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2 Giovedì 19 Giugno 2003 @lfa Il Sole-24 Ore FOCUS SEI IDEE SCINTILLANTI / I FINANZIAMENTI Fondi, rubinetto chiuso Per il venture capital record negativo nel 2002 - Quest’anno si spera in una ripresa I nutile nascondersi dietro un dito. Il venture capital "puro" in Italia attraversa un momento molto negativo. C’è persino qualcuno che ne paventa l’estinzione. Eppure, solo tre anni fa, sembrava che l’intero sistema Italia si stesse muovendo lungo la traiettoria dell’investimento in capitale di rischio nelle imprese innovative per poi attendersi, via quotazione in Borsa, un rendimento moltiplicato per tre o quattro. Miracoli della "bolla internet", delle aspettative esagerate sul misterioso fenomeno di una rete esplosa a quasi un miliardo di utenti in meno di un decennio e che tuttora cresce tranquillamente. La ritirata fu altrettanto precipitosa. Ovunque, sia negli Stati Uniti che in Europa e in Italia. L’anno scorso, secondo i dati dell’Aifi, su 2,6 miliardi di Euro di operazioni in capitali di rischio (peraltro cresciute del 20%) l’investimento iniziale in nuove imprese è crollato al 2% (dal 13% del 2001 e dal 18% del 2000) mentre il "private equity" (acquisto di partecipazioni in aziende esistenti) e il finanziamento aggiuntivo di startup già finanziate l’hanno fatta da padrone, persino prendendosi un po’ di velocità. Di fronte a un Borsa a segno meno, e che non pompa da tre anni risorse finanziarie alle imprese, l’alternativa è stata quella del finanziamento via fondi chiusi. Principali vittime, però, almeno finora, proprio le nuove imprese che hanno visto prosciugarsi le fonti di accesso ai capitali di rischio, secondo quello schema del venture capital che nel 2000 pareva essersi imposto anche in Italia. In tutto il mondo si peccò di impazienza e di pressappochismo nel 98-2000 sull’onda dei miraggi di Internet. Ma il venture capital, quello vero, è sempre stato, fin dalle sue origini negli Anni 70, un’attività finanziaria molto accorta e molto "paziente". Che scontava almeno cinque anni per la fioritura di una startup, con un probabilità di una su cinque in media. Ora forse, con il Tech Tour, potrebbe esserci il punto di inversione. E l’inizio del ritorno alle origini. A quel percorso finanziario, industriale, innovativo che ha comunque cambiato, negli ultimi vent’anni, l’industria mondiale. Nicolò Manaresi SILICON BIOSYSTEM Un laboratorio in un chip per scoprire le malattie L a prima dimostrazione di quanto poteva valere il loro know-how l’ebbero a fine anni 90, quando per la St Microelectronics misero a punto un chip rivoluzionario in grado di "leggere" le impronte digitali semplicemente mettendo il dito sulla piastrina di silicio. Quest’ultima infatti conteneva un matrice di "micro-sensori" in grado di percepire le differenze elettro-capacitive delle linee della pelle. «Fu il catalizzatore per la nascita di Silicon Biosystem — dice Nicolò Manaresi, uno dei fondatori dell’azienda bolognese — per anni avevamo lavorato tra l’Università e l’industria. Insieme a colleghi come Roberto Guerrieri, Gianni Medoro e Marco Tartagni assommavamo circa 25 brevetti. Potevamo muoverci quindi anche su spazi più vasti». Esperti nella micro sensoristica elettrica il gruppo avviava la neonata azienda, fin dal 2000, su un territorio di frontiera: «la progettazione di chip per le analisi mediche di laboratorio. Capaci di manipolare singole cellule, portarle in prossimità dei microscopici sensori, elettrici e ottici, opportunamente programmati per riconoscerne le caratteristiche critiche». Dai progetti di ricerca europei la Silicon Biosystem è ora già passata alla fase dei primi prototipi funzionanti di un "laboratorio su piastrina" che, da una goccia di liquido organico, estrae e smista oltre 10mila cellule e le passa al vaglio delle minuscole batterie di sensori. Insieme all’Insern francese e all’Università di Bologna i prototipi sono già in fase di test su situazioni mediche reali con il consenguente sviluppo di protocolli di analisi, fondamentali per assicurarne la completa affidabilità diagnostica. «È chiaro che, giunti a questo punto — dice Manaresi — possiamo puntare anche più in alto. Verso un insieme completo di chip più software e protocollo medico. E poi verso famiglie di "labs on chip" calibrati per diversi tipi di analisi e di applicazioni, anche al di fuori del solo ambito medicale. Pensiamo per esempio al controllo di qualità nell’alimentare. Oppure, in futuro, a soluzioni portatili e di consumo per gli anziani o per specifiche categorie di pazienti». La microsensoristica diagnostica è quindi oggi una frontiera tutta aperta che la Silicon Biosystem non vuole lasciarsi scappare. YOGITECH Punta di diamante per i microcircuiti N on è facile trovare in Italia un’azienda all’avanguardia nella progettazione dei chip microelettronici. Ma questo piccolo miracolo è avvenuto a Pisa, tre anni fa, da parte di tre ingegneri elettronici piuttosto esperti del mestiere, Riccardo Mariani, Monia Chiavacci e Silvano Motto, che avviarono la Yogitech. Su un’idea piuttosto precisa: «Il disegno dei chip, oggi, è in gran parte un problema di iper-complessità — spiega Motto — quando su una piastrina di silicio puoi mettere milioni di componenti elementari, e tutti devono funzionare a dovere, ecco che emerge il vero collo di bottiglia: il disegno deve essere controllato fin dall’inizio, con le tecnologie software più avanzate, ma soprattutto deve prevedere al suo interno dei meccanismi di controllo e di auto-riparazione, che però non Riccardo Mariani ne appesantiscano troppo l’architettura». Di qui l’attività di Yogitech. I suoi progetti (anche per grossi calibri del settore, come St Microelectronics e Texas Instruments) vengono impostati su metodologie software allo stato dell’arte (l’azienda è il maggiore partner italiano di Verisity, sistema software che consente un’attenta pianificazione e controllo delle attività) ma, soprattutto, si avvantaggiano di FaRo (Fault Robust), un insieme di tecnologie e soluzioni sviluppate negli anni dai tecnologi pisani. «FaRo è un’architettura che consente di creare, dentro i chip, dei sottosistemi, molto agili, che potremmo definire come "controllori-riparatori". Capaci di controllare le A operazioni nei punti critici dei circuiti e, in caso di malfunzionamento, di provvedere a soluzioni alternative. In modo distribuito, senza dover ricorrere a "pesanti" duplicazioni o rindondanze di intere unità di calcolo o di memoria». All’attuale stato dell’arte della microelettronica, che può integrare su una piastrina di pochi millimetri quadrati decine di milioni di componenti elementari ciascuno sotto il micron, FaRo è una tecnologia molto interessante. L’industria dei chip, in teoria, è arrivata al punto da poter creare interi sistemi (computer, telefonini, persino laboratori diagnostici) sulla piastrina di silicio, ma l’ipercomplessità fa crescere esponenzialmente la probabilità di errori e di imprevisti malfunzionamenti. «Per questo oggi vogliamo valorizzare la nostra capacità tecnologica — aggiunge Motto — perché crediamo che le tecniche di "tolleranza agli errori" che noi abbiamo messo a punto siano molto competitive. In taluni casi portano a risparmi di costo del chip superiori al 50%, a potenze elettriche di funzionamento più basse, a un più gestibile controllo del processo di design, che sovente chiama in causa per un singolo sistema gruppi di centinaia di ingegneri». Un riscontro la Yogitech l’ha già avuto in sede europea. Oggi è capofila di un programma di ricerca, Medea (insieme a Texas Instruments e St Microelectronics) che mira alla realizzazione di memorie fault tolerant, capaci di autoripararsi e continuare a funzionare. Tempo quindi per l’azienda pisana di spiccare il volo. MEDIA LARIO Arnaldo Valenzuela Dall’ottica d’avanguardia al nanotech N el 1994 ad Arnoldo Valenzuela fu affidata dall’Esa, l’agenzia spaziale europea, una sorta di missione impossibile. Salvare dal fallimento uno dei suoi maggiori progetti. Ovvero un telescopio a raggi X quattro volte più potente di ogni altro realizzato fino ad allora. Un obiettivo perseguito dall’agenzia europea fin dalla fine degli anni 80 ma che sembrava impossibile, data l’inesistenza di lenti e di tecnologie ottiche di qualità adeguata. Fu così che nel 1993 partì l’avventura di Media Lario, fondata dal sessantaduenne Valenzuela, autorità internazionale nell’aerospazio, per anni a capo di programmi governativi in Argentina e poi in Europa. Oggi l’Xmm (X ray multi mirror mission), il super telescopio dell’Esa funziona davvero, grazie anche alla tecnologia Media Lario. Lanciato dall’Ariane nel 1999 è ritenuto il più potente telescopio a raggi X orbitante mai costruito. «In Italia vi sono competenze di livello mondiale nel nostro campo. Che è poi l’ottica di altissima precisione per i telescopi a raggi X — spiega Valenzuela — . Basti pensare al Nobel dell’anno scorso dato a Riccardo Giacconi e alla scuola dell’Osservatorio astronomico di Brera. Non solo: in Europa, prima che nascessimo noi, vi era di fatto un solo fornitore monopolista nell’ottica di altissima precisione: la Karl Zeiss tedesca. Ora invece ci siamo anche noi con una tecnologia autonoma che consente la produzione di ottiche praticamente perfette a livello di massa e con costi molto contenuti». Il processo della Media Lario si chiama elettroformatura. In pratica consente la replicazione senza difetti di un "master" (una lente base, molata tradizionalmente) in un numero infinito di cloni ciascuno "cresciuto" sul microcontrollo della superficie, molecola per molecola. Oggi la Media Lario si sta imponendo, come fornitore di punta, anche in settori come la difesa e le telecomunicazioni «dove riusciamo a produrre specchi in grado di trasmettere raggi di luce talmente coerenti da essere assimilati a fibre ottiche da 2 gigabit al secondo». Anche se le macchine di replicazione dell’azienda funzionano 24 ore su 24 quasi senza sorveglianza, Valenzuela vuole andare oltre: «abbiamo tutte le carte in regola per espandere le nostre soluzioni anche oltre l’ottica. La nostra tecnologia ha una tale precisione da poter essere la chiave per la produzione di superfici e di dispositivi per le nanotecnologie e per la microelettronica del futuro. Per questo siamo interessati a nuovi investimenti». pagina a cura di Giuseppe Caravita