185 Paradiso IV: un canto autoriflessivo Georges GÜNTERT

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185 Paradiso IV: un canto autoriflessivo Georges GÜNTERT
Paradiso IV: un canto autoriflessivo
Georges GÜNTERT
Universidad de Zürich
1.
I tempi in cui si poteva sostenere, con de Sanctis, che il
«Paradiso è perfezione cristiana e morale, ma non è perfezione
artistica» (1939: 177), si possono ritenere superati. Oggi predomina
una concezione critica più equilibrata, perfino nei riguardi dei passi
propriamente dottrinali: la Commedia, suol dirsi, include alcuni canti
speculativi, di cui va tuttavia rispettato il valore culturale, non
potendo essi mancare in un poema che aspiri ad illustrare il pensiero
di un'intera epoca. A conferma di questo nuovo orientamento,
Giorgio Barberi Squarotti – nel suo saggio Poesia e filosofia:
«Paradiso» IV – ribadisce che il Paradiso rappresenta, dal punto di
vista del poeta medievale, «il luogo della verità dei concetti e delle
speculazioni filosofiche degli uomini» (1992: 75-91). La presenza
marcata del linguaggio scolastico in molti luoghi della terza Cantica
va dunque ritenuta un arricchimento, che consente al poema di
assumere un carattere veramente epocale. D'altra parte, il mero
ricorso alla storia delle idee non potrà essere fondamento di una
lettura poetica, che richiede inoltre, almeno in determinati momenti,
una partecipazione emotiva. Questo è quanto m'induce a sostenere
che la rivalutazione estetica del Paradiso dipenderà essenzialmente
dalla presenza di momenti consimili, atti a suscitare – e a
tematizzare – l'adesione patemica del lettore.
Un primo stimolante suggerimento al riguardo ci giunge da
Benedetto Croce, che, a proposito del Paradiso dantesco, non esita a
parlare di «poesia didascalica», specificando come il motivo
dominante consista non nell'insegnamento della dottrina, ma nella
«rappresentazione dell'atto dell'indagare e insegnare» (1966:151). I
personaggi che agiscono sullo sfondo sono gli stessi protagonisti,
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Dante e Beatrice, e la tensione drammatica, a prima vista assente, è
di natura psicologica e intellettuale, in quanto illustra le esitazioni, i
dubbi e le perplessità di Dante, teso alla conquista del sapere. Sulla
stessa linea interpretativa si muovono Carlo Calcaterra e Francesco
Flora (1945-47: 191), mostrando come Dante, e cito Calcaterra,
passi «liricamente dall'apprendimento del vero alla contemplazione
[...] e alla rappresentazione della bellezza di quel contemplare»
(1938: 609). Anche Giovanni Getto invita i lettori della Commedia a
considerare i canti dottrinali con maggiore flessibilità interpretativa.
A lui va riconosciuto il merito di avere introdotto, nel dibattito
critico intorno al valore artistico del Paradiso, la nozione di «poesia
dell'intelligenza», che consente, a mio avviso, di superare il
discrimine fra tensione cognitiva e ricerca poetica: nella terza
Cantica la poesia di Dante non sempre si traduce in immagini
concrete, osserva Getto, ma spesso esprime l'ansia di conoscere, il
gusto metafisico di assaporare un concetto e l'entusiasmo di chi entra
finalmente in possesso della verità (1966: 183). Nel libro cui faccio
riferimento, Aspetti della poesia di Dante, pubblicato nel 1966,
Getto avverte una partecipazione emotiva del protagonista anche
nella sfera dell'intelletto, giungendo alla conclusione che, in lui, il
desiderio di sapere non è meno intenso di quello amoroso. Queste
osservazioni m'inducono a supporre che ad ispirare il discorso siano
un'ansia cognitiva, una passione della mente, un entusiasmo della
conoscenza capaci di generare amore; se è così, se la componente
timica non viene meno, anche i momenti dottrinali del Paradiso
avranno una loro peculiare natura poetica.
2.
Il canto IV, per il suo carattere prevalentemente dottrinale,
non è tra i più ammirati della terza Cantica. I giudizi negativi sono
maggioranza, e l'atteggiamento censorio prevale soprattutto in chi
muove da un confronto fra questo canto e quello precedente.
Secondo Francesco Gabrieli, col canto di Piccarda «Dante ha toccato
il primo culmine della poesia del Paradiso» e, «raggiunto il culmine,
si sa, non si può che scendere, anche per un conquistatore di vette
della forza di Dante: ma, confessiamolo, noi non ci saremmo
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aspettati così brusca, improvvisa discesa» (1961: 5). Se il canto IV
delude le aspettative dei lettori «innamorati di poesia» è perché in
esso «l'astratto vince sul concreto», e «lo schema logico resta
scoperto fin dal principio nel modo più crudo» – così argomenta
Anna Maria Chiavacci Leonardi nella sua Lettura del «Paradiso»
dantesco. In quel suo scritto, del 1963, la studiosa senese distingue i
momenti didascalici da quelli poetici, mostrando come non si
costituisca «un tono poetico se non dopo i primi settanta versi, e
anche questo, effimero, ed è una cosa ben rara, se non unica nella
Commedia» (1963: 151). A voler condividere simili condanne ci
troveremmo di fronte al canto poeticamente più sterile dell'intero
poema, e non a caso anche il già citato Gabrieli crede di dover
denunciare gli «scolastici deserti», in cui il lettore cercherebbe
invano «le oasi di meravigliosa poesia» (1961: 6). Va però precisato
che nel più recente Commento la Chiavacci Leonardi, memore delle
lezioni di Croce, Getto e Barberi Squarotti, ha rivisto quel suo
giudizio negativo, limitandosi a sottolineare la singolarità del canto
IV, interamente «occupato dal ragionamento» (1997: 101).
"Ragionamento" o riflessione approfondita sui mezzi poetici
necessari alla composizone del Paradiso? Nelle pagine che
seguiranno cercheremo di porre in rilievo la funzione emblematica di
questo canto dall'impostazione certamente teorica, ma anche
autoriflessiva e metapoetica, visto che il suo intento di teorizzazione
illustra le tecniche narrative applicate nella terza Cantica.
3.
Prima di passare all'analisi delle strutture interne del canto,
vorrei soffermarmi su uno dei principi formativi sottesi alla
concezione del Paradiso. L'ascesa di Dante verso l'Empireo si svolge
essenzialmente in due modi tra loro complementari: l'uno è di natura
cognitiva, la cosiddetta via intellettuale, e riguarda l'interazione tra
visione e conoscenza (in termini fonico-lessicali: «vedere» il
«vero»); l'altro è di natura affettiva, e coinvolge la volontà di chi
ascende attraverso i cieli, aspirando non tanto alla conoscenza,
quanto all'essere che ha la sua origine e il suo fine in Dio.
Mediatrice di entrambi i movimenti ascensionali è Beatrice, che
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interviene ora come maestra di teologia e di filosofia, ora come
donna amata, in particolare nei momenti estatici, improntati al
codice del misticismo amoroso. I due movimenti, inizialmente
alternati, finiranno col convergere, come s'intuisce fin dal canto III.
Al termine di questo canto, infatti, s'intersecano e addirittura si
fondono i lessemi della visione («vista», il suo sinonimo «viso», e
«sguardo») e quelli dell'impeto amoroso, dunque del volere, associati
al campo semantico del fuoco («disio», «folgorò», ma anche:
«volsesi», da «volgere», nel senso di "tendere all'oggetto amato").
Riascoltiamo allora i versi finali: svanita l'immagine di Piccarda
nelle profondità del cielo lunare, «come per acqua cupa cosa grave»,
Dante si rivolge nuovamente a Beatrice:
La vista mia, che tanto lei seguio
quanto possibil fu, poi che la perse,
volsesi al segno di maggior disio,
e a Beatrice tutta si converse;
ma quella folgorò nel mio sguardo
sì che da prima il viso non sofferse;
e ciò mi fece a dimandar più tardo. (III, vv. 124-30)
E' questo uno dei molti passi in cui alla visione del vero,
mossa dal desiderio di sapere, subentra un intenso moto affettivo,
trasmesso a sua volta attraverso il linguaggio degli occhi, che
garantisce la comunicazione mistico-amorosa tra Dante e Beatrice.
Nel mondo della Commedia non conviene dunque separare
nettamente l'ascesa intellettuale da quella affettiva, perché l'una e
l'altra procedono dalla stessa matrice vitale che genera il desiderio.
Schematicamente, le premesse su cui dobbiamo costruire la lettura
del nostro canto si presentano nel modo seguente:
IL VERO, DIO, L'ESSERE
MAESTRA
BEATRICE
DONNA AMATA
ascesa intellettuale
(visione / conoscenza)
DANTE
ascesa affettiva
(volontà / essere)
luce
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desiderio di sapere // di amare (voler partecipare, essere)
fuoco
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A conferma di quanto osservato nei versi finali, voglio
ricordare anche il magnifico inizio del canto III, dove è detto di
Beatrice: «Quel sol [= visione, luce, ma anche fuoco, calore] che
pria d'amor mi scaldò 'l petto, / di bella verità m'avea scoverto, /
provando e riprovando, il dolce aspetto». L'espressione «dolce
aspetto» si riferisce qui alla spiegazione sul fenomeno delle macchie
lunari, dunque all'esperienza conoscitiva, ragion per cui un critico
neoplatonico come il Landino poteva osservare che Dante dice
«dolce, perché nessuna cosa è più soave che la cognizione».1 Ma
«dolce» è tradizionalmente un termine pertinente alla poesia
d'amore, per cui si attua qui una sorta di contaminatio dei codici,
sicuramente intenzionale in quanto destinata a ripetersi nel
Paradiso.2 Che Beatrice riveli a Dante le verità dell'universo o lo
folgori col suo sguardo pieno di amore, ogni volta ispira passione, ed
è difficile stabilire, in questi canti iniziali, se sia più forte il desiderio
di conoscere o quello di partecipare dell'amore divino, tanto più che
le due ascese sono volte a un solo fine.
Non è mio compito tornare sul linguaggio poetico del canto
III. Tuttavia, chi si è soffermato sulle sue peculiarità lessicali, avrà
notato come vi si alternino due campi semantici, l'uno relativo al
vedere (il vero) e l'altro al volere (cui Dante associa, in modo per noi
inconsueto, etimologicamente scorretto, il motivo del voto, poiché
chi entra nel monastero si offre a Dio, cercando di conformare, già in
terra, la propria volontà a quella divina). Il linguaggio del canto è
inoltre fortemente allitterativo: già nei primi 33 versi ricorrono
successivamente le forme «visione», «vedersi», «visi», «vid'io»,
«veder», «vidi», «vedi», «vetro», «vere», cui fanno eco un «vedere»
e un «vedrai» nella parte centrale e le due forme «vista» e «viso»
nelle terzine finali. Ma la tematica della visione è presente anche in
altro modo, specie al centro del canto: il discorso di Piccarda aiuta
Dante a passare dalla percezione stupita, e quindi imperfetta, delle
immagini lunari (che Dante da principio confonde con riflessi)
all'intelligenza della vera beatitudine, affidata ai verbi «riconoscere»,
«rimirarsi», «riguardare sé» che esprimono tutti la perfetta visione
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dei beati.(Güntert 1973: 149-162) L'intesa attraverso la parola,
signum sensibile et rationale, è necessaria agli uomini, ma non ai
beati, che leggono in Dio il pensiero altrui, come Piccarda quello di
Costanza d'Altavilla: «ciò che io dico di me, di sé intende». Uno
degli assi strutturali della semantica del canto è infatti l'opposizione
tra la visione imperfetta di Dante-personaggio, che per comprendere
la realtà deve unire l'immagine percepita al suono e alla parola
chiarificatrice, e la visione perfetta dei beati, che sono in grado di
comunicare immediatamente fra loro, senza necessità di ricorrere
alla materialiatà dell'espressione, perché partecipano tutti dell'essere
divino.3
Fin qui il campo lessicale del vedere. L'ambito semantico del
volere, sempre nel canto III, è invece rappresentato da occorrenze
quali «voto», «giusta voglia», «voler», «invoglia», «vuol»,
«volontade» e dai loro sinonimi «affetti infiammati», «carità», ecc.,
nonché da intere terzine come quella situata poco dopo la metà del
canto, nel luogo riservato ai messaggi centrali: «Frate, la nostra
volontà quïeta / virtù di carità, che fa volerne / sol quel ch'avemo, e
d'altro non ci asseta» (vv. 70-72). A questo punto andrebbero
rintracciate anche le molte sottili connessioni fonico-semantiche che
collegano l'ambito del vedere (con l'allitterazione sulla sillaba ve-) a
quello del volere (le parole che iniziano con vo-). Sussistono anche
qui le contaminationes, e ne faccio un solo esempio: le suore dal
voto inadempiuto, appartenenti alla trama lessicale del volere, si
misero il «velo» che impediva loro, in parte, di vedere la realtà
terrena. Nella fattispecie, i versi che Piccarda dedica alle discepole
di Santa Chiara sono questi:
«Perfetta vita e alto merto inciela
donna più su», mi disse, «a la cui norma
nel vostro mondo giù si veste e vela,
perché fino al morir si vegghi e dorma
con quello sposo ch'ogne voto accetta
che caritate a suo piacer conforma». (III, vv. 97-102)
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«Veste», «vela», «veglia»: le suore, poi smonacate, vestirono
l'abito, si velarono e vegliarono in preghiera nel mondo, sperando di
unirsi a Dio. Tuttavia, solo in quanto spiriti beati hanno trovato la
vera pace, che risiede in un perfetto accordo fra il proprio volere e la
volontà divina:
«E 'n la sua volontade è nostra pace:
ell' è quel mare al qual tutto si move
ciò ch'ella cria o che natura face». (III, vv. 85-87)
4.
La visione del vero e la volontà di ascendere mediante
l'amore costituiscono tematiche centrali anche del canto IV, alla cui
rilettura possiamo ora fiduciosamente procedere. Il colloquio con
Piccarda ha suscitato nell'animo di Dante due dubbi altrettanto
urgenti. Mosso in pari modo dall'uno e dall'altro, è costretto a tacere,
incerto – come un uomo fra due cibi ugualmente appetibili –
riguardo alla preferenza da accordare a uno degli argomenti
desiderati. Un agnello stretto fra due lupi, per il timore, o un cane da
caccia fra due daini, per l'ardimento, proverebbero un'analoga
indecisione. L'ordine degli esempi ubbidisce, dunque, a una logica
stringente: all'uomo dotato di libero arbitrio fanno riscontro due
animali dominati dall'istinto, l'uno vittima, l'altro carnefice; e infine
la perplessità contagia lo stesso narratore, incerto anch'egli sul da
farsi, se biasimare o lodare il comportamento di sé-personaggio.
Viene subito in mente la nota parabola dell'asino di Buridano:
tuttavia, Giovanni Buridano insegnò all'Università di Parigi solo
dopo la morte del poeta; fu rettore la prima volta nel 1328 e continuò
la sua attività fino al 1358 (Vanni rovighi 1971: 69). E' più
opportuno, semmai, ricordare un passo del De coelis di Aristotele
(II, 295), dove si parla della terra che sta ferma al centro
dell'universo perché attratta da forze contrarie ma uguali; tale
situazione di equilibrio è paragonata a quella di un uomo che abbia
tanta fame quanta sete e si astenga dal soddisfare l'uno e l'altro
bisogno. Anche Tommaso d'Aquino utilizza un simile esempio in
una disputa intorno al libero arbitrio, credendo, però, di poter
risolvere il dilemma: secondo lui, anche nel caso di due oggetti
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parimente appetibili, l'uomo potrebbe sempre operare una scelta,
considerando l'uno dei due sotto un aspetto più favorevole.4 Dante
conosce questo genere di similitudini per averle riscontrate negli
scrittori antichi: sia Ovidio, nel V delle Metamorfosi, sia Seneca, nel
Thyeste, parlano di una tigre che si trova fra due vitelli e non sa su
quale avventarsi; rinuncerà infine all'attacco, tenendosi la fame
(Angiolillo 1989: 295-96). Questo inizio sembra effettivamente
adattarsi a un esercizio scolastico in cui tutte le possibilità teoriche
vadano esemplificate.5
Il vero problema sollevato dai primi dodici versi consiste
tuttavia nell'incapacità di Dante-personaggio di attuare il proprio
desiderio, che resta allo stato virtuale, senza potersi tradurre in
discorso, poiché l'equivalenza dei due moventi rende impossibile il
passaggio all'atto. Dante è come irrigidito, con il viso acceso, segno
visibile di una forte perplessità. Solo Beatrice, attraverso il suo
«parlar distinto» sarà in grado di sbloccare la situazione,
permettendo a Dante di proseguire sulla via della conoscenza. Si
passa quindi dalla virtualità all'attualizzazione, rappresentata
dall'intervento esplicativo di Beatrice. Dopodiché ci sarà il momento
della realizzazione, ossia dell'assunzione consapevole di quanto è
stato chiarito.
4.1. A questo punto possiamo abbozzare un modello di
segmentazione del canto IV, inteso come una totalità significante,
ossia come discorso. Nella sequenza A (vv. 1-117), Dantepersonaggio tace per prestare ascolto alla spiegazione di Beatrice,
che legge – come già il profeta Daniele – la verità in Dio («fonte»),
inserendola nel tempo («rio», «ondeggiar») e traducendola nel
linguaggio umano, discorsivo, esplicativo e chiarificatore (quel che
il narratore chiama, nel v. 12, il «parlar distinto»). All'interno di A
distingueremo inoltre la fase virtuale (vv. 1-12), che precede
l'intervento di Beatrice; la fase dell'attualizzazione (vv. 13-114), che
coincide essenzialmente con il suo primo discorso diretto; e, infine,
la realizzazione (vv. 115-17), con cui si conclude il programma
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narrativo svolto in A. Questo terzo momento occupa soltanto una
terzina:
Cotal fu l'ondeggiar del santo rio
ch'uscì del fonte ond'ogne ver deriva;
tal puose in pace uno e altro disio. (vv. 115-17).
Nella sequenza B (vv. 118-42), a prendere la parola è invece
Dante. Il linguaggio a questo punto si fa esaltato, amoroso,
metaforico, soprattutto in B1 (vv. 118-32), dove colpisce il ricorso
alla figura etimologica «amanza», «primo amante», e ai
provenzalismi, per poi diventare temporaneamente più astratto in B2,
segmento nel quale Dante procede alla formulazione di un altro suo
dubbio (vv. 133-42). Ma il finale è di nuovo intensamente mistico: di
fronte allo splendore degli occhi di Beatrice, sfavillanti d'amore,
Dante vien meno e china lo sguardo per non restarne abbagliato.
Il modello di articolazione del significato fin qui esposto ci
consente di individuare la duplice riflessione metapoetica sottesa al
canto IV: in A si trattano due questioni filosofiche e teologiche, che,
a ben vedere, risultano essere questioni anche metapoetiche. La
prima concerne un problema relativo alla visione, e cioè il modo di
rendere rappresentabile l'idea di perfezione inerente al concetto di
beatitudine tramite una diversificata collocazione delle anime nel
Paradiso: un problema di dispositio, evidentemente, che si manifesta
e si risolve nel «parlar distinto» del poema dantesco, necessario alla
mente umana. La seconda quaestio approfondisce la differenza tra
volontà assoluta e relativa: solo gli eroi e i santi, vale a dire, solo
coloro che risultino superiori alla propria condizione umana,
dispongono della volontà «intera», tale da annullare il peso del corpo
e da permettere di innalzarsi direttamente al cielo, come farebbe il
fuoco libero da ostacoli. La volontà pura è quindi raffigurata dalla
natura del fuoco. Agli uomini comuni, nel cui novero va incluso lo
stesso viator, compete una volontà discontinua e soggetta ai
condizionamenti esterni, dimodoché anche qui, come prima riguardo
alla comprensione della struttura del Paradiso, si tiene conto delle
limitate capacità dell'essere umano. Soddisfatto in tal modo il
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desiderio di sapere, al termine di A la via appare sgombra, e l'ascesa
intellettuale di Dante può proseguire.
Questa prima parte del canto contiene dunque un'importante
riflessione metapoetica: oltre ad offrire una soluzione a domande di
carattere filosofico e teologico, contempla la poesia sotto l'aspetto
della necessità di articolarsi nel tempo, come un «parlar distinto»,
che va inteso in senso narrativo ed insieme esplicativo.
Concretamente, le anime del Paradiso, pur trovandosi tutte
nell'Empireo e godendovi dell'eterna beatitudine, devono essere
presentate al lettore in modo successivo e graduale, così da poter
essere riconosciute di volta in volta.
La sequenza B, invece, ci mostra un altro aspetto della poesia
dantesca, interpretabile come partecipazione emotiva: Dantepersonaggio è invitato sia a chiarire i suoi dubbi, sia a fondersi
tramite l'amore con l'essere divino; in modo analogo, il lettore deve,
sì, intendere i ragionamenti e i concetti esposti nei singoli canti, ma
deve anche lasciarsi pervadere dalla parola poetica, che gli si offre
ora quale figura, ritmo e suono. In altri termini, la poesia dantesca
del Paradiso si presenta sia come discorso concettuale, che va
percepito, inteso ed assimilato passo dopo passo; sia come
messaggio propriamente poetico-emotivo che suscita nel lettore una
forte, istantanea commozione. Questo secondo significato
metapoetico trova la sua più intensa configurazione nei momenti
mistici o estatici, che hanno qualcosa di folgorante, d'immediato.
Contraddistinta dalla comunicazione amorosa fra Dante e Beatrice,
la sequenza B s'inscrive dunque prevalentemente nella sfera
affettiva. E anche se in B2 il tono si fa di nuovo inquisitivo («Io vo'
saper se l'uom può sodisfarvi / ai voti manchi sì con altri beni»), quel
clima amoroso di cui dicevamo si mantiene fino in ultimo,
culminando nell'estatica scena finale: «Beatrice mi guardò con li
occhi pieni / di faville d'amor così divini, / che, vinta, mia virtute diè
le reni, / e quasi mi perdei con li occhi chini» (vv. 139-42). Così, il
canto IV rivela una sua struttura autonoma, ben delineata e in sé
conclusa, e, per quanto l'ultima domanda resti per ora senza risposta,
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concordiamo con Barberi Squarotti, secondo cui il finale «non deve
apparire come una forma di rinvio alla successiva esposizione della
verità riservata al canto V», trattandosi invece di un vero e proprio
termine riguardo all'unità discorsiva costituita da questo canto
(1992: 191).
4.2. Ritorniamo alla problematica del primo «dubbio», che,
secondo le parole di Beatrice, «più ha di felle» (fiele, veleno),
potendo indurre Dante in peccato di eresia, ed esaminiamo ora anche
l'aspetto filosofico-teologico della quaestio.6 Dante si domanda se
l'apparizione gerarchicamente disposta dei beati nei singoli cieli dia
forse ragione a Platone, secondo il quale le anime, dopo la morte del
corpo, tornano alla stella da cui sono discese. «Dice che l'alma a la
sua stella riede, / credendo quella quindi esser decisa / quando natura
per forma la diede» (vv. 52-54). La terzina si riferisce a quel passo
del Timeo in cui Platone sostiene che il demiurgo, dopo aver formato
l'universo, «lo divise in tante anime quanti sono gli astri, e ne
distribuì una a ciascuno. E quando [le anime] fossero di necessità
piantate nei corpi», nascerebbero in esse sensazioni e passioni.7
Che rapporto aveva Dante con questo dialogo platonico? A
volerci affidare al giudizio degli esperti in filosofia medievale, non
si tratterebbe di influenza diretta: quel che Dante asserisce del
Timeo, sia in Paradiso IV che nel Convivio (IV, 21), fa supporre che
lo avesse conosciuto attraverso uno scritto di Alberto Magno, De
natura et origine animae (II, 7). Chi ha presente l'episodio di Marco
Lombardo (Purg. XVI) sa come vi si ammetta soltanto un influsso
limitato degli astri sugli impulsi sensibili, che hanno la loro origine
nel corpo, e come d'altra parte la mente sia ritenuta capace di
dominare tali impulsi. Era questa la dottrina più divulgata nel
Duecento, condivisa egualmente da Tommaso d'Aquino. Ora, la
teoria delle anime che tornerebbero ai diversi pianeti da cui sono
discese, se male interpretata, poteva indurre al politeismo, poiché le
stelle e le loro intelligenze motrici erano state identificate con gli dèi
pagani. Nel De civitate Dei, Sant'Agostino rimprovera ai platonici di
giustificare il politeismo con la loro dottrina dei demoni, gli spiriti
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intermediari fra Dio e gli uomini; ma anche riguardo a questo punto,
Dante sembra seguire, piuttosto che Agostino, Alberto Magno, il
quale, ricordando l'usanza astrologica secondo cui gli esseri umani
vengono chiamati figli di Giove, di Marte o di Saturno, nega a questa
dottrina ogni fondamento razionale.
La parte più interessante del riferimento a Platone è però
quella in cui Dante suggerisce la possibilità che il filosofo abbia
concepito il suo discorso sulle anime in altro modo, e cioè come un
mito, alla maniera dei poeti: «E forse sua sentenza è d'altra guisa /
che la voce non suona, ed esser puote / con intenzion da non esser
derisa» (IV, 55-57). Anche qui Dante ripropone le tesi di alcuni
interpreti medievali degli scritti di Platone, ad esempio Guillaume de
Conches, citato dalla Vanni Rovighi, il quale, dopo aver ricordato
che Platone parlava da pagano, aggiunge che chi non badi alle parole
ma al senso, non vi troverà eresia, bensì una profonda verità (1971:
74). Che Dante ritenesse legittima l'interpretazione figurata della
dottrina platonica, non deve stupire. Troppo note sono le sue
convinzioni intorno ai quattro sensi attribuibili alle Scritture perché
occorra soffermarsi su questo punto. Quanto poi al caso specifico di
Platone, basterà render conto di quanto afferma nell'Epistola a
Cangrande: «Quod satis Plato insinuat in suis libris per
assumptionem metaphorismorum: multa enim per lumen
intellectuale vidit que sermone proprio nequivit exprimere» (Ep.
XIII, 84). Passo prezioso, che lascia bene intendere la posizione del
poeta cristiano rispetto al filosofo pagano: Dante insomma ribadisce
che se mai un autore va inteso al di là del velo delle figure, quello è
Platone.
Tale riflessione ci riporta all'interpretazione metapoetica della
prima quaestio. Tutti i beati, dichiara Beatrice, hanno la loro sede
nell'Empireo, e il loro grado di beatitudine è, per quanto perfetto,
commisurato all'intensità dell'ardore con cui amano Dio. Gli spiriti
di coloro che sono venuti meno ai voti pronunciati appaiono a Dante
nella sfera lunare non già perché in essa sia la loro dimora, ma per
dare una prova evidente della loro beatitudine, nel contempo relativa
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e assoluta (in quanto, pur differenziandosi da quella delle anime
assegnate agli altri cieli, non è in alcun senso difettosa o mancante di
perfezione). In tal modo, queste anime sono percepite attraverso una
rappresentazione sensibile, tanto più necessaria in quanto l'essere
umano intende solo per sensibilia et phantasmata una realtà di
ordine spirituale. D'altra parte, le stesse Scritture rappresentano
abitualmente Dio tramite la prosopopea, con mani e piedi, affinché i
fedeli possano farsene un'immagine, come argomenta, fra gli altri,
Tommaso d'Aquino. E un teorizzatore medievale della dottrina dei
quattro sensi, Euchero, ricordato da André Pézard, commentando un
passo di Ezechiele si esprime in modo quasi identico: «Igitur cum in
libris sanctis 'oculi Domini', 'os Domini', 'manus pedes Domini',
'arma etiam Domini' scripta reperiantur, longeque absit a catholica
Ecclesiarum fide deum corpore determinari, qui sit invisibilis,
incomprehensibilis, incommutabilis et infinitus, requirendum est
qualiter ista per Spiritum sanctum figurali expositione reserentur».8
Ma se il ricorso alle figure poteva sembrare ai teologi una
concessione alla limitata condizione umana dei fedeli, cui andava
raccomandato di cercare comunque il senso spirituale, da un punto
di vista poetico la figurativizzazione dei significati rappresenta
un'esigenza di prim'ordine, senza la quale non potrebbe esserci
poesia. Ha dunque ragione Natalino Sapegno quando scrive che
«indirettamente Dante viene così ad esporre il criterio artistico a cui
si informa la concezione strutturale del suo Paradiso: l'espediente
adottato gli consente di mantenere anche nella terza Cantica quel
ritmo e quella differenziazione di movimenti narrativi, quella
successione di episodi e di colloqui variamente ambientati, lo spazio
e il tempo insomma richiesti da una rappresentazione poetica, e che
non potevano essergli offerti da una rigorosa adesione al concetto
teologico; inoltre gli porgerà il modo di stabilire una relativa
simmetria con le due cantiche precedenti, istituendo, se non proprio
una classificazione morale, almeno una distribuzione delle anime in
gruppi caratterizzati da determinate disposizioni psicologiche»
(1958: 45). Infatti, Dante risolve allo stesso tempo un problema
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teologico (quando sostiene che la beatitudine delle anime è
proporzionata ai loro meriti, eppure per definizione perfetta) e un
problema poetico, il che gli consente di articolare la sua visione
narrativamente e di esprimere per figure la realtà spirituale della
terza Cantica.
Ora, chi detiene il sapere su questa necessità di una dispositio
successiva e graduale, non è il narratore (che esegue, narra, enuncia
il racconto), bensì l'istanza enunciante, l'intelligenza poetica inerente
al testo dantesco. Dal momento che ci riferiamo al sapere relativo ai
procedimenti testuali, ci situiamo, in quanto lettori, su quello che i
semiotici chiamano il piano dell'enunciazione. Una volta assunta
questa prospettiva, anche il discorso sulla possibilità di una lettura
metaforica dei miti platonici trova la sua giusta collocazione: poiché
la presenza delle figure è indispensabile, affinché il lettore possa
partecipare con l'immaginazione al racconto che gli viene proposto.
Ma non è meno importante il procedimento seguente, che consiste
nel passare dalle figure al senso, ovvero, per dirla con le espressioni
del testo, dalla «voce» alla «sentenza», dal significante e dal
significato letterale ai significati ulteriori, processo che si compie
attraverso una lettura allegorico-metaforica del testo.
Soffermiamoci ancora un attimo sulla seconda quaestio, che
non riguarda più la visione del vero, ma la volontà relativa o assoluta
di raggiungere il bene. Le anime che Dante ha incontrato nel cielo
della luna hanno effettivamente concesso qualche cosa a chi ha usato
loro violenza: sarebbero potute tornare al chiostro nel momento in
cui se ne fosse ripresentata la possibilità materiale, ma, piegandosi
alla forza, hanno finito con l'adattarsi alla nuova situazione nel
mondo. E, con fermezza lapidaria, Beatrice conclude: «ché volontà,
se non vuol, non s'ammorza, / ma fa come natura face in foco, / se
mille volte violenza il torza» (vv. 76-78). Di fatto non s'era
indebolita la volontà eroica di San Lorenzo, rimasto impavido sulla
grata, da dove avrebbe letteralmente pregato i suoi carnefici di
rivoltarlo, per poterlo bruciare anche dall'altra parte (l'esempio era
ben noto, e d'altronde la figura di Lorenzo appare già fra i santi
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Georges GÜNTERT
Paradiso IV: un canto autoriflessivo
rappresentati nei mosaici di Ravenna, nel mausoleo di Galla
Placidia); né s'era piegata la volontà di Muzio Scevola, disposto,
come narra Tito Livio, a lasciarsi bruciare la mano che aveva colpito
per errore, invece che il nemico, un suo scriba o segretario. Tuttavia
la volontà assoluta, osserva Beatrice, è cosa ben rara. Anche qui
veniamo invitati a considerare la differenza fra una realtà
sovrumana, quasi astratta dal corpo, in cui i valori si esprimono, per
così dire, allo stato puro, e un'altra realtà, sfumata, fragile, ambigua,
quale si addice ai comuni mortali. Lo stesso Dante-personaggio
conosce il peso delle fatiche e la necessità fisica delle soste: il suo
itinerario non procede in modo verticale, né nel Purgatorio né in
Paradiso, altrimenti ci troveremmo già nell'Empireo. Il discorso
sulla volontà relativa riguarda dunque l'essere umano, dotato non
solo di un senso morale, ma anche di un corpo, e questa riflessione
s'inscrive perfettamente in un canto che tratta dell'arte poetica come
di una comunicazione rivolta all'uomo.
Un ultimo problema aspetta di esser risolto. Nel terzo canto
Piccarda aveva detto di Costanza che questa, pur fatta uscire con la
forza dal monastero, non fu «dal vel del cor già mai disciolta» (III, v.
117). Beatrice, però, ritiene che Costanza non sia rimasta fedele al
suo primo proposito. Ora, delle due l'una, tanto più che in Paradiso
non si può mentire. Per risolvere l'apparente contraddizione, Beatrice
distingue nuovamente fra volontà assoluta e volontà relativa, ed
applica la teoria aristotelica delle azioni miste, dei compromessi,
cioè, tra il volontario e l'involontario. In certe circostanze, dice, il
bene voluto è legato a un male più grave, e per fuggire questo si
rinuncia a quello. Talvolta si sceglie una determinata condotta per
timor del peggio; come quando si compie un delitto comandato da un
tiranno, perché questi ha in suo potere la vita dei nostri familiari. In
tal caso, si sceglie il male minore, e così aveva fatto Costanza.
Esempio contrario, ed estremo, quello di Alcmèone, citato nel terzo
libro dell'Etica Nicomachea; il quale era giunto fino all'assurdità di
uccidere la madre per obbedire al padre Anfiarao («per non perder
pietà» riguardo al padre, «si fe' spietato» verso la madre). Ma
199
Tenzone nº 2
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tramite Beatrice Dante sancisce che, di fronte a una tale efferatezza,
«scusar non si posson l'offense» (v. 108).
5.1. E veniamo alle conclusioni. A mio parere, quel che
maggiormente ha ostacolato i critici del Novecento nella loro
comprensione dell'arte dantesca, è un'idea fortemente riduttiva del
fenomeno poetico. Come sarebbe altrimenti concepibile
l'affermazione da parte di un esperto dantista, riguardo a questo
canto prevalentemente dottrinale, che il tono poetico comincia a
manifestarsi «soltanto a partire dal verso 70»? La "poesia" dantesca
va colta non solo nei suoi più immediati effetti plastici ed emotivi,
ma anche nei suoi aspetti autoriflessivi, teorici e metapoetici,
ovverosia al livello dell'enunciazione, dove si situa il sapere
riguardo ai procedimenti testuali adottati. Una volta ammesso che
l'enunciazione è un livello presupposto, inerente al testo e riservato
all'atto
interpretativo
del
lettore,
la
consapevolezza
sull'organizzazione dei dispositivi poetici non potrà che esprimersi
tramite il discorso di qualche personaggio o attraverso una figura
potenzialmente attivabile come metafora, da rintracciarsi, comunque,
nell'enunciato. Così, il momento mistico in cui Dante comunica
istantaneamente con Beatrice, e attraverso lei con Dio, è per noi una
configurazione della poesia intesa come adesione passionale, che fa
essere e rende partecipi della vita inerente al testo. E il lungo
discorso esplicativo di Beatrice, in cui vengono trattati argomenti
così complessi come la necessità della figurativizzazione e della
lettura metaforica, nonché la distinzione sottile tra volontà assoluta e
volontà relativa, altro non è che una riflessione approfondita sulle
condizioni in cui ha da avvenire la comunicazione del messaggio
paradisiaco destinato a un lettore umano: e cioè, in forma
distintamente narrativa, graduale (perché nasca una tensione, un
crescendo) e semanticamente differenziata. Un canto talmente volto
ad illustrare il fare poetico non può deludere un lettore moderno.
Sottoscriviamo dunque con piena convinzione il giudizio di Giorgio
Varanini, il quale, in una sua lettura del canto IV pubblicata nel
1972, ebbe il coraggio di dire, di fronte alle allora recenti stroncature
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Georges GÜNTERT
Paradiso IV: un canto autoriflessivo
dei passaggi dottrinali, che «solo una pervicace mentalità tardoromantica potrebbe ancor oggi respingere nelle desolate regioni della
non-poesia» un canto così denso e così rigorosamente meditato
(1972: 319).
5.2. Ma v'è un ultimo punto che merita la nostra attenzione: il
luogo di collocazione assegnato al nostro canto. Paradiso IV è
situato a poca distanza dall'esordio della Cantica e a ridosso del
primo canto illustrativo, quello di Piccarda e delle anime ospitate dal
cielo lunare. Questa posizione – non più prologale, ma pur sempre
iniziale - ne giustifica il carattere strategico, insieme teorico e
autoriflessivo. A questo proposito va segnalato che anche
nell'Inferno e nel Purgatorio è possibile individuare ogni volta un
canto emblematico volto a illustrare le condizioni specifiche della
Cantica. Tuttavia, soltanto nel Paradiso al canto propriamente
emblematico - nella fattispecie, il III - fa seguito un ulteriore intento
di teorizzazione.
Nell'Inferno, l'esemplificazione della condizione infernale non
avviene prima del canto V. I due canti iniziali, caratterizzati l'uno
dall'improvvisa apparizione di Virgilio accorso in aiuto di Dante e
l'altro dal riferimento all'intervento celeste di Beatrice, svolgono
entrambi la funzione di prologo nei riguardi non solo della Cantica,
ma anche dell'intero poema. E neanche i due canti seguenti, III e IV,
ospitanti l'uno i pusillanimi e l'altro i magnanimi, risultano essere tali
da poter illustrare l'eterna condanna al dolore. Infatti, sia gl'ignavi
dell'Antinferno che i magnanimi del Limbo si collocano al di fuori
del sistema della giustizia divina cristianamente intesa. I primi,
sempre indecisi, mai disposti ad impegnarsi e quindi vili, sono i
rappresentanti del non-valore (si badi: non dei valori etico-cristiani e
neppure dei rispettivi antivalori che implicherebbero malvagità,
colpa e condanna, bensì del non-valore, equivalente a un
greimasiano termine neutro, ossia né merito, né demerito). E quanto
alle grandi anime pagane, che aspiravano alla virtù ma non ebbero
modo di conoscere la rivelazione cristiana, esulano anch'esse dal
sistema dei vizi e delle virtù accolto da Dante nella Commedia. I
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canti III e IV, dunque, pur collocandosi al di là della porta infernale,
moralmente restano ancora fuori della correzione morale
dell'Inferno.
La vera conditio dei dannati verrà quindi esemplificata dal
canto V. Qui assistiamo ai terribili verditti di Minosse, giudice - si
noti - di tutte le anime destinate all'Inferno. E qui, «in loco d'ogne
luce muto», «incomincian le dolenti note» delle anime disperate. E
sebbene in seguito ci accorgiamo di trovarci in un luogo specifico,
riservato ai lussuriosi, fra i quali non tarderemo a riconoscere Paolo
e Francesca, un verso quale «Nessun maggior dolore / che ricordarsi
del tempo felice / ne la miseria [...]» si riferisce appunto allo stato di
tutte le anime dannate, memori sì del loro passato, ma prive ormai di
speranza. Certo, la pena dei lussuriosi non è identica alle atrocità cui
sono esposti i peccatori di Malebolge: lo spettacolo che essi offrono,
spinti di qua e di là dalla bufera infernale, è straziante, commuove, e
commuove soprattutto Dante, il quale ad episodio concluso è preso
da compassione e sviene, a differenza di Virgilio, che appare ben
consapevole della necessità di questo castigo. Non a caso Francesca
conclude il suo «Nessun maggior dolore...» con un rinvio all'autore
di questa sentenza, aggiungendo «e ciò sa 'l tuo dottore».
Nella Cantica mezzana, invece, è il canto di Manfredi ad
esemplificare per primo la condizione purgatoriale. Alla cerimonia
iniziatica del lavacro e del cingersi, simboleggiante l'affrancamento
dai vincoli terreni e la rinascita alla vita eterna (canto I), fa seguito
un canto basato sulla tensione fra indugio e necessità di movimento,
fra negligenza e rinnovata consapevolezza del dovere (canto II).
Dante e Virgilio devono comprendere come il monte del Purgatorio
sia il regno non solo della grazia e della luce, ma anche della legge,
che vieta loro di abbandonarsi ai ricordi terreni e li obbliga a
procedere speditamente sulla via della redenzione. Nel canto III,
dunque, ha inizio la salita, e qui avverrà il primo incontro di natura
autenticamente purgatoriale con la schiera degli scomunicati
capeggiati dal figlio di Federico II. Nel nobile ritratto di Manfredi
confluiscono passato e presente, la memoria della vita peccaminosa
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Paradiso IV: un canto autoriflessivo
e la speranza della redenzione. Ed è questa la condizione di tutte le
anime penitenti, memori del loro destino terreno ma fiduciose nella
propria salvezza. Perciò, il ricordo delle dolorose ferite non esclude
qui il sorriso, rivolto, come acutamente interpreta Sapegno, «a creare
un distacco fra la tragica storia terrena e l'animo di chi la rievoca,
non più dolente per l'oltraggio subíto» (1976: 424). Il cadavere di
Manfredi fu mutilato e travolto dalle acque, ma la vulnerabilità del
corpo appartiene alla natura che qui è contemplata da una
prospettiva trascendente, sovrannaturale.
E v'è dell'altro. Molti lettori del canto III si sono accorti di una
strana particolarità nella presentazione che Manfredi fa di se stesso:
non dice di essere figlio di Federico II - qualcuno pensa che non lo
dica per il fatto di essere bastardo o perché il padre sconta la
condanna eterna. Fatto sta che Manfredi si attiene a una linea
genealogica tutta femminile, dichiarandosi da un lato nipote di
Costanza «imperatrice», che è in cielo, e, dall'altro, padre di un'altra
Costanza ancora vivente, «genitrice dell'onor di Sicilia ed Aragona».
Alla Chiesa impietosa, rappresentata dal vescovo di Cosenza, che
negò la sepoltura alla salma dello scomunicato, fa contrasto la
trepida preoccupazione della figlia, che ora prega per la salvezza del
padre; scomunicato, certo, ma reintegrato dalla divina misericordia
in quella «comunio sanctorum» grazie alla quale le anime penitenti
possono essere aiutate dalla preghiera dei vivi. Il particolare che
Manfredi sia incorniciato tra le due Costanze, la nonna assunta in
paradiso e la figlia rimasta in terra, fa sì che questa rappresentazione
del personaggio diventi l'immagine stessa della comunità dei fedeli,
che formano insieme la vera Ecclesia, spiritualmente unita nel corpo
di Cristo. A questo punto assume ulteriore significato la circostanza
che il corpo di Manfredi somigli al corpo trasfigurato di Cristo (egli
segnala col dito la piaga aperta sul petto). In questa costellazione
non più politica, ma simbolico-religiosa, non v'è dubbio che a
Manfredi spetti il luogo del Purgatorio. La sua storia di peccato e di
perdono, che mette in ironico contrasto la giustizia degli ecclesiastici
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e la misericordia divina, è la rappresentazione emblematica della
condizione purgatoriale.
Il canto emblematico del Paradiso è quello di Piccarda e degli
spiriti del mondo lunare, ma l'esemplificazione offerta dal canto III
(che c'informa già sulla pur differenziata beatitudine di cui godono le
anime) è seguita da un rigoroso intento di teorizzazione nei due canti
seguenti, anch'essi interamente (IV) o parzialmente (V) lunari. Se nel
Convivio Dante associava alla Luna la grammatica, nel cielo lunare
egli pone al centro della riflessione la scientiae linguae, ossia la
teoria del linguaggio, fondamento di ogni creazione letteraria. Il
primo pianeta, denominato «l'etterna margarita» (Par. II, 34), è
messo in relazione col simbolismo della perla, che allude alla
spiritualizzazione della materia e al misterioso connubio tra fisicità e
trasparenza, genesi naturale ed influsso celeste; fenomeno
tradizionalmente associato all'unione delle due nature in Cristo,
come confermano diversi commenti patristici al Vangelo di Matteo
(Mat. 7, 6 e 13, 45). Le opere enciclopediche - dal Physiologus al
Liber lapidum di Marbodo - che si esprimono sulla formazione della
perla, rinviano al mito della fecondazione celeste, tramite la rugiada
o i raggi lunari.9 Secondo Origene, Clemente Alessandrino e l'autore
anonimo di quel testo gnostico che sono gli Atti di Giovanni, la perla
può essere considerata un simbolo della parola divina o del logos
che illumina l'anima del credente.10 Per scoprire simili analogie tra la
perla e il Verbo, non occorre tuttavia risalire ai primi secoli della
cristianità, poiché Dante stesso, fin dal canto II, stabilisce un
parallelo fra il mistero teologico dell'incarnazione e la perla, simbolo
della sua poesia, che unisce in sé l'alto e il basso, il divino e l'umano.
L'esemplificazione della condizione paradisiaca, almeno per
quanto riguarda i sette cieli dei pianeti, viene dunque affidata al
canto III. La riflessione metalinguistica costituisce una chiave di
lettura di questo canto, basato com'è sul confronto fra la visione
perfetta dei beati, che conoscono la realtà immediatamente in Dio, e
quella mediata di Dante-pellegrino, il quale, per evitare errori
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Georges GÜNTERT
Paradiso IV: un canto autoriflessivo
interpretativi, deve ricorrere all'umano linguaggio,
l'immagine percepita alla parola chiarificatrice.
unendo
La riflessione metapoetica del canto IV, che è stata analizzata
in questa lezione, opera dunque fin dal canto precedente. A questo
punto Dante ribadisce che la realtà paradisiaca (in fondo sottratta al
tempo, eterna, così come tutte le anime dei cieli planetari sono anche
nell'eternità dell'Empireo) è accessibile alla mente umana solo
attraverso un parlare differenziato e articolato nel tempo. Viene così
riconfermata la necessità del procedere narrativo, che si manterrà
fino al canto XXII, per poi lasciare il luogo al sovrapporsi estatico
delle ultime visioni.
Ma anche il canto V ha carattere autoriflessivo. Nel primo
segmento del canto (vv. 1-90), il significato etico dominante è quello
della continuità nei riguardi dell'impegno assunto e della
perseveranza del cristiano. Tuttavia, mentre a un primo livello di
lettura il significato si limita a un enfatico ammonimento circa il
valore trascendente del voto, un'ulteriore riflessione sulla poesia
dantesca del Paradiso ci viene proposta proprio dagli ultimi novanta
versi della sfera lunare. Partiamo dalla scena iniziale in cui parla
Beatrice:
«S'io ti fiammeggio nel caldo d'amore
di là dal modo che 'n terra si vede,
sì che del viso tuo vinco il valore,
non ti maravigliar; ché ciò procede
da perfetto veder, che, come apprende,
così nel bene appreso move il piede». (V, 1-6)
Per intendere rettamente il significato di questo inizio di
canto, è opportuno riflettere sulla portata semantica dell'intervento di
Beatrice. Innanzitutto va ricordato che il discorso messole in bocca
proviene pur sempre da Dante-poeta che si serve di lei come di uno
strumento. Detto altrimenti, il personaggio è portavoce
dell'intelligenza poetica inerente al testo. Nel passo citato ritroviamo
uniti due importanti concetti esposti in precedenza, e cioè la visione
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del vero in Dio e la volontà amorosa che si traduce in atto
comunicativo. Beatrice sostiene la simultaneità del conoscere, del
volere e del fare: la conoscenza della verità in Dio e il passaggio
all'atto di carità diventano in lei tutt'uno. Ma illustrando questo
processo, Beatrice definisce nel contempo il modello dell'atto
poetico dantesco, che consiste nell'intuizione del vero e nella sua
immediata traduzione in atto linguistico, in parola, in verso («muove
il piede», dice, dunque anche il piede del verso). In altri termini,
l'inizio del canto V configura l'enunciazione stessa, l'attuarsi di una
competenza poetica in cui intuizione e volontà di realizzazione si
succedono per così dire immediatamente, tanto più in quanto
"poetare" significa "fare".
Non è qui il luogo di analizzare l'intero canto V. Ma vale forse
la pena segnalare come, nella sezione lunare del canto, altri due
attanti danteschi si comportino in modo analogo a Beatrice: il primo
corrisponde a Dante-narratore, in tal caso scrivente, e il secondo al
viator. Se il narratore-scrivente si affaccia proprio nel verso di
sutura, per mezzo del quale viene assicurata la continuità fra le due
sequenze lunare e mercuriale, dicendo: «così Beatrice a me, com'io
scrivo», colui che si sposta con la velocità di una freccia dalla sfera
lunare a quella di Mercurio è invece il viaggiatore, Dantepersonaggio. Si noti l'identità della costruzione sintattica (cosìcome): «E sì come saetta che nel segno/ percuote pria che sia la
corda queta / così corremmo nel secondo regno» (Par. V, 91-93),
movimento quasi istantaneo, che indica fermezza di volontà e
perseveranza nel proposito di portare a termine l'impresa. Così
dunque, mentre sul piano del contenuto più ovvio si accusano i
cristiani di essere volubili e di non mantenere i voti, sul piano
dell'enunciazione ci si offre una dimostrazione di massima coerenza
nei riguardi del compito poetico assunto.
Tramite questa breve rassegna di luoghi testuali, credo di aver
mostrato come la riflessione metalinguistica informi tutti i canti
ambientati nella sfera lunare: dal II che introduce la fenomenologia
della perla, al III, il canto propriamente emblematico che illustra la
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Paradiso IV: un canto autoriflessivo
condizione ontologica dei beati, fino ai canti IV e V, più
audacemente speculativi, ma pur sempre orientati verso una tematica
metalinguistica e metapoetica. Perfino la discussione intorno alle
macchie lunari, inserita nel canto II, conduce alla scoperta del
modello emanatistico atto a giustificare la struttura gerarchica del
Paradiso. Il cielo lunare, cosmologicamente più basso, è comunque
il primo a dover essere valutato. Sebbene non ospiti le anime di
maggior merito e sia meno luminoso di altri, la sua posizione
strategica lo privilegia dal punto di vista dell'enunciazione: una volta
tanto, nella Commedia le esigenze dell'arte poetica prevalgono su
quelle della teologia.
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REFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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Georges GÜNTERT
Paradiso IV: un canto autoriflessivo
NOTAS
1
«Verum et pulchrum», diceva Plotino. Cfr. Chiavacci Leonardi, Paradiso cit., p.
81.
2
Cfr. soprattutto l'inizio di Par. V, vv. 1-9.
3
Cfr. Convivio, III, VII, 9-10, dove Dante spiega che «la imagine corporale che lo
specchio dimostra non è vera». Sulla necessità del linguaggio per l'uomo vedi anche
De Vulgari Eloquentia, I, 2-3.
4
Cfr. in proposito la lettura di Marcella RODDEWIG, Paradiso IV, in
«L'Alighieri», 35 (1994), 3-4, pp. 63-80.
5
Lino PERTILE scrive in proposito: «If we did not know that canto IV of Paradiso
is set in the heaven of the Moon, we could easily imagine it as a dialogue taking
place in some classroom of a medieval Faculty of Theology», cfr. Canto IV, in
Dante's Divine Comedy, Introductory Readings, III: Paradiso, Univ. of Virginia,
Tibor Classics, 1995, p. 46.
6
Sul concetto «aver fiele» vedasi il libro dantesco di Manfred BAMBECK, Studien
zu Dantes «Paradiso», Wiesbaden, Steiner, 1979, pp. 14-24.
7
Sofia VANNI ROVIGHI, Il canto IV del «Paradiso» cit., pp. 73-74. Il Timeo fu,
per molti secoli, l'unico dialogo di Platone noto alla cultura medievale, alla quale era
giunto in forma incompleta e tradotta, col commento di Calcidio. Ai tempi di Dante
la sua fama stava tramontando, offuscata, ormai, da quella delle opere aristoteliche,
che il poeta tiene pure presenti in questo canto.
8
Giorgio VARANINI, Il canto IV del «Paradiso», in Nuove letture dantesche, V,
Firenze, Le Monnier, 1972, pp. 328-29, dove si fa riferimento al saggio di André
PEZARD, Le chant deuxième du «Purgatoire», in «Bulletin de la société d'Etudes
dantesques du centre Universitaire Méditerranéen», V (1956), p. 31.
9
Per le interpretazioni riguardo alla nascita della perla fornite dal Physiologus, cfr.
Paulis Realencyclopädie der Classischen Altertumswissenschaft, a c. di W. Kroll,
Stuttgart, Metzler, 1930, art. "margarita" e "margaritai", pp. 1093-96. Sul
simbolismo della perla cfr. inoltre M. ELIADE, Die Religionen und das Heilige,
Salzburg, Müller, 1954, pp. 495-98.
10
Si tratta dell'inno gnostico compreso negli Atti di Giovanni, cap. 109, cit. da R.
REITZENSTEIN, Das iranische Erlösungsmysterium, Bonn, Marcus e Weber,
1921, p. XI; ma cfr, anche D. FORSTNER OSB, Die
- 204 -Welt der Symbole,
Innsbruck-Wien-München, Tyrolia, 1961, p. 409.
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