La vicenda di Paolo: dalla conversione all`annuncio

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La vicenda di Paolo: dalla conversione all`annuncio
La vicenda di Paolo: dalla conversione all’annuncio
Celebrando l’anno paolino, nel bimillenario della nascita dell’Apostolo delle genti, la nostra
Chiesa di Lucca vuole incentrare il suo bimestre formativo sulla figura di Paolo. Tra i molteplici
elementi che caratterizzano la ricchezza della sua biografia spirituale e culturale e costituiscono la
densità della sua testimonianza apostolica e del suo insegnamento teologico, si sceglie di
soffermarsi in particolare sull’evento della sua conversione. Esso contiene in germe tutta la
potenzialità degli sviluppi successivi della sua esistenza credente, testimoniale ed apostolica, tanto
dal punto di vista della sua metodologia missionaria, quanto sotto il profilo delle linee portanti del
suo insegnamento e della sua teologia.
L’evento storico personale dell’incontro con il Signore, nel quale la nostra esistenza viene
segnata dall’accoglienza del suo amore, dall’irrompere di una novità che la trasforma, strutturandola
secondo un «prima» e un «dopo», apre in effetti l’orizzonte di un vissuto radicalmente nuovo,
animato dall’esperienza viva dell’amore rigenerante di Dio. In esso si dispiega la prospettiva di un
cammino tutto ancora da scoprire, ma la cui direzione è già in certo modo provvidenzialmente
tracciata, e il cui segreto di luce e di senso, già potenzialmente offerto nell’esperienza originaria
della grazia, chiede di essere progressivamente scoperto ed incessantemente riaccolto.
Se a Tarso è possibile rinvenire le tracce dell’accurata formazione culturale del cittadino
romano di Cilicia, e a Gerusalemme trovare il contesto della solida educazione religiosa dello
zelante fariseo, mentre Antiochia costituisce l’ambiente fecondo della crescita ecclesiale e
missionaria dell’Apostolo delle genti, solo l’esperienza di Damasco racchiude l’identità segreta
dell’ebreo convertito e svela il DNA spirituale della sua esistenza battesimale ed apostolica. Per
cogliere la radice più autentica e profonda della biografia spirituale e missionaria di Paolo è dunque
necessario fissare l’attenzione su ciò che accadde lungo la via di Damasco.
1. L’evento di Damasco
Il fatto fondante la mutazione esistenziale, il vissuto teologale e la comprensione teologica
di Paolo può essere in certo modo ricostruito a partire da una duplice fonte: la testimonianza lucana,
con il triplice racconto di At 9; 22 e 26 e la stessa autotestimonianza paolina, qua e là disseminata
lungo le Lettere, ma particolarmente evidente in Gal 1-2; 1Cor 15; 2Cor 11-12 e Fil 3, con cenni
anche nelle Deuteropaoline (Ef 3 e Col 1) e nelle Pastorali (1Tm 1), le quali, pur appartenendo a
generazioni successive, saranno considerate, nel loro carattere di autentica eredità paolina, quale
fonte del pensiero di Paolo, alla stregua delle sette epistole ritenute unanimemente autentiche.
La fonte lucana e quella paolina non sembrano a prima vista del tutto concordi, ma si
differenziano principalmente sotto due punti di vista: se gli Atti ribadiscono una distinzione quasi
sostanziale tra le apparizioni del Risorto agli Apostoli ed il suo rivelarsi a Paolo, questi nelle Lettere
sembra invece di fatto equiparare la sua diretta esperienza del Signore Gesù con quella dei primi
testimoni; mentre poi il narratore lucano si diffonde con ampiezza descrittiva sugli elementi, i
passaggi e le circostanze di quanto accadde lungo la via di Damasco, le esternazioni paoline sono, al
contrario assai sobrie e pudorose nel dispensare particolari e risvolti di un fatto tanto indubitabile
quanto misterioso. Tali differenze, che non devono essere comunque troppo accentuate, trovano una
loro spiegazione funzionale sia sul piano teologico sia su quello psicologico-spirituale.
Sotto l’aspetto teologico il punto di vista di Luca e quello di Paolo sono differenti: il primo
pone una distinzione netta, pur nella continuità, tra il tempo di Gesù, sino all’ascensione e
pentecoste, e quello della Chiesa animata dallo Spirito, nel quale si colloca la vicenda di Paolo, che
non può essere pertanto annoverata nel ciclo delle apparizioni post-pasquali; il secondo tende
invece a considerare l’esperienza di Damasco alla stregua degli incontri pasquali con il Risorto per
dare credito e fondamento alla singolarità della sua missione apostolica, realmente paragonabile a
quella dei Dodici (1Cor 15,3-9). Dal punto di vista psicologico-spirituale è del tutto comprensibile
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che Paolo, come chiunque debba pronunciarsi sulle misteriose vie della propria interiorità e
dell’amorosa Alterità che la pervade, si riferisca solo per accenni e con molta riservatezza
all’evento centrale della propria conversione, mentre Luca possa invece diffondersi con particolari
descrittivi su un evento così decisivo per la storia della Chiesa primitiva, traendo tuttavia luce da
modelli interpretativi biblicamente codificati, come le narrazioni di vocazioni profetiche (Ger 1; Ez
1; Is 6; 42 e 49) o i dialoghi di apparizioni patriarcali (Gen 12; 22; 46). Chiunque, del resto, volesse
correttamente pronunciarsi anche circa la propria conversione o la singolarità della propria
esperienza della grazia, non potrebbe che ricorrere al confronto con analoghi eventi descritti nelle
pagine bibliche (Gal 1 che riprende Ger 1). Al di là di tali comprensibili differenze, la triplice
testimonianza lucana e la molteplice, seppur frammentaria, testimonianza paolina sono dunque da
considerarsi sostanzialmente conformi, e possono essere insieme assunte e comprese nel reciproco
confronto. Le narrazioni base degli Atti potranno dunque essere utilizzate come struttura
fondamentale in cui inserire i diretti riferimenti delle Lettere paoline.
1.1. I passaggi strutturali del triplice racconto di Atti
Il racconto di quanto accadde sulla via di Damasco, narrato dapprima in Atti 9, è ripreso
altre due volte dalla voce stessa di Paolo, prima davanti al Sinedrio (At 22), poi dinanzi al
procuratore Festo e al re Agrippa (At 26). Una così particolareggiata ed insistente ripetizione è un
fatto del tutto singolare nell’economia di uno scritto così breve come quello di Atti. Tanto le
somiglianze quanto le differenze tra i tre racconti rivestono una funzione decisiva per
l’interpretazione del fatto e per l’indicazione della sua straordinaria portata: le somiglianze aiutano
a comprendere la decisività di alcuni elementi strutturali dell’evento della conversione, mentre le
differenze, oltre alla loro giustificazione all’interno della particolare strategia narrativa dello scritto
lucano, consentono insieme di misurare la fatica della lenta e progressiva appropriazione di una
realtà inarrivabile anche allo stesso Paolo, alla quale egli dovrà incessantemente ritornare, per non
smarrire la direzione di quel provvidenziale disegno in cui la sua vita è rimasta radicalmente
coinvolta. Occorre anzitutto cogliere, attraverso gli elementi comuni alle tre narrazioni, la struttura
fondamentale dell’evento della conversione.
Tutti e tre i racconti presentano la stessa sequenza: 1) la descrizione dell’attività persecutoria
di Paolo prima della conversione; 2) la visione della luce celeste; 3) la voce di Gesù con il suo
appello personale; 4) l’invito a rialzarsi in vista del compimento di un’opera divina ancora da
scoprire.
1.1.1. Lo zelante persecutore
Nei tre racconti l’opera persecutoria di Paolo è descritta in crescendo: in At 9 si narra della
fremente minaccia e strage che egli rappresenta per i cristiani a nome della sinagoga, al fine di
condurre agli arresti i seguaci della «via» di Gesù; nel secondo, lo stesso Paolo afferma di aver
perseguitato «fino alla morte» la nuova «via» del cristianesimo, traducendo agli arresti uomini e
donne, senza distinzione, che l’avessero seguita; nel terzo egli dichiara non solo di aver arrestato,
condotto a processo e votato per la loro condanna a morte, i discepoli di Gesù, ma aggiunge di
averli addirittura torturati per spingerli alla bestemmia nei riguardi di Cristo, dando loro la caccia
fin nelle città più lontane. Con il passare del tempo il Paolo lucano percepisce dunque in modo
sempre più acuto la gravità del suo passato, intensificandone, dal racconto di Damasco alle riprese
di Gerusalemme e di Cesarea, i tratti negativi.
Nelle Lettere Paolo accenna ripetutamente alla gravità della sua condotta prima di Damasco:
in 1Cor 15,9 egli, pur collocandosi nella stessa linea testimoniale degli Apostoli, si considera
tuttavia un «aborto», l’infimo degli Apostoli, per aver perseguitato la Chiesa di Dio; in Gal 1,13s
descrive ancora la sua condotta di un tempo nel giudaismo come fiera e devastante attività
persecutoria nei confronti della Chiesa di Dio, ben al di là del più accanito fanatismo dei suoi
coetanei e connazionali; anche la testimonianza di 1Tm 1,12ss va in questa direzione, con Paolo che
si definisce «bestemmiatore, persecutore e violento», il «primo dei peccatori» salvato da Gesù.
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L’Apostolo non dà un giudizio semplicemente etico sulla propria condotta del passato. Dal
punto di vista morale egli sembra al contrario affermare la sua irreprensibilità nei confronti della
Legge, che si sforzava di osservare scrupolosamente. Il suo zelo persecutorio costituiva
l’espressione stessa della sua osservanza farisaica e della fedeltà all’alleanza mosaica e alle
tradizioni dei padri (Fil 3,1-6; Gal 1,14; ed anche 2Cor 11,23), come anche il racconto lucano di
Atti 22 rileva: Paolo è stato un convinto giudeo, un fiero osservante, come coloro che lo
accusavano. Egli era tuttavia cieco: viveva una pratica di sole opere, con una fiducia nella carne
priva di amore che ha trasformato la sua fede in abominio. Il Paolo precristiano vive una fede
ridotta ad etica delle opere; ha una percezione del peccato soltanto quale categoria etica, di
un’eticità cieca, fanatica e distorta, perché egli non ha ancora conosciuto l’amore di Dio in Cristo,
quale luce carica di verità e, insieme, di misericordia.
1.1.2 L’irruzione della luce
Anche l’elemento luminoso sembra crescere in intensità attraverso i tre racconti; nel primo
si tratta di una luce dal cielo, che avvolge Saulo accecandolo e gettandolo a terra; nel secondo si
specifica che si tratta di «una gran luce», rifulgente tutto attorno e capace di imporsi sul sole di
mezzogiorno; nel terzo la notazione del mezzogiorno è rafforzata dalla descrizione di una luce dal
cielo splendente più del sole. Nel testo lucano Paolo sembra dunque percepire in modo crescente,
con il trascorrere del tempo, la forza decisiva dell’esperienza originaria della luce.
Le divergenze dei tre racconti riguardo alla percezione dei compagni di Paolo, della voce ma
non della luce nel primo, della luce anziché della voce, viceversa, nel secondo, forse neppure più
della luce, che pure tutto attorno avvolge, nel terzo, più che imporsi al lettore come palesi
contraddizioni, sembrano invece indicargli la natura di un evento soprannaturale che, pur
fenomenologicamente percettibile all’esterno, era tuttavia di carattere interiore e del tutto personale.
Luce e tenebra si presentano insieme. Paradossalmente è proprio l’esperienza della luce a
causare l’ingresso nella tenebra. Essa svela infatti la perversa traiettoria del passato, ne scalza la
presunta fondatezza e ne decostruisce la sufficienza progettuale, provocando nel soggetto quello
smarrimento radicale che, privandolo delle sue sicurezze, lo spinge ad affidare la propria vita a
qualcuno. Nel disorientamento così repentinamente e pesantemente intervenuto rimane tuttavia la
presenza di quel punto luminoso, che ha ormai segnato il cuore e la memoria, non ancora come
conoscenza del senso misterioso dell’evento e della sua causa, né quale persuasione profonda
dell’errore precedente, ma come sufficiente invito alla fiducia che consente il primo passo. La lucetenebra è la paradossale manifestazione di un Dio insieme forte e soave, che ama nascondendosi,
che trova per essere cercato, che manifesta la verità solo donando la misericordia, fiamma viva
d’amore che arde senza distruggere (Es 3).
La luce interiore dell’amore, colta ed accolta, da Paolo sarà l’indelebile riferimento di tutto
il suo cammino futuro, dalle tenebre di un pentimento solo incipiente alla luce piena di una
conoscenza profonda del volto luminoso di Cristo e del suo mistero di amore che chiede di essere
testimoniato perché altri passino dalle tenebre alla luce. Nel triplice racconto lucano il riferimento
nella luce si intensifica a tal punto da mostrare quanto agli occhi dello stesso Paolo si sia nel tempo
chiarificata la portata dell’evento di Damasco, la cui luce costituiva già dall’inizio il segno ed il
pegno di una futura missione illuminatrice nei confronti del mondo pagano (At 26), al momento
ancora incompresa. L’esperienza della luce a Damasco è per l’Apostolo l’inizio di un percorso di
illuminazione interiore, quale nuova creazione che, muovendo dalla vittoria sul caos tenebroso del
peccato, giustificato dall’intelligenza solo carnale della Legge, è capace di progredire sino alla
conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo (2Cor 4,6 che cita Gen 1,3).
La luce originaria di Damasco è manifestazione indubitabile di un’identità, la quale rimane
tuttavia causa nascosta dell’abbaglio, che si svela solo in parte, come YHWH a Mosè dal roveto,
non prima di aver manifestato, quale voce che personalmente chiama, la sua intima conoscenza
dell’interlocutore smarrito.
1.1.3. La voce che chiama
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Se la luce è manifestazione di un effetto che cela l’identità della causa, nel levarsi della voce
il misterioso interlocutore divino comincia a manifestarsi, ma ancora in modo indiretto: egli si
rivela intimo conoscente, ancor prima di darsi quale conosciuto; è lui che trova l’uomo prima che
questi possa cercarlo; è lui che misteriosamente lo raggiunge nelle tenebre della sua lontananza; è
lui, infine, che chiama per nome la sua nuova opera creata (Gen 1,3ss; Bar 3,34s). In tutti e tre i
racconti di Atti le parole interrogative pronunciate dalla voce si ripetono in modo
sorprendentemente identico: il doppio nome come nei racconti biblici di vocazione e missione (Gen
22,1; 46,2; Es 3,4; 1Sam 3,4ss) e la sconvolgente domanda, che chiede complessivamente conto di
un persistente operato. La voce apre ad un dialogo, che chiede ed accoglie la risposta dell’uomo.
Così Paolo risponde con un’altra domanda circa l’identità dell’interlocutore, che si presenta come
Gesù perseguitato. Ecco così delinearsi la struttura tripartita del dialogo: l’appello di Gesù che
chiama per nome e chiede conto; la risposta di Paolo ancora in forma di domanda; in ultimo il
definitivo pronunciamento del Signore, che svela la sua identità di perseguitato ed invita a muovere
i primi passi del cambiamento solo sulla base della fiducia.
Il fenomeno visuale della luce intensa lascia il posto a quello uditivo della voce, secondo un
diffuso codice biblico dei racconti epifanici, nei quali gli elementi visivi, spesso progressivamente
oscurati dalla nube si lasciano interpretare e riassumere solo dalla parola pronunciata: dalla teofania
del Sinai, la cui memoria decisiva ed essenziale si riassume nell’esperienza della voce (Es 19,1620,21; Dt 4,11-12) , alla vocazione di Isaia, la cui visione obnubilata nel tempio, punta all’appello
uditivo divino (Is 6,8); al castigo dell’empio Eliodoro profanatore del tempio, anch’egli rovesciato
come Saulo dalla visione divina, in vista della sua parziale riabilitazione attraverso la voce angelica
(2Mac 3,24-34); sino alle narrazioni evangeliche della trasfigurazione di Gesù, dove il progressivo
nascondersi della visione apre alla rivelazione verbale del Figlio da ascoltare (Mt 17,5; Mc 9,7; Lc
9,34s).
L’epifania divina rivela in tal modo di non voler schiacciare l’uomo con il suo abbagliante
fulgore, ma di assicurargli una piena e rispettosa libertà di risposta. La voce di Gesù sulla via di
Damasco manifesta a Paolo la paradossale identità di un vincitore perseguitato, di un glorioso
sofferente, del Signore che ancora patisce nel suo corpo, in modo conforme alle apparizioni
pasquali, in cui il Risorto permane nella sua identità al crocifisso. Soltanto così il chiamato non è
annientato, né può, al contrario, restare indifferente: misericordia e verità si incontrano in lui (Sal
85,11s) in vista di un pentimento suscitato e già riscattato dall’amore manifestato (Lc 7,47; Gv
8,11), come per le folle di Gerusalemme davanti al crocifisso, nel racconto lucano della passione
(Lc 23,48) o all’annuncio di Pietro, nel suo primo discorso riportato negli Atti (At 2,37s). La forza
del Kyrios risuscitato si rivela nella debolezza del Gesù ancora perseguitato che fa appello
all’autenticità del cuore di Saulo e gli apre un nuovo orizzonte di vita nel quale muovere i primi
incerti passi del cambiamento.
1.1.4. L’invito alla fiducia e il nuovo inizio
Come nei racconti biblici di missione, dai Patriarchi (Gen 15,1; Gen 28,13ss; 46,2), a Mosè
(Es 3,12), ai Giudici (Gdc 6,12ss), sino ai Profeti (Ger 1,4-19; Dn 10,19) e alla vergine Maria (Lc
1,30) la voce compensa, con l’invito a non temere, il senso di paura e smarrimento suscitato dalla
visione così anche nella rivelazione di Damasco la voce del crocifisso-risorto incoraggia Saulo a
fidarsi di un comando che lo apre ad un cammino nuovo, al momento ancora incomprensibile.
Anche l’evento della conversione-vocazione si presenta dunque all’esistenza di Paolo con quelle
caratteristiche di fondo tipiche di ogni fenomeno numinoso o soprannaturale, riconoscibile per la
sua paradossalità di tremendum et fascinans, realtà ineffabile e temibile eppure insieme attrattiva e
rassicurante. Tali caratteristiche sono come il sigillo di ogni autentica esperienza del divino, così
come di ogni vero incontro con l’amore, che lascia diminuiti nelle proprie certezze, poveri e
disorientati rispetto alle proprie precedenti sicurezze, eppure profondamente pacificati e rafforzati
nel contesto interiore di una fiducia rigenerata. Dio nel suo manifestarsi colpisce e risana, non
mortifica se non rigenerando: la sua azione è riconoscibile per la sua capacità di aprire alla novità
per mezzo della fede.
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Anche riguardo a tale elemento si registra una progressione nel triplice racconto di Atti:
nella prima narrazione l’invito è avvertito nel suo carattere lapidario ed unilaterale; nella seconda è
invece risposta alla richiesta disponibile di Saulo, mentre nel terzo è già carico di tutta la luce ed il
significato della futura missione. Tale progressione risponde alla crescente presa di coscienza nel
tempo da parte dell’Apostolo, della portata, trasversale a tutto il suo futuro cammino, dell’evento di
Damasco.
Le parole pronunciate dalla voce di Gesù costituiscono dunque il nucleo centrale ed
invariante dell’episodio di Damasco: esse manifestano a Saulo la conoscenza amorevole che Gesù
ha di lui e la continua sofferenza da lui riportata a motivo del suo operato. È soltanto l’unione di
questi due elementi che fa scaturire la trepidante fiducia di Paolo ad obbedire all’indicazione di quel
Signore che lo ha ormai conquistato, con la dolce violenza di chi si nasconde dietro la necessaria
mediazione ecclesiale: le variazioni del racconto lucano consentiranno di mettere in evidenza questo
ulteriore aspetto essenziale dell’esperienza di Saulo.
1.2. Le variazioni del racconto lucano
Già dall’esame della struttura invariante del triplice racconto è stato possibile cogliere
alcune variazioni nella differenza di sviluppo di alcuni particolari da una narrazione all’altra. La
considerazione di altri elementi presenti soltanto in una o due delle tre versioni dell’episodio di
Damasco, consentirà di far emergere almeno altri tre importanti aspetti dell’esperienza paolina: 1) la
mediazione ecclesiale di Anania; 2) la permanente giudaicità di Paolo; 3) la misteriosa e
provvidenziale preparazione all’accoglienza della grazia; 4) l’adeguatezza della sua futura missione
all’esperienza originaria.
1.2.1. La mediazione di Anania e della comunità di Damasco
Il ruolo di Anania, così preponderante nel primo racconto, tende a diminuire nel secondo,
sino alla sua totale scomparsa nel terzo. In At 9 il fedele discepolo riceve una visione preparatoria
all’incontro con Paolo, così come Pietro per l’appuntamento con Cornelio (At 10-11). Con il ricorso
alla doppia visione (Anania che vede il Signore presentargli Paolo, mentre questi, in
contemporanea, vede anticipatamente Anania venire a lui) Luca vuol mostrare il carattere
provvidenziale della mediazione umana ed ecclesiale, dal Signore stesso suscitata e guidata. Nel
primo racconto tale mediazione presenta due importanti caratteristiche: una ritrosia iniziale davanti
al nuovo operato da Dio, per mancanza di completa fiducia; un’azione sacramentale che
accompagna l’inizio della rinnovata esperienza spirituale.
Non solo i primi passi di Paolo necessitano di ricevere indicazioni dalla visione divina e
dalla parola di Gesù: anche Anania ha bisogno di un intervento preparatorio del Signore che sciolga
finalmente le sue paure nei confronti della temibile figura di Paolo. Questi, come rivela il Signore, è
un suo strumento eletto al compimento di un’opera rispetto alla quale le Chiese manifestano
costantemente un ritardo. Nel testo di Atti i passi del cammino ecclesiale che aprono decisamente al
nuovo sono sempre temuti dalle Chiese, che tendono a preferire le rassicurazioni della continuità al
passato. Anche nel caso della svolta di Pietro, con l’ingresso diretto dei pagani nella Chiesa, è
necessario un esplicito intervento preparatorio di Dio nei confronti dell’Apostolo (At 10,1-23), con
il sigillo di una nuova pentecoste (At 10,44-48) ad indicare indubitabilmente la volontà di Dio
rispetto alla ritrosia delle Chiese (At 11,1-18; 15,1-21). Ogni autentica conversione rivela di riflesso
alle Chiese il loro bisogno incessante di conversione e solo la libera e gratuita iniziativa dello
Spirito è capace di vincere le resistenze delle stesse mediazioni ecclesiali.
L’intervento di Anania nei confronti di Saulo si caratterizza come espressione di un rapporto
fraterno, che supera ogni barriera elevata da un drammatico passato, rende ancor più tangibile il
perdono di Dio e lo esprime quale irruzione di grazia nell’evento sacramentale del battesimo e della
mensa eucaristica, dai quali Paolo viene finalmente e stabilmente illuminato e rafforzato. Nel
racconto di At 9 è particolarmente sviluppato l’aspetto della mediazione sacramentale: viene
addirittura tracciato un intero percorso catecumenale, in vista di una compiuta iniziazione cristiana.
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Per tre giorni Saulo rimane nell’oscurità e nel totale digiuno. La cecità è attesa di qualcuno che
assuma l’iniziativa di condurre per mano chi è ormai privo di autonomia; il digiuno è segno di una
rinuncia ad essere da se stessi e per se stessi fonte della propria vita, passaggio attraverso una morte,
come richiesta-attesa di una vita nuova, donata dalla gratuita iniziativa divina. Tale preparazione,
attraverso la totale rinuncia all’autosalvezza ed il completo affidamento alla custodia materna della
Chiesa di Damasco, culmina nelle parole e nei gesti fraterni di Anania, attraverso i quali si compie
l’iniziazione cristiana di Paolo. Anania gli impone le mani, annunciandogli l’amore del Signore
Gesù come opera di salvezza già iniziata ed in parte sperimentata, pur ancora inconsapevolmente da
Paolo; questi solo allora ricupera la vista, acquistando consapevolezza dell’opera divina, ed accetta
il battesimo, assumendo poi il cibo che gli restituisce le forze, velata allusione alla mensa
eucaristica.
Se la Chiesa di Damasco costituisce una fondamentale mediazione per i primi passi di Saulo
nella fede cristiana, quella più vivace e provveduta di Antiochia rappresenta lo strumento attraverso
il quale egli perviene alla maturità del suo ministero apostolico. La figura di Barnaba, pieno di
Spirito e di sapienza, così disposto a compiacersi, senza ombra di invidia, dell’operato dello Spirito
al di fuori della sua persona nella comunità antiochena (At 11,22-24), colui che nella sua profonda
simpatia già aveva vinto le resistenze della Chiesa di Gerusalemme nei confronti dell’expersecutore neo-convertito (At 9,26-28), si ricorda di Paolo, altrimenti, con buona probabilità, per
sempre lasciato nella dimenticanza a Tarso, per avviarlo al suo provvidenziale ministero.
L’Apostolo delle Genti, destinatario di una così grandiosa e diretta manifestazione di Cristo,
ha dunque anch’egli avuto necessità di passare attraverso la porta stretta delle povere mediazioni
ecclesiali e sacramentali. Attraverso di esse la sua vita è radicalmente cambiata, ma senza che tale
cambiamento costituisse una totale cancellazione del suo passato: egli non ha rinnegato la sua
giudaicità.
1.2.2. Una continuità rispetto al passato
Il secondo racconto, in Atti 22, contiene la testimonianza di Paolo dinanzi al Sinedrio di
Gerusalemme. Nella sua apologia l’Apostolo riafferma la sua mai rinnegata giudaicità: dall’infanzia
trascorsa a Tarso, alla più compiuta formazione a Gerusalemme, alla prestigiosa scuola di
Gamaliele, sino ai tempi più maturi della sua attiva militanza farisaica, egli ha sempre inteso
conservare una fedele adesione all’alleanza dei Padri ed una scrupolosa osservanza della Legge
mosaica, alle quali non ha mai inteso venir meno. Attraverso tale apologia, pronunciata in lingua
ebraica, l’autore degli Atti mette in evidenza un particolare del tutto assente negli altri due racconti:
l’adesione a Cristo non è stata per Paolo una conversione dal giudaismo, ma nel giudaismo. Da
discepolo di Gesù egli non solo è rimasto giudeo, ma è divenuto compiutamente osservante di
quella Legge che, sino ad allora, egli aveva compreso forse solo in chiave morale, quale espressione
di opere senza amore, che lo avevano indotto ad una deriva fanatica ed integralista.
Da discepolo di Cristo, Paolo non è dunque costretto a rinnegare in blocco il suo passato
giudaico, ma è invitato a recuperarne in modo pieno quegli elementi autentici che il suo difetto di
conversione aveva completamente stravolto. Egli è ormai giunto alla piena coscienza di una
provvidenziale continuità tra il discepolato a Gesù ed il suo passato farisaico, dai cui eccessi è al
tempo stesso capace di prendere ormai le distanze: a tale proposito, al termine della sua apologia
compare l’autoaccusa dell’approvazione della morte di Stefano (At 22,20), già al momento rilevata,
solo per accenno, nel testo degli Atti (8,1). Il ricordo del primo martire, riguardo alla cui morte
Paolo confessa la propria complicità, si affaccia alla sua mente insieme quale confessione di colpa e
debito di gratitudine. Forse proprio in quella morte, da lui al momento approvata, egli riconosce la
radice remota della sua rigenerazione cristiana.
La continuità rispetto al passato è particolarmente sottolineata in 2Cor 11,21ss, dove
l’Apostolo, in un serrato confronto con i Superapostoli giudeocristiani falsamente accreditati di
Corinto, afferma senza soluzione di continuità il suo essere «ebreo, israelita, stirpe di Abramo e
discepolo di Cristo». Di quel passato di «circonciso l’ottavo giorno, della stirpe d’Israele, della tribù
di Beniamino, ebreo da Ebrei, fariseo quanto alla Legge, quanto a zelo persecutore della Chiesa,
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irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della Legge» egli intende rinnegare
soltanto l’assurda confidenza nella carne, quale perdita, da rigettare come spazzatura, a motivo di
Cristo (Fil 3,5-7). È anzi talmente forte in Paolo la coscienza della continuità tra il Vangelo di Gesù
e la fede dei Padri da fargli ritenere realmente compiuta la storia di salvezza solo al momento
dell’ingresso finale di Israele nel Regno (Rm 11-13). Di questo compimento la sua personale
vicenda, radicata nella fede di Israele, ma aperta ormai al mondo pagano, è al tempo stesso pegno e
speranza. Tale apertura escatologica alle genti, in vista di una loro comunione con Israele, è già
inscritta nell’evento di Damasco.
1.2.3. L’orizzonte futuro dischiuso dalla conversione
Il terzo racconto, in Atti 26, contiene la difesa di Paolo dinanzi al procuratore Festo e al re
Agrippa, nel carcere di Cesarea. In tale contesto, dinanzi ad autorità pagane, l’Apostolo, attenuando
sensibilmente rispetto al precedente racconto, l’affermazione della propria giudaicità, sposta tutta
l’attenzione sul senso della sua missione, già racchiuso nella luce di Damasco. Ormai prigioniero
per il nome di Gesù, Paolo sembra essere pervenuto ad una più completa intelligenza di quanto
accadde in quel mezzogiorno nei pressi di Damasco: nel suo resoconto finale, che per Luca è la sua
testimonianza suprema, carica di sofferenza, davanti a quei re e pagani che la visione celeste già
dall’inizio aveva preannunciato ad Anania (At 9,15-16) e che lo stesso Signore aveva rivelato a
Paolo nella visione del tempio (At 22,21), l’Apostolo manifesta una coscienza ormai chiara di come
la sua futura missione fosse già contenuta nella rivelazione di Damasco. Nel terzo racconto la figura
di Anania è scomparsa: Paolo ha ormai autonomamente acquistato una comprensione diretta della
rivelazione originaria di Cristo e delle implicazioni in essa contenute.
Nell’apologia di Cesarea, la luce sfolgorante della rivelazione di Gesù, ormai non più
accompagnata dall’effetto della cecità, come nei precedenti racconti, è chiarore pieno su tutto lo
sviluppo successivo, preludio ed annuncio di una missione illuminatrice nei confronti del mondo
pagano da parte dell’Apostolo delle Genti. Dallo sviluppo narrativo degli Atti è possibile rendersi
conto di come Luca abbia inteso mostrare il cammino interiore di Paolo verso una progressiva
appropriazione e comprensione dell’evento della sua conversione nelle sue più segrete implicanze.
Già dall’inizio il Dio della misericordia aveva predestinato lo zelante fariseo alla rivelazione del
Figlio, perché egli lo annunziasse in mezzo ai pagani (Gal 1,16).
Solo verso la fine della sua missione Paolo può raggiungere l’orizzonte complessivo
dischiuso dalla portata della sua chiamata: man mano che intravede lo scopo e la mèta della sua
missione alle genti, egli è in grado di comprendere al tempo stesso l’estensione della benefica
provvidenza di Dio anche al passato della sua esistenza giudaica, per cogliervi il segno di una
predestinazione eterna, già pervasa di ripetuti e disattesi inviti. L’ultimo Paolo giunto ormai a
riconoscersi, alla maniera di Geremia (Ger 1,5) e del Servo in Isaia (Is 49,1-6) chiamato ad essere
profeta delle nazioni già dal seno materno (Gal 1,15-16), è capace di riconoscere quanto abbia
«recalcitrato contro il pungolo» (At 26,14), quanto cioè gli inviti della grazia lo avessero già prima
di allora più volte sollecitato.
2. Il valore fondante ed il carattere progressivo della conversione
La successione dei racconti lucani, e la loro integrazione con le preziose indicazioni offerte
dall’epistolario paolino, hanno già permesso di intravedere la complessità dell’evento della
conversione, il suo carattere progressivo ed il lungo e paziente percorso in vista di una sua più
compiuta e consapevole appropriazione. In essa si incontrano l’azione diretta di Dio, che bussa al
cuore dell’uomo con il suo amore, e gli interventi delle mediazioni umane che consentono, quali
strumenti più indiretti della stessa azione divina, di accogliere e decifrare quanto il Signore sta
compiendo nella coscienza di un soggetto da lui discretamente interpellato. Un primo livello di
mediazioni è rappresentato da una ministerialità capace di farsi umile servizio fraterno, come quella
di Anania e, successivamente, di Barnaba. Un secondo livello di mediazioni è costituito dalla
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comunità-ecclesia, capace di custodire e accompagnare con la sua dedizione materna (1Ts 2,7-8;
Gal 4,18-19). Un terzo livello trova la sua espressione nell’economia sacramentale, che consente il
radicamento nel soggetto dell’opera di Dio. Un quarto livello è finalmente rappresentato dalla
parola delle Scritture, attraverso la quale l’azione divina diventa comprensibile e la sua compiuta
appropriazione da parte del soggetto è resa possibile: gli stessi testi lucani e paolini sopra esaminati
sono carichi di riferimenti alla Scrittura, senza i quali gli eventi descritti non potrebbero manifestare
tutta la loro portata ed il loro pieno significato.
Si è già potuto osservare come lungo il percorso della vita spirituale un certo tipo di
mediazione tenda a scomparire per lasciare il posto ad una più piena appropriazione dell’azione
diretta del Signore, nella sua progressiva trasformazione dell’intimo dell’uomo. Anche la vicenda
interiore di Paolo, secondo uno modello tipicamente biblico-teologico, presenta uno sviluppo
segnato da un triplice livello di conversione in cui si opera la progressiva trasformazione prima del
suo cuore, poi delle sue azioni e, infine, dei suoi pensieri.
2.1. La conversione del cuore
Ogni autentica vicenda spirituale origina da un incontro con il Signore il quale, oltre
qualunque mediazione o necessità funzionale e al di là di qualunque disposizione morale (1Tm
1,13-14; Gal 1,14-16), invita il soggetto ad una relazione gratuita ed amicale con lui. Egli bussa con
il suo amorevole invito al cuore dell’uomo e gli chiede di essere fiduciosamente accolto in una
relazione intima (Ap 3,20). Se questi supera mediante l’atto di una fede ospitale verso la parola
udita ed il corrispondente richiamo interiore (Rm 10,5-21), l’alterno e contrastato agitarsi di stupore
fascinoso e disorientamento timoroso dinanzi alla misteriosa alterità che lo interpella, allora può
sperimentare l’azione dell’Amore di Dio riversato nel suo cuore (Rm 5,5), che costituisce l’evento e
la realtà fondante di ogni autentica conversione. Non c’è alcun inizio di vita spirituale e teologale
senza l’accoglienza dello Spirito Santo abbondantemente effuso da Dio su di noi per mezzo di Gesù
Cristo (Tt 3,4-7), nel quale è possibile riconoscersi figli animati da quell’amorevole fiducia che
consente il riconoscimento del Padre celeste quale «Abba’» premuroso e dolcissimo (Rm 8,14-17;
Gal 4,7; Mt 6,5-15; Lc 1,1-13). L’amore accolto può irrompere nelle coscienze come esperienza
viva anzitutto di misericordia che distrugge il peccato, genera il pentimento perfetto, ed invita alla
conversione quale intrapresa di un’esistenza nuova (Rm 5,20-6,14; 1Tm 1,12-17), capace di
esprimere il dinamismo teologale della fede, della carità e della speranza (1Ts 1,2-6). Sulla via di
Damasco e poi nella comunità di Anania che lo accoglie e lo accompagna Saulo fa l’esperienza
della sua conversione religiosa e si apre ad una condotta nuova, desiderosa di esprimere e
testimoniare Cristo in ogni sua azione.
2.2. La conversione della condotta
Il primo frutto di una conversione religiosa, ad opera dell’amore accolto, è un incipiente
cambiamento delle azioni, che si producono nell’incoscienza della fede, senza che la destra sappia
ciò che fa la sinistra (Mt 6,1-4), non come opere autosufficientemente progettate, alla maniera del
vivere carnale, ancora sotto la Legge, ma quali frutti dello Spirito (Gal 5,22), spontaneamente
prodotti dall’albero buono (Mt 12,33-37). A questo livello il vissuto morale si potenzia; ciò che
prima interessava non interessa più; ciò che prima sarebbe risultato faticoso o impossibile diventa
agevole e desiderabile. Si opera il bene con generosità, confessandone la causa più vera e profonda,
quale azione del proprio personale Signore e Salvatore. L’esperienza della grazia ricevuta si fa
racconto di un’operare divino, che si desidera far trasparire all’interno di una condotta rinnovata. È
quanto l’esistenza del neo-convertito Paolo manifesta prima a Damasco, poi a Gerusalemme (At
9,19b-31).
A questo livello spesso il bene viene compiuto senza attenta cognizione di causa, talvolta
con eccessi, tipici della condizione di neofiti, che denotano un insufficiente discernimento. La stessa
esistenza di Paolo non è priva di tali intemperanze, forse proprie di un carattere focoso, ma
altrettanto tipiche di un’incompiutezza spirituale (At 15,36-40). È necessario pertanto che la
provvidenza amorevole di Dio sveli progressivamente all’uomo la propria debolezza, la sua
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sostanziale incapacità di operare un bene del quale forse altrimenti egli orgogliosamente si
approprierebbe. È allora che si manifesta al soggetto l’inconsistenza e la vanità di tanti sforzi, di
tanto bene compiuto generosamente, ma non sempre con un’intenzione limpida e disinteressata e,
perciò, non immune dal tarlo dell’invidia o dell’affermazione di sé (Qo 4,4; Fil 1,15-18); allora
comincia a farsi chiara quella dinamica, avvertita con dolore dallo stesso Paolo, di un’attrattiva al
male spesso più forte e tenace della propria volontà di bene (Rm 7,15-25), che rimane tuttavia
stabile ed incondizionata. L’accettazione abbandonata e fiduciosa della propria debolezza dischiude
il livello più decisivo della trasformazione interiore, quello della conversione dei pensieri.
2.3. La conversione dei pensieri
Quando la percezione della propria debolezza e dell’insufficienza di ogni propria fatica si
accompagna spesso ad incomprensioni, ingratitudini ed opposizioni, ed anche la presenza
amorevole e pacificante di Dio sembra ritirarsi dal proprio orizzonte, con un senso ancora più
grande di fallimento e di smarrimento, allora si avverte l’invito segreto di quella voce silenziosa che
invita ad andare oltre i propri pensieri (1Re 19,11-13), ancora troppo carnali ed improntati ad una
volontà di autoaffermazione (Mc 8,33), per scoprire quel Dio che rimane nascosto oltre ogni umana
realizzazione, quel Dio che ama essere povero e umile, i cui pensieri distano dai nostri quanto il
cielo dalla terra (Is 55,8-9). Allora si comincia ad amare la propria debolezza come luogo
dell’affidamento più vero e della misericordia più intensa (Mt 5,1-11), come libertà da qualunque
preoccupazione di salvare la propria vita per lasciarla salvare ad un Altro (Lc 9,23-25 e //), come
liberazione dal pensiero di voler essere qualcuno o qualcosa, come attitudine non tanto a fare, ma a
lasciarsi fare da Colui che non cerca qualcosa da noi, ma vuole piuttosto noi.
Anche la vicenda dei discepoli narrata nei vangeli conosce le tappe obbligate della triplice
conversione. Essa muove dalla generosità della risposta al primo amore, che lascia generosamente
le proprie cose per il Signore (Mc 1,16-20 e //), e sperimenta una crescita nella capacità di bene (Mc
6,7-13 e //); passa poi attraverso ostacoli ed opposizioni, che svelano una conversione ancora
insufficiente, una durezza di cuore che esige di essere guarita (Mc 7,31-8,26); manifesta infine una
tale distanza tra i propri pensieri e progetti e la volontà di Gesù orientata al dono di sé sulla croce
(Mc 8,31-38; 9,30-41; 10,32-45 e //) da richiedere un suo decisivo intervento di guarigione, che
consenta di proseguire la sequela sino a Gerusalemme (Mc 10,46-52 e //), per riconoscere solo nel
Signore crocifisso il vero volto del Figlio di Dio (Mc 15,39).
Allo stesso modo anche Paolo percorre la via tortuosa e faticosa della conversione del cuore,
delle azioni e dei pensieri (Ef 2,1-10), che egli giunge ad esprimere compiutamente in
quell’intelligenza della Sapienza crocifissa, della debolezza e stoltezza di Dio più forte e sapiente
degli uomini da lui ormai abbracciata (1Cor 1-2), che gli consente di affermare la propria sintonia al
pensiero stesso di Cristo (1Cor 2,15-16). Nessun’altra cosa per lui conterà più se non lasciarsi
conquistare definitivamente da quel Signore che lo ha attirato a sé, correndo a lui, ormai dimentico
di tutto il resto (Fil 3,7-14; 2Tm 4,6-8; At 20,22-24).
2.4. Il senso complessivo di un cammino di conversione
Ogni autentico itinerario di conversione inizia da un incontro personale con il Signore Gesù
e dall’accoglienza del suo Spirito di Amore. Tale incontro opera una trasformazione interiore che si
esprime dapprima in una condotta rinnovata, carica di quelle opere buone disposte da Dio per essere
praticate (Ef 2,10), ripiena dei frutti dello Spirito che rendono riconoscibile l’albero buono (Gal
5,22; Mt 12,33-37) e tutta pervasa di sincera tensione testimoniale (Gv 1,35-51; At 9,19b-31). Tale
movimento di grazia punta infine a trovare il proprio compimento nell’acquisizione di un pensiero
rinnovato, di categorie conformate alla croce (Fil 3,17-19), in vista di ogni genere di discernimento
e conoscenza spirituale conforme alle Scritture, che renda in ogni cosa graditi al Signore (1Tm
3,14-17). Spesso l’Apostolo nelle sue Lettere prega perché l’esistenza dei suoi sia portata a tale
pienezza di sapienza ed intelligenza secondo lo Spirito (1Cor 1,4-9; Col 1,3-11). Queste sono l’esito
di una carità autenticamente vissuta (Fil 1,9-11), e ad essa incessantemente ritornano, per una
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sempre rinnovata conoscenza di quel mistero di Amore che già dall’inizio ha pervaso l’esistenza
convertita, secondo le sublimi espressioni del mirabile e ricapitolativo testo di Ef 3,14-19:
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Per questo, dico, io piego le ginocchia davanti al Padre, 15 dal quale ogni paternità nei cieli e sulla
terra prende nome, 16 perché vi conceda, secondo la ricchezza della sua gloria, di essere potentemente
rafforzati dal suo Spirito nell`uomo interiore. 17 Che il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori e così,
radicati e fondati nella carità, 18 siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l`ampiezza, la
lunghezza, l`altezza e la profondità, 19 e conoscere l`amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza,
perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio.
Dall’evento della conversione e dai pensieri rinnovati che essa genera proviene ogni capacità
non solo di annuncio e testimonianza, ma di sapiente e profonda conoscenza del mistero e di sua
provveduta comunicazione. Il cuore dell’annuncio di Paolo è il mistero di quel Gesù glorioso e
perseguitato, che egli incontra lungo la via, di quel Gesù che lo conquista con una forza che è
debolezza e che gli svela progressivamente la centralità della croce. Se Paolo ha dapprima posto
probabilmente l’accento sulla potenza del Kyrios incontrato, espressione quasi diretta del coraggio
della sua prima testimonianza (At 9,20-30) resa al Risorto glorioso, successivamente egli ha invece
potuto sempre meglio scoprire quanto tale potenza scaturisse dalla debolezza del suo amore
crocifisso. Paolo non vorrà dunque in seguito conoscere altro che Cristo e Cristo crocifisso; non
vorrà proclamare altro che quella forza sapiente che il mondo continua a reputare debolezza inutile
e stolta. Da questo così nitido ed essenziale kerygma paolino scaturisce tutta la densa provveduta ed
articolata teologia di Paolo, che trova dunque le sue radici più profonde nell’evento di Damasco.
3. L’evento di Damasco e la teologia di Paolo
Damasco è la chiave del pensiero di Paolo: tutta la sua teologia è derivata da quella
fondamentale svolta che l’incontro con Cristo ha impresso alla sua vita. Ecco di seguito alcuni tra i
principali aspetti della teologia paolina, nella loro stretta relazione con l’evento di Damasco.
3.1. La comunione con il Cristo presente
L’unione a Gesù è ripetutamente affermata nelle Lettere. Paolo è conquistato da Gesù (Fil
3,12), gli appartiene totalmente (Gal 2,20), come schiavo da lui riscattato (Rm 1,1). L’espressione
«nostro Signore» torna almeno 55 volte nell’epistolario, talvolta con l’accentuazione più personale
di «mio Signore» (Fil 3,8), ad indicare quella comunione stabile ed intensa con il Cristo presente
iniziata con l’evento di Damasco.
3.2. La nuova creazione in Cristo
L’incontro con il Signore è superamento del vecchio mondo, rigenerazione a creature nuove
(2Cor 5,17). È discontinuità di passaggio attraverso la morte stessa di Cristo, mediante il battesimo
(Rm 6,3-11), per vivere una esistenza nuova, da risorti, già collocata nei cieli (Ef 2,4-7), nel Regno
del Figlio diletto che ci ha sottratto al potere delle tenebre (Col 1,12s). A Damasco Dio «ha rivelato
il suo Figlio» a Paolo (Gal 1,16), con una rivelazione (apokálypsis) che richiama il manifestarsi
escatologico di Dio con l’irruzione di un mondo nuovo (Rm 8,18; 1Cor 3,13). Nell’evento della
conversione quel mondo nuovo è entrato nella sua vita.
3.3. Il Salvatore che ha dato se stesso per noi
La comprensione dell’azione salvifica di Dio in Cristo, radicata nell’episodio di Damasco, è
come il nucleo centrale del messaggio paolino. Gesù glorioso rimane il perseguitato, colui che
continua a dare la sua vita per l’uomo peccatore. Egli, appeso al legno, si è fatto maledizione (Dt
21,23) per riscattarci dalla maledizione della Legge all’interno di una vita secondo la carne (Gal
3,13). In modo commosso e personalissimo, ricordando l’incontro di Damasco Paolo può addirittura
affermare: «Mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20).
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3.4. L’onnipotenza della grazia
Dando uno sguardo retrospettivo alla sua vocazione Paolo può affermare: «Per grazia di Dio
sono quello che sono e la sua grazia in me non è stata vana...ha faticato la grazia di Dio che è con
me» (1Cor 15,10). Egli avverte la sua esistenza come continua opera creatrice di una grazia tenace e
perseverante che sempre lo sostiene nella durezza delle sue fatiche. Il suo vivere così radicalmente
trasformato a Damasco è espressione dell’onnipotenza della misericordia, della sua capacità di
trasformare tutti (1Tm 1,12-16).
3.5. Il libero e gratuito operare di Dio
Più di ogni altro autore neotestamentario Paolo insiste sulla libertà dell’agire di Dio, che
«usa misericordia a chi vuole e indurisce chi vuole» (Rm 9,18, che riprende Es 33,14), che chiama
mediante la sua grazia (Gal 1,15), che giustifica indipendentemente dalle opere della legge (Rm 14), per gratuita predestinazione di amore (Rm 8,28-30) e salva attraverso la fede, «per suo dono
indipendentemente dalle opere, perché nessuno possa vantarsene» (Ef 2,8-9). L’esperienza di
Damasco fa maturare nella coscienza di Paolo il senso di una gratuita e libera predestinazione di
amore che lo ha tenacemente cercato e scelto indipendentemente dalla sua precedente condotta.
3.6 La vera natura del peccato e la falsa fiducia nella Legge
Solo l’esperienza di Damasco svela agli occhi di Paolo la vera natura del peccato, non quale
semplice trasgressione morale e mancata osservanza della Legge. Egli, che si sentiva irreprensibile
quanto a rettitudine ed osservanza (Fil 3,4-6), scopre la drammaticità del proprio peccato quale
opposizione radicale all’amore di Dio, tutta rivestita di presunta fedeltà alle sue disposizioni di
alleanza. Il peccato è sempre più chiaramente nella coscienza convertita di Paolo un vanto di sé
davanti a Dio (1Cor 1,27-31; 5,6; 2Cor 11,16-12,10) che snatura il senso e la funzione profonda
della Legge, la cui finalità è, al contrario, generare nell’uomo la coscienza del peccato, per disporlo
nella verità all’accoglienza gratuita dell’amore salvifico (Rm 6-7). Tutte le opere compiute nel
passato, presuntamente conformi alla Legge e tali da generare un falso giudizio di irreprensibilità
non solo non sono bastate a Paolo ad ottenere la grazia, ma hanno al contrario elevato nella sua
coscienza quell’ostacolo dell’autosufficienza che solo l’amore tenace di Gesù ha abbattuto. Tali
opere non sono dunque ormai per Paolo che spazzatura appartenente al passato (Fil 3,5-9).
3.7. Il vissuto in Cristo come attesa e speranza
Il Paolo fariseo già credeva nella risurrezione dei morti (At 23,6-8). La luce della gloria
divina contemplata nel volto di Cristo (2Cor 4,6) ed accompagnata dall’esperienza della
rigenerazione (Rm 6,3-11; Ef 1,6-7) gli ha dato certezza tangibile del fatto della risurrezione quale
realtà estesa già da ora all’esistenza del cristiano e compimento della beata speranza da attendere
con paziente fiducia e perseverante vigilanza (1Ts 4,13-5,11; Fil 4,4-5; 1Cor 15; 16,22).
La speranza è la sostanza della vita cristiana nella sua protensione escatologica all’incontro
con il Signore (1Ts 1,2-3; 1Cor 1,6-9; Col 1,3-6), per poterlo finalmente conoscere come si è da lui
conosciuti (1Cor 13,12-13).
3.8. Il senso della missione e la coscienza dell’apostolato
Il triplice racconto di Atti e la diretta testimonianza di Paolo (Gal 1,15-16) indicano il
legame prontamente stabilitosi nella sua coscienza tra chiamata-conversione e compito missionario.
La luce vista da Paolo nei pressi di Damasco egli la comprende nella sua destinazione, attraverso il
ministero, a tutte le genti (in particolare At 26). Le stesse comunità che recepiscono la sua
testimonianza comprendono il legame profondo tra la sua esperienza della grazia e la natura ed il
credito del suo impegno missionario (Gal 1,22-24; At 9,20-21).
Il ministero è una realtà che incombe sull’apostolo, un dovere così pressante di rispondere alla stima
gratuita ricevuta da Cristo, da fargli rinunciare a qualunque forma pur legittima di retribuzione
(1Cor 9). Egli è tenuto ad un compito ricevuto imperscrutabile per volontà di Dio (1Cor 15,8-11;
Gal 1,1).
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3.9. La natura cristiforme della Chiesa corpo di Cristo
Nella frase pronunciata dal Signore risorto sulla strada di Damasco si può già cogliere il
germe di una delle più profonde e feconde intuizioni di Paolo. In quel «Io sono Gesù che tu
perseguiti» egli ha compreso il profondo legame corporale tra Gesù e i suoi discepoli, quel legame
che i vangeli indicheranno già chiaro nella coscienza stessa del Gesù terreno (Mt 10,40-42; 25,3146; Mc 9,36-37) e che egli ha sviluppato nel duplice aspetto dell’inabitazione del Cristo nei credenti
(Gal 2,20; Col 1,26-27) e nel radicamento dei credenti in lui (Ef 3,1-13) sino a quella identità
corporale (Ef 3,6), così mirabilmente espressa nella metafora della Chiesa Corpo di Cristo (1Cor 12;
Ef 5,21ss).
In sostanza tutta l’esistenza di fede dell’Apostolo e tutta la sua ricca teologia non fanno che
incessantemente richiamarsi alla realtà fondante del suo incontro con il Signore Gesù, crocifissorisorto, sulla via di Damasco.
4. Alcune indicazioni bibliografiche
Per continuare la riflessione e l’approfondimento sul rapporto tra conversione e annuncio,
vocazione e messaggio, esperienza di fede e teologia nella vicenda dell’apostolo Paolo, all’interno
di una bibliografia sterminata, si possono utilmente consultare i seguenti testi:
4.1. Testi di carattere generale sulla conversione di Paolo
J. ASHTON, La religione dell’apostolo Paolo, Paideia, Brescia 2002, 105-144.
J. GNILKA, Paolo di Tarso. Apostolo e testimone, Paideia, Brescia 1998, 44-61.
J. MURPHY-O’CONNOR, Vita di Paolo, Paideia, Brescia 2003, 91-124.
K.H. SCHELKLE, Paolo. Vita, lettere, teologia, Paideia, Brescia 1990, 79-85.
4.2. Testi più specifici sulla conversione di Paolo in Atti
J.-N. ALETTI, Il racconto come teologia, Dehoniane, Roma 1996, 87-127.
A. BARBI, I tre racconti di conversione/chiamata di Paolo (At 9; 22; 26): una analisi
narrativa, in G. ANGELINI (ed.), La rivelazione attestata, Glossa, Milano 1998, 235-271.
D. MARGUERAT, La prima storia del cristianesimo, San Paolo, Cinisello B. 2002, 185-213.
4.3. Testi sul rapporto tra conversione e teologia in Paolo
J. JEREMIAS, Per comprendere la teologia dell’apostolo Paolo, Morcelliana, Brescia 1973.
G. LOHFINK, La conversione di San Paolo, Paideia, Brescia 1969.
H. SCHLIER, La conoscenza di Dio nelle lettere di S. Paolo, in ID., Riflessioni sul Nuovo
Testamento, Paideia, Brescia 19762, 413-438.
Luca Bassetti
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