Untitled - Barz and Hippo

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Untitled - Barz and Hippo
Il titolo è un omaggio a Pasolini. Ma Giordana pensa al potere dell'arte, che sa trasmettere la verità pur
romanzandola, mentre Pasolini si riferiva al valore della verità in sé. Su una cosa sono d'accordo, ed è
il dovere degli intellettuali di raccontarla, la verità, in un modo o nell'altro. Come scriveva lo stesso
Pasolini in Il romanzo delle stragi: “Io so. Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato
golpe (e che in realtà è una serie di golpes istituitasi a sistema di protezione del potere). Io so i nomi
dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969...”. E della verità, il film, racconta fatti e
nebbie, quasi a spronare chi sa poco a sforzarsi di sapere di più. 16 nomination al David di Donatello.
scheda tecnica
durata:
129 MINUTI
nazionalità:
ITALIA
anno:
2012
regia:
MARCO TULLIO GIORDANA
soggetto:
MARCO TULLIO GIORDANA,STEFANO RULLI
sceneggiatura:
STEFANO RULLI, SANDRO PETRAGLIA, MARCO TULLIO GIORDANA
fotografia:
ROBERTO FORZA
montaggio:
FRANCESCA CALVELLI
colonna sonora:
FRANCO PIERSANTI
scenografia:
GIANCARLO BASILI
costumi:
FRANCESCA SARTORI
distribuzione:
01 DISTRIBUTION
interpreti:
VALERIO MASTANDREA (Il commissario Luigi Calabresi), PIERFRANCESCO
FAVINO (Giuseppe Pinelli), MICHELA CESCON (Licia Pinelli), LAURA CHIATTI (Gemma Calabresi),
FABRIZIO GIFUNI (Aldo Moro), LUIGI LO CASCIO (Il giudice Paolillo), GIORGIO COLANGELI
(Federico Umberto D'Amato), OMERO ANTONUTTI (Giuseppe Saragat), THOMAS TRABACCHI (Il
giornalista Marco Nozza), GIORGIO TIRABASSI (Il Professore), FAUSTO RUSSO ALESI (Guido
Giannettini), DENIS FASOLO (Giovanni Ventura), GIORGIO MARCHESI (Franco Freda), ANDREA
PIETRO ANSELMI (Guido Lorenzon), SERGIO SOLLI (Il Questore Marcello Guida), ANTONIO
PENNARELLA (Il Brigadiere Vito Panessa), STEFANO SCANDALETTI (Pietro Valpreda), GIACINTO
FERRO (Antonino Allegra), GIULIA LAZZARINI (La madre di Pinelli), BENEDETTA BUCCELLATO
(Camilla Cederna), CORRADO INVERNIZZI (Il Giudice Pietro Calogero).
Marco Tullio Giordana
Regista e sceneggiatore italiano, è nato a Milano il 1° ottobre 1950. Nel corso degli anni settanta si
accosta al cinema collaborando alla sceneggiatura del documentario Forza Italia! (1977) di Roberto
Faenza, mentre il debutto come regista arriva nel 1979 con il lungometraggio Maledetti, vi amerò,
presentato al Festival di Cannes e vincitore del Pardo d'Oro al Festival di Locarno.
Firma il soggetto di Car Crash (1980) di Antonio Margheriti, e l'anno seguente torna alla regia con La
caduta degli angeli ribelli, presentato al Festival di Venezia, con Vittorio Mezzogiorno nei panni di un
terrorista in fuga. Nel 1984 adatta per la televisione il romanzo di Carlo Castellaneta Notti e nebbie, in
due puntate, incentrato sul personaggio di un fascista che vive a Milano il tramonto della Repubblica di
Salò. Torna a dirigere solo tre anni dopo, con Appuntamento a Liverpool (1987), film sulla strage dello
stadio Heysel di Bruxelles, quando nel 1985, poco prima dell'inizio della finale di Coppa dei Campioni
tra Juventus e Liverpool, in seguito agli spintoni degli hooligans, le reti cedettero e nel caos generale
morirono 39 persone, di cui 32 italiane, e ne rimasero ferite oltre 600. Anche questa volta l'opera viene
proiettata in anteprima a Venezia.
Nel 1991 partecipa al film collettivo La domenica specialmente, diviso in quattro episodi (gli altri sono
diretti da Giuseppe Tornatore, Giuseppe Bertolucci e Francesco Barilli), dirigendo l'episodio La neve sul
fuoco, ispirato ai racconti di Tonino Guerra. Nel 1995 si concentra nuovamente sulla storia italiana con
Pasolini, un delitto italiano.
Nel 2000 torna al Festival di Venezia con I cento passi, film di denuncia sulla vita e la morte di Peppino
Impastato, che vince il premio per la migliore sceneggiatura.
Nel 2003 realizza il film per la televisione La meglio gioventù, che ripercorre la storia italiana dagli anni
sessanta ad oggi, e che vince la sezione Un certain regard del Festival di Cannes. L'opera (6 ore totali)
è prodotta dalla Rai, ma dopo il successo di Cannes viene proposta al cinema, in due parti, con
notevole riscontro di pubblico. Nel 2005 presenta a Cannes Quando sei nato non puoi più nasconderti.
Nel 2007 realizza un film televisivo in due puntate con una versione cinematografica: Sanguepazzo, la
tragica storia della coppia di attori Ferida-Valenti popolari sotto il fascismo e fucilati dai partigiani dopo
un processo sommario per la loro conclamata compromissione con il regime, continuata anche dopo l'8
settembre 1943 in adesione alla Repubblica di Salò.
Nel 2011 realizza il film Romanzo di una strage dedicato alla strage di Piazza Fontana del 12 dicembre
1969 e ai fatti che ne seguirono, fino all'assassinio del commissario Luigi Calabresi il 17 maggio 1972.
La parola ai protagonisti
Intervista a Marco Tullio Giordana e al cast
I processi che si sono succeduti dal 1972 al 2005 hanno evidenziato la sinergia a più livelli tra i
neofascisti di Ordine Nuovo e i servizi segreti deviati, senza tuttavia giungere ad una verità giudiziaria
soddisfacente, con l'assoluzione di tutti gli accusati, alcuni dei quali, come Franco Freda e Giovanni
Ventura, non più processabili perché già assolti per il reato di strage con sentenza passata in giudicato.
Marco Tullio Giordana, regista tra i più attenti ai fatti della recente storia italiana prova a dare la sua
visione dei fatti con un film, dal titolo ispirato ad un articolo pubblicato nel 1974 da Pier Paolo Pasolini
sul Corriere della Sera, che fa appello alla potenza illuminante dell'arte (…).
Erano le 16.37 del 12 dicembre 1969 quando una bomba esplose nella filiale della Banca
dell'Agricoltura. Morirono 17 persone, altre decine rimasero ferite in modo grave. La pista anarchica fu
la prima ad essere battuta, con gli arresti di Pietro Valpreda e Giuseppe Pinelli, salvo poi scoprire alcuni
anni dopo l'esistenza di un piano organizzato da cellule dell'Estrema Destra veneta, con il beneplacito
dei servizi segreti militari. Puntando su un gruppo di attori di primissimo livello, l'autore milanese, con la
proficua collaborazione degli sceneggiatori Stefano Rulli e Sandro Petraglia, ha raccontato quei giorni,
dalle indagini condotte dal commissario Luigi Calabresi, alla mai chiarita morte dell'anarchico Giuseppe
Pinelli, deceduto in seguito ad una caduta dalla finestra della questura dopo tre giorni di interrogatorio,
fino all'assassinio di Calabresi.
Giordana, partiamo dal titolo del suo film e dal termine romanzo...
È una parola che evoca il titolo del bellissimo intervento di Pier Paolo Pasolini pubblicato sul Corriere
della Sera nel 1974. In quello scritto lui affermava di sapere con certezza i 'nomi dei responsabili di
quello chiamato golpe, ma di non avere le prove'. Ecco, noi dopo 40 anni abbiamo le prove e possiamo
fare i nomi e oggi possiamo dire finalmente 'noi sappiamo'. La strage di piazza Fontana non può essere
un punto di domanda e basta, la spiegazione di questa tragedia deve entrare a far parte del DNA di una
popolo così come il Risorgimento. Penso soprattutto ai giovani, a quelli che non sanno nulla di questa
storia e che non sono aiutati né dalla scuola, né dai genitori, forse schiavi di vecchi preconcetti. Loro
hanno il diritto di sapere e un film assolve questo compito attraverso gli strumenti dell'arte, della
letteratura e della poesia. L'arte ha uno sguardo lontano che tocca il cuore delle persone. E allora torno
alla figura di Pier Paolo Pasolini, che da ragazzo mi ha sempre guidato con la sua intelligenza. E' grazie
a lui se noi ragazzi dell'epoca non siamo cresciuti allo sbaraglio. Pasolini è stato esempio di intelligenza
poetica prima ancora che politica.
Rulli, qual è stato l'aspetto più difficile del vostro lavoro di ricostruzione degli eventi storici?
A differenza di film di impegno civile come Salvatore Giuliano di Gianfranco Rosi, in cui si cercava di
dire, di portare alla luce tutto quello che veniva nascosto, noi abbiamo avuto il problema opposto e cioè
confrontarci con troppe verità che si sono via via sovrapposte. Abbiamo dovuto trovare il senso
attraverso gli indizi che avevamo. Fondamentale è stato il lavoro di documentazione svolto dallo
scrittore Fulvio Bellini, in particolare nel delineare il rapporto tra il presidente della Repubblica,
Giuseppe Saragat e il ministro degli Esteri, Aldo Moro. Se il primo voleva ricostruire un ordine
attraverso una riforma costituzionale drammatica, il secondo cercò di vivere quella tragedia evitando
che spaccasse il paese.
Giordana, perché è passato tanto tempo prima di girare un film su piazza Fontana?
Parlo per me e non a nome del cinema italiano. Io non l'avrei saputo fare prima. Ho dovuto liberarmi da
tanti pregiudizi creati da depistaggi che hanno creato vittime inconsapevoli. A 30 anni o a 40 anni non
sarei stato capace di girare un film del genere, c'è voluto tempo insomma. Ho dovuto aspettare una
certa maturità artistica. Quando si raccontano dei personaggi controversi, bisogna entrare nella loro vita
shakespearianamente.
Buona parte del film ruota sulla figura del commissario Calabresi...
Sono stato interrogato da lui quando occupai il Berchet e ci fece la ramanzina. Mi colpì subito per i suoi
modi cortesi. Aveva l'età di mio fratello, era un intellettuale, conosceva Marx e Bakunin. Poi ne avrei
visti tanti di poliziotti come lui ma all'epoca era una mosca bianca. Quando lui era in stanza non
volavano gli schiaffi.
Per questo motivo la scena dell'interrogatorio di Pinelli è così poco cruenta?
La ricostruzione esatta non la posso fare, non ero lì, e sono tutti morti tranne il tenente dei Carabinieri
Lograno che abita a Torino, forse bisognerebbe chiedere direttamente a lui. Di certo sono sicuro che
Pinelli non si sia suicidato. Credo più plausibile che quando Calabresi uscì dalla stanza fosse arrivato
qualche ceffone in più e che Pinelli sia caduto. Non credo che lo volessero, è semplicemente successo
un gran pasticcio che non hanno saputo affrontare alimentando il mistero con una serie di bugie
velenose che sono finite addosso a Calabresi.
Pierfrancesco Favino, cosa conoscevi della figura di Giuseppe Pinelli?
Conoscevo molte cose per passione di lettura. E poi avevamo molte cose in comune. Quando ho girato
il film avevo 41 anni, la stessa età di Pinelli quando morì, ho una famiglia con delle figlie, insomma
banalmente eravamo vicini. Sono sempre stato attratto dalle storie che hanno a che fare con la giustizia
o l'ingiustizia, quando cioè il sogno di qualcuno viene spezzato.
Hai conosciuto la moglie di Pinelli, Licia e le figlie...
Un incontro che mi ha toccato profondamente e non era automatico che mi accogliessero bene. Se uno
bussa alla porta e dice, salve sono l'attore che interpreta suo marito o tuo padre, possono scattare
domande del genere Ma chi sei? Chi ti conosce? E' stato faticoso ed imbarazzante, perché sentivo la
grande responsabilità del momento. Al contrario però sono state loro a proteggerci, soprattutto da Licia
che è una donna che uno sguardo ti fa capire fino a che punto puoi arrivare. Vedere una famiglia, poi,
significa anche vedere il lascito di questa persona. Io credo che un uomo che ha costruito quella
famiglia lì non possa essere che una persona perbene. In casi come questo fare questo mestiere ti fa
sentire utile, mi piace l'idea di essere quello che ha fatto Pinelli.
La strage di piazza Fontana, la tragica morte di Pinelli, è stato lì ad essersi infranto il sogno
democratico dell'Italia?
Sì. Dal Dopoguerra fino al 1969 c'era la sensazione di appartenere ad un paese in cui la democrazia
c'era e i cui governanti erano trasparenti. Poi qualcosa si è rotto. Spesso Marco ci diceva, si vede che
siete nati dopo. Noi non l'abbiamo vissuta quella esperienza, ma sono sempre più convinto che la
strage di piazza Fontana sia stata il nostro 11 settembre.
Valerio Mastandrea, per interpretare il commissario Calabresi invece hai scelto una via diversa, non hai
voluto incontrare nessuno della sua famiglia...
E l'ho fatto per pudore. In assoluto questo è il ruolo più difficile che ho fatto nella mia carriera, un lavoro
che sta continuando anche ora che il film è finito e ancora non so quando si esaurirà questo percorso.
Ci sei rimasto male per le parole di Mario Calabresi secondo cui sei stato troppo monodimensionale e
poco propenso a sdrammatizzare?
No assolutamente, non la reputo una critica cattiva. E poi scene di quotidianità ce n'erano davvero
poche, a me interessava soprattutto cercare di capire come potesse agire un funzionario del 1969.
Sandro Petraglia: ricordo di aver parlato con Mario qualche anno fa a Torino in occasione della
pubblicazione del libro scritto sulla storia del padre e mi aveva confidato di non aver voluto concedere i
diritti per un eventuale film perché aveva il timore proprio delle scene di intimità familiare. Ci siamo
ricordati di questo aspetto in sede di scrittura e siamo stati attenti in tal senso.
Giordana, Mario Calabresi ha parlato anche del film, dicendosi grato a chi lo ha voluto e lo ha fatto, pur
sottolineando che mancano dei momenti importanti come la campagna di Lotta Continua contro suo
padre...
Quando ho letto l'intervista ho provato una profonda compassione per lui, nel senso di soffrire con lui.
Nessuno potrà ridargli suo padre e non lo potrà ritrovare in nessun film, non potrà mai essere sereno il
suo giudizio davanti alla profonda ingiustizia che ha provato. Ho sofferto con lui perché il padre gli è
stato strappato in quel modo e per molti anni è passato come assassino e torturatore. E nello stesso
tempo accolgo le sue annotazioni positive come qualcosa di prezioso.
Fabrizio Gifuni, anche ricostruire la figura di Aldo Moro non deve essere stato semplice...
Sono stato aiutato dalle camicie di Moro che mi sono fatto cucire su misura dal suo stesso camiciaio.
Quel collo di camicia più largo, in cui il collo di Moro pencolava con la testa angolata mi è stato più utile
di tanti libri. Considero questo ruolo come il completamento di un percorso iniziato dieci anni fa con La
meglio gioventù, un racconto che tratteggiava il percorso di trasformazione dell'Italia. Guarda caso
mancava proprio il capitolo su piazza Fontana e ora so perché. Naturalmente merita uno spazio tutto
suo. Il filo rosso che unisce tutto in questo lavoro è il recupero dell'identità una delle poche cose che ci
fa stare in piedi.
Recensioni
Curzio Maltese. La Repubblica
Quel pomeriggio del 12 dicembre 1969 che ha cambiato per sempre l’Italia c’era anche Marco Tullio
Giordana in piazza Fontana, uno dei tanti studenti sul tram che porta alla Statale. Un boato, i vetri
saltati, i biglietti per aria come coriandoli e la vita di tutti i giorni precipitata in un secondo nell’incubo. La
scena autobiografica del tram è per paradosso la più genialmente visionaria di Romanzo di una strage.
Soltanto Leone, Coppola o Scorsese sarebbero riusciti in una sola immagine a racchiudere i significati
di un evento epocale.
Romanzo di una strage è uno dei rari film da vedere per poterne discutere. Da discutere in effetti c’è
molto. Non il talento dell’autore di La meglio gioventù e de I cento passi, due fra i film italiani più belli
degli ultimi decenni. (...)
Quello che si può discutere è la scrittura di Romanzo di una strage. Ci voleva coraggio per fare a
distanza di quarant’anni il primo film su piazza Fontana ed è indubbio che Giordana e gli sceneggiatori
Rulli e Petraglia ne abbiano avuto. Ma forse ne occorreva una dose supplementare per affrontare un
vero viaggio negli orrori dell’eterna guerra civile italiana. Il film è piuttosto legato all’attualità della
riflessione politica. (...) alla fine Romanzo di una strage è un film molto personale di un testimone
oculare d’eccezione, non un’inchiesta. Quelli sono il Calabresi e il Pinelli di Marco Tullio Giordana, non
un’impossibile verità umana sui personaggi reali. Dove invece il film lascia perplessi è nell’estendere il
mistero ai fatti storici. Se è vero che i colpevoli sono rimasti impuniti e i processi si sono conclusi con la
vergognosa richiesta di spese ai parenti delle vittime, è falso però che non si siano chiarite le
responsabilità. A mettere le bombe sono stati gli estremisti di destra, con la regia dei servizi segreti
italiani e americani, in vista di un golpe fascista che si sarebbe realizzato se la sinistra avesse vinto le
elezioni, come avvenne poi nel Cile di Allende. Nessun mistero, nessuna «doppia pista» bipartisan, a
cavallo fra anarchici e neo fascisti, come si ipotizza nel finale del film. Sostenere queste tesi non serve
a pacificare gli animi, com’è forse nelle intenzioni di Rulli e Petraglia, ma soltanto a spargere un
inaccettabile perdonismo generale.
Stefano Cappellini. Il Messaggero
Un libro inchiesta di oltre 700 pagine, un film uscito in sala venerdì, un instant book messo on line ieri e
furiosamente scritto da Adriano Sofri in pochi giorni. Un argomento comune - la strage di piazza
Fontana del 12 dicembre 1969 a Milano, la prima delle bombe che scandirono la strategia delle
tensione in Italia, dolorosa e gravida di altri lutti, oltre che impunita – ma tesi molto divergenti. Intorno a
questi tre lavori si è infatti scatenata una accesa diatriba storica e politica. Una diatriba rinfocolata ieri
dall’imprevisto, e durissimo, intervento di Sofri. Il suo libro, scaricabile gratuitamente dal web, è titolato
43 anni, quanti ne sono trascorsi dalla strage.
L’intento principale di Sofri - che a questi temi si è già dedicato in un altro libro di pochi anni fa, La notte
che Pinelli - è demolire la credibilità e la scientificità del voluminoso libro inchiesta di cui si diceva
all’inizio. Si tratta di Il segreto di piazza Fontana, autore Paolo Cucchiarelli, pubblicato nel 2009 dalla
casa editrice Ponte alle grazie. L’inchiesta di Cucchiarelli è stata usata come «libera fonte di
ispirazione» per Romanzo di una strage, il film che con respiro epico e un cast di primo livello
ricostruisce i tre anni, dal 1969 al 1972, che vanno dall’esplosione della bomba nella filiale della Banca
dell’Agricoltura di piazza Fontana all’uccisione del commissario di polizia Luigi Calabresi, che condusse
parte delle indagini, omicidio per il quale Sofri, dopo un lunghissimo e contestatissimo iter giudiziario, è
stato ritenuto colpevole insieme ad altri tre ex militanti di Lotta continua. In mezzo, naturalmente, la
morte dell’anarchico Pino Pinelli (...).
Non è però sul caso Calabresi che l’ex leader di Lotta continua si sofferma (...), bensì sulla tesi centrale
di Cucchiarelli. Secondo questa ricostruzione, a piazza Fontana esplosero non una ma due bombe. La
prima, un ordigno piazzato dagli anarchici, aveva scopi solo dimostrativi e doveva esplodere senza fare
vittime. La seconda bomba, messa per uccidere da manovalanza neofascista su mandato di settori
dello Stato favorevoli a una svolta reazionaria, poteva così fare il suo lavoro godendo della copertura
dell’altra, che permetteva di attribuire ai rossi la responsabilità della strage. «Considero questa tesi
insensata», scrive Sofri, che estende il giudizio di rigetto a tutte le sottotrame di cui la ricostruzione di
Cucchiarelli è intessuta. (…)
L’elenco delle inesattezze che Sofri addebita a Cucchiarelli nelle 132 pagine del suo pamphlet è
sterminato. E nella maggior parte dei casi l’ex leader di Lotta continua dimostra per tabulas che la
costruzione dietrologica dell’inchiesta sulla doppia bomba è frutto di sviste o di arbitrarie pseudodeduzioni, (...) scambi di persona, omissioni, abuso di fonti anonime nel mondo dell’ultradestra
chiamate a confermare i passaggi più oscuri, (…) «una inclinazione alla paranoia», «una visione che
immagina il governo del mondo come una cospirazione maligna e occulta di pochissimi», un oscuro
intrigo che pervade destra e sinistra in un pasticcio storiografico in cui tutti sono complici e
corresponsabili, una tendenza che ha «toni da Codice da Vinci» più che da indagine storica o
giornalistica.
Paolo Merghetti. Corriere della Sera
Per una volta il titolo è davvero essenziale: Romanzo di una strage non confonde le carte in tavola, non
depista. Quello che successe in Italia tra il 1969 e il 1972, dall’uccisione dell’agente Antonio
Annarumma (19 novembre 1969) a quella del commissario Luigi Calabresi (17 maggio 1972), è
veramente «materia romanzesca» tanto è complessa e ramificata. E gli sceneggiatori del film l’hanno
raccontata come fosse davvero un romanzo, con i suoi protagonisti e i suoi comprimari, i buoni e i
cattivi, i colpi di scena e i momenti riflessivi. Dividendo il tutto in capitoli che aiutano lo spettatore a
orientarsi tra i fatti e le supposizioni, tra la «realtà» e la «fantasia». E di questo dovrebbe essere
chiamato a parlare il critico, di come la storia di quegli anni è diventata film, ha trovato una forma
cinematografica.
Naturalmente il compito non è così facile, perché quella materia brucia ancora gli animi (come dimostra
l’intervista che Aldo Cazzullo ha fatto a Mario Calabresi) e perché le tante verità scoperte faticano
ancora a stare tutte insieme (...). Per questo, viene da supporre, Giordana ha scelto la forma del
«romanzo»: per mettere gli esseri umani al centro del film, le persone prima dei fatti. E lasciare i
teoremi a chi se ne diletta (almeno fino a un certo punto).
I due pilastri su cui regge il film sono evidentemente Giuseppe Pinelli (Pierfrancesco Favino) e Luigi
Calabresi (Valerio Mastandrea), l’anarchico e il commissario, divisi dalle idee politiche ma uniti da un
certo reciproco rispetto e dalla sensazione (si capisce dal film) di avere a che fare con ambienti meno
limpidi e corretti di quel che sono loro stessi. I circoli anarchici danno l’impressione di ospitare più
infiltrati e doppiogiochisti che autentici militanti e la questura di Milano non è abitata solo da
galantuomini. E per fortuna, non dimentica di sottolineare il film, accanto a Pinelli e Calabresi ci sono
due donne diverse per estrazione sociale ma simili per forza d’animo e amore familiare, Licia e
Gemma. Intorno a questi due personaggi prendono forma pian piano i fatti e si delineano i comprimari
(...). Tre anni che hanno lasciato sull’Italia un senso di sgomento e di impotenza, coerente prodromo a
quelli che sarebbero diventati gli «anni di piombo».
Questa materia, il film di Giordana si sforza di metterla in ordine e di «spiegarla», organizzandola in
capitoletti (...) per aiutarne la comprensione. Per farlo si serve anche di un cast eccellente, che pur
inseguendo la via obbligata della mimesi non cade mai nella macchietta o nel cabaret e sa restituire (...)
la credibilità e lo spessore della cronaca storia. Correndo però un rischio: quello di razionalizzare troppo
i fatti, di renderli intelleggibili e cancellare così l’atmosfera di angoscia e di tensione dell’Italia di quegli
anni. Alla fine ti sembra che manchi la complessità del reale, che tutto sia fin troppo semplice e chiaro e
che per chiudere la storia di quegli anni il film finisca per cadere nella trappola che aveva cercato di
evitare per due ore: quella delle forze oscure. Dopo aver scelto di ricapitolare i fatti senza ricostruire i
momenti più controversi per evitare la fantascienza (chi ha messo materialmente la bomba? O le
bombe? Come è caduto Pinelli dalla finestra del quarto piano?), il film non sa rinunciare a mettere in
bocca al questore degli Affari Riservati D’Amato (Giorgio Colangeli) il più facile e scontato dei discorsi
«complottisti». Forse è la spiegazione più vera (...) ma messa così in coda dà l’impressione di una
piccola astuzia narrativa che stona col resto del film.
Alberto Crespi. L’Unità
Esistono film la cui necessità si nasconde nelle pieghe della storia, nella coincidenza con un comune
sentire, nella necessità di ricordare. L’Italia è un Paese che elabora con difficoltà il proprio passato. Le
classi dirigenti non l’aiutano, spesso tramano per tenerla nell’ignoranza. I film, a volte, combattono
questo oscurantismo. Romanzo di una strage rientra in questa categoria. Esistono film che, alla
necessità storica, accoppiano la sapienza del racconto, la perfezione dello stile, l’eccellenza di una
scuola di recitazione. Una volta li giravano Rosi, Petri, Montaldo, Damiani; li interpretava, molto spesso,
Gian Maria Volontè. Sul set di Romanzo di una strage gli spiriti-guida di questi grandi – alcuni, per
fortuna, vivissimi – devono essersi aggirati con intenti positivi. È emozionante, ad esempio, vedere
Fabrizio Gifuni «ricreare» Aldo Moro con gli indugi, i gesti, l’eloquio alto di quel grande statista; e
ripensare a come l’hanno fatto Volontè, in due occasioni (Todo Modo, Il caso Moro), e Roberto Herlitzka
in Buongiorno notte di Bellocchio. (...) La parola chiave è «romanzo», mutuata da Pasolini, dal famoso
articolo sul Corriere della sera in cui affermava, da intellettuale e poeta, «io so». Noi oggi sappiamo
ancora meglio chi ha ordito le stragi di Stato, ma nessuno è in galera per la bomba (o le bombe?) alla
Banca dell’Agricoltura. Il «romanzo» di Giordana – scritto assieme ai fedeli Rulli & Petraglia -prevede
due protagonisti, Calabresi e Pinelli (Mastandrea e Favino, bravissimi): due uomini che si capivano e
forse si stimavano al di là degli opposti schieramenti, poliziotto il primo, anarchico il secondo. E un coro
che li sommerge entrambi, fatto di uomini di Stato fedeli (pochi, Moro in primis) e deviati (parecchi), di
manovalanza fascista veneta (fortissimi e ripugnanti i ritratti di Freda e Ventura), di servizi segreti decisi
a tutto per fermare il «comunismo». Calabresi e Pinelli sono due sconfitti, quindi due eroi tragici, ma c’è
un sottotesto potente nel film. Sta nascosto nella sequenza in cui i fascisti, dal golpista Borghese in giù,
vedono in tv i funerali delle vittime ih piazza del Duomo e capiscono, senza dirlo, di aver perso. (...)
Gianni Barbacetto. Il Fatto quotidiano
Gerardo D’Ambrosio, il giudice istruttore che indagò a Milano sulla morte del ferroviere anarchico
Giuseppe Pinelli e sulla “pista nera” per la strage di piazza Fontana, ha letto tutto d’un fiato il nuovo
libro di Adriano Sofri. “Questa volta Sofri ha proprio ragione”, dice (…) “perché il libro di Cucchiarelli è
pieno di balle enormi, ripropone e cuce insieme elementi e ipotesi che noi avevamo già escluso dopo le
nostre indagini: le responsabilità nella strage dell’anarchico Pietro Valpreda, ma anche di Pino Pinelli”.
Tesi centrale del libro di Cucchiarelli, la doppia bomba: “Una intenzionata a fare il botto”, sintetizza
Sofri, “l’altra a fare morti”. La prima, dimostrativa, messa il 12 dicembre 1969 nel salone della Banca
nazionale dell’agricoltura da Valpreda, la seconda dai fascisti con la copertura dei servizi segreti. (...)
“Ipotesi aberranti”, conferma D’Ambrosio. “Quella di Cucchiarelli è la riproposizione quarant’anni dopo
della teoria degli opposti estremismi. Che noi magistrati di Milano non volemmo seguire: e allora ci
scipparono l’inchiesta, mandandola più lontano possibile, a Catanzaro”. “No, non c’era anche una
miccia, nella bomba di piazza Fontana. Ma ve lo vedete, l’anarchico con i capelli lunghi che entra in
banca e accende la miccia (che fa luce, fumo e puzza) e poi esce tranquillo? C’era un timer, questo sì,
uno di quelli che noi scoprimmo comprati personalmente a Bologna dal neonazista Franco Freda.
È una falsità assoluta anche la storia dei due taxi. Il secondo di cui parla Cucchiarelli era quello, preso
in via Cappuccio, non da un sosia di Valpreda (Claudio Orsi, dice, ma il suo alibi fu verificato!), bensì da
una fotomodella ventitreenne, Gunhild Svenning che, come scrive Sofri, andò in banca a cambiare un
assegno di 35 mila lire avuto in compenso del suo lavoro. Al tassista Cornelio Rolandi, che aveva
trasportato una persona elegante con il cappotto, fu poi fatto riconoscere Valpreda in un confronto
all’americana molto discutibile. Il tassista fece pochi metri, da piazza Beccaria a via Santa Tecla. Lì (e
non davanti alla banca) aspettò il cliente, che dunque non vide neppure entrare nell’edificio, che era
dietro l’angolo. Il tragitto era così breve che certo il trasportato non ebbe il tempo di preparare la
bomba: aprire la borsa, estrarre la cassetta metallica, caricare il timer, poi richiudere tutto…”.
D’Ambrosio continua: “Ma se tutte le bombe erano doppie, avrebbero dovuto esserlo anche le due
trovate non esplose nell’agosto 1969 sui treni: per quelle (come per le altre decine scoppiate nei mesi
prima di piazza Fontana) sono stati condannati i neri Franco Freda e Giovanni Ventura”. Anche Pinelli
sapeva delle bombe, scrive Cucchiarelli, e ha passato il pomeriggio del 12 dicembre in modi “indicibili”.
(“Il film di Giordana se ne guarda”, commenta Sofri, “risparmiandosi così la calunnia postuma”). “Ma è
una balla enorme”, insorge D’Ambrosio, che ha processualmente liberato il commissario Luigi Calabresi
da ogni responsabilità per la morte dell’anarchico. “Pinelli in questura ha raccontato che cosa ha fatto
quel giorno e ha detto la verità. Se ha taciuto di aver incontrato Nino Sottosanti”, spiega D’Ambrosio, “è
solo per non indebolire la testimonianza che questi aveva appena fatto in favore di un anarchico. Alla
fine, condivido il giudizio di Mario Calabresi, direttore della Stampa”. (...)
Aldo Cazzullo. Corriere della Sera
Dall'intervista a Mario Calabresi, figlio di Luigi e oggi direttore de “LaStampa”:
«È un film importante per ricordare quel che è stata Piazza Fontana. Era necessario un omaggio alla
memoria e a tutte le vittime: i morti della strage; Giuseppe Pinelli; mio padre; e l’ultima vittima, la
giustizia. Giordana è stato coraggioso, perché è uscito dalla contrapposizione tra mio padre e Pinelli,
che in questi quarant’anni c’è sempre stata; per cui se si faceva qualcosa per papà subito si rispondeva
“allora perché non Pinelli?”, e se si diceva qualcosa per Pinelli la replica era “allora perché non
Calabresi?”. Il film è sulla linea del presidente Napolitano, che si è impegnato per restituire umanità alle
persone, liberandole dalla condizione di simboli, e con questo spirito nel maggio 2009 fece incontrare
Licia Pinelli e mia madre. Non è un film buonista, non edulcora la realtà, anzi ha il pregio di mostrare
che Pinelli e mio padre facevano due mestieri diversi, erano persone agli antipodi; ma non erano
nemici. Romanzo di una strage ha il coraggio della verità storica, che in questo caso coincide con la
verità giudiziaria: mostra chiaramente che mio padre non era nella stanza quando Pinelli cadde. E sfata
alcune leggende nere: il segno del “siero della verità” era la flebo infilata dai barellieri nel braccio di
Pinelli; il ”colpo di karaté” era l’ematoma lasciato dal tavolo dell’obitorio; le dicerie sull’”uomo della Cia”
nascono da un errore più o meno voluto, un caso di quasi omonimia con Calabrese, funzionario di
collegamento del Viminale a Washington».
Queste sono le ragioni per cui Mario Calabresi si dice «grato a chi ha voluto e fatto questo film». Ma ci
sono anche ragioni di perplessità. «I due anni terribili della campagna di Lotta continua contro mio
padre non ci sono, se non per qualche vago accenno: una scritta sul muro, i fischi al processo. Ma se
nascondi quella campagna, se non metti in scena il clima del tempo, il linciaggio, la disperazione, si
fatica a capire perché sia stata condannata Lotta continua. La morte di mio padre sembra legata solo ai
suoi sospetti sulla destra (...). In realtà, l’idea che fosse stata la destra a mettere la bomba mio padre
l’aveva chiarissima fin dall’inizio. (..) Mio padre si sentiva seguito, pedinato. Si doveva nascondere. Con
mia madre non potevano più andare al ristorante, al cinema lei si sedeva e lui si chiudeva in bagno fino
a quando non si spegnevano le luci… (…) Se lo Stato ha una colpa, è aver lasciato mio padre solo,
aver permesso che diventasse un simbolo. Nel film sembra che mia madre fosse contraria a
denunciare Lotta continua. Non è così. Mia madre non voleva che suo marito portasse avanti il
processo da solo. Gli diceva: “Tu sei un funzionario del ministero degli Interni, è il ministero che deve
fare la denuncia, altrimenti tutto si scaricherà su di te”. Infatti è finito lui da solo al centro del mirino».
Anche il finale non convince Mario Calabresi. «Ti lascia la sensazione che non sappiamo niente, che
non abbiamo né verità né giustizia, che Piazza Fontana resta una nebulosa oscura e chi è andato
vicino alla verità, da mio padre a Moro, è stato ammazzato. Invece la verità storica c’è, eccome».
Racconta Mario che rivedersi bambino non gli ha fatto alcun effetto. «La ricostruzione della casa dove
ho passato i primi anni non mi dice nulla, perché non ho ricordi di quei momenti; mentre Laura Chiatti in
effetti mi ricorda un po’ mia mamma da giovane. Ho trovato bravissimo Pierfrancesco Favino,
straordinario nella parte di Pinelli. Mentre a Valerio Mastandrea manca almeno una volta una battuta,
un sorriso, un tentativo di sdrammatizzare. Mette in mostra i tormenti di mio padre, ma ne fa un uomo a
una dimensione. Mia madre mi ha detto: “Gigi era romano, in tutti i sensi; ma nel film non si capisce.
Eppure era proprio questo di lui che mi aveva conquistata: Gigi era spiritoso. Sfotteva il questore Guida
e il capo della squadra politica Allegra, gli faceva il verso. Nel film invece è duro, tutto d’un pezzo, non
sorride mai. No, non l’ho riconosciuto”. Nel film mio padre difende Pinelli; ma nella realtà l’ha difeso
molto di più, ci fu uno scontro durissimo con il questore che gli chiedeva di farlo parlare, mentre mio
padre era convinto che Pinelli non c’entrasse con la strage, e potesse semmai fornire informazioni su
altre persone».
Poi, prosegue Calabresi, c’è la questione su chi dovesse avvisare Pinelli. «In Romanzo dì una strage
pare che dovesse toccare a mio padre, visto che è lui a rispondere a una telefonata della vedova. Mia
madre ha sempre considerato una ferita il fatto che Licia Pinelli non fosse stata avvertita, e lo disse già
allora. Mio padre le rispose che il questore aveva la responsabilità di mandare qualcuno ad avvisare la
vedova. C’è una discrepanza anche nella scena del ritorno a casa, dopo la morte di Pinelli. Era quasi
mattina. Nel film mia madre accenna a quello che hanno detto alla radio, e mio padre risponde “beati
loro che sanno quel che è successo”. La realtà è diversa. Mio padre era distrutto, disperato. Sedeva sul
letto con le mani tra i capelli e ripeteva “è terribile, non è possibile”. Mi ha raccontato mia madre che
quella sera si misero a pregare. E lei presagì che era tutto finito. Glielo disse proprio: “Gigi, ti rendi
conto che questa è la fine anche per te?”».
Ma la frase mancante che ha fatto più male a Gemma Capra è l’ultima. «Il giorno in cui fu ucciso, mio
padre uscì di casa ma tornò indietro per cambiare la cravatta — racconta Mario —. Nel film è una
scena di goliardia, da vita quotidiana. Mastandrea si toglie la cravatta rosa per metterne una bianca, la
Chiatti lo prende in giro, dice che sono orrende tutt’e due. Il vero dialogo fu molto diverso. Mia madre
chiese il motivo del ripensamento, visto che entrambe le cravatte gli stavano bene. E mio padre
rispose, serio: “Gemma, metto la cravatta bianca perché è il simbolo della mia purezza”. Mamma
considera quella frase una sorta di testamento. Sono le ultime parole che le disse suo marito. Con il
tempo si è convinta che lui presagisse la morte. Ripensa a quella frase da tutta la vita, come se suo
marito avesse voluto dirle: “Tireranno fuori cose terribili su di me, ma tu sappi che la verità è questa”.
Nel film ci sono molte scene importanti (...) ma purtroppo le ultime parole di mio padre non ci sono».
Adriano Sofri, brani tratti dal libro online 43 anni
Del film, a me interessa qui l’attinenza con la realtà. Un film di tale impegno, perfino indipendentemente
dalla sua qualità, è destinato a far testo sulla vicenda che racconta. Per questo ne scrivo.
E anche perché il film si dichiara “liberamente ispirato” a un libro nel quale i “riferimenti a fatti e persone
reali” sono spaventosamente “inesatti”. Gli autori hanno voluto segnare una distanza dalle tesi
particolari del libro, e del resto il film se ne è discostato su punti essenziali. Il libro sostiene che
Valpreda andò a deporre una bomba, benché nelle sue intenzioni solo dimostrativa, nella banca di
piazza Fontana. Che Pinelli era a parte di un progetto di attentati simultanei, benché nelle intenzioni
solo dimostrativi, e intervenne quel pomeriggio nel loro svolgimento. Che Calabresi era nel suo ufficio
quando Pinelli ne fu defenestrato, e forse fu lui a “metterlo nell’angolo con impeto”. Il film ha ripudiato
queste opinioni. Tuttavia in una scena finale – la più arbitraria, ai miei occhi: quella del dialogo fra
Calabresi e il capo degli Affari Riservati, D’Amato – il film ha mantenuto la tesi principale sulla quale il
libro è costruito, secondo cui nella strage della Banca Nazionale dell’Agricoltura, e negli altri attentati
che la accompagnarono e la precedettero, si attuò una strategia della estrema destra eversiva e degli
apparati segreti italiani e stranieri consistente nel “raddoppiare” tutto: due bombe, due borse a
contenerle, due attentatori. Uno anarchico, l’altro fascista. Uno intenzionato a fare il botto, l’altro a fare
morti. Considero questa tesi insensata, e nelle pagine che seguono lo argomenterò. Il film, avendo
conservato questa tesi e avendola – grazie al cielo – spogliata dell’attribuzione agli anarchici delle
bombe “innocue”, l’ha resa gratuita, dunque ancora più assurda: bombe d’ordine o parafasciste che
“raddoppiano” bombe fasciste. Il libro uscì nel 2009, si intitola Il segreto di Piazza Fontana (Ponte alle
Grazie), l’autore è Paolo Cucchiarelli. Offriva “finalmente la verità sulla strage”. Nella riedizione del
2012 viene promosso come “il libro che ha ispirato il film”. Alla luce del film finito (ha avuto infatti una
lavorazione travagliata) la fascetta pubblicitaria sulla ristampa dovrebbe dire piuttosto: “Il libro che non
ha ispirato il film” – salvo quel tic del Raddoppio universale.
Quando il libro uscì, era così pieno di errori di fatto e di interpretazioni oltraggiose che preferii ignorarlo,
benché una gran pagina sul Corriere della Sera ne lanciasse sconsideratamente la rivelazione: «Due
borse, due bombe…». Ho cambiato idea. Dopo il lancio del film, persone stimabili e autorevoli, ma
ignare, sono state indotte a raccomandare le scoperte del libro.
Corrado Stajano. Corriere della Sera
(…) La città, la società, nel film di Giordana, sono assenti, come le atmosfere di allora. Non c' è traccia
del conflitto tra innocentisti e colpevolisti, profondo, e neppure dei tentativi appassionati dell'altra Italia
alla ricerca della verità, diversa da quella ufficiale. Ci sono molti buchi nel racconto. Non si sa quasi
nulla di Pietro Valpreda, il predestinato capro espiatorio della tragedia. Non sono sufficienti, poi, quei
ritagli del giornale e poche scritte sui muri per rendere l'ossessiva campagna denigratoria di Lotta
Continua contro Calabresi accusato di essere l'assassino di Pinelli. Il film gioca di continuo,
pericolosamente, tra realismo e finzione. È «liberamente tratto» dal librone di Paolo Cucchiarelli, Il
segreto di Piazza Fontana, ambiguo, con fonti non verificabili. Moro, il ministro degli Esteri di allora,
impeccabilmente interpretato da Fabrizio Gifuni, ha una parte sovrabbondante, un jolly utile per
raccontare ciò che serve, ma chi visse il dramma della strategia della tensione non fu mai a
conoscenza di quella scelta così progressista di Moro, del suo misterioso dossier che svelava il
carattere golpista e neofascista della strage, mostrato a Saragat. Nel film, Federico Umberto D'Amato,
a capo degli Affari riservati, offre a Calabresi di diventare il suo braccio destro al Viminale e fa assurde
rivelazioni che ancora una volta stravolgono quel che si sa dagli atti dei processi, dalle inchieste, non
poche, di quegli anni. Un altro scoop, poi: furono due i taxi e due le bombe scoppiate in quel tragico
buco della banca. Una rossa, gentile, solo per spaventare un po' , portata da Valpreda; e una nera, per
uccidere e dare avvio allo stato di emergenza, portata da Sottosanti, il sosia. La fonte? Cucchiarelli, a
pag. 641 del suo libro. Di nuovo i doppi estremismi, le piste rosse e quelle nere. Un gran garbuglio reso
ancor più fosco mezzo secolo dopo, tra mister X, legionari e spioni, trafficanti di armi e di esplosivi, la
Grecia dei colonnelli, gli infiltrati ovunque, i partiti, tutti, informati e silenti, gli uomini dello Stato dal
doppio o triplo gioco. I ragazzi che non sanno cosa sia successo nel pomeriggio di tanti anni fa in quella
banca di Milano, vicina all'Arcivescovado, non avranno da questo film lumi per capire. Giustizia non è
stata fatta. Lo Stato non ha avuto la forza e il coraggio di processare se stesso. Dopo 11 processi di
condanna, 4 giudizi in Cassazione, apposizioni del segreto politico-militare, la serranda della legge è
calata il 3 maggio 2005: tutti assolti, strage senza colpevoli, i parenti delle vittime condannati a pagare
le spese di giudizio. La verità storica e politica, a ogni modo, è chiara. Sono ben documentati, con le
responsabilità della destra neofascista veneta, le complicità e i depistaggi dei servizi di sicurezza e
soprattutto dell'Ufficio Affari riservati. Peccato, bisogna dirlo con amarezza, che in questo smisurato film
un po' asettico non si ritrovino né la passione né le emozioni di quegli anni infuocati.