7. Manzoni e Scott. Folle in rivolta (Clara Leri)

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7. Manzoni e Scott. Folle in rivolta (Clara Leri)
MANZONI E SCOTT.
FOLLE IN RIVOLTA
Nell’agosto 1822, a Parigi, Pigoreau, uno degli onesti librai
che credevano doveroso informare il pubblico delle novità di
mercato, si abbandonava, atterrito, alla constatazione che centocinquanta romanzi, in buona parte storici, erano stati editi in
Francia, dopo il suo supplemento risalente all’aprile dello stesso
anno. E, ancora nell’ottobre 1824, lo stesso coscienzioso recensore segnalava centodieci romanzi, principalmente storici, pubblicati a partire dall’ultimo suo supplemento di luglio: «Chaque
jour voit éclore un roman nouveau». L’autentica, dilagante follia cominciava a spaventare qualche cabinet de lecture che, sia
pure malgré soi, si sarebbe poi risolto ad arrestarne la circolazione prodigiosa ai propri battenti. «Mais – aggiungeva ironico
Pigoreau – si les romans se ressemblaient tous à ceux de Walter
Scott, on verrait bientôt ces libraires sortir de leur insouciance
et de leur inertie»1. Il romanzo storico, commenta Maigron, era
il genere più venduto.
Non sarebbe neppure necessaria la testimonianza di Guizot
che, nella prefazione alla sua traduzione di Shakespeare, scriveva che i romanzi di Walter Scott avevano avviato un movimento di rinascita nelle lettere, in maniera non diversa da una
rivoluzione: terminarla sarebbe stato il compito degli scrittori
futuri, in parallelo all’obbligo politico di oltrepassare nella democrazia «l’inexplicable vertige qu’on a nommé le règne de la
1. Cfr. L. Maigron, Le roman historique à l’époque romantique. Essai sur
l’influence de Walter Scott, Genève, 1970 [Paris, 1898], p. 136.
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terreur»2. Iscrivere nella durata, fondare, offrire memoria e
stabilità alla storia: era l’ossessione tutta parigina degli intellettuali post-napoleonici accolti da Sophie de Condorcet e Charles Fauriel a Meulan, nell’accogliente e progressista Maisonnette. Che il Manzoni si imbattesse nell’opera di Walter Scott
in Italia, anziché a Parigi, non è probabile perché egli la dovette sfogliare nell’ambiente in cui il romanzo storico era il genere
letterario ufficialmente riconosciuto dagli stessi storiografi frequentati assiduamente nella casa di Fauriel3.
In Italia, a Milano, come ha scritto Dionisotti4, nella cerchia
più stretta del Manzoni, la moda sarebbe rimasta, «fino alla
pubblicazione dei Promessi Sposi e oltre, ai margini della società
letteraria». Decisiva, dunque, per l’incontro di Manzoni con la
produzione romanzesca di Scott fu, oltre alla lettura in versione
francese, tuttora presente nella biblioteca di Via Morone5, la discussione fervida e aperta tra uomini come il Fauriel e il Thierry
impegnati a fondo nella ricerca storico-sociale. Scriveva Augustin Thierry, in cui Stendhal avrebbe acutamente intuito un
«demi-Scott»6, che «l’histoire est de la politique et les romans
sont pour la plupart des romans politiques»7. Rémusat offre il
2. F.P.G. Guizot, Essai sur le vie et les œuvres de Shakespeare, en tête des
Œuvres complètes de Shakespeare, Paris, 1821, p. 9.
3. Cfr. C. De Lollis, Alessandro Manzoni e gli storici liberali francesi della
Restaurazione, Bari, 1926. Ma è interessante, a questo proposito, anche G.
Bognetti, Manzoni giovane, Napoli, 1972, citato per di più da E. Bonora, Manzoni. Conclusioni e proposte, Torino, 1976, specie alle pagine intense su Storia
e poesia (27-59).
4. Il Manzoni e la cultura inglese, in Appunti sui moderni. Foscolo, Manzoni, Leopardi, Bologna, 1987.
5. Cfr. C. Pestoni, Raccolta di via Morone. Biblioteca di via Morone in Milano, «Annali manzoniani», VI (1981).
6. Ricavo la citazione, non ulteriormente precisata, da P. Rosanvallon, Le
moment Guizot, Paris, 1985, p. 200.
7. A. Thierry, Augustin Thierry d’après sa correspondence et ses papiers de
famille, p. 121 (Lettre du 7 janvier à Victor Bohain, directeur de l’«Europe
littéraire»), Paris, 1921.
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suo contributo alla storia «walter-scottée», come più tardi
l’avrebbe definita Balzac, componendo la sua Insurrection de
Saint-Domingue, ch’egli lesse, durante il 1825, nei salotti parigini più esclusivi8. E Ludovico Vitet, discepolo animoso di Guizot, commentava con un’esortazione non molto dissimulata che
«le goût en France attend son 14 Juillet».
In effetti, l’enorme successo francese dei romanzi scottiani
ebbe il suo probabile fondamento nella rappresentazione, offerta ai loro lettori più attenti, delle passioni pubbliche, in aggiunta alla componente romanesque delle liaisons private. Non a caso, si sarebbe precisato che questa retorica narrativa rivelava
apertamente un’«histoire démocratique» ricostruita da un «romancier des peuples». La folla, questa folla oscura e silente, altrimenti così disprezzata, saliva alla luce della ribalta come il
protagonista della messa in scena romanzesca quale, parallelamente, sarebbe divenuta nelle opere di Thierry, di Barante e,
più ancora, di Michelet. Era proprio lo scrittore scozzese, così
drammatico e democratico ad affondare la «fébrilité maladive»
d’Adolphe, di René e d’Oberman, la loro follia della dubbiosa e
perpetua memoria di sé, con «le véritable onanisme de la pensée»9, quale è descritto dalla penna non poco pungente di Dubois, come atteggiamento manieristico e patologico dei personaggi di Chateaubriand.
La storia «walter-scottée» restituita ai suoi «muscles, chairs
et couleurs», impalliditi dallo «charme vague», dall’«éblouissement d’imagination» della mitologia meravigliosa di Chateaubriand, cominciò a definire un genere di narrazione che rispondeva a un’immensa esigenza di riabilitazione sociale delle masse
che non avevano mai ricevuto, nella realtà e nella finzione, il loro autentico, ineludibile ruolo. All’amico Fauriel scriveva Gui8. Cfr. Ch. Rémusat, Mémoires de ma vie, Paris, 1958-1967, t. II, pp. 147149: vi sviluppa la propria concezione del romanzo storico.
9. Cfr. Ch. Debois, Cousin, Jouffroy, Damiron. Souvenirs, Paris, 1902, p.
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zot il 12 agosto 1820, che l’umanità era destinata a «se mouvoir
par des grandes masses»10. E il genere più consono a rappresentarle, come aggiungeva Barante, era, senza dubbio, il romanzo:
«On a voulu qu’il nous servît à connaitre la vie privée d’un peuple; ne forme-t-elle pas toujours les mémoires secrets de sa vie
publique?»11.
E di drammatizzazioni della folla e dei suoi movimenti insurrezionali nelle Prigioni di Edimburgo e nei Promessi Sposi è
possibile forse individuare due esemplari invitanti, a mio avviso, all’esercizio dell’immaginazione, se non della sistematica indagine intertestuale12.
La narrazione della sommossa, nei primi capitoli della Prigione di Edimburgo13, si converte subito in un’apologia dell’ordine
interno, dell’anima unita della folla che grida all’indirizzo di un
condannato alla pena capitale: «Salvati! – Salvati!». Non sarebbe neppure necessario – tanto è evidente il parallelo – richiamare alla memoria l’inizio del capitolo XVI dei Promessi Sposi:
«Scappa, scappa galantuomo: lì c’è un convento, ecco là una
chiesa, di qui, di là», – si grida a Renzo, sfuggito ai rappresentanti della giustizia criminale, il mattino seguente alla rivolta di
San Martino. Ma le analogie tra la folla di Milano e quella di
10. F.P.G. Guizot, Lettres de Guizot à Fauriel, publiées par P. e V. Glachant, «La Nouvelle Revue», Ier decembre 1901. Si tratta di importanti lettere
scritte dal 1818 al 1820, che sviluppano la concezione che Guizot aveva della
funzione dello storico. Il riferimento, qui, è alla lettera del 12 agosto 1820,
p. 351.
11. P. de Barante, Histoire des Dux, Préface, Paris, 1824, p. XXXII.
12. Sull’argomento cfr. M. Corti, Il viaggio testuale. Le ideologie e le strutture semiotiche, Torino, 1978. Occorre anche citare G. Genette, Palimpsestes.
La littérature au second degré, Paris, 1982 e AA.VV., La parola ritrovata. Fonti e
analisi letterarie, a cura di C. Di Girolamo e I. Paccagnella, Palermo, 1982.
13. Le citazioni scottiane sono tratte, d’ora in poi, dai primi quattro capitoli di La prigione di Edimburgo o Nuovi racconti del mio ostiere raccolti e pubblicati da Jedediah Cleisbotham, maestro di scuola e sagrestano della parrocchia
di Gandercleugh, t. 4, Milano, Ferrario, 1823 (in particolare, le pp. 15-110).
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Edimburgo non sembrano fermarsi qui. Malgrado i differenti
motivi, fini, strumenti, la solidarietà popolare è affidata ai caratteri unitari della folla che, pur essendo formata di individui, ne
trascende le caratteristiche singolari assumendo un volto, una
fisionomia umanitaria verso i suoi stessi figli. Scott, non a caso,
commenta che «lo spirito pubblico si dichiara ordinariamente
pel partito dell’umanità».
In questo caso, poi, l’atteggiamento ferocemente provocatorio del capitano delle prigioni di Edimburgo suscita «l’odio universale». Dapprima il popolo anche se visibilmente turbato,
manifesta solo tacitamente «scontento», «cupa indignazione».
Colpevole, dunque, di avere sparato sulla folla senza valide ragioni, il capitano è condannato alla pena capitale. Il giorno
dell’esecuzione, l’8 settembre 1736, la piazza di Grossmarket è
così gremita dalla folla che «rassomiglia ad un gran lago coperto
di teste umane, nel mezzo del quale s’innalza il nero patibolo».
Il pittoresco dei «tre ordini di spettatori» alle facciate con aria
di antichità cavalleresca, si muta, subito, nella tonalità sublime
di «una specie di solenne terrore», come se la folla si accingesse
a celebrare una cerimonia religiosa, una volta individuato il capro espiatorio, tanto da indurre uno «straniero» a credere che
qualcosa «la commuovesse a compassione e a dolore», in «luogo dello strepito che ascoltasi sempre in somiglianti radunanze». La descrizione della fisionomia collettiva è tale, però, da
non lasciare dubbi: sopracciglia aggrottate, labbra compresse,
occhi ardenti di collera annunciano uno spettacolo nero, di vendetta. Ma più che sulla visione in primo piano della folla, interessa qui il campo lungo, per seguitare nella stessa metafora,
sulla piazza. La fenomenologia del tumulto vi appare condizionata da una semantica lacustre14: inevitabile conseguenza, si di14. Si rimanda per questa metafora e le successive, di semantica acquatica,
alle classiche pagine di G. Bachelard, L’eau et les rêves. Essai sur l’imagination
de la matière, Paris, 1963 (in particolare, per il lago, alle pp. 29-63 e 204-213).
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rebbe, di una agitazione della folla che però sa contenersi, prepararsi all’appagamento delle sue attese di giustizia.
Molto diversa l’«agitazione» di Portews, la mattina dell’esecuzione di un prigioniero che aveva permesso la fuga di un altro, rivelatosi poi lo stesso capo della successiva insurrezione:
«Quella mattina ei sembrava come posseduto da qualche mal
genio, il suo passo era incerto, la voce rauca, la faccia pallida, gli
occhi smarriti». Insomma, conclude Scott, la sua è un’aria fey,
da «uomo strascinato da una forza irresistibile verso il suo destino». Se non la folla, viceversa, il suo antagonista è descritto
come un personaggio atmosferico, irrazionale, temporalesco.
La coscienza di quest’io coloniale15, ricorrendo alla formula dei
medici-filosofi positivisti16, cessa di essere un’unità monolitica,
una sostanza semplice, per divenire un aggregato instabile, un
arcipelago di ilôts de conscience. Ne scaturisce un carattere
amorale, diabolico, infernale, nella cui vita la coscienza è indebolita sino ad estinguersi, mai custode né origine di strutture
più che arcaiche o elementari. Portews è più alienato della folla
che ne attende composta l’esecuzione. Ma il condannato è stato
graziato per ragioni di mera opportunità politica e militare.
Insospettita, anche se non ancora consapevole, la folla comincia a fremere. Il cupo silenzio che ha regnato fino a quell’istante dà «luogo ad un fragore sordo, simile a quello che sull’oceano precede la tempesta: quella folla così compressa, un
momento prima così tranquilla, offriva l’immagine delle onde
del mare, agitata dal flusso e dal riflusso». Infine la notizia della
grazia si sa «colla rapidità di un lampo». La metafora della tempesta è applicata, questa volta, alla folla, descritta in una chiave
naturalistica, spontanea, non organizzata. Come se dall’incon15. Cfr. R. Bodei, Coscienza collettiva e egemone, «Sfera», 53(1993).
16. Si tratta di Th. Ribot, Les maladies de la personnalité, Paris, 1885; P.
Janet, L’automatisme psycologique, Paris, 1889; A. Binet, Les alterations de la
personnalité, Paris, 1892.
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tro di molti individui in una massa, crescendo la tensione, si
producesse una coscienza collettiva coloniale. Per il solo fatto
di appartenere a una folla, come scriveva Le Bon17, l’uomo
scende di parecchi gradini la scala della civiltà, ritorna ad essere
animale, elemento, atmosfera. La sua coscienza ‘coloniale’ regredisce dapprima alla tempesta marittima, in seguito all’animalità più fragorosamente aggressiva: «Grida orribili d’indignazione e di rabbia scoppiarono all’istante da ogni parte, si sarebbe creduto di sentire i ruggiti di una tigre alla quale fosse stata
tolta la preda». È una massa imbestialita, alla lettera, anche se,
più che un giudizio pesantemente negativo, suscita un’ottica
epica alla quale, peraltro, non mancano i connotati della folla
moderna, capace di accendersi «in un’esplosione» anziché di
ragionare quando si trova dinanzi ad una sfida che non è in grado di risolvere in forme meno semplici e primitive.
Ma il tumulto, a vicenda narrata, è commentato da un droghiere e da una cuffiaia, dibattuto da un sellaio con vocazione
di giureconsulto e da una vecchia cucitrice dall’animo fieramente scozzese, corredato di un apparato grammaticale da Butler,
ordinato e sottomaestro nella scuola di un villaggio vicino ad
Edimburgo. Così la teatralizzazione della sommossa attraversa
la conflittualità domestica del quotidiano, secondo una tecnica
che, dai drammi storici di Shakespeare ai romanzi scottiani18,
attiva una sorta di dialogicità mobilissima, entro un intreccio di
personaggi caratteristici che non nascondono, almeno tra le parole, di sapere tornare indietro, sino alle «unghie», se necessa17. Cfr. G. Le Bon, Psycologie des foules, Paris, 1971 [1895]. Ma cfr. anche G.H. Mead, Sé e società dal punto di vista di uno psicologo comportamentista, trad. it., Firenze, 1966 e P. Watzlawick, J. Helmick Beavin, D. Don Jackson, La pragmatica della comunicazione umana, Roma, 1974. Osservazioni interessanti si trovano anche in G.V. Caprara (a cura di), Personalità e rappresentazione sociale, Firenze, 1988.
18. Si veda, a questo proposito, il commento di E. Raimondi e L. Bottoni
ai Promessi Sposi, Milano, 1987 (in particolare alle pp. 233 ss.).
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rio, anziché fermarsi alle botteghe della retorica retroattiva o
dissetare i palati aridi alle taverne19.
Nello spazio notturno e silenzioso di Edimburgo, a tumulto
sedato, comincia il sottoromanzo di Butler. Mentre, infatti, tenta di uscire, prima della chiusura notturna, dalla West Port, e finisce nei sobborghi popolari di Portsburgh, esterni alla cinta
muraria, si imbatte in una «folla di gente» che riempie tutta la
strada e avanza verso la città, preceduta da un tamburo che batte a raccolta: la «truppa» gli appare «non adunata con buone
intenzioni». Ma è ormai inutile cercare di sfuggirle. Due uomini
l’arrestano nell’urgenza di sequestrare un ecclesiastico, o almeno, in questo caso, un ordinato «non in carica». Il viaggio di Butler, che non è la passeggiata di un romantico, solitario sognatore in contemplazione delle bellezze naturali, si trasforma in un
incubo: «Considerate tutto ciò che vedrete come se fosse un sogno – Dio volesse che fosse un sogno! pensò Butler tra sè». Incapace di opporsi all’intimidazione, Butler si rassegna al suo destino dopo vani tentativi di trarsi in qualche modo dall’impiccio. Ma, all’opposto di don Abbondio, piegato dai bravi all’obbedienza rassegnata e degradante, il chierico scozzese è un timido senza «sistema»20 di vita, benché, costretto dalle circostanze,
divenga connivente della sommossa. Allo sguardo attento di
Butler che può vedere senza essere veduto, all’ombra della
fiamma delle torce, si rivelano in primo piano, sotto la luce, alcuni dei suoi sgraditi compagni di avventura. Tra gli altri spicca
un’insolita «amazzone» che risponde al nome spesse volte ripetuto di Wildfire. Sulla sua figura insiste, non a torto, l’attenzione di Butler che vi riconosce il meneur de la foule, tutt’altro che
sprovvisto di un suo «piano convenuto e ben concertato».
19. Cfr. il capitolo L’osteria della retorica, in E. Raimondi, La dissimulazione romanzesca. Antropologia manzoniana, Bologna, 1989.
20. «Il suo sistema [di don Abbondio] consisteva principalmente nello
scansar tutti i contrasti, e nel cedere, in quelli che non poteva scansare» (A.
Manzoni, I Promessi Sposi, cit., pp. 21-22).
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A mano a mano che i rivoltosi si avvicinano al cuore della
città, il loro numero, all’inizio «di un centinaio», cresce di
«molte migliaia», ingrossato dal «popolazzo» al suono del tamburo e alle grida degli insorti. Armati solo «di bastoni ferrati, di
tridenti, e di alcune vecchie spade» i ribelli disarmano la guardia della città, impotente di fronte all’insurrezione, «sì inattesa,
sì repentina» di una «moltitudine scatenata». Wildfire, la cui
persona «parea moltiplicarsi a forza d’attività al punto d’esser
dappertutto», si conferma l’epica guida della folla, incapace di
organizzarsi nell’iniziale tumulto finché non incontra in un personaggio dagli attributi quasi mitologici il meneur, garante di
una mobilitazione non emotivo-regressiva, ma ordinata e strategica della massa. Sfondati i tamburi della guardia, per ordine
superiore, cessa di battere il «tamburino» degli insorti. E finalmente esplodono queste grida «spaventose» e rivelatrici: «Portews! Portews! alla prigione! alla prigione!». Situata ad uno stadio prepolitico o a uno stadio in cui si inserisce nella vita politica solo in forma di rivolta, la massa non stabilisce con il potere
altra forma di accesso che l’epifonema aggressivo, anche se veicolato dalla mitologia progettuale dell’organizzatore, dalla creazione di un mito sociale di prudenza, contrapposto alla coscienza collettiva, sempre con il termine di Alfred Binet, coloniale.
Nell’impossibilità di una qualsivoglia rappresentanza democratica, «il popolaccio» si schiera dalla parte di una guida esterna,
che alla fine si rivelerà di rango aristocratico, ma rimane d’ora
in poi generoso sostegno e cassa di risonanza degli interessi della folla, necessitata, per il momento, all’azione diretta e violenta
sotto l’impulso di emozioni e di miti para-liturgici. Tutta l’argomentazione rivoluzionaria, determinata dalla personalità prepotente e vendicativa di Portews, prevede che si abbia di mira «un
sol uomo generalmente odiato».
Gridato invano che si aprisse la porta della prigione, i rivoltosi, dapprima cercano di abbatterla davanti agli occhi smarriti di
Butler. Come Renzo coinvolto nell’assedio alla casa del vicario,
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Butler spera «che sarebbe finalmente arrivata una forza bastante
per disperderli». Respinti, però, a sassate i magistrati, gli insorti
disarmano le guardie «senza trascorrere a nessun altro atto di
violenza»: novissimo exemplum pragmatico del sistema di moderazione che hanno scelto uomini tanto ostinati nel loro progetto di vendetta. Di fronte, tuttavia, alla porta ancora chiusa
una voce grida di appiccarvi il fuoco, ed è subito messa in atto.
Con colori simili alla presa della Bastiglia il lettore scottiano percepisce la colonna di fiamme che rischiara «i volti atroci dei faziosi, e le facce pallide dei cittadini inquieti, i quali dalle finestre
delle case vicine osservavano con terrore quello che accadeva».
A questo punto la macchina narrativa sposta il proprio obiettivo sullo «sfortunato» che, similmente allo «sventurato» vicario manzoniano, si accampa all’inizio di un capitolo (il IV in
Scott, il XIII in Manzoni). Il capitano, nella transizione dall’entusiasmo della «speranza» e dell’«allegria», bagnata da copiose
bevute in compagnia degli amici, all’allarmata inquietudine,
uditi i primi colpi alla porta della prigione, non riesce a trovare i
suoi subalterni nascostisi «in un angolo oscuro e segreto per involarsi ai primi istanti della popolare effervescenza». Anch’egli
si chiede «come fuggire, come nascondersi», per decidere, alla
fine, di rimanere abbarbicato alle sbarre di ferro che dividono
la canna fumaria del camino: Manzoni insisterà più a lungo, con
la sua ironia vibrante, sulla ricerca affannosa di un pertugio in
cui il vicario possa sentirsi sicuro dall’assalto della «marmaglia».
«Stanato» Portews con violenza, Wildfire, sempre «riguardato come il capo», si rivolge ai suoi «con un tuono di autorità»
per impedire che un «atto di giustizia» sia eseguito «come se
fosse un delitto, e una barbarie», un omicidio: «Il sacrifizio
debb’essere offerto sull’altare».
Il capo, il meneur de la foule, continua ad applicare alla coscienza coloniale delle masse, regredite ad una fase più primitiva rispetto agli individui isolati, il metodo di suggestione reli-
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giosa. La risposta è subitanea: «Alla forca l’omicida! Alla forca!
Alla piazza di Grossmarket!». Il patibolo è visto nell’ottica misteriosa e sacerdotale di un altare, di un sacrificio eucaristico secondo emozioni tutt’altro che sorrette da argomentazioni, ma
attive sotto il movente di un mito politico antico e insieme moderno, quale si celebra nella liturgia dei contigui terrori francesi, all’indomani della rivoluzione, rispetto alla separazione tra
masse ed élites. Non tarda a scendere un profondo silenzio, una
calma prevista e solenne, come di un ampio spazio deserto: è
questa l’ora di Butler.
Alla vittima è condotto innanzi il ministro di Dio, «pallido,
tremante, interdetto», come esitante di fronte all’ordine degli
insorti. Il suo dovere è di invitarli alla prudenza con una prosopopea tutt’altro che ipocrita e mediocre, quale avrebbe adottato in una situazione analoga don Abbondio, bensì ispirata alle
ragioni della giustizia terrena e celeste. Nella sua funzione di
mediatore tra l’ordine e il disordine, Butler appoggia la propria
supplica sulla parola cristiana dell’amore, della resistenza vigorosa ma tranquilla, della speranza pacifica contro la logica della
vendetta, della ritorsione violenta. Ma, pur ossessionato dall’omicidio, non lo rifiuta con l’ardore attivo di padre Cristoforo,
che non accetta la violenza perché appartiene alla sua storia e
alla sua scelta di espiarla. Butler, in fondo, dialoga con la violenza, con la sua stessa paura della morte ma, constatata la vanità
delle sue preghiere, si rassegna al suo destino «con quella fermezza che gli veniva ispirata dalla educazione militare e dal
proprio carattere fiero e intrepido».
Il rilievo biografico e psicologico non manca di una vena sottile ma capziosa di ironia: Butler ha la consapevolezza pragmatica della necessità e della pazienza, da savio retore della prassi,
nell’oscuro spazio dell’arbitrio. «Il sangue domanda il sangue»
ribadisce il capo della sedizione «e noi ci siamo stretti col più
solenne giuramento»: sullo sfondo s’intravvedono la fissità, la
sacrale durezza, la plastica ferma e assorta degli Orazi di David,
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nella ricerca di un’oratoria vibrante che vorrebbe essere tragica
più che epica, con la sua partizione senza passaggi intermedi di
luce e d’ombra. Dalla scenografia sanguinaria di questo giuramento è breve il passo alla maledizione della vittima, come in
un martirologio settecentesco: «Se adesso sono assassinato, possano tutti i miei peccati come tutto il mio sangue ricadere sul
capo del mio carnefice»21. A mezz’aria, inaudita, vibra l’eco
manzoniana dell’oratoria patibolare di Butler: «Rivolgetevi a
Lui, in faccia del quale il tempo e lo spazio sono nulla, agli occhi di cui un istante di verace pentimento è contato come la più
lunga vita d’un giusto». Queste parole, proferite da Lucia, otterranno ciò che il povero Butler sa già di non ottenere22.
È il macabro esordio di una processione «a passo lento e solenne, al lume di un gran numero di torce e di fiaccole», come
in «una tragica scena» o, si vorrebbe aggiungere, in una annunciata ‘passione’ manzoniana. E shakespearianamente23 il patibolo diviene «il teatro della catastrofe di questa sanguinosa tragedia». La voce narrante, non a caso, definisce gli insorti come
«tigri assetate di sangue». Vicina e lontana dall’uomo, allo stesso tempo, la maschera animale permette di acquisire la seconda
pelle, l’armatura nella quale l’uno si nasconde senza perdere la
sua umanità di creatura per delegarle le trasgressioni che non è
21. Sono parole alquanto simili alle evangeliche, pronunciate dal popolo
alla condanna di Cristo (Cfr. Mt. 27, 25: «Sanguis eius super nos et super filios nostros». E cfr. A. Manzoni, Passione, 69-70: «E quel Sangue dai padri
imprecato / sulla misera prole ancor cade».
22. Cfr. Promessi Sposi, XXI (ediz. Raimondi-Bottoni p. 391, rr. 147-148):
«Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia».
23. In proposito si possono vedere per il Manzoni, I “Promessi Sposi” e il
teatro di Shakespeare, in G. Getto, Manzoni europeo, Milano, 1971, nonché E.
Raimondi, Il romanzo senza idillio. Saggio sui «Promessi Sposi», Torino, 1987
(Avvertenza 1983) [1974]; per lo Scott, L. Bottoni, Competenza letteraria. Invarianti romanzesche e invarianti drammatiche, «Lingua e stile», 1975, nonché
M.F.M. Meiklejohn, Sir Walter Scott and Alessandro Manzoni, «Italian Studies», 1951.
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possibile portare oltre il confine dell’inconscio. Alla ritualità alternativamente antropomorfica e zoomorfica della tragedia è altrettanto prossimo il capro, l’ibrido di umano e bestiale, il gioco
dello scambio che espia la colpa al culmine della catastrofe da
cui nasce classicamente la tragedia. «Noi, declamano i congiurati, non siamo i suoi giudici [...] I suoi giudici legittimi lo hanno già condannato. Noi siamo i suscitati da Dio per eseguire
una legale sentenza contro un omicida, che un governo corrotto
vuol sottrarre alla pena meritata». Il grido «Muoia» non è che il
prologo all’ultimo atto di questo martirologio carnevalizzato24
dall’intervento della folla: «Clamorose acclamazioni annunciarono che il sacrificio era consumato».
Alla tonalità, infine, tragicomica della fuga di Butler, con il
suo orrore carnale della morte, subentra il commento esterno
della voce narrante per ribadire il carattere «singolare» dell’insurrezione. Mentre in questo caso la dispersione dei rivoltosi è
«totale» e «repentina», a gruppi di parlanti «con voce sommessa, in generale, qualunque sia il motivo di una sollevazione», ne
derivano sempre disordini imprevisti dai sediziosi «ai quali sono essi strascinati violentemente dal corso degli avvenimenti».
Di nuovo affiora prepotente la semantica universale della rivoluzione nella metafora della tempesta o dell’acqua violenta –
per dirla con Bacherlard – che rappresenta il disordine prevalente sulla logica di un progetto, sulla razionale capacità di organizzarsi e di comunicare, di limitarsi all’obiettivo, pur se
cruento, delle previsioni iniziali e comuni.
Ma è altrettanto interessante verificare come la conclusione
della rivolta narrata venga annessa dalla voce fuori campo alla
versione tràdita dello sdegno con cui la regina «avrebbe data la
caccia agli scozzesi, come si cacciano le bestie feroci»: il duca
24. Sulla nozione di martirologio, applicato alla tragedia manzoniana, cfr.
A. Manzoni, Il Conte di Carmagnola, ed. crit. a cura di G. Bardazzi (in particolare, la prefazione), Milano, 1985.
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d’Argyle, signore scozzese, sarebbe stato disposto, allora, a congedarsi dalla regina «per andare a preparare i suoi cani». Entro
questo scontro frontale di metafore belluine25 si registra la logica della sopraffazione, secondo un rituale guerriero, che coniuga la necessità di sopravvivenza con il desiderio di ribadire la
supremazia sugli altri esseri.
Se, a questo punto, si sposta l’attenzione ai capitoli manzoniani della sommossa, viene fatto d’imbattersi in Renzo come in
una controfigura di Butler, che procede verso Milano, col cuore
in tumulto, tra propositi di vendetta, ricordi, ravvedimenti mimici e rapidi. A governare il groviglio della sua coscienza turbata provvede il verbo di eziologia idrografica «s’ingolfava», indice di una spirale di pulsioni sfocianti in «rabbia», come di acque aggressive e turbinose che fanno mulinello, antefatto di più
pericolosi e grandiosi «vortici»26, in cui perdersi, senza scampo
visibile. Butler, all’opposto di Renzo, non accede alla realtà minacciosa e complicata della città dall’esterno, ma la contempla
dall’interno, dopo averne tentato invano la fuga, con prudenza
ben diversa dalla fuga ingenua e retorica di Renzo. Senza l’incubo di Butler, il giovane e inesperto montanaro scopre, come in
un sogno ad occhi aperti, la «grande macchina del Duomo, sola
sul piano, come se, non di mezzo a una città, ma sorgesse in un
deserto». A mano a mano che si inoltra nello spazio aperto e
ignorato della città, Renzo scopre con occhio curioso «campanili e torri e cupole e tetti», non diversamente dalla visione serotina e turrita di Edimburgo, che si offre allo sguardo di Butler,
gettato a sua insaputa in un mondo di insidie. Si può comprendere facilmente perché un filatore di seta e un chierico di cam25. Cfr. A. Yoder, Animal analogy in Shakespeare, Caracter Portayal, New
York, 1947.
26. Il “vortice” è la massima metafora di dissoluzione romantica della forma: cfr. F. Arcangeli, Lo spazio romantico, in Dal romanticismo all’informale,
Torino, 1977.
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pagna filtrino un’immagine straniata della città: per entrambi il
viaggio fuori delle mura di casa non è il viaggio di chi vuole conoscere il disordine, il tumulto, l’ingiustizia. Protagonisti di una
iniziazione paradossale e obbligata ai misteri urbani27 si imbattono, tuttavia, in situazioni differenti che ne condizionano le
reazioni, gli umori, le emozioni contrarie.
L’esperienza cittadina di Renzo è da principio euforica: l’inaspettata gentilezza dell’«agiato abitante» che gli fornisce prontamente le informazioni richieste, la sconcertante distrazione
dei gabellieri che lo lasciano passare senza «frugamenti» e «interrogazioni», «la buona maniera dei cittadini verso la gente di
campagna». Per Butler, viceversa, l’incontro con la città in rivolta è come un incubo füssliano, un sogno terribile e angoscioso, senza il miracolo apparente che esorcizza la sorpresa di Renzo. Sbalordito da «certe strisce bianche e soffici come di neve»,
che si rivelano come rivoli di farina sparpagliata sulla strada, e
«da certe cose sparse, che certamente non eran ciottoli, e se fossero state sul banco d’un fornaio, non si sarebbe esitato un momento a chiamarli pani», il contadino media lo stupore evocando il paese di cuccagna. Ma, insolitamente, avverte in quella
città «disabitata» un «ronzio lontano», indice sicuro di un
«gran movimento». La prospettiva, il punto di vista limitato di
un contadino consente alla voce narrante ed esterna di commettere che quello è un giorno «fuor dall’ordinario», in cui le «cappe», i mantelli dei nobili, si inchinano ai corti «farsetti», come
in un mondo alla rovescia, in un carnevale, direbbe Bachtin28,
già destinato alla sospensione e alla decadenza. Lentamente «da
queste e da altrettanti cose» Renzo comincia a «raccapezzarsi»
di essere giunto «in una città sollevata», «in un giorno di conquista».
27. Cfr. A. Marchese, Manzoni in Purgatorio, Firenze, 1982, p. 21.
28. Cfr. il classico Dostoevskij, Torino, 1974. Ma è opportuno segnalare
anche Estetica e romanzo, Torino, 1984.
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Nella prospettiva di Butler la sommossa si profila subito nella sua evidenza, mentre Renzo dall’iniziale «piacere» passa lentamente allo sforzo di capire che cosa si nasconda dietro questo
spettacolo di abbondanza.
Ne nasce il primo piano di un gruppo di famiglia in un esterno, disarmonico e grottesco. Incuriosito dall’interno della città,
«dove il brulichio era più folto e rumoroso», Renzo da osservatore si appresta a divenire un comprimario dello «sconvolgimento»: «il vortice attrasse lo spettatore». E della metafora turneriana del vortice è intuibile come la sommossa si configuri alla luce di un campo semantico pluviale-fluviale-marino, che di
volta in volta incrocia la metafora bestiale, la sua psicologia dinamica, se si ascolta il Bachelard di Lautréamont29, e l’immagine in movimento altrettanto radicale della miccia, del fuoco,
scottianamente, selvaggio.
L’intreccio della semantica metaforica, così variabile e composita sulla tastiera di registri seppure egualmente biologico-organici, rivela il tumulto come un fenomeno spontaneo, non organizzato, naturale, cui contribuiscono l’inesorabilità della pioggia come distillata nei suoi prismi ottici («si riunivano in crocchi
[...] come gocciole sparse sullo stesso pendio»), l’animalità scatenata della fame («il popolo imbestialì»), la dinamica biologica,
quasi entomologica, con la sua vitalità di spostamenti rapidi e
sonori («le piazze brulicavano d’uomini [...] trasportati da una
rabbia comune»). Quest’ultimo participio affaccia, di nuovo,
l’ineluttabile meteorologia dell’uragano che si accompagna, di
rincalzo, all’analogia animale: «l’acqua s’andava intorbidando; e
s’ingegnavano d’intorbidarla di più [...] e si proponevano di non
lasciarla posare, quell’acqua senza farci un po’ di pesca». L’orchestrazione plurimetaforica30 contamina la dinamica della mas29. G. Bachelard, Lautréamont, Paris, 1970 [1939].
30. Sulla contaminazione di differenti campi semantici nell’uso delle immagini, cfr. E Raimondi, Metafora e storia, Torino, 19822 (in particolare, il
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sa d’acqua che monta alla pregnanza altrettanto immaginosa della pesca. Si tratterebbe a questo punto, suggerisce Lonardi31, di
addentrarsi nell’eziologia d’ansia, nelle motivazioni nevrotiche
di questo campo metaforico della caccia/pesca. È stato Freud32
a connettere la zoofobia all’agorafobia33, che si spiegherebbe a
sua volta come timore dell’eros, complesso di castrazione. Ma è
importante che quest’ossessione metaforica entri nella dinamica
espressiva dell’orrore per ogni violenza dell’uomo sull’uomo,
compreso, s’intende, il vortice urbano della sommossa.
Quest’ultima nasce, non per nulla, come un evento irrazionale,
aggressivo «come il cadere d’un salterello acceso in una polveriera» dall’affabulazione grottescamente collettiva «ecco se c’è il
pane! gridarono cento voci insieme. Sì, per i tiranni che notano
nell’abbondanza, e vogliono far morire noi di fame».
I personaggi collaborano alla definizione della rivolta come
un’inevitabile conseguenza di una psicologia collettiva che sfugge alla norma etica individuale, laddove predomini il tumulto
delle passioni, degli istinti sulla logica della volontà, nella progressione da «crocchi» a «branchi» a «masnada». L’animalizzazione della folla registra con cura, intanto, il rumore sempre più
violento: «si sente un calpestio e un urlio: insieme cresce e s’avvicina». Alla identificazione auditivo-animalesca si sovrappone
l’esclamazione definitoria, quasi di tipo linneano: «Uh, che formicolaio». Oppure, sempre nell’ambito dell’animalizzazione,
ecco «alcuni» starsene «lì rannicchiati ne’ cantucci, altri uscendo per gli abitanti», andare «su pe’ i tetti, come i gatti». Infine,
«la vista sulla preda» è un’invariante drammatica della rapprecapitolo Per una immagine della «Commedia»).
31. G. Lonardi, Caccia tragica, in Omaggio a Gianfranco Folena, Padova,
1993.
32. Mi riferisco alle pagine classiche di Freud, Inibizione, sintomo, angoscia (1925), Torino, 1981.
33. Cfr. E. Weiss, The case of A. Manzoni, in Agoraphobia in the light of
Ego Psicology, London, 1964.
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sentazione sub specie venatoria, che «fa dimenticare ai vincitori
disegni di vendette sanguinose». La folla è trasformata nella polifonia rivoltosa di «tanti merlotti che fanno ora tanto fracasso»,
ma che «domani o domani l’altro, se ne staranno in casa, tutti
pieni di paura». Ne scaturisce l’auspicio, formulato da un insorto all’indirizzo degli affamatori, di «fare una gran stia, e metterli
dentro, a vivere di vecce e di loglio».
Sulla memoria tutta moderna della Rivoluzione francese e,
magari, della sommossa milanese del 181434 si innestano comico-grottesche le reazioni vocali, le passioni umorali della folla.
Intanto, dalla matrice del «vortice», vengono generate, con una
loro orchestra fragorosa, le diverse immagini di un’alluvione
imminente: dalle «gocciole sparse sullo stesso pendio» alla visione dei rivoltosi «spinti [...] come flutti da flutti, via via fino
all’estremità della folla», che andava sempre crescendo, come
un mare o un fiume in piena, la «tempesta delle grida», il «torrente di popolo che penetrò per tutti i varchi»; dal «bianco polverio che per tutto si posa, per tutto si solleva, e tutto vela e annebbia», come in un ciclone di farina, alle «sassate di libbra che
venivan giù come la grandine»; dall’istigatore «che fendeva
l’onda del popolo» al malcapitato Renzo «trascinato dal torrente» e solo a stento trovatosi «un poco al largo »: «c’era un incalzare, un rattenere, come un ristagno», appunto. Non stupisce,
all’inizio del capitolo XIII, l’attesa dello «sventurato vicario»35,
«con gran sospensione, come avesse a finire quella burrasca».
Ed è il ricordo di don Abbondio, giunto ai sessant’anni «senza
34. È la rivolta (osservata dalle finestre di casa dello stesso Manzoni) che
culminò nell’omicidio del Prina. L’orrore fu descritto da Manzoni più volte
nell’epistolario e nei colloqui cogli amici.
35. Il vicario è connotato dall’epiteto morale, che suggerisce il destino, durante «un chilo agro e stentato». La sua è una tragedia privata alla quale il
Manzoni accosta, con una sorta di rima a distanza, la «sventurata» Gertrude,
a sua volta come un fiore «nell’afa che precede la burrasca» fino all’istante in
cui si contrae di fronte al ricatto paterno.
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gran burrasche», a sciogliere l’esordio di questo capitolo nella
tonalità tragicomica di un’opera buffa: «i servitori [...] metton
la stanga, metton puntelli, corrono a chiudere le finestre, come
quando si vede venir avanti un tempo nero, e s’aspetta la grandine, da un momento all’altro». L’immagine della tempesta è
evocata per mettere in risalto, di nuovo, «l’urlío crescente» della folla che scende «dall’alto come un tuono» e «rimbomba nel
vòto cortile, mentre ogni buco della casa ne rintrona».
Il vicario, attanagliato dalla paura, cerca «il più sicuro e riposto nascondiglio» ove si rannicchia con l’orecchio teso di una
preda che si arresta nell’ascolto di un «branco» sempre più vicino: ma sentendo invece il muggito alzarsi più feroce» sa che il
cacciatore ormai prossimo le preclude ogni via di scampo. Manzoni ricorre, di nuovo, alle equivalenze animalesche nella coscienza che la psicologia dell’individuo si degrada nella folla alla
condizione alienata di un predatore belluino, le cui emissioni irrazionali di voce sono parole-mito che polarizzano la ricerca del
capro espiatorio. A sentire il Frye36 questa figura è un topos
non infrequente nelle scene di «ironia» o, direbbe Lonardi, di
«caccia tragica» in cui si avverano «linciaggi di folle scatenate».
Questa volta, Renzo si trova «nel forte del tumulto, non già
portatovi dalla piena, ma cacciatovisi deliberatamente»: da passivo testimone, con il suo pane fatto a bocconi, è divenuto protagonista e si dissocia dall’orrore dell’«idea dell’omicidio», salvo a essere scambiato, nell’eccitata fantasia popolare, per un
«cane», un imbestiato «traditor della patria». Ma sulla disumanità grottesca, bestiale della folla in tumulto, insiste non solo il
vecchio mal vissuto, travestito da Caronte – «due occhi affossati
e infocati, [...] le grinze [contratte] a un sogghigno di compiacenza diabolica» – ma anche il gemito di uno dei portatori della
scala che, «oppresso come sotto un giogo scosso, mugghiava»,
con la ripresa dell’onomatopeico «muggito» assimilato, poco
36. Cfr. N. Frye, Anatomia della critica, Torino, 19693.
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più oltre all’«ululato», alla vocalità animalesca della folla. Questa perdita di ruolo nella scala degli esseri viventi, questo privilegio dell’irrazionale aggressivo è di continuo demistificato
dall’ironia tragica di Manzoni: la folla dei rivoltosi «con
quell’osso in bocca [il vicario], s’acquietava un poco» anche se
non è facile «levare loro dall’unghie gli ordigni».
Le ultime metafore regressive, in realtà, vengono applicate ai
participi che descrivono il vicario «rannicchiato, attaccato, incollato alla toga salvatrice, come un bambino alla sottana della
mamma». Ma il controcanto definitivo è nelle parole di congedo che esclama il vicario: «vo a vivere in una grotta, sur una
montagna, a far l’eremita, lontano da questa gente bestiale».
È l’induzione naturale di un ‘bambino’ che per esperienza ha
plasmato una sua idea spontanea, selvaggia, aggressiva della folla, quale che essa sia, da agorafobo primitivo37. È come se il vicario s’ingegnasse ad eliminare l’animale per essere solo uomo,
ma, al tempo stesso, dopo averne fatto un oggetto di disprezzo,
di caccia, di proibizione, rimanesse affascinato dalla vita meno
sociale e più primitiva della grotta, e si ritrovasse, per il meglio
o per il peggio, nell’animale. Solitamente, peraltro, nell’agiografia più antica gli animali simboleggiano un santo come un eremita, un essere a parte, un inviolabile38. Quest’acquisto, che
passa attraverso l’eliminazione dell’animalità diretta, più aggressiva e offensiva, quest’icona mentale, inconscia o semiconscia, non è che una visualizzazione sia pure indiretta della turbata psicologia della folla, che più tardi Manzoni avrebbe ritratto, nelle giornate dell’89, come una «turba avventizia di uomi37. «Il potere psicologico del prototipo animale si fonda su una cristallizzazione di modello mentale idealizzato (il più sovente inconscio) e nel calcolo
rapido dellle ‘distanze’ tra i singoli esemplari che di volta in volta vediamo e
questo modello»: M. Piattelli Palmarini, Il modello animale, «Sfera» 4 (1989).
38. Cfr. C.G. Jung, L’uomo e i suoi simboli, Firenze-Roma, 1967 e C. Gaignebet e J.D. Lajoux, Arte profana e religione popolare nel Medio Evo, Milano,
1985.
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ni», «luride bande di sediziosi», «selvaggia moltitudine». Ma
anche senza il bestiario delle pagine sulla presa della Bastiglia,
nei Promessi Sposi, parole più precocemente narrative come
«accozzaglia», «calca», «moltitudine di sediziosi», «babilonia di
discorsi», «marmaglia» denunciano chiaramente la «funesta docilità» dello spazio sconvolto, ambiguo, inferico della città in rivolta.
La descensio ad inferos di Renzo è tanto più magmatica quanto più insistente è la ripresa della costellazione metaforica marittimo-temporalesca: «i portatori andavano a onde [...]»; «attori, spettatori, strumenti, ostacoli secondo il vento»; «moltitudine irritata e procellosa»; «la gente si muoveva [...] a guisa di cavalloni intorno a una nave che avanza nel forte della tempesta
[la carrozza di Ferrer]»; «due frontiere di benevoli [...] facevano [...] argine alle due onde prementi di popolo»; «già eran vicini a uscire al largo [della calca]»; «era come una nuvolaglia
che talvolta rimane sparsa, e gira per l’azzurro del cielo, dopo
una burrasca»; «e fa dire a chi guarda in su: questo tempo non è
rimesso bene». Di questa serie di immagini meteorologiche
l’approdo è situato nella camera dell’osteria (cap. XV) dove
Renzo, svegliato dagli scossoni dei birri e dalla voce del notaio,
è costretto a raccogliere qua e là «i panni sparsi sul letto, come
gli avanzi di un naufragio sul lido».
Quanto poi alla variante ignea della iconografia ribellistica,
tutt’altro che immaginaria nell’incendio degli strumenti del forno, se ne reperiscono nuove tessere simboliche, nello stesso capitolo XIII: dagli «occhi affocati» ai più sconvolti rivoltosi che
«per riscaldamento di passione [...] soffian nel fuoco ogni volta
che principia a illanguidirsi». S’aggiunge alle altre, significativa
e interessante, l’equivalenza linguistico-pirotecnica tra «qualche
parola, anche qualche frase, ripetuta da un crocchio» e «lo
scoppio di un razzo più forte», immediatamente udito «nell’immenso scoppiettio d’un fuoco artifiziale»: come se dopo la tempesta, con il suo apparato primigenio di fulmini e fragori, s’im-
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ponesse sulla pagina l’urgente metafora visiva e sonora della
fiamma ludica di un trionfatore, barocco fuoco artificiale. Scott,
d’altronde, approfitta dell’onomastica per giocare, con la sua
strategia arcaica e insieme ironica, sull’immagine della fiamma
nascosta e tuttavia selvaggia di Wildfire, il meneur des foules,
tanto più igneo quanto più rapido, enigmatico, deciso.
Nella cronaca di una rivolta, sia essa scottiana o manzoniana,
la metafora sprigiona scintille continue di lucentezza e volubilità. Quest’itinerario accidentato nello spazio della metaforica
insurrezionale si presenta come il tentativo, direbbe Nabokov,
«di individuare quegli echi e quelle piccole onde di fuoco, quelle pallide fosforescenti allusioni e tanti debiti subliminali»39, di
cui Gadda avrebbe avvertito, un secolo più tardi, la contaminazione grottesca.
Clara Leri
39. Ricavo la citazione dalle pagine dello pseudo-romanzo filologico di V.
Nabokov, Pale Fire, accuratamente studiato da E. Raimondi, Ermeneutica e
commento. Teoria e pratica dell’interpretazione del testo letterario, a cura di C.
Leri, Firenze, 1990. La traduzione a cui Raimondi si riferisce (pp. 5-15) è Fuoco pallido, Milano, 1965.