Perché la Solitudine? Argomenti per una psicologia della

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Perché la Solitudine? Argomenti per una psicologia della
Perché la Solitudine? Argomenti per una
psicologia della solitudine
ANTONIO LO IACONO *
Ritiratevi in voi ma prima preparatevi a
ricevervi, sarebbe una pazzia affidarvi a voi
stessi se non vi sapete governare. C’è modo di
fallire nella solitudine come nella compagnia.
(Montaigne, Saggi, Libro I, capXXXI)
Una delle difficoltà maggiori, quando si parla di solitudine è quella legata alla
possibilità di descriverla in modo adeguato. In Italiano la parola solitudine non
definisce uno stato o una sensazione, mentre in inglese si usano tre termini diversi per
descriverne le sfumature. Per indicare che non si è in compagnia di alcuno si usa la
parola aloneness, per descrivere il sentimento e/o l’emozione di sentirsi soli si dice
loneliness, mentre con solitude si vuole esprimere il raggiungimento di una propria
autonomia e una crescita psicologica. Si può affermare che il tema della solitudine è
stato affrontato un po’ da tutti i pensatori. Alcuni in particolare come Seneca, Pascal,
Montaigne, Kierkegaard, Nietzsche, Unamuno, Heidegger, Jaspers, Sartre, Camus,
Marcel, Berdjaev, Abbagnano, hanno cercato quasi di tracciare una filosofia della
Solitudine delineandone una caratteristica condizione ontologica dell’individuopersona. Molti scrittori hanno pensato alla solitudine come estrema possibilità di
sentirsi in compagnia, lontano dal clamore della gente, per rifugiarsi in siti solitari alla
ricerca un’ispirazione non inquinata da volgari interferenze, ritrovandosi, mutatis
mutandis, in luoghi privilegiati che rassomigliano alla scelta dei posti solitari e
irraggiungibili, scelti dai padri del deserto del III e IV secolo. Il Petrarca, per esempio,
nel De Vita Solitaria esalta l’isolamento come uno strumento ideale per accrescere le
doti morali ed intellettuali di ciascuno. Si può dire che l’allenamento alla solitudine
inizia precocemente, forse prima della nascita, ma è nascendo che l’individuo incontra
questa prima compagna che non perderà di vista, fino alla fine. Nascendo inizia
questo momento di frattura, di scissione, che gli analisti potrebbero identificare come
“prima castrazione”; e la madre, pur essendo portatrice di vita, diventa anche
portatrice di morte: della vita fetale quindi in qualche modo una Parca ante litteram.
Effettivamente quest’espulsione può sembrare la classica “cacciata dall’Eden” con il
“naturale” rischio di vita che questo passaggio comporta. Concetto che è accennato da
Sigmund Freud nel 1926 nel suo Inibizione, Sintomo, Angoscia; ma è Otto Rank che,
nel 1924, già definisce il “Trauma della nascita” come un modello base per tutte le
altre successive situazioni di separazione. Questa separazione, così decisiva per la
costruzione del carattere, viene ben rappresentata sempre da Freud (1920, Al di là del
principio del piacere), quando descrive il rituale di un bambino di 18 mesi che gettava
lontano un rocchetto legato a un filo, per poi farlo, a suo piacimento, riapparire
tirando lo spago. In qualche modo era una via, usata dal bambino, per risarcirsi
dell’assenza della madre e per elaborare l’angoscia di separazione. Ma ci sono
innumerevoli situazioni in cui il distacco o le cure materne non adeguate diventano
un’arma micidiale per l’evoluzione psicofisica dei bambini; un’esperienza decisiva fu
quella dello psicoanalista francese René Spitz riguardo all’influenza fatale della
solitudine (mancanza d’amore) sui bambini trascurati, uno stato che chiamò
“depressione anaclitica”. Molti colleghi credono, non a torto, che il bisogno di
intimità sia molto vicino ai bisogni fondamentali dell’individuo, come la sete, la fame,
il sesso e spesso l’insoddisfazione di questi bisogni porta a fenomeni compensativi di
dipendenza, come la bulimia, il tabagismo, l’alcoolismo, la tossicodipendenza, il
gioco compulsivo. Tutte le persone che rimpiangono una soddisfazione, non avuta a
suo tempo, cercano vari meccanismi difensivi per non sentirsi più abbandonati e/o
separati da una parte intima di sé. Questa nostalgia, comune ad ogni esperienza
umana, si configura, talvolta, come parte essenziale del sentimento di solitudine, quasi
un bisogno di credere che è esistito l’Eden e che, in un modo o in un altro, ci si possa
ritornare. Questo passato idealizzato, comune alla maggioranza delle persone, si
esprime come normale fantasia di un ideale perduto e rimpianto (il termine nostalgia
letteralmente vuol dire “ritorno del dolore”, o in inglese “malattia di casa”,
“homesickness”) che può riguardare il profugo, come il combattente in terra straniera,
o anche la persona immatura che ha difficoltà a crescere e prendersi le proprie
responsabilità. Quest’ultimo atteggiamento, che dà in genere un grosso senso di
isolamento, è più vicino a un modello di nostalgia patologica (nostomania)
riempiendo sempre più di vuoto il mondo della persona con ragionamenti circolari del
tipo: «il passato è perduto, il futuro non potrà mai realizzarsi», «tutto è senza
senso…», «sono perduto nel mio vuoto, nella mia solitudine…». Sono ormai più di
vent’anni che studio questo fenomeno. Devo dire che l’ispirazione a questa ricerca mi
è stata data da un poeta piuttosto che da uno psicologo. In particolare il verso «ci si
potrebbe sentire più soli senza la solitudine» di Emily Dickinson, la grande poetessa
americano dell’Ottocento, che per un amore infelice si barricò in casa per 25 anni.
Riguardo alla separazione la stessa Dickinson afferma che «è tutto ciò che sappiamo
del Cielo e tutto ciò che basta per sapere dell’Inferno». È molto contraddittorio il
sentimento di solitudine. Può passare dagli altri (la gente) vissuti come inferno
(eterofobia, vedi in Sartre, La porta chiusa), alla disperazione poiché gli altri
mancano profondamente nel nostro territorio affettivo. Spesso si confonde insieme la
paura di essere soli, con il desiderio di esserlo. Ma come psicologi è importante
interrogarci sulla capacità di essere soli. Ecco allora che l’importanza di definire una
Psicologia della Solitudine mi ha portato ad approfondire attraverso ricerche,
conferenze, congressi questo tema così complesso come è complessa e variegata la
natura umana. Perciò ho proposto al consiglio direttivo della SIPs il titolo “Il silenzio
e le parole: Psicologia della Solitudine” per il congresso Internazionale che avrà
luogo in aprile del 2003 a Roma. I temi da affrontare nei tre giorni previsti sono
molteplici e polidisciplinari: si comincia ad esaminare la prima solitudine della
nascita dell’essere umano, per proseguire nell’età evolutiva e in tutte le fasi di
passaggio in cui la persona subisce, suo malgrado, questa compagna talvolta scomoda
e pericolosa e altre volte, paradossalmente, consolatoria e liberatoria. Poi si passa ad
esaminare l’effetto-interazione della solitudine secondo il carattere e le correlazioni
con altri fenomeni come quello dell’innamoramento e quello della dipendenza. Qui si
possono includere coloro che sono separati contro la loro volontà (divorziati, vedovi,
situazioni di rapporti a distanza, l’isolamento per ricerca o per attività professionale,
ecc.) e coloro che sono carcerati , lungodegenti, o malati terminali. Si esamina quindi
la gabbia di solitudine che gli psicotraumatizzati si costruiscono sia quando il trauma
succede in età evolutiva che quando avviene in età matura. Si affronterà quello che
riguarda la solitudine del lavoratore dipendente, quello dell’operatore nelle
professioni di aiuto e dello Psicoterapeuta. Sulla creatività sarà trattata la solitudine
dello scrittore, del poeta e dell’artista. Infine la solitudine vista come evento
terapeutico e rivoluzionario per la propria esistenza. Tutti i colleghi interessati a
portare un contributo scientifico (da consegnare entro la fine di marzo), possono
mettersi in contatto con la Società Italiana di Psicologia SIPs, via Tagliamento, 76 –
00198 Roma, tel.fax. 06. 8845136, e-mail [email protected], sito web www.sips.it.
* Docente di Psicologia Clinica e Psicoterapia SMORRL, Presidente della Società
Italiana di Psicologia (SIPs).