Insegnanti in pensione, occasione per rinnovare la scuola Bastone

Transcript

Insegnanti in pensione, occasione per rinnovare la scuola Bastone
{EST-4-0802-29} Tue Feb 7 23:01:51 2006 CYAN MAGENTA YELLOW BLACK
20
●
COMMENTI E OPINIONI
8 febbraio 2006, Mercoledì
Insegnanti in pensione, occasione per rinnovare la scuola
GIUNIO LUZZATTO
FONDATO NEL 1886
DIRETTORE RESPONSABILE
LANFRANCO VACCARI
VICEDIRETTORE
ALESSANDRO CASSINIS
CAPI REDATTORI CENTRALI
MARIO MUDA
TEODORO CHIARELLI
STAFF CENTRALE
RICCARDO MASSA
MARCO PESCHIERA
GIORGIO RINALDI
PRESIDENTE
CARLO PERRONE*
AMMINISTRATORE DELEGATO
FRANCO CAPPARELLI*
CONSIGLIERI
CESARE BRIVIO SFORZA*
ALBERICA BRIVIO SFORZA
VITTORIO BO
JACQUES JOFFE
GUGLIELMO MAISTO
FREDERIK NICOLAI
ATTILIO OLIVA
LANFRANCO VACCARI
* Membri Comitato Esecutivo
Editrice Proprietaria S.E.P.
Sede Legale 16121 Genova Piazza Piccapietra, 21
Il responsabile del trattamento dei dati di uso redazionale è il Direttore Responsabile (D. Lgs. 30/06/2003 n° 196)
Direzione Generale, Amministrazione, Tipografia
16121 Genova Piazza Piccapietra, 21 - Tel. 010.53881
E-Mail: [email protected]
Sito Internet: http://www.ilsecoloxix.it
Stampato da SAN BIAGIO STAMPA SpA
Via al Santuario N.S. della Guardia, 43P-43Q Tel. 010.7231711 - Fax 010.7231740
www.sanbiagiostampa.it
Registrazione Tribunale di Genova N. 7424 del 17-06-1924
certificato n. 5533
del 16-12-2005
ul Secolo XIX di sabato Donata Bonometti ha presentato con ricchezza di documentazione le prospettive di pensionamenti tra gli
insegnanti genovesi: 500 sicuri
quest’anno (il doppio rispetto all’anno precedente), 1.000 presunti l’anno prossimo.
Tra le cause, a parte quella ovvia legata alle
previste modifiche “in peius” della normativa pensionistica, se ne possono citare
due, di natura molto diversa. Una riguarda
i pensionamenti anticipati chiesti da insegnanti tra i migliori, molti dei quali per
anni hanno fatto volontaristicamente più
del loro dovere, anche impegnandosi in serie sperimentazioni: si sono scoraggiati sia
per l’assenza di considerazione da parte del
ministero nei loro confronti (male antico),
sia per i più recenti colpi assestati alla
scuola pubblica.
Un’altra causa è connessa ai sistematici
ritardi nel reclutamento, per cui chi entra
in ruolo è talora già abbastanza prossimo
all’età della pensione. In teoria, la legge dispone che le coperture dei posti avvengano
per una metà privilegiando l’anzianità, tramite l’utilizzazione delle graduatorie per-
S
manenti nelle quali sono collocati i precari,
per un’altra metà aprendo ai giovani; questo fifty-fifty non costituisce certo una soluzione ottimale, ma ha rappresentato un
compromesso inevitabile in presenza di
una massa di persone che senza loro responsabilità sono state utilizzate per lustri
in posizione instabile.
Il 50% aperto a tutti, per merito, è stato
gestito però a singhiozzo: in passato si trattava dei concorsi, previsti in teoria con periodicità biennale o triennale ma banditi
di fatto, gli ultimi due, nel ’90 e nel ’99;
attualmente si tratterebbe dei nuovi abilitati usciti dalle Scuole universitarie di specializzazione (Ssis) e dai Corsi di laurea in
Formazione Primaria, ma per questi nulla
è stato disposto, in attesa di future lauree
magistrali, i cui sbocchi non sono stati definiti. Quali che siano le cause, si determina
ora un effetto importantissimo. Il 20% del
corpo docente deve essere sostituito e le
vacanze che si aprono a Genova in soli due
anni sono in numero quasi identico a quello (1.645) dei “precari” accumulatisi nel
corso di decenni; la situazione nazionale
ha caratteristiche analoghe. Se la si saprà
cogliere, questa può essere perciò un’occasione irripetibile per assestare il corpo in-
segnante, per sopprimere il precariato, per
attuare un ringiovanimento. Ma perché
l’occasione non vada persa occorrono precise scelte.
Primo: i posti liberi vanno coperti tutti,
e subito. L’indicazione è banale, ma rappresenterebbe un ribaltamento rispetto a
quanto accaduto finora: in Italia gli incarichi annuali (senza contare le supplenze più
brevi) sono oltre 100.000, e sono molto aumentati negli ultimi anni nonostante le
60.000 assunzioni disposte dal governo
precedente e le 30.000 del ministro Moratti. Secondo: occorre impedire, o ridurre al
minimo, il formarsi di nuovo precariato. Lo
strumento necessario, coerentemente con
l’autonomia scolastica, è la definizione di
un organico funzionale di Istituto, in grado
di coprire anche le esigenze di supplenze,
sostanzialmente prevedibili almeno su
base statistica. Il costo sarebbe lievemente
superiore rispetto a quello dei precari licenziati a giugno e riassunti a settembre
ma, oltre alle ragioni di equità retributiva,
i vantaggi sarebbero incomparabilmente
maggiori: regolarità ed efficienza del servizio, qualità dello stesso (continuità didattica, opportunità di una seria programmazione), eliminazione di una vasta area di
tensioni sociali.
I numeri genovesi vanno confrontati con
l’attuale flusso di nuovi abilitati: circa 150
all’anno dalla Ssis, meno della metà dalla
laurea in formazione primaria. C’è lo spazio
per dare prospettive di rapido inserimento
a pieno titolo di queste forze giovani, specificamente preparate (a differenza di
quanto avveniva con i neolaureati del passato) alla professione dell’insegnamento.
Ciò contribuirebbe al rinnovamento della
didattica senza rappresentare una contrapposizione ai “precari storici”; la guerra tra
poveri tra queste due categorie ha molto
turbato, negli ultimi anni, chi si preoccupa
del futuro della scuola italiana, che non
deve ignorare chi ha già lavorato ma non
deve neppure chiudersi corporativamente.
L’occasione c’è, ma non può essere colta
se non si compiono scelte nette, uscendo
dalle logiche del giorno per giorno che poi
portano alle leggine e alle sanatorie. Finalmente, c’è l’opportunità di saldare formazione e reclutamento.
Giunio Luzzatto è professore ordinario
di Analisi matematica all’Università di Genova.
PRODI A PORTA A PORTA
Posti precari
futuro nero
Bastone e programma
opo aver subito per due settiD
mane il diluvio mediatico di un
Silvio Berlusconi scatenato in virtù
di una ritrovata vitalità a tutto video, debordante da ogni canale,
onnipresente anche in modulazione di frequenza, aggressivo ai limiti della querela, Romano Prodi
reagisce. E prova a dire — finalmente per i suoi fan — qualcosa
di centrosinistra.
Il contrattacco del Professore ha
come palcoscenico la terza Camera di “Porta a Porta”. Dove ieri
sera ha, per prima cosa, cercato
di riguadagnare il ruolo di capo
della coalizione, dopo aver incassato, quasi in silenzio, gli attacchi
del suo antagonista. E se Berlusconi in queste due settimane di
bordate sull’Unione e il suo leader,
è andato giù pesante, Prodi davanti a Bruno Vespa non si rivela
da meno. La campagna elettorale,
del resto, continua e, probabilmente continuerà, a riservare
scambi di colpi sotto la cintura di
entrambi gli schieramenti.
Il premier spara a palle incatenate
contro la sinistra che - dice - una
volta al governo, limiterà democrazia e libertà, punta il dito contro
le toghe rosse, denuncia gli intrecci affaristici Coop-Ds, eccetera? Il
leader dell’Unione gli tiene botta
e lo accusa di distorcere il gioco
democratico, di comportarsi come
se la Costituzione non esistesse,
e via di questo passo. Il tutto mentre volano da uno all’altro, in un
ping pong deprimente, i soliti consunti epiteti: «Mortadella», «Maschera di D’Alema», «Venditore di
tappeti» , «Sali sulla poltrona vuota così cresci». E ci fermiamo qui.
L’assalto gridato di Berlusconi,
stando ai sondaggi, ha consentito
alla Casa delle Libertà un modesto recupero sul centrosinistra che
conserva qualche lunghezza di
vantaggio. Mentre ha permesso al
Cavaliere di guadagnare punti sugli alleati, Fini, Casini e Bossi, con
un effetto di cannibalizzazione all’interno dello stesso schieramento.
Sarà per questo che Prodi, finora
chiuso a catenaccio, uscendo dall’aria di rigore a “Porta porta”, ringhia sì al suo rivale, ma poi affida
il suo contropiede al programma
di governo («Sarà contenuto in
253 pagine»). Il leader dell’Unione
promette, vinte le elezioni, di ridurre di cinque punti percentuali il cuneo fiscale, cioè il peso delle tasse sul costo lavoro. Annuncia, con
il governo del centrosinistra, riforme radicali, incentivi per le assunzioni a tempo indeterminato, un
prestito a costo zero che accompagni i giovani dalla nascita fino
ai 18 anni.
La sua strategia per la campagna
elettorale, dunque, si baserà
sull’“ostensione” di un programma
di governo vasto, corposo, più
ampio di quello di Berlusconi, il
quale, per ora, su questo fronte
non ha scoperto le carte e si è
limitato a promettere, come nel
2001, solo l’aumento delle pensioni minime (questa volta a 800
euro mensili).
La partita di Prodi, però, va incontro a un rischio. Che proprio sul
programma un alleato di peso,
come Fausto Bertinotti, si smarchi. E al microfono di Vespa il leader dell’Unione deve assicurare
che il segretario di Rifondazione
comunista ha capito l’errore compiuto nel 1998, quando fece cadere il primo governo dell’Ulivo, e
questa volta sarà un alleato fedele. Salvo poi ammettere che su alcuni punti del programma del centrosinistra, primi fra tutti le unioni
di fatto e il nucleare, l’accordo
dentro la coalizione non c’è ancora. E con molta onestà intellettuale Prodi riconosce: «Con il centrodestra sarà una battaglia all’ultimo
respiro».
(Filippo Paganini)
[email protected]
LUCIANO SEDDAIU
I
CAMERE IN ROSA
Le quote di Leporello
I
mmaginiamo che si promulghi
una legge per cui tra pochi
mesi il 50% dei professori di università dovranno essere donne.
Questo, allo stato attuale, significherebbe soltanto il licenziamento per me e per molti miei colleghi. Immaginiamo invece che si
faccia una legge per cui entro il
2025 il 50% dei professori di università dovranno essere donne.
È immaginabile che una legge di
questo genere avrebbe un effetto
benefico nella gestione dei concorsi e nella selezione universitaria: essere donna non sarebbe
più un handicap.
Ora immaginiamo che si faccia
una legge per cui tra pochi mesi
il 50% dei candidati al Parlamento dovranno essere donne. Questo, allo stato attuale, significherebbe che tutti i partiti che hanno
una struttura politica solida e tradizionale (cioè essenzialmente
quelli di sinistra) dovranno dimezzare i loro candidati più radicati nel territorio per far posto a
delle candidate donne che, in politica, attualmente, sono molte di
meno. Per la destra, invece, il
problema sarebbe molto meno
serio, visto che, a parte i transfughi da vecchi partiti, la stragrande maggioranza del personale
politico di Forza Italia e della
Lega, almeno, era composto da
persone che non avevano mai
fatto politica prima, anche perché
prima non esistevano i partiti in
cui facevano politica.
È la prima riflessione, un po’ dietristica, che suscita il disegno di
legge in discussione al Senato
che, se approvato, trasformerebbe l’Italia nel Paese con le quote
rosa (spaventevole espressione
da caserma) tra le più basse in
Europa al primo classificato nel
mondo. Così, sotto le quote rosa,
si ha un po’ il sospetto che ci siano degli interessi azzurri, come
del resto è dimostrato da chi promuove la riforma.
Ora, la politica è una professione: ha le sue regole, le sue competenze, la sua nobiltà, checché
ne dicano i populisti. E non si può
cambiare con un colpo di bacchetta magica la composizione di
un gruppo professionale; si può,
e si deve, fare in modo che progressivamente avvenga il cambiamento. Ma questo, per l’appunto, chiede tempo, ed è tutto
un altro paio di maniche.
Il paradosso che vorrei segnalare, insomma, è questo. Dietro
alla scelta per cui, in un gruppo
professionale in cui l’80%, a dir
poco, è composto da uomini, si
decreta che si dovrà, almeno in
linea di principio, inserire il 50%
di donne, non c’è femminismo,
ma semplicemente disprezzo per
la politica, lo stesso che si era
espresso quando si diceva che
l’azienda avrebbe dovuto prendere il posto del Parlamento (in
molti casi è stato così, ma non
credo si sia trattato di un bene).
Che dire? Se penso al gallismo
del premier, al machismo di La
Russa, al micidiale “La Lega ce
l’ha duro” di tristissima memoria,
non è difficile vedere uno scollamento, quasi una schizofrenia, e
un vuoto sensazionalismo. E non
vengono in mente né la prima
cancelliera tedesca, Angela Merkel, né la prima presidentessa
cilena, Michelle Bachelet, ma l’aria di Leporello nel Don Giovanni:
“In Italia seicentoquaranta, in
Germania duecentotrentuna,
cento in Francia, in Turchia novantuna, ma in Ispagna son già
mille e tre...”.
(Maurizio Ferraris)
l rapporto di lavoro è un
rapporto di scambio tra
lavoratore e impresa, che
da un lato ha per oggetto
la prestazione, dall’altro la
ricompensa. Tale rapporto di
scambio può determinare o non
determinare consenso e motivazione. Il sistema delle ricompense
è caratterizzato da tre tipologie:
le ricompense monetarie, comprensive, oltre che della retribuzione corrente, anche di aumenti
di merito o gratifiche e premi una
tantum, benefit; le ricompense di
carriera; le ricompense non monetarie, che possono essere il riconoscimento dei superiori, l’autorealizzazione, lo sviluppo e la
formazione, la sicurezza del posto di lavoro, l’orgoglio di appartenenza all’azienda, le deleghe e
il potere. Io, azienda, cerco i giovani più idonei per la mia organizzazione, li inserisco, li formo,
investo su di loro e poi verifico
il ritorno del loro valore aggiunto
all’organizzazione.
E’ proprio su questi ultimi tipi
di ricompensa che molte aziende
e organizzazioni dovrebbero
puntare per aumentare consenso
e motivazione dei propri collaboratori, ma in questi ultimi anni
con l’aumento continuo dei lavoratori atipici e di precariato (a
progetto, interinale, ecc.), molte
aziende non sono più in grado di
garantire queste motivazioni.
Una delle leve operative per la
gestione dei propri collaboratori
è sempre stato l’orgoglio di appartenenza all’azienda. Come si
può, oggi, per milioni di giovani,
configurare tale leva gestionale
se spesso il giovane entra con
contratti atipici, lavora, esce e ricerca altri lavori, aziende, organizzazioni? E le aziende come
possono continuare a investire
nelle nuove risorse se non hanno,
spesso, la certezza di avere da lì
a pochi mesi ordini e lavoro?
I problemi, a mio avviso, sono
per entrambi: per le aziende e le
organizzazioni che non riescono
a pianificare le entrate di nuovi
lavoratori, la loro crescita professionale, il loro senso di appartenenza all’azienda; per i giovani
che hanno di fronte un puzzle di
occasioni di lavoro, ma con quale
futuro, con quale propria programmazione nella società?
Parte dell’economia del nostro
Paese vive un momento di particolare crisi. Le piccole aziende
che oggi occupano 7 lavoratori su
10 (nel 1990 7 su 10 lavoravano
in grandi imprese), nonostante
alcuni punti di eccellenza, difficilmente riescono a crescere e a diventare medie. Il costo del lavoro
in Italia è tra i più alti d’Europa
e proprio attraverso il contratto
atipico si crede di poter rimandare il problema. Ma il problema
esiste e si farà sentire con il passare degli anni perché se non ci
saranno concreti segnali di ripresa, le imprese rischiano di non investire sui giovani quel futuro
che deve essere di tutti.
Rischiamo di saltare una o due
generazioni, di ritrovarci sempre
di più con una costante di lavoratori atipici, privi di una stabile
collocazione lavorativa e che
quindi non potranno mai contribuire allo sviluppo delle aziende
perché sostituiscono qualcuno
che poi rientrerà, perché concluso il progetto finiscono il contratto, perché si muovono nella stessa incertezza della nostra economia.
Qui non si tratta di mancanza
di posti fissi, (questo, ormai, lo
sanno anche i bambini), qui si
tratta di mancanza di punti di riferimento precisi per i giovani,
per le aziende, per il nostro Paese.
La centralità della risorsa umana
deve tornare ad essere elemento
e plus competitivo rispetto alla
concorrenza di altri Paesi e soprattutto libero mercato non può
significare liberi tutti.
Studenti indonesiani danno fuoco alla bandiera danese, fuori dall’Università di Makassar, per protestare contro la
pubblicazione delle vignette su Maometto. L’ambasciata ha invitato i danesi a lasciare il Paese per motivi di sicurezza
Vignette e dignità, maneggiare con cautela
RIK COOLSAET
Bruxelles. Il crescente malcontento scatenatosi a livello
internazionale in seguito alla
pubblicazione delle vignette
contro il profeta Maometto
sul quotidiano danese
Jyllands-Posten appare agli
occhi di molti europei come
una reazione esagerata da
parte di certi ambienti musulmani ipersensibili. In Europa,
persino fra i più aperti difensori della multiculturalità, è in
atto una chiara tendenza a
spiegare la protesta mediante
la semplice opposizione tra libertà di parola e arretratezza
religiosa. Nel mondo musulmano, l’Europa e l’Occidente
in generale sono oggi analogamente visti come crociati
anti-Islam. Entrambe le parti
aderiscono perciò involontariamente alla tesi di Samuel
Huntington su uno scontro
inevitabile tra culture incompatibili.
Fino ad ora, tuttavia, il dibattito ha trascurato una questione cruciale. Personalmente, tutta questa agitazione trasmette un misto di irritazione
e comprensione. L’irritazione
è qualcosa che sento ribollire
quando guardo più da vicino
certi governi che in questo
momento si scagliano così ferocemente contro la pubblicazione delle caricature danesi e presentano proteste for-
mali presso il governo danese.
Non è ipocrita che alcuni di
questi governi, nei rispettivi
Paesi, tollerino quotidiani e riviste - anche vicini al governo
- contenenti articoli indiscutibilmente razzisti contro i
“crociati” o gli ebrei, suscitando quindi il medesimo odio
tra le comunità e le culture
che ora condannano? È possibile accettare una protesta
contro le vignette da parte del
presidente dell’Iran, Mahmoud Ahmadinejad, che ha
recentemente definito l’Olocausto un “mito”? Questi governi, molto cinicamente,
stanno giocando con il sentimento di rabbia e disagio che
provano i loro cittadini.
Contemporaneamente,
comprendo la rabbia dei musulmani per le vignette. Condivido l’osservazione di IsmaÎl
Ferroukhi, regista francese
nato in Marocco, che un anno
fa ha dichiarato: «Abbiamo
già avuto la nostra dose di critiche all’Islam. Non intendo
più accettare alcun segnale in
questa direzione. Sarebbe
come sparare sulla Croce Rossa».
In Occidente, la maggior
parte dei non-musulmani
semplicemente ignora che i
musulmani si sentono in prima persona profondamente
feriti dagli attacchi contro ciò
cui tengono come individui.
Quel che forse ora più preme
capire, data l’ampiezza delle
attuali proteste, è che i nonmusulmani ignorano completamente il sentimento di umiliazione e soggiogazione che i
musulmani e le comunità
musulmane nutrono in questo momento, sentimento che
contribuisce a rafforzare la
solidarietà fra i musulmani di
tutto il mondo.
In Medio Oriente, l’incapacità collettiva di sbloccare la
situazione di stallo delle diverse società, messa in luce
dai rapporti sullo sviluppo
umano arabo, rappresenta un
motivo di frustrazione per i
cittadini arabi. Dai rapporti è
emerso che le principali cause
del malessere del mondo arabo sono imputabili alla mancanza di libertà politica, all’oppressione delle donne e
all’isolamento del mondo
scientifico arabo.
L’umiliazione provata dagli
arabi per non essere stati capaci di sbarazzarsi da soli di
capi come Saddam Hussein
ha inevitabilmente incrementato il senso di inutilità di
quella parte del mondo. Nelle
comunità musulmane di immigrati di tutta Europa, molti
giovani emigrati di seconda e
terza generazione - e a volte
anche i rispettivi genitori guardano alla religione nella
speranza di trovare certezze e
un’identità in un mondo incerto e complesso. Abbraccia-
no l’Islam come la loro nuova
identità, così come i cristiani
consacrati degli Stati Uniti abbracciano la Bibbia. La rapida
trasformazione delle società
ha portato a un intensificarsi
della devozione religiosa e a
un aumento delle politiche
identitarie su scala mondiale.
Si tratta di una ricerca di riconoscimento e identità. Nel
mondo arabo come in Europa,
per i musulmani la religione
è l’elemento portante, la loro
fonte di dignità. E quando è
in gioco la dignità di una persona, bisogna sempre essere
cauti.
Se la steppa è in fiamme,
non è il caso di alimentare il
fuoco, a meno che non si voglia spianare la strada agli
estremisti, gli unici in fondo
che potranno trarre beneficio
dallo scontro fra culture e popoli - sia in Europa sia nel
mondo musulmano.
© International Herald Tribune
e per l’Italia Il Secolo XIX
(Traduzione di Elena Campanella
e Giordana Garuzzo)
Rik Coolsaet è docente di relazioni internazionali presso l’Università di Gent, Belgio, e direttore
del Security and Global Governance Department presso l’Istituto reale di relazioni internazionali.
Luciano Seddaiu è direttore
della scuola di formazione aziendale del Sogea.