Come, in un flusso continuo? » obiettavano Annalisa e sua sorella. « A chi dona mica torna niente, nonna.»
« Chi dona se ne va con il cuore un po’meno pesante, » ribatteva nonna Elvira, « con la consapevolezza di
aver aiutato una vita ad andare avanti, di aver, nel proprio piccolo, sconfitto la morte. »
L’ometto gioviale trotterellò fuori dalla stanza sei e la giovane scattò in piedi, improvvisamente calma.
Il prelievo non durò che una manciata di minuti, al termine dei quali l’infermiera la congedò, applicandole un
piccolo tampone sul braccio, e sigillò la sacca con il suo sangue. Sangue che, magari, avrebbe riacceso gli
occhi di un’altra ragazzina.
Quando Annalisa tornò in sala d’attesa, la signora col cardigan nero le sorrise ancora. Stavolta, lei ricambiò.
Un uomo corpulento prese il suo posto nel vano delle donazioni; mentre un bambino paffutello raccoglieva il
giocattolo che era stato della bimba bionda, ora abbandonato su una sedia.
Le palline rosse, che non si erano mai fermate del tutto, ricominciarono a muoversi vistosamente.
L’energia richiamava altra energia, la vita altra vita, e la fila fuori dalla stanza sei si allungava.
Il bicchiere che Annalisa aveva notato al suo arrivo in ospedale era ancora sul pavimento, mezzo pieno.