La rianimazione non è per chi deve morire

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La rianimazione non è per chi deve morire
La rianimazione non è per chi deve morire
Pubblicato su Scienza in Rete (http://www.scienzainrete.it)
La rianimazione non è per chi deve morire
«Viene uno con trecento malattie, perché deve morire in rianimazione dopo mesi di ventilazione
meccanica? Non è umano. Siamo mortali e dovremmo per un momento poterlo accettare».
E' un infermiere che parla, hanno buon senso gli infermieri. Nelle nostre terapie intensive ogni anno
vengono ricoverati 150 mila ammalati, 30 mila muoiono. Le disposizioni di fine vita ce l'hanno solo
l'8 percento, per gli altri qualche volta - poche - decidono i familiari, o il medico.
Tutti i giorni i dottori delle nostre rianimazioni si chiedono se il loro è «un intervento a favore del
paziente o è un intervento contro il paziente». E devono comunque decidere. «Alla fine cerchiamo di
garantire una fine dignitosa, ma a volte garantiamo una cattiva fine», è lo sfogo di uno dei medici
delle ottantaquattro rianimazioni che hanno partecipato allo studio del Mario Negri.
Ne hanno fatto un libro Scelte sulla vita. E' un libro pieno di numeri: quanti si ricoverano, quanti
guariscono, quanti muoiono, quando e perché si sospendono le cure e chi decide, se sono coinvolti i
familiari. E di storie: storie di tante notti, di quando si è troppo stanchi, e c'è troppo silenzio e hai
paura di decidere. Quando ci sarà una legge deciderà il giudice o il fiduciario, che sarà un familiare.
Ma i tempi dei giudici non sono quelli dei medici. Nei tribunali si aspettano mesi e anni. Nelle terapie
intensive degli Ospedali si deve decidere in fretta, minuti certe volte.
E i familiari? Delle volte non capiscono cosa stia capitando per quanto uno si impegni a spiegarglielo.
Succede tutto troppo in fretta.
«Noi cerchiamo di far partecipare i familiari, però non si vorrebbe neanche caricarli di cose che in
quel momento non sono in grado di affrontare».
Ma i familiari il più delle volte preferiscono non decidere, non se la sentono, troppa responsabilità e
si affidano alle conoscenze dei medici e al loro buon senso. "La legge - ha scritto sul Corriere della
Sera del 23 febbraio Angelo Panebianco - è il luogo più inadatto, più inospitale per depositarvi visioni
ultime della vita". Quella che si sta discutendo in Italia a proposito di fine vita non è una brutta
legge, è una pessima legge, molto meglio nessuna legge che una legge così. Nell'articolo 3 si legge
di «accanimento terapeutico», «pratiche di carattere eutanasico», «abbandono terapeutico».
Cosa vuol dire? E come stabilirlo per legge? Quando Willem Kolff - durante l'occupazione dell'Olanda
da parte dei nazisti - ha sperimentato la prima macchina di dialisi all'Ospedale di Kampen dei primi
15 malati trattati 14 sono morti, era accanimento terapeutico? Kolff è andato avanti. Oggi nel mondo
due milioni di persone vivono (qualcuno da più di trenta anni) grazie alla dialisi. Quando Chris
Barnard fece il primo trapianto di cuore, fu notizia, di quelle che fanno epoca, ma l'ammalato visse
due settimane soltanto. E se ne fecero altri di trapianti di cuore, ma i risultati non erano buoni. Oggi i
trapianti di cuore vanno bene. Qualche tempo fa, un bambino che avesse una leucemia acuta
moriva, oggi non succede più. E' perché si è provato con diversi chemioterapici fino a trovare la
combinazione giusta. Senza queste forme di «accanimento» la medicina sarebbe ancora quella di
cento anni fa.
Vuol dire che bisogna sempre comunque curare tutti, anche quando non c'è nessuna speranza di
guarire o di stare, almeno, un po' meglio? No. Ho visto persone di più di ottant'anni, con il diabete,
l'infarto, già diversi by-pass al cuore, un tumore all'intestino tenuti in vita col respiratore artificiale e
la dialisi. Che prospettiva di vita può avere un ammalato così? Nessuna. E allora perché si va avanti?
Mah, i parenti...
Negli Stati Uniti il trenta per cento di quello che si spende per la salute, serve per gli ultimi sei mesi
di vita della gente. E' giustificato? Probabilmente no. Capita, da noi, che in certi ospedali non si trovi
posto in rianimazione per un ragazzo con la meningite. O meglio il posto ci sarebbe ma è occupato
da qualcuno, magari molto anziano, quasi sempre incosciente, che non ha nessuna prospettiva di
vivere o di avere una vita di relazione anche minima.
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Il Presidente Napolitano ha fatto bene ai tempi di Piergiorgio Welby a chiedere che di questi
argomenti se ne parlasse in Parlamento con l'obiettivo di poterla regolamentare, per legge, questa
materia. Ma perché ne esca una buona legge, servirebbe una discussione aperta fra persone che
abbiano voglia di capire bene quello che saranno chiamati a discutere e di farlo fuori dalle ideologie
e dai dettami dei partiti. E vanno coinvolti i medici. Fare il medico è rianimare certo, ma anche saper
sospendere le cure quando sono inutili. Fa parte delle nostre responsabilità, è a tutela di chi non ha
più speranza perché non debba subire trattamenti inappropriati (alimentazione e idratazione aiutano
a guarire ma ci sono casi in cui farlo aumenta le sofferenze anziché alleviarle). E di tanti che di cure
intensive invece ne hanno bisogno per vivere. Ogni giorno, in qualche parte del mondo, qualche
medico è chiamato a risolvere qualche problema così. Come fanno? Quelli che lo fanno bene hanno
molte conoscenze e tanto buon senso.
5 ottobre, 2009 da Giuseppe Remuzzi
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