NON ESISTE STRANIERO NELLA RAZZA UMANA

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NON ESISTE STRANIERO NELLA RAZZA UMANA
NON ESISTE
STRANIERO NELLA
RAZZA UMANA
La percezione dello straniero
nella letteratura e nell’arte
Risulta evidente che in ogni epoca ci sono
persone totalmente libere da pregiudizi mentre altre che, prive di coraggio, non riescono
ad andare oltre le apparenti diversità.
Dal testo “La storia” di Elsa Morante è possibile comprendere il duplice approccio che
traspare da ogni momento storico: il soldato
sembra dimenticare la sua nazionalità, il suo
colore politico e il suo stesso passato mentre
la donna ha netti in mente i soprusi e l’orrore
commessi dagli uomini sotto quella dimenticata uniforme che le appare chiara di fronte.
Questo testo fa inevitabilmente pensare a ciò
che sta accadendo in Italia negli ultimi anni e
in Europa nei mesi appena passati. Il razzismo nei confronti degli stranieri si sta sempre
più accentuando; i media e la politica, quelli
italiani in particolare, fanno perno su questo
punto nevralgico per suscitare consensi o
generare malumori. Esattamente come nei
totalitarismi del secolo scorso si è trovato
nello straniero una sorta di capro espiatorio
- prima lo furono gli ebrei, i disabili e gli
appartenenti a partiti differenti ed ora lo sono
i musulmani e i nordafricani - che diventano apparenti cause delle pessime condizioni
economiche, sociali e politiche attuali.
Lo straniero non è quindi rifiutato oppure
odiato perché di diversa nazionalità, ma per-
ché è categorizzato nei comportamenti dei
suoi peggiori compatrioti che compiono violenze, soprusi o atti illegali.
La tendenza generale è quella di attribuire
ad un dato gruppo di persone solo caratteristiche crudeli e subdole. Questa attitudine è
chiara nel passo tratto da I Promessi Sposi
nel quale Manzoni descrive la presenza di
Renzo come minacciosa e pericolosa perché
considerato portatore del morbo che, diffondendosi nella città, stava mietendo migliaia
di vittime. In questo caso non vi è solo l’odio
verso lo straniero, ma c’è anche il terrore per
ciò che esso può fare o portare.
Dall’Odissea di Omero e dalla novella Lontano di Pirandello traspare invece il lato
positivo della fiducia nello straniero. Si
possono notare due possibili reazioni che
emergono nell’animo, dopo l’incontro con
un forestiero: la prevalenza del timore e la
voglia di fuggire oppure l’atto valoroso di
mettere il cuore l’ardimento e togliere dalle
membra la paura di affrontare il diverso. In
entrambi i testi il coraggio è premiato dalla
riconoscenza e dalla pura umanità dei due
compagni di sventure.
La scultura del Galata Morente (nella foto),
che risale al I secolo a.C., esprime un altro
aspetto della visione dello straniero: osservarlo nel suo atteggiamento per affrontare
l’atto più duro della sua vita che è la morte.
L’opera appare il maestosa diventando quasi
la celebrazione dell’uomo nella sua fisicità
che, pur essendo forte e tonica, diventa debole del momento del ritorno alla sua originale
natura. La statua diventa quindi emblema
dell’uomo estrapolato dal suo contesto storico e culturale: non si riconosce la sua derivazione sociale, ma si comprende subito
la sua natura umana. La differenza tra lui
ed un uomo romano quindi è impercettibile.
Risulta perciò chiaro che lo straniero non
deve essere considerato diverso o denigrato
perché, come affermato nel Deuteronomio,
«ricorderai che sei stato schiavo in Egitto»
ed essendo entrambi passati per la medesima condizione non ci si potrà permettere di
etichettarlo come fosse il male. Baudelaire
e Brown, infine, solo coloro che esprimono più completamente gli atteggiamenti da
adottare in generale. Potrebbe apparire assurdo il modo in cui i due autori con pensieri
così diversi possono completarsi però diventa ovvio pensando ai contenuti: il primo
esprime il totale distacco dalle diversità che
caratterizzano l’uomo e le varie etnie ricollegandosi all’appartenenza alla natura, fonte di
vita che, come del utopistico mondo futuro
di Walcott, ricongiungere gli uomini unendoli con il loro stesso amore. Nel racconto
del secondo autore, invece, si nota una cruda
differenza tra l’alieno e l’uomo: è scontato
riconoscere l’appartenenza dei due a realtà e
origini totalmente diverse; non si tratta più di
scontri tra civili di uguale provenienza, ma è
una sfida naturale tra razze che combattono
per la darwiniana lotta per la sopravvivenza
in cui la specie più forte ha il sopravvento
sull’altra.
L’uomo discende e fa parte di un unico ceppo
etnico: la razza umana.
La letteratura e l’arte sono diventate l’emblema dell’attenzione all’uomo in quanto tale,
rappresentato però in rapporto al momento storico in cui è portato ad agire. L’unico
elemento che genera la frantumazione di tale
etnia è il male che sorge dalle differenze che
ognuno non tollera dell’altro. Solo valorizzando il bene e amando gli aspetti giusti di
ogni persona, nel mondo, potrà sorgere una
conclusione positiva di tutti gli esseri umani
che si uniranno per dare valore al cosmopolitismo che abbatte tutte le barriere territoriali
e i pregiudizi sociali e culturali.
Antonella De March - 5B
GIOVANNI FILARDO
POETA
Attraverso i ruvidi sentieri di
Giovanni Filardo, guidati dal
professor Pincin
Giovanni guarda, osserva, pensa, parla, scrive.
Da qualche tempo irrompe in sala insegnanti come un torrente impetuoso che nessuna
chiusa riesce a contenere e ti sommerge di
poesie. A due passi dalla macchinetta del
caffè, attendi che passi l’ondata di piena e
riprenda placato il fluire: fogli ricchi di parole semplici o ricercate; di frasi corrette, cancellate e rigirate sulla base di ragioni a lui,
comunque, misteriosamente chiare. Sembra
che, complice il preludio della Pensione (sì,
con la P maiuscola!), ormai siamo immersi
in un inarrestabile sbocciare di poesie che,
intense, mettono a dura, ma felice prova le
nostre capacità ermeneutiche.
Un giorno gli ho detto: “Giovanni, certe tue
parole starebbero bene in bocca al profeta
Elìa, od al Qoèlet, senza timore di banalizzare la Bibbia”. La sua risposta:”E perché non
mi scrivi qualcosa in merito?”.
Ecco quanto.
Ad Elìa farei risalire alcune trame di versi
secchi, impregnati di tristezza e sofferenza
che l’autore “deve” portare, come pesante
fardello di pellegrino che procede isolato e
sferzato da intemperie inarrestabili. Il suo
sguardo non può non guardare ciò che accade e, insieme al cuore ed alla mente, non
può sottrarsi dallo scrutare. Il crollo definitivo sembra incipiente, eppure egli cerca an-
cora uno spiraglio di coraggio, di speranza,
di confidenza con la propria coscienza e con
l’Essere. L’autore deI I libro dei Re (cap. 19,
passim) così scrive del profeta perseguitato
ed in crisi: “Elia, impaurito, si alzò e se ne
andò per salvarsi… Si inoltrò nel deserto…
Camminò fino al monte di Dio, l’Oreb… Entrò in un caverna… Ci fu un vento impetuoso
e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le
rocce davanti al Signore, ma il Signore non
era nel vento. Dopo il vento, un terremoto,
ma il Signore non era nel terremoto. Dopo
il terremoto un fuoco, ma il Signore non era
nel fuoco. Dopo il fuoco un sussurro di brezza leggera. Come l’udì Elia si coprì il volto
con il mantello, uscì e si fermò all’ingresso
della caverna. Venne a lui una voce che gli
diceva:-Che cosa fai qui, Elia?”.
Qoèlet. Altrove Giovanni ricorre deliberatamente e quasi pigramente a stringate e disilluse narrazioni di relazioni e creature, atteggiamenti e sentimenti, percezioni e pensieri,
colori e tratteggi. Il tutto condotto attraverso
tocchi di rispettosa ironia, di disincantata
contemplazione di ciò che è al tempo stesso
intensamente vitale ed intensamente fragile.
Ciò che assurge ad oggetto od a protagonista
delle sue parole, è preso da due dinamiche
uguali e contrarie: la pienezza di senso e la
pienezza di non
senso:
“Havèl
havalìm/Vanitas
OSCILLAZIONI
vanitatum/Non
Tace il canto dentro la fustaia.
senso all’ennesima potenza! (Qo.
Silente il paesaggio si trasforma.
1,2 e 12,8)… AnStanchi i passi disegnano il cammino.
che questo fatto
ho visto sotto il
Inabitata la via amplifica la corsa.
sole e mi parve
Brugo si ramifica il conflitto
assai grave. C’eracemo che innerva la brughiera.
ra una piccola
città con pochi
Goccia che dal gutto si disperde
abitanti. Un pola tua presenza nella stanza cade.
tente re mosse
contro di essa
Greppo che discende la montagna
e l’assediò… Si
la nostra vita cerca la pianura.
trovava però in
essa un uomo poBlesa la parola si confonde
vero ma saggio, il
franto il sogno si consuma.
quale con la sua
saggezza salvò
la città; eppure
nessuno si ricordò di quest’uomo povero”
(Qo. 1,2 e 12,8; 9,13-15). Oggi, come un
tempo, come in futuro, per quest’umanità
che si compiace
di idolatrare il
LA MIA SERA
consumismo, lo
spreco, la pauGluma che ingloba i miei pensieri
ra, la vendetta,
l’inquietudine nell’erba si confonde.
l’inquinamento e
l’autodistruzioSpecchio che riflette i miei sentieri
ne e si vergogna
il mio sguardo grifagno mi sorprende.
della saggezza,
Crespo il gesto che la parola incagna
si leva una Misericordiosa Possila mia rabbia si tende come ragna
bilità di cogliere
Glomere nascosto sotto la sterpaglia
e donare gioie
semplici; attimi
la mia solitudine dentro la gramaglia.
di serenità, fiducia, confidenza;
affettuosità feconde e scelte disincantate di riconciliazione.
Vivessero oggi, anche Elìa e Qoèlet non disdegnerebbero qualche minuto di gratuita
compagnia per un caffè e due versi.
Leopoldo Pincin
UN POETA TRA
ELIA E IL QOÈLET:
GIOVANNI FILARDO
Quel che accade nel rituale topico dell’Ecclesiaste, ovvero tutti riuniti intorno alla
macchinetta del caffè dell’aula insegnanti, è
presto detto: il professor Leopoldo Pincin richiede allo scrivente un’icona di Elia, quando fa risalire al profeta i versi del poeta quale
è il professor Giovanni Filardo.
Proposta intrigante, così lo scrivente tosto si
mette a rovistare tra i repertori iconografici
del profeta Elia. Rovista di qua sul Cherit,
e di là sulla Trasfigurazione di Cristo con
Mosè, poi ancora sulla sua ascesa al cielo
sul carro di fuoco, per proseguire sulla caverna dell’Oreb, quando l’occhio cade su una
curiosa immagine seicentesca che, a parere
dello scrivente, ben esprime la poesia di Giovanni. Immagine ricca di figure simboliche,
tanto che i versi di Filardo tradiscono la sua
natura di artista, perché evocano momenti
lieti e malinconici della vita, espressi con termini semplici e ricercati. Versi che alludono
ad arcane simbologie di vitalità e di caducità
dell’essere che ci riconducono al Qoelet e il
suo contraddittorio tra il bene e il male, per
approdare, come ha rilevato in questo numero de La Virgola il professor Pincin, alla
Vanitas vanitatum (dall’ebraico Havèl havalìm), soggetto questo della vanità, molto
frequente nella pittura seicentesca nordica,
in particolar modo in quella olandese, nel genere delle nature morte.
L’immagine in questione è La natura come
simbolo della Vanitas (nella foto) del pittore
tedesco Abraham Mignon, per altro riproposta in più versioni, dove la natura morta
è ambientata, insolitamente, in una caverna.
Perché in una caverna? Che il pittore abbia
voluto a riferirsi al profeta Elia quando salito
al monte Oreb si rifugiò in una caverna? Non
a caso la caverna è simbolo dell’inconscio e
dei suoi pericoli, luogo negativo come porta
per la discesa agli Inferi e dove si annidano i
mostri, uno per tutti: Polifemo. La caverna, al
contrario, e un simbolo positivo come luogo
di rifugio e di protezione, del ritorno alla madre terra che ci riconduce all’utero materno
della nascita e della rigenerazione. Così, la
caverna ben si associa alla nostra biblioteca
d’istituto, dove troviamo il professor Filardo
intento a stendere i suoi versi prontamente
offerti ai colleghi, per una prima lettura.
Ritorniamo all’immagine dell’artista seicentesco, subito siamo colpiti dalla
bellezza dei fiori
LA PAUSA
posti al centro
Come brace d’inverno nel camino
della composizione, poi scopriaadusto il mio confine si trasforma.
mo che la grotta
Accartocciati inaridiscono i sentieri
è abitata da una
natura animata,
pause senza la scrittura.
rana,
ramarro,
Oscuro anfratto il senso del cammino
lucertola, chiocgruma sulle cose si distende.
ciola, farfalle, insetti e infine con
Il tempo dei contrasti asperge la follia
la cinciallegra e
amenza nel fossato si condensa.
il suo nido dove
sue uova rimanNell’agire l’inganno si nasconde
dano al simbolo
ragna nello sguardo si rapprende.
dell’uovo
coFrale si posa la speranza
smico. In primo
piano, al contracarezza che afferra la parola.
rio, sono poste
in controluce, le
sagome di piante
rinsecchite, monito della vacuità dei piaceri
offerti dalla vita.
Tutti questi elementi, espressione della vanità terrena, hanno certamente valenze simboliche che ricordano come la bellezza ha vita
breve; ma la caverna è anche luogo di rina-
scita, ecco che il pittore pone, come abbiamo visto, la cinciallegra, uno dei vari uccelli
simbolo della rinascita primaverile. Caverna,
ricordiamolo, è il tòpos della nascita e della
resurrezione di Gesù.
Al Sacrificio del Salvatore, rimanda il papavero, spesso il rosolaccio lo troviamo scolpito nelle cattedrali medievali.
Proprio al centro della composizione, vediamo una varietà dell’Alcea rosea o Malvone
fiore che potrebbe ricondurci al profeta Elia.
Questa pianta eliotropica orienta i suoi grandi fiori verso la luce del sole, proprio come
Elia è trasportato da un carro di fuoco verso
il cielo e la luce paradisiaca. Nel Rinascimento la malva era considerata un rimedio
da tutti i mali, ma è anche simbolo dell’Amor
materno con il suo potere salvifico che ritroviamo nei versi di Giovanni Filardo.
Poi vediamo il myosotis, il celebre non-tiscordar-di-me, simbolo dell’Amore eterno,
mentre più in alto è posto l’iris, simbolo di
accompagnamento dell’anima femminile
morente.
Infine una delle erbe adoperate per l’Acqua
di San Giovanni, venduta nel piazzale antistante la Basilica di San Giovanni a Roma, è
la lavanda, essenza astrale del segno dell’Ariete tendente ad addolcire il carattere impulsivo e irruente, eliminando così i contrasti e
allontanando i pericoli.
Si potrebbe continuare con altri simboli tratti
dalle figure di quest’opera seicentesca, ma
lasciamo al lettore il piacere e l’emozione di
scoprirli, come quando scaturiscono dai versi
di Giovanni Filardo.
Rodolfo Biaggioni
DENTRO ALL’OPERA
Originali letture dell’opera d’arte
PIETÀ, Giovanni Bellini
Lettura dell’opera vista dalla figura di Cristo
Chiudo gli occhi
stanchi
colmi di pianto
e malinconia.
Mi abbandono
alla mia rassegnazione
alla realtà
che mi aspirerà la vita
come l’aria porta via le foglie.
Mi concedo gli ultimi istanti:
ascolto.
Alla mia destra
un respiro affannoso e caldo
mi avvolge la spalla, la scapola e
pian piano diventa gelido.
Una mano sorregge la mia,
è umida, ghiacciata.
Percepisco la tensione
che fa vibrare l’aria
secca intorno a me.
A sinistra una mano
tremante
tocca il mio ventre
contratto.
Un silenzio
assordante
mi invade,
mi porta con sè.
Silvia Chiarini - 3A
CRISTO MORTO, Andrea Mantegna
Lettura dell’opera vista dal vaso degli unguenti
Tutto intorno a me è buio.
La lastra dove appoggio è ghiacciata.
Sono sommerso dall’oscurità.
Vicino a me giace un corpo, in luce.
E’ il corpo di Cristo,
già cosparso dai miei oli profumati.
Mi fa riflettere la posizione delle sue mani,
non sembrano arrendersi alla morte.
Il silenzio è interrotto dal pianto delle tre figure,
alla sua destra.
Il dolore traspare dai loro volti,
come un suono acuto e stridulo
che mi avvolge e mi fa tremare.
Intravedo, dietro me, una piccola porta,
quasi inesistente
circondata dal buio,
profondo.
L’assenza di luce mi fa capire
che i tre non lasceranno mai Cristo,
non varcheranno mai quell’uscita.
Sembra quasi che Maria, Maddalena e Giovanni
non credano alla morte.
Stanno aspettando qualcosa di più grande
che avverrà in un futuro,
vicino.
Sara Bruseghin - 3A