Untitled - Barz and Hippo
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Untitled - Barz and Hippo
Il titolo è un omaggio a Pasolini. Ma Giordana pensa al potere dell'arte, che sa trasmettere la verità pur romanzandola, mentre Pasolini si riferiva al valore della verità in sé. Su una cosa sono d'accordo, ed è il dovere degli intellettuali di raccontarla, la verità, in un modo o nell'altro. Come scriveva lo stesso Pasolini in Il romanzo delle stragi: “Io so. Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato golpe (e che in realtà è una serie di golpes istituitasi a sistema di protezione del potere). Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969...”. E della verità, il film, racconta fatti e nebbie, quasi a spronare chi sa poco a sforzarsi di sapere di più. 16 nomination al David di Donatello. scheda tecnica durata: 129 MINUTI nazionalità: ITALIA anno: 2012 regia: MARCO TULLIO GIORDANA soggetto: MARCO TULLIO GIORDANA,STEFANO RULLI sceneggiatura: STEFANO RULLI, SANDRO PETRAGLIA, MARCO TULLIO GIORDANA fotografia: ROBERTO FORZA montaggio: FRANCESCA CALVELLI colonna sonora: FRANCO PIERSANTI scenografia: GIANCARLO BASILI costumi: FRANCESCA SARTORI distribuzione: 01 DISTRIBUTION interpreti: VALERIO MASTANDREA (Il commissario Luigi Calabresi), PIERFRANCESCO FAVINO (Giuseppe Pinelli), MICHELA CESCON (Licia Pinelli), LAURA CHIATTI (Gemma Calabresi), FABRIZIO GIFUNI (Aldo Moro), LUIGI LO CASCIO (Il giudice Paolillo), GIORGIO COLANGELI (Federico Umberto D'Amato), OMERO ANTONUTTI (Giuseppe Saragat), THOMAS TRABACCHI (Il giornalista Marco Nozza), GIORGIO TIRABASSI (Il Professore), FAUSTO RUSSO ALESI (Guido Giannettini), DENIS FASOLO (Giovanni Ventura), GIORGIO MARCHESI (Franco Freda), ANDREA PIETRO ANSELMI (Guido Lorenzon), SERGIO SOLLI (Il Questore Marcello Guida), ANTONIO PENNARELLA (Il Brigadiere Vito Panessa), STEFANO SCANDALETTI (Pietro Valpreda), GIACINTO FERRO (Antonino Allegra), GIULIA LAZZARINI (La madre di Pinelli), BENEDETTA BUCCELLATO (Camilla Cederna), CORRADO INVERNIZZI (Il Giudice Pietro Calogero). Marco Tullio Giordana Regista e sceneggiatore italiano, è nato a Milano il 1° ottobre 1950. Nel corso degli anni settanta si accosta al cinema collaborando alla sceneggiatura del documentario Forza Italia! (1977) di Roberto Faenza, mentre il debutto come regista arriva nel 1979 con il lungometraggio Maledetti, vi amerò, presentato al Festival di Cannes e vincitore del Pardo d'Oro al Festival di Locarno. Firma il soggetto di Car Crash (1980) di Antonio Margheriti, e l'anno seguente torna alla regia con La caduta degli angeli ribelli, presentato al Festival di Venezia, con Vittorio Mezzogiorno nei panni di un terrorista in fuga. Nel 1984 adatta per la televisione il romanzo di Carlo Castellaneta Notti e nebbie, in due puntate, incentrato sul personaggio di un fascista che vive a Milano il tramonto della Repubblica di Salò. Torna a dirigere solo tre anni dopo, con Appuntamento a Liverpool (1987), film sulla strage dello stadio Heysel di Bruxelles, quando nel 1985, poco prima dell'inizio della finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool, in seguito agli spintoni degli hooligans, le reti cedettero e nel caos generale morirono 39 persone, di cui 32 italiane, e ne rimasero ferite oltre 600. Anche questa volta l'opera viene proiettata in anteprima a Venezia. Nel 1991 partecipa al film collettivo La domenica specialmente, diviso in quattro episodi (gli altri sono diretti da Giuseppe Tornatore, Giuseppe Bertolucci e Francesco Barilli), dirigendo l'episodio La neve sul fuoco, ispirato ai racconti di Tonino Guerra. Nel 1995 si concentra nuovamente sulla storia italiana con Pasolini, un delitto italiano. Nel 2000 torna al Festival di Venezia con I cento passi, film di denuncia sulla vita e la morte di Peppino Impastato, che vince il premio per la migliore sceneggiatura. Nel 2003 realizza il film per la televisione La meglio gioventù, che ripercorre la storia italiana dagli anni sessanta ad oggi, e che vince la sezione Un certain regard del Festival di Cannes. L'opera (6 ore totali) è prodotta dalla Rai, ma dopo il successo di Cannes viene proposta al cinema, in due parti, con notevole riscontro di pubblico. Nel 2005 presenta a Cannes Quando sei nato non puoi più nasconderti. Nel 2007 realizza un film televisivo in due puntate con una versione cinematografica: Sanguepazzo, la tragica storia della coppia di attori Ferida-Valenti popolari sotto il fascismo e fucilati dai partigiani dopo un processo sommario per la loro conclamata compromissione con il regime, continuata anche dopo l'8 settembre 1943 in adesione alla Repubblica di Salò. Nel 2011 realizza il film Romanzo di una strage dedicato alla strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969 e ai fatti che ne seguirono, fino all'assassinio del commissario Luigi Calabresi il 17 maggio 1972. La parola ai protagonisti Intervista a Marco Tullio Giordana e al cast I processi che si sono succeduti dal 1972 al 2005 hanno evidenziato la sinergia a più livelli tra i neofascisti di Ordine Nuovo e i servizi segreti deviati, senza tuttavia giungere ad una verità giudiziaria soddisfacente, con l'assoluzione di tutti gli accusati, alcuni dei quali, come Franco Freda e Giovanni Ventura, non più processabili perché già assolti per il reato di strage con sentenza passata in giudicato. Marco Tullio Giordana, regista tra i più attenti ai fatti della recente storia italiana prova a dare la sua visione dei fatti con un film, dal titolo ispirato ad un articolo pubblicato nel 1974 da Pier Paolo Pasolini sul Corriere della Sera, che fa appello alla potenza illuminante dell'arte (…). Erano le 16.37 del 12 dicembre 1969 quando una bomba esplose nella filiale della Banca dell'Agricoltura. Morirono 17 persone, altre decine rimasero ferite in modo grave. La pista anarchica fu la prima ad essere battuta, con gli arresti di Pietro Valpreda e Giuseppe Pinelli, salvo poi scoprire alcuni anni dopo l'esistenza di un piano organizzato da cellule dell'Estrema Destra veneta, con il beneplacito dei servizi segreti militari. Puntando su un gruppo di attori di primissimo livello, l'autore milanese, con la proficua collaborazione degli sceneggiatori Stefano Rulli e Sandro Petraglia, ha raccontato quei giorni, dalle indagini condotte dal commissario Luigi Calabresi, alla mai chiarita morte dell'anarchico Giuseppe Pinelli, deceduto in seguito ad una caduta dalla finestra della questura dopo tre giorni di interrogatorio, fino all'assassinio di Calabresi. Giordana, partiamo dal titolo del suo film e dal termine romanzo... È una parola che evoca il titolo del bellissimo intervento di Pier Paolo Pasolini pubblicato sul Corriere della Sera nel 1974. In quello scritto lui affermava di sapere con certezza i 'nomi dei responsabili di quello chiamato golpe, ma di non avere le prove'. Ecco, noi dopo 40 anni abbiamo le prove e possiamo fare i nomi e oggi possiamo dire finalmente 'noi sappiamo'. La strage di piazza Fontana non può essere un punto di domanda e basta, la spiegazione di questa tragedia deve entrare a far parte del DNA di una popolo così come il Risorgimento. Penso soprattutto ai giovani, a quelli che non sanno nulla di questa storia e che non sono aiutati né dalla scuola, né dai genitori, forse schiavi di vecchi preconcetti. Loro hanno il diritto di sapere e un film assolve questo compito attraverso gli strumenti dell'arte, della letteratura e della poesia. L'arte ha uno sguardo lontano che tocca il cuore delle persone. E allora torno alla figura di Pier Paolo Pasolini, che da ragazzo mi ha sempre guidato con la sua intelligenza. E' grazie a lui se noi ragazzi dell'epoca non siamo cresciuti allo sbaraglio. Pasolini è stato esempio di intelligenza poetica prima ancora che politica. Rulli, qual è stato l'aspetto più difficile del vostro lavoro di ricostruzione degli eventi storici? A differenza di film di impegno civile come Salvatore Giuliano di Gianfranco Rosi, in cui si cercava di dire, di portare alla luce tutto quello che veniva nascosto, noi abbiamo avuto il problema opposto e cioè confrontarci con troppe verità che si sono via via sovrapposte. Abbiamo dovuto trovare il senso attraverso gli indizi che avevamo. Fondamentale è stato il lavoro di documentazione svolto dallo scrittore Fulvio Bellini, in particolare nel delineare il rapporto tra il presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat e il ministro degli Esteri, Aldo Moro. Se il primo voleva ricostruire un ordine attraverso una riforma costituzionale drammatica, il secondo cercò di vivere quella tragedia evitando che spaccasse il paese. Giordana, perché è passato tanto tempo prima di girare un film su piazza Fontana? Parlo per me e non a nome del cinema italiano. Io non l'avrei saputo fare prima. Ho dovuto liberarmi da tanti pregiudizi creati da depistaggi che hanno creato vittime inconsapevoli. A 30 anni o a 40 anni non sarei stato capace di girare un film del genere, c'è voluto tempo insomma. Ho dovuto aspettare una certa maturità artistica. Quando si raccontano dei personaggi controversi, bisogna entrare nella loro vita shakespearianamente. Buona parte del film ruota sulla figura del commissario Calabresi... Sono stato interrogato da lui quando occupai il Berchet e ci fece la ramanzina. Mi colpì subito per i suoi modi cortesi. Aveva l'età di mio fratello, era un intellettuale, conosceva Marx e Bakunin. Poi ne avrei visti tanti di poliziotti come lui ma all'epoca era una mosca bianca. Quando lui era in stanza non volavano gli schiaffi. Per questo motivo la scena dell'interrogatorio di Pinelli è così poco cruenta? La ricostruzione esatta non la posso fare, non ero lì, e sono tutti morti tranne il tenente dei Carabinieri Lograno che abita a Torino, forse bisognerebbe chiedere direttamente a lui. Di certo sono sicuro che Pinelli non si sia suicidato. Credo più plausibile che quando Calabresi uscì dalla stanza fosse arrivato qualche ceffone in più e che Pinelli sia caduto. Non credo che lo volessero, è semplicemente successo un gran pasticcio che non hanno saputo affrontare alimentando il mistero con una serie di bugie velenose che sono finite addosso a Calabresi. Pierfrancesco Favino, cosa conoscevi della figura di Giuseppe Pinelli? Conoscevo molte cose per passione di lettura. E poi avevamo molte cose in comune. Quando ho girato il film avevo 41 anni, la stessa età di Pinelli quando morì, ho una famiglia con delle figlie, insomma banalmente eravamo vicini. Sono sempre stato attratto dalle storie che hanno a che fare con la giustizia o l'ingiustizia, quando cioè il sogno di qualcuno viene spezzato. Hai conosciuto la moglie di Pinelli, Licia e le figlie... Un incontro che mi ha toccato profondamente e non era automatico che mi accogliessero bene. Se uno bussa alla porta e dice, salve sono l'attore che interpreta suo marito o tuo padre, possono scattare domande del genere Ma chi sei? Chi ti conosce? E' stato faticoso ed imbarazzante, perché sentivo la grande responsabilità del momento. Al contrario però sono state loro a proteggerci, soprattutto da Licia che è una donna che uno sguardo ti fa capire fino a che punto puoi arrivare. Vedere una famiglia, poi, significa anche vedere il lascito di questa persona. Io credo che un uomo che ha costruito quella famiglia lì non possa essere che una persona perbene. In casi come questo fare questo mestiere ti fa sentire utile, mi piace l'idea di essere quello che ha fatto Pinelli. La strage di piazza Fontana, la tragica morte di Pinelli, è stato lì ad essersi infranto il sogno democratico dell'Italia? Sì. Dal Dopoguerra fino al 1969 c'era la sensazione di appartenere ad un paese in cui la democrazia c'era e i cui governanti erano trasparenti. Poi qualcosa si è rotto. Spesso Marco ci diceva, si vede che siete nati dopo. Noi non l'abbiamo vissuta quella esperienza, ma sono sempre più convinto che la strage di piazza Fontana sia stata il nostro 11 settembre. Valerio Mastandrea, per interpretare il commissario Calabresi invece hai scelto una via diversa, non hai voluto incontrare nessuno della sua famiglia... E l'ho fatto per pudore. In assoluto questo è il ruolo più difficile che ho fatto nella mia carriera, un lavoro che sta continuando anche ora che il film è finito e ancora non so quando si esaurirà questo percorso. Ci sei rimasto male per le parole di Mario Calabresi secondo cui sei stato troppo monodimensionale e poco propenso a sdrammatizzare? No assolutamente, non la reputo una critica cattiva. E poi scene di quotidianità ce n'erano davvero poche, a me interessava soprattutto cercare di capire come potesse agire un funzionario del 1969. Sandro Petraglia: ricordo di aver parlato con Mario qualche anno fa a Torino in occasione della pubblicazione del libro scritto sulla storia del padre e mi aveva confidato di non aver voluto concedere i diritti per un eventuale film perché aveva il timore proprio delle scene di intimità familiare. Ci siamo ricordati di questo aspetto in sede di scrittura e siamo stati attenti in tal senso. Giordana, Mario Calabresi ha parlato anche del film, dicendosi grato a chi lo ha voluto e lo ha fatto, pur sottolineando che mancano dei momenti importanti come la campagna di Lotta Continua contro suo padre... Quando ho letto l'intervista ho provato una profonda compassione per lui, nel senso di soffrire con lui. Nessuno potrà ridargli suo padre e non lo potrà ritrovare in nessun film, non potrà mai essere sereno il suo giudizio davanti alla profonda ingiustizia che ha provato. Ho sofferto con lui perché il padre gli è stato strappato in quel modo e per molti anni è passato come assassino e torturatore. E nello stesso tempo accolgo le sue annotazioni positive come qualcosa di prezioso. Fabrizio Gifuni, anche ricostruire la figura di Aldo Moro non deve essere stato semplice... Sono stato aiutato dalle camicie di Moro che mi sono fatto cucire su misura dal suo stesso camiciaio. Quel collo di camicia più largo, in cui il collo di Moro pencolava con la testa angolata mi è stato più utile di tanti libri. Considero questo ruolo come il completamento di un percorso iniziato dieci anni fa con La meglio gioventù, un racconto che tratteggiava il percorso di trasformazione dell'Italia. Guarda caso mancava proprio il capitolo su piazza Fontana e ora so perché. Naturalmente merita uno spazio tutto suo. Il filo rosso che unisce tutto in questo lavoro è il recupero dell'identità una delle poche cose che ci fa stare in piedi. Recensioni Curzio Maltese. La Repubblica Quel pomeriggio del 12 dicembre 1969 che ha cambiato per sempre l’Italia c’era anche Marco Tullio Giordana in piazza Fontana, uno dei tanti studenti sul tram che porta alla Statale. Un boato, i vetri saltati, i biglietti per aria come coriandoli e la vita di tutti i giorni precipitata in un secondo nell’incubo. La scena autobiografica del tram è per paradosso la più genialmente visionaria di Romanzo di una strage. Soltanto Leone, Coppola o Scorsese sarebbero riusciti in una sola immagine a racchiudere i significati di un evento epocale. Romanzo di una strage è uno dei rari film da vedere per poterne discutere. Da discutere in effetti c’è molto. Non il talento dell’autore di La meglio gioventù e de I cento passi, due fra i film italiani più belli degli ultimi decenni. (...) Quello che si può discutere è la scrittura di Romanzo di una strage. Ci voleva coraggio per fare a distanza di quarant’anni il primo film su piazza Fontana ed è indubbio che Giordana e gli sceneggiatori Rulli e Petraglia ne abbiano avuto. Ma forse ne occorreva una dose supplementare per affrontare un vero viaggio negli orrori dell’eterna guerra civile italiana. Il film è piuttosto legato all’attualità della riflessione politica. (...) alla fine Romanzo di una strage è un film molto personale di un testimone oculare d’eccezione, non un’inchiesta. Quelli sono il Calabresi e il Pinelli di Marco Tullio Giordana, non un’impossibile verità umana sui personaggi reali. Dove invece il film lascia perplessi è nell’estendere il mistero ai fatti storici. Se è vero che i colpevoli sono rimasti impuniti e i processi si sono conclusi con la vergognosa richiesta di spese ai parenti delle vittime, è falso però che non si siano chiarite le responsabilità. A mettere le bombe sono stati gli estremisti di destra, con la regia dei servizi segreti italiani e americani, in vista di un golpe fascista che si sarebbe realizzato se la sinistra avesse vinto le elezioni, come avvenne poi nel Cile di Allende. Nessun mistero, nessuna «doppia pista» bipartisan, a cavallo fra anarchici e neo fascisti, come si ipotizza nel finale del film. Sostenere queste tesi non serve a pacificare gli animi, com’è forse nelle intenzioni di Rulli e Petraglia, ma soltanto a spargere un inaccettabile perdonismo generale. Stefano Cappellini. Il Messaggero Un libro inchiesta di oltre 700 pagine, un film uscito in sala venerdì, un instant book messo on line ieri e furiosamente scritto da Adriano Sofri in pochi giorni. Un argomento comune - la strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969 a Milano, la prima delle bombe che scandirono la strategia delle tensione in Italia, dolorosa e gravida di altri lutti, oltre che impunita – ma tesi molto divergenti. Intorno a questi tre lavori si è infatti scatenata una accesa diatriba storica e politica. Una diatriba rinfocolata ieri dall’imprevisto, e durissimo, intervento di Sofri. Il suo libro, scaricabile gratuitamente dal web, è titolato 43 anni, quanti ne sono trascorsi dalla strage. L’intento principale di Sofri - che a questi temi si è già dedicato in un altro libro di pochi anni fa, La notte che Pinelli - è demolire la credibilità e la scientificità del voluminoso libro inchiesta di cui si diceva all’inizio. Si tratta di Il segreto di piazza Fontana, autore Paolo Cucchiarelli, pubblicato nel 2009 dalla casa editrice Ponte alle grazie. L’inchiesta di Cucchiarelli è stata usata come «libera fonte di ispirazione» per Romanzo di una strage, il film che con respiro epico e un cast di primo livello ricostruisce i tre anni, dal 1969 al 1972, che vanno dall’esplosione della bomba nella filiale della Banca dell’Agricoltura di piazza Fontana all’uccisione del commissario di polizia Luigi Calabresi, che condusse parte delle indagini, omicidio per il quale Sofri, dopo un lunghissimo e contestatissimo iter giudiziario, è stato ritenuto colpevole insieme ad altri tre ex militanti di Lotta continua. In mezzo, naturalmente, la morte dell’anarchico Pino Pinelli (...). Non è però sul caso Calabresi che l’ex leader di Lotta continua si sofferma (...), bensì sulla tesi centrale di Cucchiarelli. Secondo questa ricostruzione, a piazza Fontana esplosero non una ma due bombe. La prima, un ordigno piazzato dagli anarchici, aveva scopi solo dimostrativi e doveva esplodere senza fare vittime. La seconda bomba, messa per uccidere da manovalanza neofascista su mandato di settori dello Stato favorevoli a una svolta reazionaria, poteva così fare il suo lavoro godendo della copertura dell’altra, che permetteva di attribuire ai rossi la responsabilità della strage. «Considero questa tesi insensata», scrive Sofri, che estende il giudizio di rigetto a tutte le sottotrame di cui la ricostruzione di Cucchiarelli è intessuta. (…) L’elenco delle inesattezze che Sofri addebita a Cucchiarelli nelle 132 pagine del suo pamphlet è sterminato. E nella maggior parte dei casi l’ex leader di Lotta continua dimostra per tabulas che la costruzione dietrologica dell’inchiesta sulla doppia bomba è frutto di sviste o di arbitrarie pseudodeduzioni, (...) scambi di persona, omissioni, abuso di fonti anonime nel mondo dell’ultradestra chiamate a confermare i passaggi più oscuri, (…) «una inclinazione alla paranoia», «una visione che immagina il governo del mondo come una cospirazione maligna e occulta di pochissimi», un oscuro intrigo che pervade destra e sinistra in un pasticcio storiografico in cui tutti sono complici e corresponsabili, una tendenza che ha «toni da Codice da Vinci» più che da indagine storica o giornalistica. Paolo Merghetti. Corriere della Sera Per una volta il titolo è davvero essenziale: Romanzo di una strage non confonde le carte in tavola, non depista. Quello che successe in Italia tra il 1969 e il 1972, dall’uccisione dell’agente Antonio Annarumma (19 novembre 1969) a quella del commissario Luigi Calabresi (17 maggio 1972), è veramente «materia romanzesca» tanto è complessa e ramificata. E gli sceneggiatori del film l’hanno raccontata come fosse davvero un romanzo, con i suoi protagonisti e i suoi comprimari, i buoni e i cattivi, i colpi di scena e i momenti riflessivi. Dividendo il tutto in capitoli che aiutano lo spettatore a orientarsi tra i fatti e le supposizioni, tra la «realtà» e la «fantasia». E di questo dovrebbe essere chiamato a parlare il critico, di come la storia di quegli anni è diventata film, ha trovato una forma cinematografica. Naturalmente il compito non è così facile, perché quella materia brucia ancora gli animi (come dimostra l’intervista che Aldo Cazzullo ha fatto a Mario Calabresi) e perché le tante verità scoperte faticano ancora a stare tutte insieme (...). Per questo, viene da supporre, Giordana ha scelto la forma del «romanzo»: per mettere gli esseri umani al centro del film, le persone prima dei fatti. E lasciare i teoremi a chi se ne diletta (almeno fino a un certo punto). I due pilastri su cui regge il film sono evidentemente Giuseppe Pinelli (Pierfrancesco Favino) e Luigi Calabresi (Valerio Mastandrea), l’anarchico e il commissario, divisi dalle idee politiche ma uniti da un certo reciproco rispetto e dalla sensazione (si capisce dal film) di avere a che fare con ambienti meno limpidi e corretti di quel che sono loro stessi. I circoli anarchici danno l’impressione di ospitare più infiltrati e doppiogiochisti che autentici militanti e la questura di Milano non è abitata solo da galantuomini. E per fortuna, non dimentica di sottolineare il film, accanto a Pinelli e Calabresi ci sono due donne diverse per estrazione sociale ma simili per forza d’animo e amore familiare, Licia e Gemma. Intorno a questi due personaggi prendono forma pian piano i fatti e si delineano i comprimari (...). Tre anni che hanno lasciato sull’Italia un senso di sgomento e di impotenza, coerente prodromo a quelli che sarebbero diventati gli «anni di piombo». Questa materia, il film di Giordana si sforza di metterla in ordine e di «spiegarla», organizzandola in capitoletti (...) per aiutarne la comprensione. Per farlo si serve anche di un cast eccellente, che pur inseguendo la via obbligata della mimesi non cade mai nella macchietta o nel cabaret e sa restituire (...) la credibilità e lo spessore della cronaca storia. Correndo però un rischio: quello di razionalizzare troppo i fatti, di renderli intelleggibili e cancellare così l’atmosfera di angoscia e di tensione dell’Italia di quegli anni. Alla fine ti sembra che manchi la complessità del reale, che tutto sia fin troppo semplice e chiaro e che per chiudere la storia di quegli anni il film finisca per cadere nella trappola che aveva cercato di evitare per due ore: quella delle forze oscure. Dopo aver scelto di ricapitolare i fatti senza ricostruire i momenti più controversi per evitare la fantascienza (chi ha messo materialmente la bomba? O le bombe? Come è caduto Pinelli dalla finestra del quarto piano?), il film non sa rinunciare a mettere in bocca al questore degli Affari Riservati D’Amato (Giorgio Colangeli) il più facile e scontato dei discorsi «complottisti». Forse è la spiegazione più vera (...) ma messa così in coda dà l’impressione di una piccola astuzia narrativa che stona col resto del film. Alberto Crespi. L’Unità Esistono film la cui necessità si nasconde nelle pieghe della storia, nella coincidenza con un comune sentire, nella necessità di ricordare. L’Italia è un Paese che elabora con difficoltà il proprio passato. Le classi dirigenti non l’aiutano, spesso tramano per tenerla nell’ignoranza. I film, a volte, combattono questo oscurantismo. Romanzo di una strage rientra in questa categoria. Esistono film che, alla necessità storica, accoppiano la sapienza del racconto, la perfezione dello stile, l’eccellenza di una scuola di recitazione. Una volta li giravano Rosi, Petri, Montaldo, Damiani; li interpretava, molto spesso, Gian Maria Volontè. Sul set di Romanzo di una strage gli spiriti-guida di questi grandi – alcuni, per fortuna, vivissimi – devono essersi aggirati con intenti positivi. È emozionante, ad esempio, vedere Fabrizio Gifuni «ricreare» Aldo Moro con gli indugi, i gesti, l’eloquio alto di quel grande statista; e ripensare a come l’hanno fatto Volontè, in due occasioni (Todo Modo, Il caso Moro), e Roberto Herlitzka in Buongiorno notte di Bellocchio. (...) La parola chiave è «romanzo», mutuata da Pasolini, dal famoso articolo sul Corriere della sera in cui affermava, da intellettuale e poeta, «io so». Noi oggi sappiamo ancora meglio chi ha ordito le stragi di Stato, ma nessuno è in galera per la bomba (o le bombe?) alla Banca dell’Agricoltura. Il «romanzo» di Giordana – scritto assieme ai fedeli Rulli & Petraglia -prevede due protagonisti, Calabresi e Pinelli (Mastandrea e Favino, bravissimi): due uomini che si capivano e forse si stimavano al di là degli opposti schieramenti, poliziotto il primo, anarchico il secondo. E un coro che li sommerge entrambi, fatto di uomini di Stato fedeli (pochi, Moro in primis) e deviati (parecchi), di manovalanza fascista veneta (fortissimi e ripugnanti i ritratti di Freda e Ventura), di servizi segreti decisi a tutto per fermare il «comunismo». Calabresi e Pinelli sono due sconfitti, quindi due eroi tragici, ma c’è un sottotesto potente nel film. Sta nascosto nella sequenza in cui i fascisti, dal golpista Borghese in giù, vedono in tv i funerali delle vittime ih piazza del Duomo e capiscono, senza dirlo, di aver perso. (...) Gianni Barbacetto. Il Fatto quotidiano Gerardo D’Ambrosio, il giudice istruttore che indagò a Milano sulla morte del ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli e sulla “pista nera” per la strage di piazza Fontana, ha letto tutto d’un fiato il nuovo libro di Adriano Sofri. “Questa volta Sofri ha proprio ragione”, dice (…) “perché il libro di Cucchiarelli è pieno di balle enormi, ripropone e cuce insieme elementi e ipotesi che noi avevamo già escluso dopo le nostre indagini: le responsabilità nella strage dell’anarchico Pietro Valpreda, ma anche di Pino Pinelli”. Tesi centrale del libro di Cucchiarelli, la doppia bomba: “Una intenzionata a fare il botto”, sintetizza Sofri, “l’altra a fare morti”. La prima, dimostrativa, messa il 12 dicembre 1969 nel salone della Banca nazionale dell’agricoltura da Valpreda, la seconda dai fascisti con la copertura dei servizi segreti. (...) “Ipotesi aberranti”, conferma D’Ambrosio. “Quella di Cucchiarelli è la riproposizione quarant’anni dopo della teoria degli opposti estremismi. Che noi magistrati di Milano non volemmo seguire: e allora ci scipparono l’inchiesta, mandandola più lontano possibile, a Catanzaro”. “No, non c’era anche una miccia, nella bomba di piazza Fontana. Ma ve lo vedete, l’anarchico con i capelli lunghi che entra in banca e accende la miccia (che fa luce, fumo e puzza) e poi esce tranquillo? C’era un timer, questo sì, uno di quelli che noi scoprimmo comprati personalmente a Bologna dal neonazista Franco Freda. È una falsità assoluta anche la storia dei due taxi. Il secondo di cui parla Cucchiarelli era quello, preso in via Cappuccio, non da un sosia di Valpreda (Claudio Orsi, dice, ma il suo alibi fu verificato!), bensì da una fotomodella ventitreenne, Gunhild Svenning che, come scrive Sofri, andò in banca a cambiare un assegno di 35 mila lire avuto in compenso del suo lavoro. Al tassista Cornelio Rolandi, che aveva trasportato una persona elegante con il cappotto, fu poi fatto riconoscere Valpreda in un confronto all’americana molto discutibile. Il tassista fece pochi metri, da piazza Beccaria a via Santa Tecla. Lì (e non davanti alla banca) aspettò il cliente, che dunque non vide neppure entrare nell’edificio, che era dietro l’angolo. Il tragitto era così breve che certo il trasportato non ebbe il tempo di preparare la bomba: aprire la borsa, estrarre la cassetta metallica, caricare il timer, poi richiudere tutto…”. D’Ambrosio continua: “Ma se tutte le bombe erano doppie, avrebbero dovuto esserlo anche le due trovate non esplose nell’agosto 1969 sui treni: per quelle (come per le altre decine scoppiate nei mesi prima di piazza Fontana) sono stati condannati i neri Franco Freda e Giovanni Ventura”. Anche Pinelli sapeva delle bombe, scrive Cucchiarelli, e ha passato il pomeriggio del 12 dicembre in modi “indicibili”. (“Il film di Giordana se ne guarda”, commenta Sofri, “risparmiandosi così la calunnia postuma”). “Ma è una balla enorme”, insorge D’Ambrosio, che ha processualmente liberato il commissario Luigi Calabresi da ogni responsabilità per la morte dell’anarchico. “Pinelli in questura ha raccontato che cosa ha fatto quel giorno e ha detto la verità. Se ha taciuto di aver incontrato Nino Sottosanti”, spiega D’Ambrosio, “è solo per non indebolire la testimonianza che questi aveva appena fatto in favore di un anarchico. Alla fine, condivido il giudizio di Mario Calabresi, direttore della Stampa”. (...) Aldo Cazzullo. Corriere della Sera Dall'intervista a Mario Calabresi, figlio di Luigi e oggi direttore de “LaStampa”: «È un film importante per ricordare quel che è stata Piazza Fontana. Era necessario un omaggio alla memoria e a tutte le vittime: i morti della strage; Giuseppe Pinelli; mio padre; e l’ultima vittima, la giustizia. Giordana è stato coraggioso, perché è uscito dalla contrapposizione tra mio padre e Pinelli, che in questi quarant’anni c’è sempre stata; per cui se si faceva qualcosa per papà subito si rispondeva “allora perché non Pinelli?”, e se si diceva qualcosa per Pinelli la replica era “allora perché non Calabresi?”. Il film è sulla linea del presidente Napolitano, che si è impegnato per restituire umanità alle persone, liberandole dalla condizione di simboli, e con questo spirito nel maggio 2009 fece incontrare Licia Pinelli e mia madre. Non è un film buonista, non edulcora la realtà, anzi ha il pregio di mostrare che Pinelli e mio padre facevano due mestieri diversi, erano persone agli antipodi; ma non erano nemici. Romanzo di una strage ha il coraggio della verità storica, che in questo caso coincide con la verità giudiziaria: mostra chiaramente che mio padre non era nella stanza quando Pinelli cadde. E sfata alcune leggende nere: il segno del “siero della verità” era la flebo infilata dai barellieri nel braccio di Pinelli; il ”colpo di karaté” era l’ematoma lasciato dal tavolo dell’obitorio; le dicerie sull’”uomo della Cia” nascono da un errore più o meno voluto, un caso di quasi omonimia con Calabrese, funzionario di collegamento del Viminale a Washington». Queste sono le ragioni per cui Mario Calabresi si dice «grato a chi ha voluto e fatto questo film». Ma ci sono anche ragioni di perplessità. «I due anni terribili della campagna di Lotta continua contro mio padre non ci sono, se non per qualche vago accenno: una scritta sul muro, i fischi al processo. Ma se nascondi quella campagna, se non metti in scena il clima del tempo, il linciaggio, la disperazione, si fatica a capire perché sia stata condannata Lotta continua. La morte di mio padre sembra legata solo ai suoi sospetti sulla destra (...). In realtà, l’idea che fosse stata la destra a mettere la bomba mio padre l’aveva chiarissima fin dall’inizio. (..) Mio padre si sentiva seguito, pedinato. Si doveva nascondere. Con mia madre non potevano più andare al ristorante, al cinema lei si sedeva e lui si chiudeva in bagno fino a quando non si spegnevano le luci… (…) Se lo Stato ha una colpa, è aver lasciato mio padre solo, aver permesso che diventasse un simbolo. Nel film sembra che mia madre fosse contraria a denunciare Lotta continua. Non è così. Mia madre non voleva che suo marito portasse avanti il processo da solo. Gli diceva: “Tu sei un funzionario del ministero degli Interni, è il ministero che deve fare la denuncia, altrimenti tutto si scaricherà su di te”. Infatti è finito lui da solo al centro del mirino». Anche il finale non convince Mario Calabresi. «Ti lascia la sensazione che non sappiamo niente, che non abbiamo né verità né giustizia, che Piazza Fontana resta una nebulosa oscura e chi è andato vicino alla verità, da mio padre a Moro, è stato ammazzato. Invece la verità storica c’è, eccome». Racconta Mario che rivedersi bambino non gli ha fatto alcun effetto. «La ricostruzione della casa dove ho passato i primi anni non mi dice nulla, perché non ho ricordi di quei momenti; mentre Laura Chiatti in effetti mi ricorda un po’ mia mamma da giovane. Ho trovato bravissimo Pierfrancesco Favino, straordinario nella parte di Pinelli. Mentre a Valerio Mastandrea manca almeno una volta una battuta, un sorriso, un tentativo di sdrammatizzare. Mette in mostra i tormenti di mio padre, ma ne fa un uomo a una dimensione. Mia madre mi ha detto: “Gigi era romano, in tutti i sensi; ma nel film non si capisce. Eppure era proprio questo di lui che mi aveva conquistata: Gigi era spiritoso. Sfotteva il questore Guida e il capo della squadra politica Allegra, gli faceva il verso. Nel film invece è duro, tutto d’un pezzo, non sorride mai. No, non l’ho riconosciuto”. Nel film mio padre difende Pinelli; ma nella realtà l’ha difeso molto di più, ci fu uno scontro durissimo con il questore che gli chiedeva di farlo parlare, mentre mio padre era convinto che Pinelli non c’entrasse con la strage, e potesse semmai fornire informazioni su altre persone». Poi, prosegue Calabresi, c’è la questione su chi dovesse avvisare Pinelli. «In Romanzo dì una strage pare che dovesse toccare a mio padre, visto che è lui a rispondere a una telefonata della vedova. Mia madre ha sempre considerato una ferita il fatto che Licia Pinelli non fosse stata avvertita, e lo disse già allora. Mio padre le rispose che il questore aveva la responsabilità di mandare qualcuno ad avvisare la vedova. C’è una discrepanza anche nella scena del ritorno a casa, dopo la morte di Pinelli. Era quasi mattina. Nel film mia madre accenna a quello che hanno detto alla radio, e mio padre risponde “beati loro che sanno quel che è successo”. La realtà è diversa. Mio padre era distrutto, disperato. Sedeva sul letto con le mani tra i capelli e ripeteva “è terribile, non è possibile”. Mi ha raccontato mia madre che quella sera si misero a pregare. E lei presagì che era tutto finito. Glielo disse proprio: “Gigi, ti rendi conto che questa è la fine anche per te?”». Ma la frase mancante che ha fatto più male a Gemma Capra è l’ultima. «Il giorno in cui fu ucciso, mio padre uscì di casa ma tornò indietro per cambiare la cravatta — racconta Mario —. Nel film è una scena di goliardia, da vita quotidiana. Mastandrea si toglie la cravatta rosa per metterne una bianca, la Chiatti lo prende in giro, dice che sono orrende tutt’e due. Il vero dialogo fu molto diverso. Mia madre chiese il motivo del ripensamento, visto che entrambe le cravatte gli stavano bene. E mio padre rispose, serio: “Gemma, metto la cravatta bianca perché è il simbolo della mia purezza”. Mamma considera quella frase una sorta di testamento. Sono le ultime parole che le disse suo marito. Con il tempo si è convinta che lui presagisse la morte. Ripensa a quella frase da tutta la vita, come se suo marito avesse voluto dirle: “Tireranno fuori cose terribili su di me, ma tu sappi che la verità è questa”. Nel film ci sono molte scene importanti (...) ma purtroppo le ultime parole di mio padre non ci sono». Adriano Sofri, brani tratti dal libro online 43 anni Del film, a me interessa qui l’attinenza con la realtà. Un film di tale impegno, perfino indipendentemente dalla sua qualità, è destinato a far testo sulla vicenda che racconta. Per questo ne scrivo. E anche perché il film si dichiara “liberamente ispirato” a un libro nel quale i “riferimenti a fatti e persone reali” sono spaventosamente “inesatti”. Gli autori hanno voluto segnare una distanza dalle tesi particolari del libro, e del resto il film se ne è discostato su punti essenziali. Il libro sostiene che Valpreda andò a deporre una bomba, benché nelle sue intenzioni solo dimostrativa, nella banca di piazza Fontana. Che Pinelli era a parte di un progetto di attentati simultanei, benché nelle intenzioni solo dimostrativi, e intervenne quel pomeriggio nel loro svolgimento. Che Calabresi era nel suo ufficio quando Pinelli ne fu defenestrato, e forse fu lui a “metterlo nell’angolo con impeto”. Il film ha ripudiato queste opinioni. Tuttavia in una scena finale – la più arbitraria, ai miei occhi: quella del dialogo fra Calabresi e il capo degli Affari Riservati, D’Amato – il film ha mantenuto la tesi principale sulla quale il libro è costruito, secondo cui nella strage della Banca Nazionale dell’Agricoltura, e negli altri attentati che la accompagnarono e la precedettero, si attuò una strategia della estrema destra eversiva e degli apparati segreti italiani e stranieri consistente nel “raddoppiare” tutto: due bombe, due borse a contenerle, due attentatori. Uno anarchico, l’altro fascista. Uno intenzionato a fare il botto, l’altro a fare morti. Considero questa tesi insensata, e nelle pagine che seguono lo argomenterò. Il film, avendo conservato questa tesi e avendola – grazie al cielo – spogliata dell’attribuzione agli anarchici delle bombe “innocue”, l’ha resa gratuita, dunque ancora più assurda: bombe d’ordine o parafasciste che “raddoppiano” bombe fasciste. Il libro uscì nel 2009, si intitola Il segreto di Piazza Fontana (Ponte alle Grazie), l’autore è Paolo Cucchiarelli. Offriva “finalmente la verità sulla strage”. Nella riedizione del 2012 viene promosso come “il libro che ha ispirato il film”. Alla luce del film finito (ha avuto infatti una lavorazione travagliata) la fascetta pubblicitaria sulla ristampa dovrebbe dire piuttosto: “Il libro che non ha ispirato il film” – salvo quel tic del Raddoppio universale. Quando il libro uscì, era così pieno di errori di fatto e di interpretazioni oltraggiose che preferii ignorarlo, benché una gran pagina sul Corriere della Sera ne lanciasse sconsideratamente la rivelazione: «Due borse, due bombe…». Ho cambiato idea. Dopo il lancio del film, persone stimabili e autorevoli, ma ignare, sono state indotte a raccomandare le scoperte del libro. Corrado Stajano. Corriere della Sera (…) La città, la società, nel film di Giordana, sono assenti, come le atmosfere di allora. Non c' è traccia del conflitto tra innocentisti e colpevolisti, profondo, e neppure dei tentativi appassionati dell'altra Italia alla ricerca della verità, diversa da quella ufficiale. Ci sono molti buchi nel racconto. Non si sa quasi nulla di Pietro Valpreda, il predestinato capro espiatorio della tragedia. Non sono sufficienti, poi, quei ritagli del giornale e poche scritte sui muri per rendere l'ossessiva campagna denigratoria di Lotta Continua contro Calabresi accusato di essere l'assassino di Pinelli. Il film gioca di continuo, pericolosamente, tra realismo e finzione. È «liberamente tratto» dal librone di Paolo Cucchiarelli, Il segreto di Piazza Fontana, ambiguo, con fonti non verificabili. Moro, il ministro degli Esteri di allora, impeccabilmente interpretato da Fabrizio Gifuni, ha una parte sovrabbondante, un jolly utile per raccontare ciò che serve, ma chi visse il dramma della strategia della tensione non fu mai a conoscenza di quella scelta così progressista di Moro, del suo misterioso dossier che svelava il carattere golpista e neofascista della strage, mostrato a Saragat. Nel film, Federico Umberto D'Amato, a capo degli Affari riservati, offre a Calabresi di diventare il suo braccio destro al Viminale e fa assurde rivelazioni che ancora una volta stravolgono quel che si sa dagli atti dei processi, dalle inchieste, non poche, di quegli anni. Un altro scoop, poi: furono due i taxi e due le bombe scoppiate in quel tragico buco della banca. Una rossa, gentile, solo per spaventare un po' , portata da Valpreda; e una nera, per uccidere e dare avvio allo stato di emergenza, portata da Sottosanti, il sosia. La fonte? Cucchiarelli, a pag. 641 del suo libro. Di nuovo i doppi estremismi, le piste rosse e quelle nere. Un gran garbuglio reso ancor più fosco mezzo secolo dopo, tra mister X, legionari e spioni, trafficanti di armi e di esplosivi, la Grecia dei colonnelli, gli infiltrati ovunque, i partiti, tutti, informati e silenti, gli uomini dello Stato dal doppio o triplo gioco. I ragazzi che non sanno cosa sia successo nel pomeriggio di tanti anni fa in quella banca di Milano, vicina all'Arcivescovado, non avranno da questo film lumi per capire. Giustizia non è stata fatta. Lo Stato non ha avuto la forza e il coraggio di processare se stesso. Dopo 11 processi di condanna, 4 giudizi in Cassazione, apposizioni del segreto politico-militare, la serranda della legge è calata il 3 maggio 2005: tutti assolti, strage senza colpevoli, i parenti delle vittime condannati a pagare le spese di giudizio. La verità storica e politica, a ogni modo, è chiara. Sono ben documentati, con le responsabilità della destra neofascista veneta, le complicità e i depistaggi dei servizi di sicurezza e soprattutto dell'Ufficio Affari riservati. Peccato, bisogna dirlo con amarezza, che in questo smisurato film un po' asettico non si ritrovino né la passione né le emozioni di quegli anni infuocati.