Introduzione Attrattività urbana, città attraenti e arte contemporanea

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Introduzione Attrattività urbana, città attraenti e arte contemporanea
Introduzione
Attrattività urbana, città attraenti
e arte contemporanea
Nella saggistica, così come nel gergo comune, è diffusa la tendenza ad assegnare alle città attributi che, in realtà, spetterebbero agli individui. Già nel Seicento
il geografo Magini (1632) attribuiva alle città epiteti che ne defnivano il carattere e l’importanza riconosciuta, almeno, dalle élite. Se Venezia era ricca e Firenze bella, Genova era invece superba, Roma santa e Milano grande. Allora, come
ai nostri tempi, questi attributi rinviavano a una pluralità di criteri fnalizzati, comunque, a sottolineare la superiorità di una città rispetto alle altre. Il fatto
che nei secoli alle città siano stati dati nuovi attributi è spiegato solo in parte dai
mutamenti avvenuti al loro interno. Gli attributi, infatti, rispecchiavano le caratteristiche delle città ma anche le aspettative che coloro che le abitavano nutrivano nei loro confronti. Aspettative che, come è noto, sono cambiate nel corso
della storia declinandosi in attributi che rinviavano ora al potere politico della
città capitale, ora a quello economico della città-impresa, ora a quello geo-strategico della città centrale infne a quello economico-fnanziario della città globale.
Sul cambiamento dei valori hanno infuito soprattutto le grandi trasformazioni politiche e produttive dell’ultimo millennio. Durante la formazione dei grandi
stati nazionali, nel XVII e XVIII secolo, la scelta di concentrare le istituzioni del
potere nella capitale permise di assoggettare i potentati locali, facendo del dominio politico l’attributo universalmente associato alle città più importanti (defnite
dominanti). Con l’industrializzazione la gerarchia dei valori cambiò e nelle città
dei produttori, nelle quali i redditi provenivano da fonti interne (Weber 1961), il
possesso di capitale diventò il nuovo attributo di rilevanza urbana.
La localizzazione delle imprese al di fuori dei perimetri urbani, avvenuta
durante la deindustrializzazione e terziarizzazione – la terza grande trasformazione produttiva iniziata negli anni Settanta del Novecento –, ha trasformato le
città da luoghi di produzione a centri di servizi. La concentrazione dei servizi più
specifci, e meno diffusi, nelle città più importanti ha fatto della centralità territoriale un nuovo attributo urbano, collocando al vertice le città poste al centro di
vaste aree gravitazionali (dette metropolitane).
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L’ultima grande trasformazione, la globalizzazione, si innesta sulle conseguenze della deindustrializzazione in termini di dispersione geografca delle attività economiche, con la conseguenza di concentrare il coordinamento, la gestione e il fnanziamento di tali attività in poche città defnite globali (Sassen 2006).
Nelle città globali i servizi alla produzione assumono un ruolo sempre più importante e gli scambi di capitale si verifcano su scala mondiale, sfruttando interconnessioni che prescindono i limiti geografci dei paesi in cui esse sono poste.
Tutti questi processi hanno avuto origine nelle città dell’ultimo millennio, trasformando le funzioni e la composizione e distribuzione territoriale dei gruppi
sociali che le hanno abitate (Barbagli e Pisati 2012). Il cambiamento delle funzioni ha portato con sé quello dei valori attribuiti alle città, passando dal controllo politico del territorio nazionale nelle città capitali all’attrazione e valorizzazione produttiva del capitale nelle città-impresa, alla concentrazione dei punti di
comando dell’economia mondiale, della fnanza e dei servizi specializzati per le
imprese nelle città del terziario e in quelle globali del XX secolo.
Nonostante il cambiamento dei valori, però, in tutte le fasi storiche le città
più importanti sono state quelle che hanno saputo attrarre popolazione, capitale, lavoro e ricchezza. In particolare in Europa, dove la formazione dei grandi
stati nazionali è avvenuta solo a partire dal XVII secolo e in cui le città erano
in competizione per impossessarsi delle migliori risorse materiali e umane. Nel
suo studio sul miracolo europeo Jones (1981) ricorda che nel XVI secolo le città
più ricche e popolose erano quelle che, in un contesto caratterizzato dalla rigida separazione territoriale tra contee, signorie e regni, seppero aprire le porte,
accogliere e dare libertà di azione ai portatori di nuove competenze. Limitandoci al campo artistico, è noto che il successo della Firenze rinascimentale fu
dovuto non solo all’ingente quantità di denaro speso dai nobili per commissionare opere d’arte, ma anche al richiamo dei migliori artisti presenti sul mercato internazionale. Questi ultimi erano liberi di muoversi sul territorio e di
lasciare la contea o il regno che non li valorizzava, sapendo che ve ne sarebbero
stati altri pronti ad accoglierli e a far fruttare le loro competenze. A partire dal
secondo millennio i viaggi degli artisti, degli intellettuali, dei tecnici e, persino, dei membri delle corti diventarono così frequenti che non sembra azzardato
dire che l’Europa è stata costruita lungo le strade che collegavano le città (Mazzei 2013).
Il successo delle città che oggi hanno un ruolo preminente in campo economico e politico riposa quindi su mille anni di capacità di attrarre le risorse migliori che, una volta integrate, hanno saputo valorizzare quelle locali. Il tema dell’attrattività urbana, che da circa vent’anni anima il dibattito sulle condizioni che
sottendono lo sviluppo socio-economico nelle città contemporanee, non è quindi
una novità. Anzi, sembra possibile dire che le città di successo sono sempre state
attrattive, senza fare nulla di particolare per esserlo tranne che svolgere al meglio
le funzioni per cui esistono, ovvero garantire le migliori condizioni di vita alle
persone che le abitano.
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Oggi, al contrario, le città hanno fatto dell’attrattività, e della competitività –
alla prima spesso associata –, il principale attributo che occorre possedere per
avere successo in una fase caratterizzata dalla globalizzazione dei processi socioeconomici (PUCA 2009). A questo proposito l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OECD 2005) defnisce attrattivi i territori capaci
di richiamare competenze e manodopera qualifcata al fne di favorire lo sviluppo economico e la rigenerazione urbana. In una fase come quella attuale, caratterizzata dalla riduzione della distribuzione delle risorse statali e dell’espansione
dei mercati – si aggiunge –, le possibilità di sviluppo sono demandate alla capacità degli attori locali di attrarre innovazione.
Sono molti gli autori che, similmente all’OECD, offrono una lettura dell’argomento incentrata sulla relazione fra attrattività di risorse innovative, aumento della competitività e sviluppo territoriale. In sintesi, essi affermano che le possibilità di sviluppo di un territorio, o di una città, dipendono dalla capacità di
attrarre imprese innovative che richiamano forza lavoro qualifcata e ben pagata,
il cui maggiore potere d’acquisto porta all’aumento dei consumi e della ricchezza. L’incremento della ricchezza, a sua volta, attrae negozi, servizi e luoghi per il
tempo libero di elevata qualità, trasformando città – a volte modeste – in attraenti località di richiamo.
Si tratta di una lettura del tema dell’attrattività di grande interesse, in primo
luogo perché mette in evidenza il ruolo che le variabili territoriali esercitano
sull’attrattività urbana. La storia delle imprese che hanno prodotto buoni posti di
lavoro, elevati salari e sviluppo urbano raramente parla di politiche pubbliche di
successo. Racconta invece di località, a volte depresse, che scelte dagli imprenditori per la posizione geografca favorevole hanno saputo diventare cluster territoriali dell’innovazione, centri di eccellenza e città attraenti. Il caso di Seattle, negli
Stati Uniti, è a questo proposito emblematico. Quando nel 1979 Bill Gates e Paul
Allen decisero di trasferirvi la sede di Microsoft, la città si trovava in una condizione di forte depressione. La ristrutturazione industriale aveva causato la chiusura di fabbriche importanti e molti quartieri giacevano in stato di degrado. In
due anni, e con soli 13 dipendenti, le vendite dell’azienda superarono un milione
di dollari e in meno di dieci anni trasformarono la città in un polo di attrazione
nel settore high-tech locale. La presenza di Microsoft, e la galassia di migliaia di
imprese costituite dai suoi ex dipendenti, ebbe poi ripercussioni nei settori estranei all’alta tecnologia, aumentando il numero di posti di lavoro e trasformando gli
ex quartieri degradati in aree alla moda, quartieri residenziali e centri fnanziari (Moretti 2013).
Il caso di Seattle insegna che un’impresa di successo può creare un’area di
eccellenza imprenditoriale e lavorativa e trasformare una città depressa in una
località attrattiva e nel tempo, persino, attraente.
Arriviamo così al secondo merito delle teorie sulla relazione fra attrattività,
competitività e sviluppo economico, quello di avere spiegato le ragioni strutturali del successo delle città attraenti. Il fascino delle città, esse affermano, ripo-
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sa sempre su basi economiche stabili e raramente le città sono diventate attraenti senza aver prima saputo richiamare risorse materiali e umane innovative. Lo
testimonia la storia delle attuali città di successo ma anche quella delle città del
passato. Le città storiche conservano ricchezze artistiche e architettoniche, che
oggi attraggono milioni di visitatori, che sono l’eredità degli antichi successi economici e del lavoro delle migliori risorse umane attratte dalle buone possibilità di
guadagno.
Si cela, dietro queste considerazioni, la critica ad alcune recenti teorie che
ripongono il successo delle città nella capacità di attrarre ceti creativi, progetti e opere di elevata rilevanza simbolica (i cosiddetti progetti fagship). I ceti creativi di cui parla Florida (2002), si dice, sono attratti dal successo delle città ma
raramente ne sono la causa. A Berlino, una delle città più attraenti dell’attuale
panorama urbano internazionale, più di un terzo dei creativi è disoccupato e tutti
gli indicatori di performance segnano valori negativi. Sottoposte a un’analisi con
i tradizionali indicatori di sviluppo economico, le cosiddette città creative sono
molto lontane dai vertici delle classifche di performance e mostrano una costante perdita di popolazione locale (Malanga 2004). Ma anche regioni come l’Ile de
France, tra le più attraenti al mondo, perdono progressivamente abitanti a favore
di località in cui è migliore la qualità di vita (Ingallina 2009).
I progetti e le opere di elevata rilevanza simbolica, dal canto loro, danno i
migliori risultati in termini di aumento dell’attrattività e della competitività quando si appoggiano su solide basi economiche e su effcienti servizi e infrastrutture
urbane. In sintesi, le città attraenti sono quelle che hanno saputo attrarre le risorse
che ne hanno aumentato la ricchezza che, a sua volta, ha creato le condizioni per
attirare nuove popolazioni, progetti e opere urbane.
Tuttavia esistono città che hanno attratto risorse innovative e sono diventate
ricche ma che non per questo sono attraenti. Seattle, per tornare all’esempio, ha
attratto e creato lavoro, ricchezza e quartieri in cui è piacevole vivere, ma raramente è visitata per motivi diversi dalla curiosità di vedere la sede di Microsoft.
Le teorie che abbiamo fnora descritto parlano di città che attirano lavoro, producono ricchezza e servizi di alta qualità per le popolazioni che le abitano. Ma il
fascino delle città attraenti rinvia sempre più alla possibilità di ospitare attrazioni,
il più possibile esclusive, che attirano popolazioni temporanee. Sono defnite tali
le popolazioni dei lavoratori, degli studenti e dei consumatori che abitano in città
diverse da quelle in cui lavorano, studiano, fanno acquisti e usano i servizi (Martinotti 1993). Ma sono popolazioni temporanee anche quelle dei turisti e dei visitatori che attraversano le città alla ricerca di attrattive.
L’uso del termine popolazione per queste categorie di persone è recente e giustifcato dall’elevata consistenza del loro numero, dalla comune attività svolta e
dalla presenza temporanea in città. La loro crescente consistenza, in particolare
nelle città turistiche e in quelle dotate di molte attrattive, ha causato reazioni contrapposte. Da un lato è stato criticato il fatto che esse abbiano creato confitti con
la popolazione residente per l’utilizzo dello spazio urbano. Il problema rinvia non
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solo alla compresenza di popolazioni diverse sugli spazi limitati della città, ma
anche a quello del differente utilizzo che esse ne fanno. Sono noti i confitti che
possono nascere tra chi usa i luoghi della città per lavorare o per vivere e coloro che lo fanno per divertirsi. I turisti visitano la città alla ricerca delle attrattive
più conosciute che sono, spesso, anche luoghi di vita e di lavoro delle popolazioni residenti. La loro coesistenza diventa insostenibile quando i primi sono troppo
numerosi o quando richiedono di fare un uso esclusivo degli spazi urbani. A ciò
si aggiungono i problemi riguardanti l’autenticità delle attrattive urbane. I turisti
e i visitatori temporanei ricercano soprattutto le attrattive di cui hanno immagine dai mezzi di comunicazione, che non sempre però corrispondono alla realtà.
Adeguare la città e le sue risorse all’immagine stereotipata che ne hanno i visitatori può ridurne, anziché aumentarne, il livello di attrattività. Lo stesso rischio lo
si corre quando si cerca di attrarre visitatori con eventi e opere pubbliche di dubbio valore o avulsi da un disegno progettuale più ampio.
Critiche, queste ultime, che sono state però compensate dalle argomentazioni di coloro che ricordano che la città delle popolazioni temporanee è più bella di
quella tradizionale, laddove la bellezza rinvia a una pluralità di attributi. Innanzitutto al fatto che nella città delle popolazioni si concentrano i luoghi attraenti,
del lavoro, ma anche del consumo e dell’incontro. È il motivo per cui esse attirano popolazioni diverse le cui richieste, poi, hanno il risultato di accrescere l’impegno per rendere le città più belle e ospitali. In queste città la funzionalità e l’effcienza, tipiche della modernità industriale, sono date per acquisite e l’attenzione
si rivolge alle qualità estetiche (Amendola 2010). Si è parlato a questo proposito
di «rivincita delle muse» (Cervellati 1991), laddove la bellezza della città diviene un elemento dell’esperienza urbana e un attributo della qualità della vita. Le
popolazioni temporanee, e al loro interno i turisti e i visitatori, ricercano nella
città la bellezza che, a volte, quella residente non riesce più a vedere. Lo sguardo
del turista stimola il cittadino a guardare la città con occhi diversi (Urry 1990),
a ricercare la bellezza che ne ha fatto l’opera d’arte che tutti desiderano visitare.
Una condivisione estetica che rinvia a quella più profonda che gli uomini provano
di fronte alle opere che li fanno sentire parte di un’identità collettiva, al di là delle
popolazioni a cui appartengono.
Di questo tipo di città, dei suoi luoghi, delle sue opere e delle popolazioni
che ne sono attratte si occupa questo libro. Il discorso prende avvio dal racconto dei luoghi urbani nei quali il consumo, l’incontro e, anche, la mobilità diventano fattori di attrazione. La descrizione dei luoghi, e degli elementi che nella storia
ne hanno fatto parte, muove dall’assunto che ciascuno di loro riassume i caratteri dell’altro, nella condivisione di una comune appartenenza allo statuto urbano.
Così, come vedremo, quelli di consumo sono anche luoghi di incontro che, a loro
volta, sono anche della mobilità, lungo i cui percorsi le persone sostano e interagiscono. Non è stato sempre così nella storia dell’umanità, lo è stato in quella
della città europea moderna, di cui parla questo libro. Le popolazioni attratte dai
luoghi urbani sono l’argomento della seconda parte. Verranno raccontate dedi-
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cando attenzione ai luoghi in cui si muovono, ai tempi in cui lo fanno e alle loro
fnalità.
La città esercita una capacità attrattiva anche quando produce e diffonde cultura e crea le basi per farlo (Vicari Haddock 2004). Il nostro paese è visibilmente legato al patrimonio artistico e culturale che ha ereditato dal passato, basti pensare al numero di musei presenti sul territorio (4588 censiti dall’ISTAT per l’anno
2011), che conservano solo in piccola parte il vasto patrimonio culturale materiale e immateriale diffuso capillarmente nelle strade delle città, patrimonio che si
compone in un tutto organico insieme al paesaggio e alla cultura che ha fatto del
“modello Italia” un modello unico al mondo, nonché l’elemento di maggior attrazione del nostro paese (Settis 2002). L’Italia, però, si è adagiata sul proprio passato glorioso e fatica a dare impulso alla produzione culturale contemporanea, portatrice per defnizione di contraddizioni e incertezze (Caliandro e Sacco 2001).
Città come Torino, Napoli e Milano hanno investito sull’arte contemporanea considerandola una importante leva di rigenerazione urbana. In altre città,
sono stati invece investitori privati a scommettere sulla produzione odierna: caso
esemplare è Venezia, sede della Biennale d’Arte, dove gli spazi espositivi e fondazioni aperte al pubblico negli ultimi anni hanno impartito una maggiore spinta al turismo culturale legato al contemporaneo. Ciò che è accaduto in numerose
altre città europee, negli ultimi anni, su iniziativa delle pubbliche amministrazioni, ha avuto a che fare con azioni di marketing territoriale, che hanno dato vita
a progetti e investimenti culturali con lo scopo di riqualifcare l’immagine della
città in un’ottica di maggior competitività nella promozione di sé. Generalmente si tratta di grandi progetti culturali inseriti in piani di riqualifcazione urbana
al fne di costruirne una nuova identità “nella quale cultura, creatività e innovazione trovino un radicamento sempre più profondo all’interno del fusso delle attività economiche e turistico-commerciali”, progetti ai quali si chiede di produrre
risultati sostanziali in termini di attrazione territoriale e di ritorno di immagine per la città, che possono fnire, però, col minare l’identità locale, rendendo la
città omogenea a qualsiasi altra (Comunian e Sacco 2006). È dunque necessario porre attenzione affnché non si crei un prodotto di consumo turistico avulso
dalla cultura e l’identità locale, coinvolgendo nelle scelte decisionali la comunità stessa. Oltre ai progetti su larga scala è pratica comune delle pubbliche amministrazioni l’inserimento di sculture, installazioni, oggetti esteticamente appaganti e la produzione di eventi negli spazi urbani allo scopo di ridare o conferire
una qualità estetica, o una funzione sociale e identitaria agli spazi urbani. L’arte
può essere chiamata ad assolvere una funzione di attrazione e di “addolcimento”
della vita cittadina, oppure esprimere le problematiche del proprio tempo (Fabbri e Greco 1995), anche attraverso progetti che coinvolgono le comunità locali a
diversi livelli di partecipazione.
L’arte contemporanea fuori dal museo invade la città, espandendosi dai luoghi deputati a ospitarla quali musei e gallerie alle strade, piazze, parchi, stazioni, ecc. e si rivolge generalmente a un pubblico indifferenziato, anche se alcune
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sue forme riescono a parlare quasi esclusivamente al pubblico del museo (si veda
cap. 9). L’arte può essere anche un mezzo, attraverso la condivisione e la partecipazione del pubblico, non più inteso come semplice osservatore ma come parte
attiva del processo di costruzione e di signifcazione dell’opera, in grado di risvegliare la consapevolezza e lo spirito critico di chi abita o frequenta un dato territorio: l’arte si propone come luogo di confronto, richiedendo a chi vive e utilizza
la città di costituirsi quali artefci più che spettatori. Fin dagli anni delle Avanguardie artistiche del Novecento e in modo più consistente con gli happening e
le derive situazioniste, l’arte nella città ha fornito nuove forme di intervento sul
tema dell’abitabilità, della coabitazione tra culture, della condivisione e lo scambio sociale, dell’intervento politico.
La parte terza del libro si propone come un insieme di itinerari critici e descrittivi sull’arte contemporanea nello spazio urbano, focalizzandosi sugli interventi
di natura permanente, in Italia: il tema delle “archisculture” come presenze iconiche nella città globalizzata; il nuovo monumento, che da oggetto solenne ed eterno quale era in passato si dissolve sempre più in forme effmere e a volte intangibili; le pratiche che coinvolgono specifche comunità attraverso l’attivazione di
strategie diversifcate di partecipazione e condivisione; l’arte chiamata a cambiare di segno i nonluoghi della mobilità, come metropolitane, stazioni, aeroporti;
l’uso espressivo della luce nella città di notte e infne i giardini e i parchi che contengono sculture e installazioni, diffusi capillarmente sull’intera penisola.
Il libro, di taglio divulgativo, è stato scritto dagli autori con l’intenzione di
rivolgersi, soprattutto, a un pubblico di studenti universitari in sociologia urbana, sociologia del turismo e arte contemporanea. La sua stesura ha richiesto un
approfondito lavoro di documentazione bibliografca e statistica realizzato con il
supporto, paziente e competente, di Licia Lipari e Melissa Moralli. A loro e agli
autori e autrici dei box, Angela Maderna, Fabrizio Pizzuto, Hilda Ricaldone, Stefano Taccone, vanno i nostri ringraziamenti.