Uomini Senza Frontiere

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Uomini Senza Frontiere
15 febbraio 2015
Uomini Senza Frontiere
“Sto imparando che nella vita bisogna andare ALDILA’ delle
cose che ci possono
sembrare ovvie, bisogna andare ALDILA’ dei
pregiudizi, bisogna andare oltre le differenze e le divisioni e
questo ci permetterà di comportarci
da persone umane
nei confronti dell’altro, nei confronti del diverso da noi!”
di ANDREA ZOANNI
“Angelo caro, come stai? Dove sei stato
ultimamente?” gli chiedo abbracciandolo. “Io sto
bene, grazie e tu? Vengo dalle zone dell’Ebola!” mi
risponde ricambiando l’abbraccio. Resto attonito,
lui comprende e mi chiede se ho avuto paura del
contatto; io con sincerità gli rispondo “nemmeno
per un attimo”, ma di rimando mi confida di sentirsi
quasi un “discriminato perché infetto” e che una
sua collega di Bologna ha avuto una petizione
condominiale di non gradimento per il suo ritorno a
casa, dopo aver trascorso più di un mese in Africa.
“Mai provata una situazione di questo genere”, mi
dice tra lo sconsolato e l’arrabbiato.
Inizia così, col botto, un colloquio durato oltre un’ora,
avvenuto qualche giorno prima di Natale nel
parcheggio della stazione ferroviaria del mio paese,
ove ci siamo dati appuntamento per scambiarci
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gli auguri, ma anche per organizzare qualcosa
insieme, come ogni tanto facciamo conoscendoci
da tempo e abitando ora nello stesso comune.
44 anni, comasco, Angelo Rusconi è appena
tornato dalla Sierra Leone, dalla Nuova Guinea e
dalla Liberia per una emergenza umanitaria. Mi
corregge: “una catastrofe umanitaria”, così va
definita la peggiore epidemia di Ebola della storia.
Le statistiche non danno l’idea della dimensione
tragica di ciò che sta avvenendo nell’Africa
occidentale: sono comunque 6.000 i morti in pochi
mesi, 15.000 gli ammalati; intere comunità sono
state distrutte. Dati sempre in crescita, ovviamente.
Suona il cellulare, da casa mi reclamano, in effetti
avevo comunicato di essere arrivato in paese. Poi
succede che quando inizi un discorso coinvolgente
e in piacevole compagnia rischi di perdere la
misura del tempo, che vola via. Allora decidiamo di
riprendere la conversazione a gennaio sotto forma
di intervista, per lasciare una traccia.
Il tempo dedicato a questo lavoro mi ha ricordato il
titolo di un libro che spiega la filosofia alle
elementari: “Le domande sono ciliege” (senza la
terza i). L’intervista è sostenuta, ma veramente mi
sono accordo quanto una domanda tiri l’altra,
come appunto capita quando si mangiano in
continuo quei gustosi frutti rossi.
L’intenzione di Angelo e mia è quella di dare senso
a queste parole, perché nella vita non si è mai
appreso abbastanza e l’ascolto o la lettura possono
essere uno strumento importante per crescere. Una
crescita non economica ma della coscienza di sé e
delle proprie responsabilità, di come decliniamo la
nostra cittadinanza.
Se è vero che i tratti distintivi della nostra
personalità non ci abbandonano mai, è anche vero
che la cultura è una, inesauribile e a più facce; è
l’insieme degli strumenti che l’umanità ha
elaborato per pensare in quale modo comprendere
il mondo. A noi spetta il compito di come
interpretare questa cultura, ovvero quale mestiere
vogliamo scegliere.
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L’ organizzazione
Angelo (che nella vita di ogni giorno si occupa di
sicurezza sui cantieri edili) non è un medico bensì
un “logista” di Medici Senza Frontiere, spesso uno
dei primi ad arrivare sui luoghi delle emergenze.
Quelli come lui forniscono supporto tecnico ai
programmi sanitari, coordinano l’acquisto e il
trasporto del materiale, organizzano la rete delle
comunicazioni, costruiscono o riparano strutture
sanitarie, trovano gli alloggi per il personale.
Dico bene?
“Dopo il terremoto in Kasmir in
Pakistan ho fatto parte del primo
team che si e' recato sul posto
per costruire un ospedale in
Sì certo, il “logista" è colui che deve rendere
possibile l’azione medico sanitaria in qualsiasi
situazione e in qualsiasi parte del mondo. Noi
siamo di supporto al personale sanitario. Dunque,
come dicevi, se necessario adattiamo strutture a
ospedali, oppure costruiamo ospedali di
emergenza e tutto ciò per supportare la
popolazione affetta da guerre, calamità naturali o
carestie.
Nel corso degli anni mi sono occupato anche di
potabilizzazione dell’acqua in situazioni di
emergenza, prendendola dagli stagni e rendendola
bevibile perché l’unica nella zona. Mi sono
occupato anche di sicurezza dei miei colleghi;
come MSF spesso operiamo in contesi instabili,
guerra o post-guerra, perciò in queste situazioni
c’è una persona che si occupa di capire e gestire la
sicurezza di tutto il gruppo mentre gli altri sono
impegnati nelle loro funzioni. Alcune volte ho
anche svolto il ruolo di capo progetto e di capo
nazione.
tende. Nella foto sistemiamo le
prime tubature per portare
acqua all' ospedale”
Immagino ti venga in aiuto la tua esperienza di
rappresentante sindacale in prima linea,
specialmente quando ti capita di trattare con i
“signori” del posto le condizioni migliori per poter
approntare una logistica adeguata, garantendo
sicurezza in loco e continuità di rifornimenti.
Quali sono le principali difficoltà?
E’ proprio così e lo ricordo in tutte le circostanze
che mi viene chiesto. Avendo lavorato in
Afghanistan, Iraq, Somalia, Liberia e altri paesi in
periodi di guerra, la negoziazione è indispensabile.
In tutti i paesi al mondo, eccetto la Somalia, noi
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lavoriamo senza scorta armata, dunque il rapporto
e la negoziazione con i “signori“ del posto è alla
base della nostra sopravvivenza e azione medica
umanitaria.
L’esperienza sindacale mi ha aiutato enormemente
a condurre trattative che parevano impossibili.
L’aggravante sta nel fatto che in queste trattative la
controparte è sempre armata e spesso sotto
l’effetto di qualche droga.
Come sei approdato in MSF? Ci vuoi presentare
questa associazione? Esiste una missione MSF in
Italia?
“Dopo 7 anni senza un bianco a
Mogadiscio capitale della Somalia,
nel 2010 in seguito ad una
grossissima carestia che ha colpito
sopratutto i bambini che ha portato
più di 350.000 persone a Mogadiscio,
ero responsabile del gruppo che ha
aperto un ospedale pediatrico . La
Somalia é stato l' unico paese dove
come MSF eravamo obbligati a
lavorare sotto scorta armata” Medici Senza Frontiere nasce nel 1971 tra un
gruppo di medici e di giornalisti. Il matrimonio non
è casuale, l’idea non è solo di curare la gente a
seguito di guerre, ma è anche di denunciare
violenze e soprusi che generano la mancanza di
rispetto dei diritti umani. Tutto ciò lo si può fare se
come MSF siamo testimoni oculari di tali violenze.
Questo è fondamentale per parlare sempre con
cognizione di causa e senza correre il rischio di
diventare tuttologi che partecipano ai vari talk
show dando opinioni su tutto.
Oggi MSF è la più grande organizzazione medico
umanitaria del mondo, lavoriamo in 70 paesi con
400 progetti. Esiste una sede italiana a Roma e un
ufficio a Milano; siamo uno dei 20 paesi con una
sede di MSF. Personalmente, dopo aver passato
molti anni nel mondo del volontariato in Italia in
diversi settori, ho iniziato a fare qualche esperienza
estiva usando le ferie per andare in qualche
missione, per capire e dare una mano.
Ma ero giunto alla conclusione che non mi bastava
più passare dalla missione e “dare una mano“,
anche se sempre molto gradita. Cercavo un mio
posto, seppur piccolo ma ben definito, dove poter
mettere tutto il mio entusiasmo e la mia energia.
Non volevo più soltanto vedere le tragedie al
telegiornale della sera, desideravo dare il mio
contributo. Insomma, avevo deciso di essere
l’attore principale della mia vita e non un semplice
spettatore. Così, dopo anni e tentativi, per caso
sono approdato sul sito di MSF, ho mandato la mia
candidature con il mio CV e ho fatto le selezioni. In
questo modo è iniziata questa avventura che dura
dal 2002.
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Se ti rammento Carlo Urbani, dove ti porta la
memoria? E il mancato accesso ai farmaci
essenziali? E i drammi dimenticati dai media che
dilaniano intere aree del pianeta?
Beh, ogni volta che risale alla memoria il nome di
Carlo Urbani mi vengono i brividi sulla pelle…
Carlo è stato uno dei primi presidenti di MSF Italia,
ma ancor prima era un medico. Carlo è stato colui
che in Asia ha scoperto e isolato il virus della
SARS, ha mandato a casa la sua famiglia e ha
continuato a lavorarci sopra.
Carlo ha pagato tutto questo con la vita perché si è
infettato, ma ha salvato migliaia di persone.
Carlo ci ha lasciato una eredità grandissima e
prima tra tutte: “Fare questo lavoro con il cuore”.
Una tra le sue frasi più celebri è: “Siamo spettatori
privilegiati dei drammi che affliggono questo
mondo.”
Quando diceva “siamo” intendeva noi di MSF. Con
questo voleva dire che non possiamo chiudere gli
occhi, o rimanere insensibili e non fare niente. In
altre parole, sosteneva quello che ultimamente dice
Papa Francesco: “non globalizziamo
l’indifferenza”.
La memoria mi riporta anche a due campagne che
lo vide protagonista in prima persona.
Carlo fu tra i primi ad intraprendere la battaglia sui
farmaci essenziali, sostenendo che le cure di base
in Africa come negli altri paesi poveri del mondo
dovessero essere alla portata di tutti e non solo di
quelli con la possibilità di pagare. Una battaglia di
giustizia e dignità che ancora oggi tutti noi di MSF
sosteniamo negli angoli più remoti del mondo.
Il medesimo impegno lo sostenne verso le crisi
dimenticate, altra grande battaglia che lo vide
partecipe. In sostanza, Carlo fu spettatore insieme
ad altri di grandissime crisi umanitarie ignorate dai
mass media. Anche in questo caso, MSF ha iniziato
una campagna per fare in modo che i mass media
si interessino di ogni crisi umanitaria, perché il
primo passo per uscire da una crisi umanitaria è
che se ne parli e il mondo non la ignori.
In quanto tempo devi garantire la tua presenza
dalla chiamata di MSF e come funziona la sua
macchina organizzativa?
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La macchina organizzativa di MSF è complessa ma
molto veloce. Dal momento che succede una
emergenza, i responsabili delle risorse umane nei
cinque centri operativi iniziano a chiamare gli
operatori umanitari aventi un profilo che serve a
quella determinata emergenza e nel contempo che
siano disponibili. Questa chiamata riguarda
persone di tutto il mondo che sono nel data base di
MSF e che hanno superato le selezioni.
Da lì, secondo la tua disponibilità e gli aerei a
disposizione si parte nel giro di 12 - 24 ore, al
massimo entro due giorni. E’ il primo gruppo ed
apre la missione, poi a seguire vengono inviate
tutte le altre persone.
Questo riguarda le emergenze, poi ci sono progetti
a medio e lungo termine in cui i tempi sono molto
più lunghi perché la gente sul posto si ferma molto
di più, anche anni e in questo caso si riesce ad
organizzare la partenza parecchi mesi in anticipo.
L’ ebola
“In Liberia in un centro per il
trattamento dell'Ebola, svolgiamo
dei lavori per migliorare la
struttura” C’è una data che ha segnato il 2014. Il 22 marzo, il
Ministero della Salute della Guinea dichiara
ufficialmente lo scoppio di una epidemia di Ebola
che infuria da diverse settimane. MSF lancia subito
l’allarme internazionale e appronta nel giro di pochi
giorni tonnellate di materiale necessario per un
primo intervento; 24 operatori umanitari partono
per predisporre i primi centri di isolamento a
Guéckédou e Macenta. Ma nessuno ascolta.
L’OMS non reagisce e si fa viva solo ad aprile per
smentire l’allarme di MSF, che invece si rivela
determinante per fronteggiare il dilagare
dell’epidemia. 700 operatori umanitari
internazionali, più di 50 italiani, si avvicendano nei
9 centri predisposti. Nonostante sia una malattia
altamente contagiosa e letale, oltre 2.000 persone
curate da MSF guariscono.
Soltanto ad agosto i burocrati della sanità mondiale
si accorgono dell’ecatombe e dichiarano Ebola “la
massima urgenza nel campo della sanità pubblica
dei tempi moderni”.
E’ corretta questa breve ricostruzione? Perché
questi ritardi? Nessuno ha voluto ascoltare l’Africa?
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Ed il tuo ruolo quale è stato, in concreto e sul
campo?
In effetti questi sono i fatti accaduti, il problema è
che si tratta di un copione che si ripete molte volte.
La causa, come dici anche tu, è la burocrazia di
queste organizzazioni che fa in modo che non
siano reattive e non rispondano al bisogno della
gente. La burocrazia ha preso il sopravvento sui
bisogni dei beneficiari. Credo questo sia un male
che possiamo ritrovare in parecchi apparati
pubblici, potrebbe essere paragonato ad una
“epidemia”.
I mass media di norma non riportano i problemi
dell’Africa e dell’Ebola: importava a nessuno, poi
un occidentale è stato infettato… In quel momento
hanno pensato che il problema potesse arrivare da
noi e così si sono allarmati senza averne ragione,
perché non ci sono le condizioni per lo sviluppo di
una epidemia portata dall’Africa in occidente.
E’ stata una psicosi di massa, ma senza capire il
problema e disporre i mezzi sul campo per farne
fronte.
Come detto, per MSF questa è l’epidemia di Ebola
più grande della storia. Dunque anche per noi
“abituati” a lavorare nelle emergenze è stata (e lo è
ancora) una dura sfida. Le epidemie di Ebola
fronteggiate negli anni scorsi erano molto più
piccole e geograficamente circoscritte.
Oggi abbiamo aperto i centri di trattamento
partendo da pochi letti, ma per rispondere alle
esigenze riscontrate siamo arrivati ad averne alcuni
dimensionati su 200 posti letto. Per un centro di
Ebola sono numeri impressionanti, dove tutto deve
essere super controllato, con la maggior parte delle
attrezzature monouso e incenerite per evitare il
contagio.
A me personalmente hanno affidato l’incarico di
visitare tutti i centri di Ebola, decidere quali non
avrebbero resistito altri nove mesi (e dunque
ricostruirli) e prendere tutte le buone idee e le
situazioni che non funzionavano per ritornare in
Belgio.
Nella sede centrale con un team di specialisti
abbiamo riprogettato il nuovo centro di Ebola,
prendendo spunto da tutti gli altri ed elevando gli
standard di sicurezza per il personale sanitario e
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per i pazienti, cercando anche di elevare la loro
dignità in condizioni difficili di ospedalizzazione.
Il nome Ebola evoca qualcosa di lontano. Mi ha
sempre incuriosito la sua etimologia, da dove
deriva?
Ebola è il nome di un fiume in Congo dove nel 1976
è stato isolato per la prima volta questo virus.
Endemico tra i pipistrelli giganti, Ebola ha
attraversato la barriera di specie colpendo un
bambino in Nuova Guinea che, presumibilmente,
aveva mangiato frutta caduta a terra dopo essere
stata morsa da un pipistrello.
Si sa con certezza l’origine dl questo virus? Cosa
significa aver individuato il “paziente zero”?
“Nelle Filippine distribuzione di
materiale da costruzione nelle isole
più remote”
Paziente zero è il primo paziente che ha contratto il
virus, cioè dove tutto è iniziato. In realtà il virus si
trasmette dagli animali agli uomini qualora
mangino la loro carne. Il pipistrello ha la
particolarità di essere un portatore sano, trasmette
il virus ma non si ammala. Mentre lo scimpanzé
contrae il virus e anche lui stesso si ammala e
muore.
Il virus non si trasmette mangiando frutta, anche se
morsa da un pipistrello, per ora non ci sono prove
su questo. Il virus si trasmette mangiando carne di
questi animali, soprattutto se non ben cotta e con
liquidi corporei.
Nei tre paesi più colpiti (Liberia, Nuova Guinea e
Sierra Leone) la reazione della popolazione è stata
violenta. Come era accaduto con l’AIDS, molti
hanno accusato i governi di aver seminato il virus
per colpire i ceti più disagiati. In alcuni villaggi
alcuni volontari che cercavano di informare la
popolazione sulla situazione e sui comportamenti
da prendere sono stati uccisi in modo brutale.
Come si è agito rispetto quello che potremmo
definire un allarme sociale?
Diciamo che all’inizio tutte le condizioni erano
avverse, cercherò di elencarle. Come prima cosa i
governi hanno aspettato molto per dichiarare lo
stato di emergenza, dopo la denuncia di MSF.
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In seguito, le opposizioni politiche hanno
strumentalizzato la questione dicendo che Ebola
era una invenzione dei governi stessi in accordo
con i bianchi, cioè noi di MSF.
Vi è anche da dire che la fonte principale di
trasmissione è la “carne di foresta”, ovvero
pipistrelli, scimpanzé e una specie di scoiattolo.
Sierra Leone, Nuova Guinea e Liberia sono paesi
aventi un territorio in prevalenza fittamente
forestale e la carne della foresta è molto radicata
nella loro cultura, è parte principale della loro
alimentazione. E’ come se un italiano non potesse
più mangiare un piatto di pasta.
Ultimo problema, ma non per importanza, è
l’aspetto religioso. In questi paesi il rito funebre è
rappresentato con il lavaggio del corpo e con lo
spargimento dell’acqua stessa, in segno che una
parte dell’anima del defunto se ne va e una parte
resta con i parenti. Ma come già detto, i fluidi
corporei trasmettono il virus.
MSF sin dall’inizio dell’epidemia ha denunciato la
situazione e le conseguenze che purtroppo ci
sarebbero state nel futuro. Per mesi eravamo una
voce inascoltata e isolata, abbiamo continuato a
informare con i mezzi a nostra disposizione a
livello mondiale. Per questo lavoro abbiamo
persone specializzate dentro l’organizzazione, che
sensibilizzano istanze che nessuno vuole
ascoltare. Questo è parte del nostro mandato
associativo.
L’ignoranza è un ostacolo alla prevenzione.
Costruire la risposta contro l’Ebola è una questione
complessa, non pensi sia questo un tassello
importante? Ci si è prodigati in qualche modo?
Come detto l’ignoranza unita ad una cattiva
informazione hanno determinato uno scenario
molto complicato nei primi sei mesi dell’epidemia.
Raggiungere i villaggi colpiti e fare della corretta
sensibilizzazione in merito al problema è stato
difficilissimo.
MSF ha utilizzato specialisti formati da noi stessi
chiamati “promotori di salute”, che con pazienza e
soprattutto molta tenacia sono riusciti a
raggiungere le comunità. Questi health promoter
all’inizio venivano accolti con molta ostilità o
rifiutati, a seguito della propaganda errata prima
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citata. Ma alla fine si è rivelata la strategia vincente,
la corretta informazione è una delle poche armi per
fermare il virus.
Quali sono i sintomi e la tempistica della malattia?
E la sua evoluzione è sempre infausta oltre che
estremamente dolorosa?
Il sintomo principale è la febbre, con dolore alle
ossa e vomito o diarrea. Poi ci sono tanti altri
sintomi, ma i principali sono questi. Dal momento
che si contrae il virus, si raggiunge l’apice della
malattia in pochi giorni; il decorso è molto rapido
ed è per questo motivo che una trasmissione
dell’Ebola con i profughi via mare non potrebbe
avvenire, morirebbero prima di sbarcare.
Nelle altre epidemie di Ebola il tasso di mortalità
era superiore al 90% ma ora siamo riusciti a
scendere al 60%. In effetti è sempre una
percentuale altissima, ma tenete conto che si è
scesi senza avere un preciso farmaco testato per
curare l’epidemia. Moltissimo c’è ancora da fare
per salvare le vite umane.
Quando un caso sospetto viene confermato cosa
succede? Come ci si organizza? E quando invece
ci si trova di fronte a casi disperati?
“A Mogadiscio assistiamo i profughi” Se un paziente a seguito del test passa da sospetto
a confermato viene trasferito nel reparto
“confermati” e gli viene somministrato un
antibiotico a largo spettro e costantemente
reidratato. Poi i pazienti arrivano al punto critico,
apice della malattia.
Chi riesce a superarlo lentamente si avvia alla
guarigione, altri peggiorano con fortissimi dolori e
alcuni iniziano a delirare perché sembra che nella
fase finale il virus tolga l’ossigeno al cervello. Per
questo i medici danno antidolorifici e tranquillanti
per alleviare i dolori.
In ogni caso è una lotta difficile e quando spesso
avviene è anche una brutta morte.
Mi dicevi del rito funebre, durante il quale per
tradizione tutti toccano il corpo del morto. A ben
pensare anche da noi a volte si hanno consuetudini
molto simili. Considerando la gravità della situazione
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vi è obbligo di cremazione? Essendo altamente
trasmissibile, il contagio può avvenire anche per
via aerea?
Dal settembre scorso la Liberia ha reso
obbligatoria la cremazione. In effetti sarebbe il
sistema più sicuro, ma il problema sta ne fatto che
culturalmente non è molto accettato dalla
popolazione. Anche per questo ci vuole una
fortissima azione dei promotori della salute.
Questo virus è altamente letale ma è poco
resistente, gli epidemiologi dicono che lasciato su
una superficie resiste solo due ore, al confronto
altri virus resistono molto di più. Non è
trasmissibile per via aerea come l’influenza e il
morbillo.
Non esiste un protocollo ufficiale col quale
affrontare la malattia, ciò significa che non esiste
una cura, quanto meno una terapia specifica. Si va
per tentativi. Come mai? E come si interviene?
Quanti sono gli spazi logistici separati nel rispetto
del cordone sanitario?
Esatto, non esiste niente di tutto ciò perché fino al
settembre scorso Ebola non interessava a nessuno
e tantomeno alle aziende farmaceutiche, perché
non era economicamente vantaggioso. Infatti non
era diffusissimo e soprattutto gli ammalati non
erano pazienti da aggredire, in quanto non
appartenenti ad un area ricca. Sembra che presto ci
sarà un vaccino, se fosse così si procederà a
vaccinare la popolazione dei tre paesi.
Finora si sono curate le persone con gli strumenti a
nostra disposizione, prestando molta attenzione
perché di questa malattia fino a non molto tempo fa
sapevamo ben poco. Come logistica abbiamo
cercato di dare il nostro massimo supporto
delimitando le aree di contagio e facendo in modo
che sia tagliasse la catena di contagio all’interno
del centro di Ebola.
Questo riguarda anche la protezione individuale
all’interno dell’area ad alto rischio, il trattamento
delle acque chiare da disinfettare con il cloro, delle
acque scure per evitare il contagio e anche la
distruzione di tutti i rifiuti tramite inceneritore.
Insomma, è un lavoro imponente, complicato e
costosissimo.
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Alcuni definiscono Ebola la “morte gialla”, per via
del colore delle tute protettive. La vestizione/
svestizione è un fatto collettivo e dura molti minuti.
Come si sta dentro quella tuta ingombrante e un
poco strana?
“Dopo it tifone Yolanda che ha
devastato parte delle Filippine ho
fatto parte del primo team per
Le prime volte ci vuole anche mezzora per vestirsi,
poi ci si prende confidenza. La vestizione è come
un rito, va fatta con la massima attenzione,
neanche un millimetro di pelle può stare scoperto.
Ci sono diversi controlli prima di entrare per vedere
se tutto va bene.
La tuta gialla è la separazione tra la vita e la morte,
come diceva un mio amico “si danza con la morte”.
La sensazione provata mentre si è nella zona ad
alto rischio è strana, difficile da spiegare e penso
che ognuno la viva in modo diverso. In ogni caso è
vietato qualsiasi contatto con i pazienti: lì si tocca
con due paia di guanti.
Allora si è sviluppato quello che in MSF si chiama
l’Ebola Spirit, cioè riuscire a trasmettere il massimo
del calore umano e della vicinanza ai pazienti con
l’unica parte del corpo scoperta che sono gli occhi,
anch’essi protetti da una specie di occhiale
protettivo.
L’uscita dopo la vestizione, anch’essa da compiere
con un preciso protocollo, avviene tirando un
lungo respiro di sollievo. Durante l’ora o l’ora e
mezza che si sta all’interno della zona ad alto
rischio si perdono circa uno o due chili corporei,
dunque all’uscita si è tutti lavati, la tuta gialla non
traspira. E dunque si deve bere un litro e mezzo di
acqua.
portare aiuto ad una provincia.
Nella foto distribuiamo aiuti alla
popolazione”. Le persone che guariscono sviluppano una sorta di
immunità. Cosa succede psicologicamente a
coloro che hanno visto la morte in faccia?
Veramente cambiano volto e comportamento?
Ciò che dici è tutto vero. Si chiamano
“sopravvissuti”, spesso vengono assunti dai nostri
centri per occuparsi dei bambini o di chi non riesce
a bere da solo.
Hai avuto paura qualche volta?
La paura è parte della nostra vita, in realtà ha anche
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una componente buona, tiene alta la tensione e
dunque l’attenzione. Non si deve cadere nel panico,
se lo si ha è meglio andare a casa.
In realtà una sera ho avuto tanta paura. Ero arrivato
in un nostro centro dove pochi giorni prima quattro
nostri colleghi si erano infettati, tre dello staff
locale e un medico europeo. Il giorno di arrivo due
infermieri locali morirono.
Quella sera, andando a fare la doccia, scoprii di
avere tante macchie sul mio corpo. In questi dodici
anni in giro per il mondo mi sono sempre
ammalato, ma questa era una cosa diversa, sapevo
che ogni piccolo segno poteva essere pericoloso.
Pur mantenendo la calma, quella notte mi passò
tutta la vita davanti, la mia compagna, mio figlio,
una moltitudine di episodi e di persone.
Il giorno seguente, il medico mi disse che erano
macchie derivanti da un fungo che si forma usando
la tuta gialla.
Mantieni i contatti con quelle zone? Com’è oggi la
situazione in Africa occidentale?
No, io non tengo rapporti con i progetti, non l’ho
mai fatto in questi anni per non creare confusione a
chi viene dopo di me. In quei luoghi la situazione
sembra in lento miglioramento, ma con l’Ebola non
si è mai sicuri.
A Conacry, capitale della Guinea, per tre volte il
centro di Ebola è rimasto senza pazienti e si stava
pensando di chiuderlo: la settimana dopo erano
ricoverate più di 150 pazienti. Anche dal punto di
vista epidemiologico si sa poco sulla propagazione
del virus.
La rivista Time ha dedicato la copertina dell’anno
agli “Ebola Fighters”. E’ un giusto riconoscimento
a tante persone che rischiano la vita per il
prossimo, ma l’attenzione ad un singolo evento
non dura all’infinito e non è detto che la caduta
della stessa significhi la fine dell’emergenza.
Se le strutture africane sono arretrate e carenti,
anche le azioni delle organizzazioni umanitarie
potrebbero non essere sostenibili così
intensamente per lungo tempo.
A tuo parere, è più prevedibile uno scenario che
veda l’arresto dell’epidemia in tempi brevi, oppure
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un allargamento della stessa oltre il raggio attuale
con conseguenze finora poco immaginabili?
Onestamente è difficile fare una previsione per il
motivo che citavo sopra, l’esperienza su questo
virus è limitata. La cosa certa è che per fortuna ora
l’informazione e la prevenzione sono a pieno
regime nei tre paesi.
Come detto, si spera che nei prossimi mesi inizi
una campagna di vaccinazione e questo dovrebbe
essere un gran passo in avanti. Di certo l’impegno
di MSF rimarrà al massimo livello, negli ultimi mesi
si è riusciti a coinvolgere altre organizzazioni
mediche a cooperare nella lotta contro l’Ebola.
Auguriamoci di riuscire a debellare il virus nel
corso del 2015.
Presente e Futuro
Abbiamo detto che questa non è una epidemia
come le altre, ma che anche l’Africa non è un
continente come gli altri. I mezzi di cui dispone per
fronteggiare ogni tipo di emergenza, anche la più
piccola, sono scarsi. L’Africa è vulnerabile e
l’immaginario dell’uomo occidentale fa il resto:
lasciamo che seppellisca i suoi morti e restiamone
fuori, per quanto possibile. Questo atteggiamento
“pilatesco” di norma vale in ogni situazione, dalle
catastrofi naturali a quelle causate dall’uomo, dalle
epidemie alle carestie, dalle guerre ai genocidi.
Però la coscienza dell’Africa favorirà una positiva
evoluzione del continente, oppure le sue politiche,
le sue culture, le sue religioni saranno un freno a
ciò? L’Africa non è un soggetto alla pari sulla
scena internazionale, il business planetario la farà
da padrone ancora una volta?
Il discorso sul futuro dell’Africa basato su diversi
scenari geopolitici prenderebbe parecchie giornate,
di certo è che oltre ai percorsi culturali e religiosi
che gli africani devono percorrere (certamente non
facili e veloci) l’influenza di molti stati e la presenza
di grosse aziende e colossi finanziari, che in Africa
da sempre fanno sporchi affari, rallentano e in
molti casi annullano lo sviluppo di quel continente.
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Chi frequenta regolarmente quella terra
meravigliosa ha però l’impressione che il business
planetario dominerà ancora, perché il potere del
denaro è immenso.
In una intervista di pochi giorni fa, alla domanda
sulla sua vita da nomade, un illustre scienziato
italiano ha risposto in questo modo: “Girare il
mondo è bello, peccato però che dall’Italia escano
menti preziose. Ma arrivano in barca giovani
africani, fra loro ce ne sono sicuramente di brillanti
per rimpiazzarle.”
Quando penso al “mondo di mezzo” e a “mafia
capitale”, ove ci si arricchiva anche speculando sui
profughi disperati, intascandosi i finanziamenti a
loro dedicati, oso pensare come soluzione alla
“pena capitale”! Quali pensieri ti sovvengono
pensando all’immigrazione, ai clandestini e al
traffico odierno di vite umane?
“In Indonesia dopo lo Tzunami
visitiamo villaggi finora inaccessibili
per portare i primi soccorsi” L’ I m m i g r a z i o n e è u n t e m a m o l t o a t t u a l e ,
sicuramente molte persone che delinquono in Italia
sono straniere, ma d’altro canto le persone che
arrivano sulle nostre coste in questo momento
fuggono dai loro paesi in guerra. Inoltre non
dimentichiamoci che noi italiani siamo stati tra i
primi emigranti nel mondo. Al di fuori dell’Italia c’è
un'altra Italia come numero di persone.
Pensando all’accaduto della tua collega bolognese
cui dicevamo all’inizio, ciò che hai provato al
rientro in Italia non lascia spazio a pensieri proprio
positivi. Cosa puoi dire in proposito? Li ritieni
atteggiamenti istintivi o sono riflessi condizionati?
Diciamo che pur rimanendo sorpreso dalla
reazione della gente, soprattutto le prime volte, non
ho portato rancore e ci ho dormito la notte. Da un
lato pensavo ad una reazione normale di fronte a
qualcosa che la gente non conosce, da un lato
ancora una volta sono rimasto sorpreso e
sconcertato da come la televisione abbia una
grossa influenza a tratti totale sulla gente.
Pochi approfondiscono le notizie che sentono alla
televisione e seppur tutti si dichiarino liberi di
pensare quello che vogliono in realtà fanno proprie
le psicosi che la televisione comunica. Tutto ciò è
molto triste.
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Ogni tanto penso che abbiamo più paura per noi
che per loro. Anche nel caso dell’Ebola. Nel mio
cassetto, al lavoro, conservo un flaconcino
antibatterico regalatomi tempo fa, quando l’isteria
collettiva del dopo 11 settembre aveva partorito il
timore che saremmo tutti morti di antrace
recapitataci per via postale.
Oggi alcuni temono un potenziale attacco
terroristico islamico perpetrato con il virus
dell’Ebola introdotto nel corpo di untori kamikaze a
spasso per le capitali dell’occidente e votati al
sacrifico supremo. E’ tecnicamente possibile?
Diciamo che siamo entrati tecnicamente nell’era
dove la realtà supera la fantasia. Detto questo, nel
mio piccolo cerco di non vivere con una sorta di
paura costante nell’approccio della vita e delle
cose. E’ naturale ci si pensi, ma dovremmo
sforzarci di accettare le varie sfide, sempre con
attenzione e non superficialità.
“A Mogadiscio abbiamo organizzato
assistenza alla popolazione nei
campi profughi” I recenti episodi di Parigi hanno quasi superato la
domanda precedente. Io penso che la libertà di
pensiero sia il valore più grande, ma
personalmente intendo libertà come responsabilità
e non come licenza di fare ciò che si vuole. Ma
sono questioni talmente complesse e frammentate
che non si possono ridurre in poche parole. In ogni
caso credo non si debbano giustificare episodi di
intolleranza, verso i quali si deve porre rimedio.
Ci sono però anche notizie positive, come la
liberazione di Greta e Vanessa, sicuramente
qualcosa di emozionante e assolutamente non
scontato. Pur essendo cosa diversa dalla vostra
competenza e professionalità, anche loro
volontariamente hanno cercato di soccorrere i
bisognosi, identificati nei bambini siriani da aiutare
nel loro paese martoriato. Quali pensieri ti ha
suscitato il loro ritorno a casa?
So bene di che si tratta quando si parla di
fondamentalisti musulmani. Sommando il tempo di
varie missioni ho trascorso più di due anni in paesi
fondamentalisti. Detto ciò, penso tu riassuma bene
il concetto di libertà. Il fondamentalismo, a
qualsiasi religione appartenga, è un gravissimo
male e va fermato. Per un fondamentalista se pensi
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sei un individuo pericoloso, lui combatte la
coscienza individuale degli altri, le idee e la critica
non sono ammesse. Dunque ogni atto di violenza
riconducibile al fondamentalismo, in questo caso
musulmano, va ripudiato.
Ma per onor del vero, personalmente penso che
prima di tutto dovrebbe esserci il rispetto e in
questo caso della religione altrui e di qualsiasi idea
o credo altrui. Dunque mi dissocio dalle vignette
satiriche che vogliono essere espressione di
libertà. Mi spiace vedere affrontare il gravissimo
problema del fondamentalismo islamico dalla parte
meno opportuna se non errata.
Per quanto riguarda la liberazione delle due
ragazze, Vanessa e Greta, sono stato moltissimo
contento. Sì, so cosa vuol dire, anche noi abbiamo
avuto cinque colleghi sequestrati in Siria per
cinque mesi. Sicuramente missioni in paesi così
complessi e pericolosi vanno affrontate con una
certa esperienza e con una organizzazione solida
alle spalle che ti supporta durante la permanenza in
caso di problemi, che non sono mai di poco conto.
Decisamente non in maniera autonoma e senza
cognizione di dove si va ad operare.
Le motivazioni
Max Frisch, grande saggista svizzero, soleva dire
che “Il tempo non ci cambia, soltanto ci dispiega”.
Quante missioni ti hanno visto protagonista?
Ricordo per esempio che sei stato in Niger, un
paese non in guerra ma tra i meno sviluppati al
mondo; in Indonesia per lo tsunami (sono già
passati 10 anni) ove l‘eccesso di donazioni lo
avevate dirottato verso calamità che fanno meno
audience; in Somalia, che hai definito come il
massimo luogo della disperazione e del nulla; ad
Haiti (e sono 5 anni) altro buco nero del mondo ove
il terremoto distrusse quel poco che c’era; a Gaza.
Cosa puoi dirci in proposito? Trovi analogie oppure
ogni intervento fa storia a sé?
In verità non tengo il conto delle missioni. Nel CV
di Medici senza frontiere sono segnate, ma io lo
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aggiorno una volta ogni due anni. Diciamo che le
emergenze si possono catalogare in macro gruppi:
guerre, post guerre, calamità naturali, carestie,
epidemie. Poi ci sono altri macro gruppi legati a
fattori culturali e/o geografici (Asia, medio oriente e
Africa) e religiosi (popolazioni musulmane oppure
cristiane o fondamentaliste).
Detto questo ogni emergenza è una storia a sé, con
le sue problematiche, la sua gente, le storie di
persone che si incontrano e, per un periodo della
tua vita anche se breve, diventano parte della tua
famiglia.
Alle tragedie ci si abitua, oppure è sempre come se
fosse la prima volta? C’è spazio per i sentimenti?
Riesci a dimenticare o qualche episodio rimane per
sempre?
“Dopo lo Tzunami visitiamo
pazienti in zone molto remote
per trasportarli in elicottero
all'ospedale” Alle tragedie non ci si abitua mai, ma con il tempo
si deve imparare come affrontarle. Mi spiego: se si
parte si deve andare con la convinzione e
determinazione di poter essere di aiuto, dunque
bisogna saper educare i propri sentimenti.
E’ come simbolicamente mettere un impermeabile
sulla pelle, per non essere troppo coinvolto
emotivamente e poter essere d’aiuto. E’ un po’ la
forma mentale del chirurgo durante una
operazione, concentrato su quello che fa, perché
dal suo operato dipende la vita del paziente.
Certamente ci devono essere spazi per i
sentimenti, sono il valore aggiunto indispensabile,
ma al contempo non deve mancare una
professionalità anche in situazioni particolarmente
dolorose per poter apportare energia laddove la
popolazione locale l’ha persa. La sprovvedutezza
non è ammessa, perché l’imprevisto può sempre
accadere.
Rimangono molti ricordi di molte situazioni e
alcune quando meno te lo aspetti riaffiorano
periodicamente. Specialmente le più dolorose. Ma
questo fa parte della nostra vita e del nostro
destino. E forse ci aiutano anche a non assopirci in
questo mondo.
Sei di origine italiana, europea. Il tuo lavoro ti
permette di interagire con persone e situazioni
senza alcun confine e limite di etnia e territorio.
Come ci si sente e come si è percepiti?
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All’interno dei team di MSF ci sono persone
provenienti da tutte le parti del mondo. Il bello è
vedere dopo un po’ che l’amicizia supera le
differenze di nazionalità o religione.
Quando ritorni “nel nostro mondo”, ove la tua
famiglia ti attende, sei in pienezza di te stesso? E,
viceversa, quando vai “nell’altro mondo”, cosa ti
manca?
Sono le due parti della stessa vita. Quando sono di
là del mondo mi manca la mia famiglia, quando
sono di qua mi mancano cose dell’altra parte.
Con Roberta e altri amici sei “complice” anche in
“Poilon”, una onlus che contribuisce alla
trivellazione in Kenia del deserto del Turcana, alla
ricerca di acqua per i villaggi locali. Ci parli un
poco anche di questo progetto?
Questo è il nostro piccolo hobby. Quando abbiamo
iniziato a collaborare con MSF ci siamo accorti che
c’erano piccoli progetti che rimanevano fuori dai
grandi giri di finanziamenti. C’erano persone,
spesso missionari religiosi, che vivevano da
decenni in quelle zone e avevano bellissime idee e
progetti, con grande riconoscimento del territorio e
delle persone.
Così abbiamo pensato di fondare una piccola onlus
che permettesse a questi missionari di realizzare
progetti in favore della popolazione.
Attualmente sosteniamo la trivellazione di pozzi nel
deserto del Turkana in Kenia, sosteniamo un
ospedale pediatrico in Sud Sudan, l’unico della
regione, sempre in Sudan sosteniamo un gruppo di
ammalati di Aids che fa attività agricole e di
pescicoltura in ultimo manteniamo un asilo in
Guinea Bissau. Nel corso di questi dieci anni
abbiamo sostenuto progetti e persone che
incontravamo direttamente nelle varie missioni.
Chi fosse interessato può visitare il sito
www.poilon.it
Tornando allo scienziato (Carlo Rovelli) e alla sua
intervista, vorrei proporti un’altra riflessione,
andando verso la conclusione di questo incontro
arricchente.
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Rispondendo a domande sull’esistenza di Dio e
sulla diffidenza per la scienza di una parte della
cultura contemporanea, risponde così: “Sono
convintamente e serenamente ateo. (…) In Italia la
diffidenza è certamente più accentuata che altrove.
(…) Come dice il Vangelo di Matteo, nessuno può
servire due padroni: o la Verità è rivelata, oppure la
cerchiamo attraverso la nostra ignoranza, con la
limitatezza della nostra ragione.”
Parimenti, Dionigi Tettamanzi arcivescovo emerito
ambrosiano, nel costituire il “Fondo Famiglia
Lavoro” disse che “La vera solidarietà non è una
concessione a chi è nel bisogno, bensì la
realizzazione più piena e umanizzante della
giustizia.”
Quali sono le motivazioni che ti impegnano in tutte
queste attività?
“Nelle Filippine abbiamo fatto una
distribuzione di 4000 tende per chi
aveva perso la casa. Nella foto
montiamo le tende” Sono quasi 30 anni che penso alle motivazioni e
nel corso di questi anni sono andato via via
modificandole e rielaborandole, sempre partendo
dal denominatore comune iniziale, un forte
desiderio di andare verso gli altri.
Fondamentalmente mi reputo molto fortunato e
potrei sintetizzare così il pensiero, forse in maniera
un poco semplice ma credo chiara: è come passare
dal bar e qualcuno ha già pagato il caffè per noi e
noi torneremo al bar per pagare un caffè per
qualcun altro, probabilmente che non
conosceremo e preferibilmente senza farlo
sapere…
Cosa intendo dire in questo nostro momento
storico al di la della crisi? Che noi viviamo bene,
nel passato c’è stata gente che ha fatto grandi cose
per noi e parecchi hanno dato anche la vita perché
noi vivessimo così ora. Credo non sia più il caso di
parlare di solidarietà o carità, qui si tratta di
giustizia sociale. Qualcuno ha fatto molto per noi e
noi ora dobbiamo fare qualcosa per gli altri. Solo in
questo modo il mondo andrà avanti, almeno credo!
Io penso che Papa Francesco sia il primo pontefice
a non voler vedere il discorso sulla Chiesa
“ridotto” alla sua persona. Anche perché era il
desiderio inattuato del Cardinal Martini, altro
grande Gesuita. Ne sono convinto ogni volta che
viene “tirato in ballo” da chiunque, gratuitamente o
per interessi anche personali.
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Molti lo paragonano a papa Giovanni, a me ricorda
un poco sia un papa recentemente beatificato, che
nelle sue preoccupazioni aveva sempre la
salvaguardia delle fede in purezza e la difesa della
vita umana, sia l’altro papa della mia gioventù,
rimasto al soglio pontificio solo 33 giorni che
disse: “Dio è papà, più ancora è madre.”
Certo il carisma di Papa Francesco è alto e
accogliente, il suo magistero arriva al cuore, ogni
suo pensiero ed azione sono sempre indirizzati ad
immedesimarsi nel prossimo. Però visitando il
mondo anche in luoghi non certo tranquilli, questo
“Pastore di anime” mette sempre a suo modo il
dito nella piaga, tra cui scelgo il “Dio non sia mai
strumentalizzato”.
Tornando al desiderio papale (a mio parere) di non
voler ridurre a se stesso il discorso sulla Chiesa,
permettimi un audace parallelismo: di MSF
conosciamo la storia, ma non conosciamo le
persone. E se vi è qualche eccezione, non si
smentisce questa consuetudine.
E’ una vostra scelta, come se diceste “fatti e non
parole, olio di gomito e non lustrini”, in un’epoca
ove apparire e personalizzare sono diventate
ossessioni mediatiche? Non hai mai pensato di
raccogliere in un libro le testimonianze e le
riflessioni di tutte queste esperienze di vita, tue e
di altri tuoi amici?
No, non l’ho mai pensato e probabilmente un libro
non lo farò mai, non ne sono capace. Come hai
sintetizzato bene tu, nonostante molti problemi, di
MSF mi è sempre piaciuto il concetto di non avere
un capo carismatico bensì un’idea, un sogno, se
vuoi l’utopia di dare dignità a tutte le persone che
non ce l’hanno perché sono vittime di guerre,
carestie e calamità naturali. Queste idee, questi
sogni sono trasversali nel tempo.
Dunque come MSF crediamo nell’informazione e
nei mass media, li utilizziamo per far conoscere
situazioni che altrimenti rimarrebbero sconosciute.
Non siamo ossessionati dalla presenza mediatica e
non abbiamo testimonial come calciatori e attori.
Siamo convinti che debbano essere i fatti a parlare
e non i personaggi da televisione.
Caro Angelo, come sai fa più rumore un albero
quando cade, di una foresta che lentamente cresce.
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Secondo me, fai parte di quella grande moltitudine
di uomini e donne, laici e religiosi, che in
qualunque parte del mondo, anche in Italia, hanno
deciso di ridare dignità alle persone.
Quando penso a ciò mi sovviene sempre una
piccola esperienza vissuta nella Casa pra Niños
discapacitados di Betlemme, una casa che
custodisce bambini gravemente handicappati ove
ho conosciuto Abuna Mario, sacerdote italiano, che
dirige la piccola comunità cristiana ALDILA’ del
muro.
Ci raccontava con una tenacia contagiosa molte
sue esperienze di vita e contemporaneamente ci
invitava a vedere nei corpi dei bimbi deformi il
verbo incarnato di Gesù Bambino. E sosteneva
che c’è più dignità in chi pulisce per tutta la vita il
sedere a una persona bisognosa che in tanti altri
dediti a lavori più roboanti. Non ci parlava di
eroicità ma di santità.
Perché (cito testualmente) “Sto
imparando che nella vita bisogna andare
ALDILA’ delle cose che ci possono
sembrare ovvie, bisogna andare ALDILA’
dei pregiudizi, bisogna andare oltre le
differenze e le divisioni e questo ci
permetterà di comportarci da persone
umane nei confronti dell’altro, nei
confronti del diverso da noi!”
Ma
di per sé
vuote
le parole sono
e vanno riempite di senso. E
nella società dell’io, ove non si è
amici ma complici (Luigi Ciotti parla di
coabitazione tra individui legata, se va
bene, da interessi) qualcuno vi riesce,
altri meno.
A te le conclusioni, che conclusioni non
sono.
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Che pensiero profondo mi hai regalato.
Grazie!
In altre parole anche noi cerchiamo di
andare ALDILA, con il nostro SENZA
FRONTIERE. E’ proprio così, penso siano
modi diversi per esprimere lo stesso
concetto.
Credo che anche in questo momento di crisi
sia arrivato il momento per ognuno di noi di
fare qualcosa di più, se non il doppio, per
questo concetto di GIUSTIZIA SOCIALE. In
qualsiasi parte del mondo essa si trovi, a
Como, a Milano o dall’altra parte del
pianeta. Solo così miglioreremo noi stessi
ed avremo un mondo migliore.
Grazie a voi per avermi letto fin qui, sempre
meno la gente vuole sentire queste cose.
Un abbraccio a tutti. E buona vita.
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