la sorveglianza sanitaria nei nuovi contratti di lavoro

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La sorveglianza sanitaria nei nuovi contratti di lavoro
A cura di Giorgio De Luca Consulente aziendale, già Ispettore del lavoro
Dalla rivista ISL – n°9 IPSOA
La sorveglianza sanitaria ed il D.Lgs. n. 276/2003
Prima di procedere in un'analisi sistematica delle diverse tipologie contrattuali previste dal D.Lgs. n.
276/2003 allo scopo di individuare i destinatali degli obblighi stabiliti dal legislatore in merito alla
sorveglianza sanitaria dei lavoratori interessati, si ritiene utile riassumere alcuni concetti di base.
Le finalità essenziali, ormai universalmente accertate, della sorveglianza sanitaria preventiva e
periodica dei lavoratori sono:
• identificare eventuali condizioni preesistenti dello stato di salute del lavoratore che ne stabiliscano
la non idoneità (ovvero idoneità con prescrizioni) alla mansione specifica alle quali è destinato;
• verificare, nel tempo, l'effettivo stato di salute del lavoratore in quanto elemento sicuramente
indicativo dell'adeguatezza delle misure tecniche di prevenzione adottate in azienda dal datore di
lavoro. Quindi le visite mediche preventive e periodiche non possono e non debbono essere intese
come illegittima selezione di soggetti fondata sulla base di ideali caratteristiche fisiche dei lavoratori o,
peggio, finalizzata all'ottimizzazione dell'attività produttiva.
I soggetti, pubblici e privati, autorizzati ad operare sul mercato del lavoro non possono peraltro
effettuare indagini o procedere nel trattamento di dati personali sensibili dei lavoratori di cui alla legge
31 dicembre 1996, n. 675 e successive modificazioni, compreso lo stato di salute degli stessi. Si
segnala, in proposito, il divieto, non trascurabile, rappresentato dalla clausola di salvezza, nel caso in
cui le indagini in questione (anche, quindi, quelle relative allo stato di salute del lavoratore) riguardino
«... caratteristiche che incidono sulle modalità di svolgimento della attività lavorativa o che
costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell'attività lavorativa ...».
Il legislatore ha ritenuto, quindi, opportuno consentire un potere di indagine, altrimenti vietato dalla
norma, al solo scopo di consentire un corretto adempimento della prestazione da parte del lavoratore
interessato.
Somministrazione di lavoro
Il D.Lgs. n. 276/2003, abrogando contestualmente il divieto di interposizione di ma-nodopera di cui
alla legge 23 ottobre 1960, n. 1369 nonché la disciplina della fornitura temporanea di lavoro
regolamentata dalla legge 24 giugno 1997, n. 196, ha introdotto nel nostro ordinamento giuridico il
principio della somministrazione di lavoro. Il D.Lgs. n. 276/2003, art. 23, comma 5, afferma che «...
Nel caso in cui le mansioni cui è adibito il prestatore di lavoro richiedano una sorveglianza medica
speciale o comportino rischi specifici, l'utilizzatore ne informa il lavoratore conformemente a quanto
previsto dal decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626, e successive modificazioni ed integrazioni.
L'utilizzatore osserva altresì, nei confronti del medesimo prestatore, tutti gli obblighi di protezione
previsti nei confronti dei propri dipendenti ed è responsabile per la violazione degli obblighi di
sicurezza individuati dalla legge e dai contratti collettivi ...». (Idem in legge n. 196/1997, art. 6, comma
1). La legge n. 196/1997, art. 1, comma 4, lett. f) (abrogato) stabiliva che «... È vietata la fornitura di
lavoro temporaneo: ... per le lavorazioni che richiedono sorveglianza medica speciale e per lavori
particolarmente pericolosi individuati con decreto del Ministero del Lavoro e della Previdenza sociale
...», in appresso indicato.
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D.M. 31 maggio 1999 («Individuazione delle lavorazioni vietate per la fornitura di lavoro temporaneo,
ai sensi dell'art. 1, comma 4, della legge 24 giugno 1997, n. 196»):
- art. 2: «Lavorazioni che espongono a rischio di grave infortunio» (abrogato);
- art. 3: «Lavorazioni che espongono a rischio di tecnopatia grave» (abrogato).
Nel C.C.N.L. 28 maggio 1998 per i dipendenti delle imprese di fornitura, all'art. 14 («Igiene e sicurezza
del lavoro») si ritrova questa disposizione: «... La sorveglianza sanitaria obbligatoria - se richiesta dalle
disposizioni vigenti in relazione al tipo di lavoro svolto - resta a carico dell'impresa utiliz-zatrice ...».
La circolare del Ministero del lavoro 22 febbraio 2005, n. 7 («Disciplina della somministrazione di
lavoro») chiarisce che «... E inoltre attribuito all'utilizzatore l'obbligo di adempiere anche nei confronti
dei lavoratori in somministrazione a tutti gli obblighi di protezione previsti nei confronti dei lavoratori
alle proprie dirette dipendenze così come è attribuita all'utilizzatore la responsabilità relativa agli
obblighi di sicurezza individuati dalla legge e dai contratti collettivi. L'applicazione di tale previsione
comporta che l'obbligo relativo alla sorveglianza sanitaria, preventiva e periodica deve essere
adempiuto dall'impresa utilizzatrice ...». Tutto ciò premesso siamo in grado, pur in presenza di evidenti
difficoltà interpretative e contraddizioni, di approdare a conclusioni accettabili in materia di
sorveglianza sanitaria dei lavoratori in regime di somministrazione, analizzate nel seguito.
1) L'obbligo di osservanza di tutte le norme in materia di tutela dell'incolumità fisica dei prestatori di
lavoro somministrati, ivi compresa la sorveglianza sanitaria, è chiaramente posto in capo all'utilizzatore
dal citato art. 23, comma 5, ultimo capoverso del D.Lgs. n. 276/2003.
2) Il principio esposto al precedente punto 1) trova la sua conferma nel testo della circolare n. 7/2005
del Ministero del lavoro citata.
3) La presenza, all'interno dell'unità produttiva dell'utilizza-tore, di rischi lavorativi specifici connessi
con attività ivi poste in essere impone all'utilizzatore stesso di informare in merito il prestatore di
lavoro somministrato. La norma di riferimento è rinvenibile nel contenuto dell'art. 21, comma 1,
lett, c) del D.Lgs. n. 626/ 1994 richiamata, peraltro, genericamente nell'art. 23, comma 5, penultimo
capoverso del D.Lgs. n. 276/2003. 4) Il medesimo capoverso definisce un ulteriore obbligo a carico
dell'utilizzatore rappresentato dal principio di dover informare il medesimo prestatore di lavoro in
merito al fatto che le mansioni allo stesso affidate «... richiedono una sorveglianza medica speciale ...».
Il principio appare di ardua interpretazione e, conseguentemente, di ancor più ardua applicazione
pratica. Le motivazioni sono da ricercarsi nell'agevole constatazione che il termine utilizzato dal
legislatore (sorveglianza medica speciale) non trova alcun riscontro nei principi generali di medicina
del lavoro. Si potrebbe essere tentati di giustificare l'utilizzo in questione solo se ricordiamo al lettore il
particolare significativo rappresentato dal fatto che il contratto di somministrazione di lavoro trova la
sua origine normativa nel lavoro temporaneo di cui alla legge n. 196/1997.
Tale norma, però, come già visto, utilizza il principio individuato come «sorveglianza medica speciale»
per definire all'art. 1, comma 4, lett. f), un divieto e non certo per stabilire un obbligo a carico
dell'utilizzatore.
Fermo restando che la stessa «sorveglianza medica speciale» invocata dal legislatore della legge n.
196/1997, risulta, come detto, rappresentata, in termini tecnici, dal solo D.M. 31 maggio 1999. L'art.
85, comma 1, lett. f), del D.Lgs. n. 276/2003 ha però, come è noto, abrogato gli artt. da 1 ad 11 della
legge n. 196/ 1997 e, conseguentemente, si deve ritenere abrogato il citato D.M. 31 maggio 1999. Si
potrebbe concludere che il legislatore abbia formulato un obbligo, posto in capo all'uti-lizzatore, senza
preoccuparsi di indicare al destinatario dello stesso gli elementi definitoli di tale obbligo.
La circolare del Ministero del Lavoro n. 7/2005, pur chiarendo, come si è visto, un principio di
carattere generale non ha ritenuto opportuno fornire le necessarie spiegazioni in merito a quanto sopra
esposto. 5) Nella pratica applicazione di quanto sopra riportato si può agevolmente constatare: - le
agenzie autorizzate ad effettuare somministrazione di lavoratori a terzi non hanno, nella generalità dei
casi, strutture interne adeguate per gestire le complesse problematiche in materia di sicurezza sul lavoro
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in generale e quelle specifiche legate alla sorveglianza sanitaria dei lavoratori somministrati. Per inciso,
il contratto di somministrazione di lavoro è vietato, secondo quanto previsto dall'art. 20, comma 5, lett.
c) del D.Lgs. n. 276/ 2003, nel caso in cui l'impresa utilizzatrice non abbia effettuato la valutazione dei
rischi aziendali di cui all'art. 4, commi 1 e 2, del D.Lgs. n. 626/ 1994; il medesimo contratto di
somministrazione, stipulato peraltro obbligatoriamente in forma scritta pena la sua nullità, giusto
quanto indicato dall'art. 21, comma 1, lett. d), della norma in commento, deve prevedere «...
l'indicazione della presenza di eventuali rischi per l'integrità e la salute del lavoratore e delle misure di
prevenzione adottate ...». Tale indicazione, nella pratica quotidiana, è demandata integralmente
all'utilizzatore, senza che il somministratore si preoccupi, nella generalità dei casi, di eseguire la benché
minima verifica.
Le valutazioni tecniche sopra indicate costituiscono, come è noto, la base essenziale per consentire al
medico competente una corretta esecuzione della sorveglianza sanitaria dei lavoratori somministrati sia
preventiva che periodica. Tutto ciò premesso non sembra manifestamente infondata l'ipotesi che, nel
caso in cui il datore di lavoro somministratore (e quindi l'agenzia) non dovesse ritenere necessario od
opportuno eseguire, anche sommariamente, una analisi critica in merito a quanto rappresentato
dall'utilizzatore relativamente alla propria valutazione dei rischi aziendale in generale ovvero
all'indicazione dei rischi specifici ai quali potrebbero essere esposti i lavoratori somministrati, in caso
di conseguente accertata malattia professionale a carico di questi, si potrebbe in tal caso ravvisare un
comportamento omissivo a carico dell'agenzia individuando, a carico di questa, precise responsabilità
civili e penali proprio in quanto datore di lavoro del prestatore ancorché, per così dire, «virtuale». A
parziale sostegno di questa tesi ci soccorre il contenuto dell'art. 1, comma 4, lett. e), della legge 24
giugno 1997, n. 196, in materia di divieti di fornitura di lavoro temporaneo, i cui principi generali sono
stati, come è noto, successivamente recepiti dal D.Lgs. n. 276/2003. In esso si apprezza che «... è
vietata la fornitura di lavoro temporaneo a favore di imprese che non dimostrino alla Direzione
Provinciale del Lavoro di avere effettuato la valutazione dei rischi ai sensi dell'art. 4 del decreto
legislativo 19 settembre 1994, n. 626 e successive modificazioni ed integrazioni...». È ragionevole
pensare che i tecnici della Direzione Provinciale del Lavoro interessati alla questione non si siano
limitati, in passato, ad una mera presa visione del documento ma ne abbiano, se pur sommariamente,
valutato la sua congruità e validità. L'abrogazione della norma sopra indicata non determina quindi il
venir meno di un principio rappresentato dal dovere/diritto dell'Agenzia som-ministratrice di verificare
l'esistenza ma anche l'attendibilità dei contenuti (quanto meno generali) del documento ove il datore di
lavoro utilizzatore ha rappresentato i rischi lavorativi presenti nella propria unità produttiva. In merito
alla visita medica preventiva prevista dalle norme di legge più volte citate a favore dei lavoratori
somministrati onde valutarne, come detto, la loro idoneità alla mansione alla quale saranno addetti,
sorgono problemi di pratica applicazione non sufficientemente valutati sia dal D.Lgs. n. 276/2003 sia
dalla circolare n. 7/2005 del Ministero del Lavoro interpretativa della norma stessa. Nel caso in cui il
contratto di somministrazione di lavoro sia a termine potrebbe avvenire (ed avviene) che l'effettuazione
della prevista visita medica preventiva (con possibile risultato di accertata non ido-neità del lavoratore
somministrato) avvenga a ridosso del termine della prestazione lavorativa previsto dal contratto
medesimo.
In definitiva la disponibilità del medico competente da parte del datore di lavoro utilizzatore non è
sempre tale da garantire una accettabile tempestività di intervento. In ogni caso i contenuti del contratto
di somministrazione di cui all'art. 21 della norma in esame nulla indicano in proposito.
E, comunque, di tutta evidenza che in presenza di accertata non idoneità fisica del lavoratore
somministrato alla mansione specifica, il datore di lavoro utilizzatore non può che risolvere
unilateralmente il contratto ovvero richiedere, in alternativa, all'agenzia per il lavoro la sostituzione del
lavoratore dichiarato non idoneo con altro lavoratore per il quale, ovviamente, si dovrà seguire la
medesima procedura in materia del previsto accertamento della idoneità alla mansione assegnata. È
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opportuno far notare che il destinatario dell'onere economico delle attività sopra indicate non è detto
che debba coincidere necessariamente e totalmente nella figura del datore di lavoro utilizzatore. Quanto
sopra, fermo restando il principio espresso dall'art. 17, commi 3 e 4, del D.Lgs. n. 626/1994, sulla base
del quale «... qualora il medico competente, a seguito degli accertamenti di cui all'art. 16, comma 2,
esprima un giudizio sull'inidoneità parziale o temporanea o totale del lavoratore, ne informa per iscritto
il datore di lavoro e il lavoratore. Avverso il giudizio di cui al comma 3 è ammesso ricorso, entro trenta
giorni dalla data di comunicazione del giudizio medesimo, all'organo di vigilanza territorialmente
competente ...».
Come si può notare, la gestione dell'intera materia definita dal legislatore come sorveglianza sanitaria
del lavoratore somministrato è tutt'altro che agevole.
Le difficoltà, peraltro, aumentano a causa dell'incerta formulazione nel merito del D.Lgs. n. 276/2003
nonché dalla presenza dell'anomalo rapporto trilaterale rappresentato dal datore di lavoro somministratore estraneo (almeno in teoria) a fatti inerenti la sicurezza sul lavoro, a cui si aggiungono il
datore di lavoro utilizzatore ed il lavoratore somministrato.
Si potrebbe, in questa sede, per pura ipotesi immaginare una pratica soluzione al problema nel caso in
cui si decida di conferire al contenuto del già esaminato art. 10, comma 1, del D.Lgs. n. 276/2003 in
materia di divieto di trattamento dei dati sensibili dei lavoratori somministrati un significato ed un
limite più aderenti alle concrete realtà aziendali. Ciascun lavoratore potrebbe fornire, su richiesta,
all'agenzia per il lavoro gli elementi già in suo possesso in materia di esiti conclusivi delle visite
mediche sicuramente già effettuate negli anni precedenti, in conformità a quanto indicato in merito
dall'art. 17, comma 1, lett. f) del D.Lgs. n. 626/1994. Una simile iniziativa, ove lecita e legittima,
potrebbe consentire all'agenzia per il lavoro di fornire al datore di lavoro utilizzatore oggettivi elementi
di valutazione in merito alla reale idoneità del lavoratore somministrato alla mansione assegnata senza,
per questo, costituire violazione al disposto del citato art. 10 del D.Lgs. n. 276/2003. Nulla togliendo,
con questo, all'autonomia di giudizio del medico competente prescelto dall' utilizzatore per l'esecuzione
della visita medica preventiva.
Le problematiche in materia di sorveglianza sanitaria esaminate nel caso di stipulazione di un contratto
di somministrazione di lavoro a tempo determinato come sopra rappresentate dovrebbero essere gestite
dalle parti in causa con ancora maggiore attenzione in occasione della stipulazione di un contratto di
somministrazione a tempo indeterminato. In questo caso, infatti, assume importanza determinante, ai
fini della tutela dell'incolumità fisica dei lavoratori somministrati, l'individuazione certa e sicura dei
rischi presenti all'interno dell'unità produttiva del-l'utilizzatore e la conseguente periodicità delle visite
mediche di controllo. Si è del parere che l'agenzia per il lavoro non può demandare totalmente
all'utìlizzatore l'onere di eseguire la sorveglianza sanitaria dei lavoratori somministrati senza, per
questo, riservarsi il diritto di richiedere, periodicamente ed a sua discrezione, notizie o comunque
dichiarazioni liberatorie in merito alla conformità alle vigenti norme di legge di quanto posto in essere
dal datore di lavoro utilizzatore a favore dei lavoratori in questione. Val la pena, in questa sede, di
esaminare il caso (sempre possibile) di accertata malattia professionale a danno del lavoratore
somministrato. In occasione di tale evento le già evidenziate incertezze normative del D.Lgs. n.
276/2003 emergono in maniera dirompente senza, peraltro, consentire l'individuazione di una soluzione
giuridicamente accettabile.
A ciò si deve aggiungere l'inevitabile conseguente intervento, nel merito, dell'INAIL quale Ente
pubblico assicuratore. Tale intervento, peraltro, non si inserisce nell'ambito di un rapporto di lavoro
subordinato tradizionale così come previsto dal D.P.R. n. 1124/1965 in quanto l'INAIL dovrà individuare, volta a volta, una sua collocazione che sia coerente sia con i principi espressi all'interno della
propria norma istitutiva sopra indicata, sia con le diverse forme di contratti di lavoro atipici e flessibili
indicati nel D.Lgs. n. 276/2003.
Tra questi, come è noto, la somministrazione di lavoro è, senza meno, quella maggiormente
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rappresentativa. Per meglio chiarire al lettore il significato delle affermazioni sopra riportate, possiamo
immaginare di rappresentare le attività che le vigenti norme di legge in materia di denuncia e
successiva gestione amministrativa di una ipotetica malattia professionale (ad es.: ipoacusia da rumore
industriale) accertata a carico di un determinato lavoratore che risulti dipendente di un'agenzia per il
lavoro e sia stato concesso, in regime di somministrazione, ad un'impresa utilizzatrice ai sensi dell'art.
20 e segg. del D.Lgs. n. 276/2003. In tal caso si dovrebbe verificare, in sequenza temporale quanto
appresso indicato.
1) Il medico competente dell'impresa utilizzatrice in sede di visita medica periodica accerta la
sussistenza di ipoacusia da rumore industriale a carico di un determinato lavoratore operante all'interno
dell'unità produttiva dell'utilizzatore in regime di somministrazione.
2) In conformità a quanto previsto dall'art. 53 e dall'art. 139 del D.P.R. n. 1124/1965, il sanitario ha
l'obbligo, sanzionato penalmente, di trasmettere alla Direzione Provinciale del Lavoro competente per
territorio nonché all'INAIL copia del referto medico attestante l'accertata malattia professionale
contratta dal lavoratore.
3) L'INAIL, preso atto di quanto certificato dal medico competente, trasmette al datore di lavoro il
previsto modulo di denuncia di malattia professionale del lavoratore; il datore di lavoro è tenuto, infatti,
a fornire all'Ente assicuratore ogni notizia utile onde individuare le cause presunte della patologia
accertata a carico del lavoratore in questione. È appena il caso di segnalare al lettore che il datore di
lavoro di cui sopra si identifica con il legale rappresentante dell'agenzia per il lavoro somministratrice.
Ciò sulla base del fatto incontestabile rappresentato dal contenuto dell'art. 21, comma 1 del D.Lgs. n.
276/ 2003 il quale prevede espressamente «...l'assunzione da parte del somministratore dell'obbigazione del pagamento diretto al lavoratore del trattamento economico nonché del versamento dei
contributi previdenziali ...». In definitiva è evidente che l'INAIL non può rivolgersi, per i doverosi
chiarimenti in merito, che al sottoscrittore del contratto assicurativo in corso rappresentato, per quanto
sopra detto, dal legale rappresentante dell'agenzia per il lavoro. Quest'ultimo è, peraltro, tenuto a
sottoscrivere il modello di denuncia di malattia professionale compilato in ogni sua parte onde
consentire all'ente assicuratore di proseguire nell'iter burocratico di accertamento dei fatti connessi con
la segnalata malattia professionale del lavoratore somministrato onde pervenire, successivamente, nella
quantificazione dell'entità del danno patito dal lavoratore con conseguente erogazione allo stesso
dell'eventuale rendita derivante dall'invalidità permanente certificata dal medico competente. È di tutta
evidenza che il legale rappresentante dell'agenzia per il lavoro non potrà essere direttamente in
possesso degli elementi di carattere sanitario (e non solo) richiesti dall'INAIL. In particolare egli sarà
tenuto a richiedere i dati strettamente correlati con la sorveglianza sanitaria eseguita, dai diversi datori
di lavoro utilizzatoli del lavoratore interessato dalla malattia professionale, nei quattro anni antecedenti
la data di accertamento della malattia professionale stessa così come indicato nella vigente Tabella
delle malattie professionali nell'industria facente parte integrante del D.P.R. n. 1124/1965 e s.m.i. Si
può notare la complessità e l'estrema possibile diversità delle situazioni nelle quali si potrebbero venire
a trovare i datori di lavoro, sia somministratori che utilizzatori, in caso di accertate patologie da
esposizione ad agenti nocivi dei lavoratori somministrati. Le eventuali conseguenze, di carattere sia
civile che penale, a carico di questi soggetti possono, allo stato, essere solo immaginate.
Si è del parere, conclusivamente, che solo una concordata e programmata sorveglianza sanitaria dei
lavoratori somministrati tra le parti in causa potrà consentire, sia al somministratore che all'utilizzatore,
di definire i confini delle rispettive responsabilità in caso di malattia professionale diagnosticata a
carico dei lavoratori in questione.
Distacco
L'istituto del distacco, inteso come prestazione lavorativa concessa presso un soggetto diverso dal
proprio datore di lavoro, pur non costituendo una novità assoluta nel campo dei rapporti di lavoro
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privatistico in quanto già regolamentato dall'art. 8 della legge 19 luglio 1993, n. 236, ancorché
esclusivamente emanato allo scopo di evitare un possibile licenziamento del lavoratore, risulta
definitivamente regolamentato dall'art. 30 del D.Lgs. n. 276/2003. Il Ministero del Lavoro con propria
circolare 15 gennaio 2004, n. 3, ha ribadito che i requisiti di legittimità del distacco sono così
rappresentati:
- temporaneità del distacco;
- interesse del distaccante.
È di tutta evidenza l'estrema genericità definitoria dei requisiti sopra rappresentati. Ma sul punto non si
ritiene questa la sede più opportuna per approfondire l'analisi. Non vi è dubbio che l'istituto in esame
sia essenzialmente caratterizzato dalla dissociazione fra titolarità del rapporto di lavoro ed effettiva
utilizzazione della prestazione lavorativa.
Il datore di lavoro distaccante, così come peraltro confermato dal Ministero del Lavoro, continua a
mantenere la titolarità del rapporto di lavoro nella forma e nella sostanza, provvedendo, tra l'altro, a
riconoscere al lavoratore distaccato il previsto trattamento economico nonché ad adempiere ai
corrispondenti obblighi contributivi, previdenziali ed assicurativi di legge.
L'effettiva prestazione lavorativa risulta, come detto, eseguita dal lavoratore distaccato a totale favore
del datore di lavoro distaccatane all'interno, quindi, della unità produttiva di quest'ultimo. Ne consegue,
pur nel totale silenzio della norma, che la dissociazione sopra menzionata non può che tradursi nel
ritenere il distaccatario, pur non essendo formale titolare del rapporto di lavoro, destinatario esclusivo
di tutti gli obblighi in materia di sicurezza sul lavoro a favore del lavoratore distaccato. Tra questi,
quindi, è agevole individuare anche la sorveglianza sanitaria ove la stessa sia prevista in relazione alla
mansione svolta dal lavoratore distaccato. Se in teoria quanto sopra sostenuto non dovrebbe comportare
alcun problema di carattere applicativo, a ben vedere in pratica le difficoltà interpretative non mancano.
Le perplessità sorgono, infatti, dalla considerazione di carattere generale conseguente al fatto
facilmente contestabile che le condizioni operative all'interno dell'unità produttiva del distaccatario ben
difficilmente sono del tutto simili a quelle dell'unità produttiva del distaccante. A parità di mansioni
svolte dal lavoratore interessato, è lecito ipotizzare che in sede di visita medica preventiva (in teoria
non obbligatoria) il medesimo lavoratore ritenuto idoneo presso l'azienda distaccante non risulti tale
presso quella del distaccatario alla luce dei rischi lavorativi ivi presenti (ad es.: rumore, agenti chimici
aerodispersi, ecc.). In caso di distacco con mutamento di mansioni l'obbligatorietà peraltro della visita
medica preventiva è espressamente indicata dall'art. 16, comma 2, lett. a) del D.Lgs. n. 626/1994.
Gli esiti di detta visita potrebbero, anche in questo caso, condizionare la concreta realizzazione del
distacco. In definitiva si ritiene opportuno che le parti (distaccante e distaccatario), prima di procedere
nel dare attuazione al progettato distacco di uno o più lavoratori, diano incarico ai responsabili delle
rispettive strutture operanti nel settore della sicurezza sul lavoro, onde definire lecite modalità di
trasferimento dei lavoratori interessati nel rispetto, in particolare, delle norme di legge in materia di
sorveglianza sanitaria.
Lavoro intermittente
Il contratto di lavoro intermittente (comunemente definito anche a chiamata ovvero job on call)
rappresenta una delle novità assolute nel nostro ordinamento giuslavoristico. Come si può notare dalla
lettura della norma (artt. 33 e 34 del D.Lgs. n. 276/2003), il rapporto di lavoro definito «intermittente»
è caratterizzato da due fasi ben distinte: una fase di attesa ed una fase di effettiva prestazione lavorativa
da parte del lavoratore interessato effettuata a seguito di chiamata da parte del datore di lavoro.
Per completezza di informazione è opportuno precisare che, così come previsto esplicitamente dall'art.
36, comma 6, del D.Lgs. n. 276/2003, il lavoratore ha facoltà di inserire nel contratto una specifica
clausola che non lo obbliga a rispondere alla chiamata del datore di lavoro rinunciando, in tal modo,
alla prevista indennità di disponibilità di cui al comma 1 del medesimo art. 36.
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Le caratteristiche che definiscono il lavoro intermittente possono, quindi, così essere sintetizzate:
• il lavoratore si pone contrattualmente a disposizione di un determinato datore di lavoro;
• il datore di lavoro ha facoltà di utilizzare la prestazione del lavoratore «a disposizione» in modo
intermittente e, comunque, secondo proprie necessità;
• il lavoratore, ove contrattualmente previsto, può anche non rispondere alla chiamata del datore di
lavoro;
• l'obbligo di risposta alla chiamata prevede l'erogazione, da parte del datore di lavoro, di
un'indennità mensile di disponibilità a favore del lavoratore.
Tutto ciò premesso, per le finalità di queste note è necessario stabilire se, nel caso in esame, è possibile
definire il lavoratore, interessato a sottoscrivere un contratto di lavoro intermittente, come lavoratore
subordinato.
E ciò, in quanto, secondo alcuni, nel caso in cui si vada a sottoscrivere un contratto di lavoro
intermittente contenente la facoltà, concessa al lavoratore, di non rispondere alla chiamata, si identifica
il lavoratore stesso come autonomo, mentre la presenza della clausola contrattuale di obbligo di
chiamata conferisce al lavoratore la caratteristica di lavoratore subordinato. Tale teoria è suggestiva ma
non condivisibile in quanto in entrambi i casi la prestazione lavorativa, ove concretamente effettuata, si
realizza sempre e comunque alle dipendenze e sotto la direzione del datore di lavoro confermandosi,
senza dubbio alcuno, come prestazione di lavoro subordinato. In quanto tale il datore di lavoro sarà
tenuto ad applicare, a favore del lavoratore interessato, tutte le norme di legge vigenti in materia di
sicurezza sul lavoro in generale ed attivare la sorveglianza sanitaria del lavoratore stesso in particolare
nel caso in cui la mansione affidata allo stesso, ovviamente, lo richieda. Sul punto non si può certo non
rilevare che sarà compito specifico del medico competente stabilire tempi e modalità di esecuzione
della sorveglianza sanitaria a favore di un lavoratore la cui prestazione lavorativa è, per contratto, non
continuativa come avviene di norma per gli altri lavoratori subordinati sottoposti a sorveglianza
sanitaria.
Lavoro ripartito
Il contratto di lavoro ripartito, meglio noto come job sharing, così come testualmente riportato dall'art.
41, comma 1, del D.Lgs. n. 276/2003 «... è uno speciale contratto di lavoro mediante il quale due
lavoratori assumono in solido l'adempimento di una unica e identica obbligazione lavorativa».
Nel caso in esame il legislatore, con una formulazione che comporta non poche difficoltà interpretative,
ha stabilito che «... in assenza di contratti collettivi ... trova applicazione ... la normativa generale del
lavoro subordinato in quanto compatibile con la particolare natura del rapporto di lavoro ripartito ...».
Un'interpretazione letterale della norma porterebbe alla conclusione che il contratto di lavoro ripartito
possa costituire un regolare contratto di lavoro subordinato solo se compatibile con le specifiche
caratteristiche del lavoro reso a favore di un determinato datore di lavoro. Non si può escludere, quindi,
che un'obbligazione lavorativa che prevede prestazioni ripartite possa anche essere oggetto di un
contratto di lavoro autonomo stipulato con una impresa. Il contenuto del successivo art. 44 della norma
ci costringe ad abbandonare quest'ultima ipotesi ancorché legittimata da un dettato normativo a dir
poco ambiguo.
L'articolo in questione, infatti, stabilisce il divieto di discriminazione, diretta o indiretta, a danno dei
lavoratori coobbligati in quanto ciascuno di questi «... non deve ricevere, per i periodi lavorati, un
trattamento economico e normativo complessivamente meno favorevole rispetto al lavoratore di pari
livello, a parità di mansioni svolte ...».
Se a ciò si aggiunge che l'art. 42, comma 1, lett. c) stabilisce che tra gli elementi che devono essere
introdotti nel contratto di lavoro ripartito dovranno figurare «... le eventuali misure di sicurezza
specifiche necessarie in relazione al tipo di attività dedotta in contratto...», se ne conclude agevolmente
che la sorveglianza sanitaria dei lavoratori coobbligati dovrà necessariamente far parte di dette misure
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La sorveglianza sanitaria nei nuovi contratti di lavoro
di sicurezza.
Tempi e modalità di esecuzione di questa sorveglianza sanitaria dovranno essere stabilite, come per il
lavoro intermittente, dal medico competente in accordo con il responsabile del servizio di prevenzione
e protezione dell'azienda ospitante.
Lavoro a tempo parziale
La regolamentazione del lavoro a tempo parziale, comunemente definito part time, così come prevista
dal D.Lgs. 25 febbraio 2000, n. 61 e già parzialmente modificata dal successivo D.Lgs. 26 febbraio
2001, n. 100, è stata ulteriormente rivisitata dall'unico art. 46 costituente il Capo III del D.Lgs. n.
276/2003. Le modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 276/2003 non sono però rilevanti per i fini del presente
elaborato. Il D.Lgs. n. 61/2000 continua, quindi, a rappresentare il punto di riferimento normativo nel
quale rinvenire i principi fondamentali sulla base dei quali viene garantito, ai lavoratori part time, il
medesimo trattamento dei lavoratori a tempo pieno ad essi comparabili. In particolare, per quanto
riguarda la sorveglianza sanitaria di detti lavoratori, non vi sono particolari considerazioni da segnalare
al lettore ad integrazione di quanto già ampiamente riferito per quanto attiene le visite mediche
preventive e periodiche dei lavoratori subordinati impiegati a tempo pieno. Un'unica annotazione, di
carattere del tutto marginale, riguarda il fatto accettabile che alcuna norma pone il divieto di cumulo
delle prestazioni lavorative come peraltro confermato da una ben nota sentenza della Corte di
Cassazione del 1981.
Ne consegue che è possibile sottoscrivere due o più contratti di lavoro part time. Il lavoratore
interessato avrebbe così il diritto di usufruire di una sorveglianza sanitaria specifica per ciascun
contratto di lavoro part time sottoscritto. Sarebbe, però, opportuno che il medesimo lavoratore rendesse
noto ad ogni datore di lavoro gli ulteriori impegni lavorativi sottoscritti affinchè il medico competente
di ciascuno di essi sia messo nelle condizioni di valutare l'effettiva idoneità alla mansione del prestatore
intesa come complessivo impegno lavorativo dello stesso.
Apprendistato
Il Capo I del Titolo VI del D.Lgs. n. 276/2003 in attuazione dell'art. 2, lett. b) della legge 14 febbraio
2003, n. 30 con il quale l'esecutivo è stato delegato ad emanare norme intese a razionalizzare i rapporti
di lavoro di apprendistato avente cioè contenuti formativi e di tirocinio, ha introdotto nel nostro
ordinamento giuslavoristico una disciplina del tutto innovativa in materia di stipulazione dei contratti di
apprendistato. In breve sintesi, si può affermare che, almeno sulla base dei contenuti teorici indicati
nella norma in esame, la configurazione risultante del contratto di apprendistato dovrebbe essere tale da
assolvere contestualmente sia il diritto-dovere di istruzione previsto dalla legge 28 marzo 2003, n. 53
(meglio nota come «Riforma Moratti») nonché l'apprendimento professionale vero e proprio
prevedendo anche una specializzazione tecnica di livello superiore. Il legislatore, a tale scopo, ha infatti
individuato tre differenti tipologie di contratti di apprendistato che, in breve sintesi, sono così definiti:
1) contratto di apprendistato per l'espletamento del diritto-dovere di istruzione e formazione destinato
a giovani ed adolescenti che abbiano compiuto il quindicesimo anno di età, prevedendo una durata
non superiore a tre anni;
2) il contratto di apprendistato testualmente definito «professionalizzante» a mezzo del quale il
lavoratore dovrebbe avere la possibilità di conseguire una competenza professionale maggiore di
quella raggiungibile con il contratto di apprendistato di cui alla lett. a). A tale conclusione si perviene
prendendo atto che i de-stinatari di tali contratti possono essere i giovani compresi tra i 18 anni ed i 29
anni di età e, peraltro, considerando il fatto che la durata prevista non potrà essere inferiore a due anni e
superiore a sei anni;
3) il contratto di apprendistato destinato alla acquisizione di un diploma ovvero per percorsi di alta
formazione.
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La sorveglianza sanitaria nei nuovi contratti di lavoro
La fattispecie negoziale in questione risulta oggettiva-mente definita dal legislatore in modo del tutto
approssimato prevedendo, in sostanza, da parte del lavoratore interessato, un'effettiva prestazione
lavorativa unita ad una adeguata frequenza presso un istituto superiore (ovvero anche presso una
università) destinata al conseguimento del relativo titolo di studio. I successivi decreti applicativi
chiariranno, si spera, come conciliare l'attività lavorativa con un impegno scolastico di livello affatto
trascurabile. L'art. 47, comma 3, del D.Lgs. n. 276/2003, ben prevedendo le difficoltà operative
conseguenti all'applicazione pratica di un programma tanto vago quanto ambizioso, afferma che «in
attesa di regolamentazione del contratto di apprendistato ai sensi del presente decreto continua ad
applicarsi la vigente normativa in materia ...».
Ne consegue che, per quanto attiene la sorveglianza sanitaria dei lavoratori interessati dal contratto di
apprendistato come sopra rappresentato, non si potrà che fare riferimento, allo stato, alle vigenti
disposizioni di cui all'art. 4 della legge 19 gennaio 1955, n. 25 integrate da quelle indicate, in merito,
dal D.Lgs. 19 settembre 1994, n.626. In proposito vi è solo da specificare che, nel caso in cui il
lavoratore apprendista venga adibito ad attività per le quali non sia prevista la sorveglianza sanitaria in
base al dettato normativo di cui al D.Lgs. n 626/1994, vige esclusivamente l'obbligo a carico del datore
di lavoro di fare eseguire, a favore del lavoratore, una visita medica preventiva gratuita presso la
struttura pubblica territorialmente competente. Le previste emanande disposizioni dovrebbero meglio
indicare, in dettaglio, per ciascuna tipologia di contratto di apprendistato, gli obblighi a carico del
datore di lavoro relativi alla sorveglianza sanitaria dei lavoratori interessati.
Inserimento
Il contratto di inserimento, come è ormai noto, rappresenta un modello contrattuale del tutto innovativo
e con caratteristiche proprie tali da non poterlo considerare come semplice sostituto del contratto di
formazione lavoro di cui alla legge n. 451/1994 avendo, tra l'altro, finalità più propriamente
occupazionali che formative del lavoratore. Non a caso il legislatore indica, quale finalità primaria della
norma, «... l'inserimento ovvero il reinserimento ...» nel mercato del lavoro di soggetti di età e
caratteristiche professionali diversificate tra loro indicate in dettaglio all'art. 54, comma 1, del D.Lgs. n.
276/ 2003 alla cui consultazione si rimanda opportunamente il lettore.
Sulla base di quanto stabilito dal successivo art. 57 della norma in commento, il contratto di
inserimento potrà avere una durata non inferiore a nove mesi e non superiore a 18 mesi salvo che il
lavoratore sia affetto da grave handicap nel qual caso la durata massima potrà raggiungere i 36 mesi.
Ciò premesso, giusto quanto indicato dall'art. 58, comma 1, della norma, per i contratti di inserimento
trovano applicazione le disposizioni del D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368 che regolamentano i contratti
di lavoro a tempo determinato in quanto compatibili. In sostanza, quindi, i lavoratori interessati da
contratti di inserimento (ovvero reinserimento) non potranno che essere considerati quali lavoratori
subordinati a tutti gli effetti ivi compresa l'eventuale sorveglianza sanitaria eseguita obbligatoriamente
a loro favore dal datore di lavoro ove prevista dalle vigenti disposizioni di legge.
L'assenza, però, di specifici problemi o incertezze interpretative della norma è solo apparente.
A ben vedere in sede di definizione del progetto individuale di inserimento inteso, ai sensi dell'art. 55,
comma 1, della norma, quale condizione necessaria per l'assunzione del lavoratore con contratto di
inserimento, dovrebbe farsi specifico riferimento anche agli esiti della visita preventiva del lavoratore
eseguita allo scopo di valutare l'idoneità fisica dello stesso alla mansione assegnata, giusto quanto
previsto dall'art. 16, comma 2, lett. c) del D.Lgs. n. 626/1994, senza che ciò, peraltro, costituisca
illegittimo atteggiamento discriminatorio da parte del datore di lavoro. È di tutta evidenza, però, che
per i lavoratori sottoindicati:
• lavoratori con più di 50 anni di età;
• lavoratori (di qualsiasi età) che desiderino riprendere un'attività lavorativa;
• donne di qualsiasi età residenti in determinate aree geo-grafiche;
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La sorveglianza sanitaria nei nuovi contratti di lavoro
• soggetti riconosciuti affetti da grave handicap;
si potrebbero individuare non pochi problemi occupazionali in esito alla prevista visita medica
preventiva. Un chiarimento legislativo con precise indicazioni in proposito è da ritenersi auspicabile
oltre che necessario. La medesima considerazione, pur con i dovuti adattamenti, andrebbe espressa
anche per i tirocini estivi di orientamento previsti dall'art. 60 del D.Lgs. n. 276/2003.
Lavoro a progetto
Il Titolo VII, Capo I, del D.Lgs. n. 276/2003 contiene la regolamentazione dei rapporti di lavoro
comunemente denominati «collaborazioni coordinate e continuative» la cui genesi legislativa è da
ricercarsi, come è noto, nell'art. 409 Cod. Proc. Civ. e successivamente, nell'art. 49, comma 2, lett. a)
del Testo Unico delle Imposte Dirette (meglio noto come T.U.I.R.) di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986,
n. 917.
In questa ultima norma si apprezza il fatto che i redditi derivanti da «... rapporti di collaborazione
coordinata e continuativa aventi per oggetto la prestazione di attività svolte senza vincolo di
subordinazione a favore di un determinato soggetto nel quadro di rapporto unitario e continuativo senza
impiego di mezzi organizzati e con retribuzione periodica prestabilita ...» sono da considerarsi redditi
di lavoro autonomo.
L'art. 61, comma 1, della norma in esame rappresenta, di fatto, l'evoluzione con carattere definitivo del
principio illustrato dall'art. 409 Cod. Proc. Civ. In esso, infatti, il legislatore, pur confermando la
validità definitoria di estrazione codicistica, ne ha ricondotto la legittimità nell'ambito di «... uno o più
progetti specifici o programmi di lavoro o fase di esso determinati dal committente e gestiti
autonomamente dal collaboratore in funzione del risultato ...». La circolare del Ministero del Lavoro 8
gennaio 2004, n. 1, alla quale si rimanda il lettore in considerazione dell'importanza che essa riveste per
una corretta interpretazione della norma, tiene a sottolineare i requisiti qualificanti del rapporto di
lavoro rappresentato dalle collaborazioni coordinate e continuative.
In definitiva in essa così si ribadiscono i principi caratterizzanti di detti rapporti di lavoro:
• assoluta autonomia del collaboratore;
• necessaria
coordinazione con il committente;
• irrilevanza del tempo impiegato per l'esecuzione della prestazione purché realizzata nell'ambito di
un progetto ovvero di un programma o fase di esso.
In considerazione dello specifico tema affrontato nel presente elaborato, val la pena rimandare il lettore
ad un'attenta analisi del punto VI della citata circolare n. 1/2004. Tale analisi porta agevolmente a
concludere che:
• nel caso in cui la prestazione lavorativa si dovesse svolgere all'interno di luoghi di lavoro del
committente, per tale rapporto di lavoro il Ministero del Lavoro conferma che trovano applicazione le
norme in materia di sicurezza sul lavoro di cui al D.Lgs. n. 626/ 1994;
• il Ministero del Lavoro stesso, peraltro, esprime una sostanziale perplessità sulla concreta
applicazione, alla fattispecie in esame, del D.Lgs. n. 626/1994 in quanto, come testualmente riportato,
tale normativa risulta «... principalmente orientata alla tutela della salute e sicurezza dei lavoratori
subordinati ...»;
• il medesimo Ministero, infine, indica una soluzione compromissoria all'evidente incongruenza
legislativa confermando l'applicabilità, per tali rapporti di lavoro, del D.Lgs. n. 626/1994 ancorché
limitatamente al contenuto dell'art. 7 di detta normativa ove, come è noto, è indicato uno specifico
regime di tutela a favore dei lavoratori autonomi. Tutto ciò premesso e considerato, peraltro, che la
sorveglianza sanitaria rientra tra gli obblighi posti in capo al datore di lavoro previsti dal D.Lgs. n.
626/1994, non sembra manifestamente infondata l'ipotesi che solo un successivo intervento legislativo
possa portare chiarezza nel definire i limiti applicativi di tale decretazione ai rapporti di lavoro
coordinati e continuativi così come definiti e descritti negli artt. 61 e seguenti del D.Lgs. n. 276/ 2003.
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Lavoro accessorio
Gli artt. da 70 a 73 del D.Lgs. n. 276/2003 introducono e disciplinano nel nostro ordinamento
giuslavoristico una originale tipologia di rapporto di lavoro definito «prestazione di lavoro accessorio»
per la quale è prevista una durata complessiva non superiore a 30 giorni per anno solare e che, in ogni
caso, non determinino compensi a favore del lavoratore superiori a 3.000 euro sempre per anno solare.
Il legislatore ha ritenuto opportuno definire in dettaglio:
- la tipologia della prestazioni lavorative che rientrano tra i lavori definiti accessori dalla norma
(piccoli lavori domestici, pulizia di edifici e monumenti, collaborazione con enti pubblici ed
associazioni di volontariato, ecc.);
- i soggetti che possono svolgere attività di lavoro accessorio.
Sulla base di quanto indicato nella norma in commento è evidente che le conseguenti prestazioni
lavorative rientrano nell'ambito delle prestazioni occasionali di lavoro autonomo.
Sulla base di questa oggettiva constatazione, appare arduo, pur nel totale silenzio della norma stessa,
individuare a carico del committente obblighi in materia di sicurezza sul lavoro in generale ovvero di
esecuzione di sorveglianza sanitaria in particolare a favore dei prestatori di lavoro accessorio.
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