lettura critica - Simone per la scuola

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lettura critica - Simone per la scuola
lettura critica | I confini tra “umano” e “trascendente” nel regno del Purgatorio
Lasciato alle spalle l’Inferno, e ormai estinta la legislazione che regge il «doloroso regno», Dante […] enfatizza il
discrimine che separa mondo terreno e aldilà purgatoriale, ridefinendo i confini tra umano e trascendente. Il «celestial nocchiero», alla guida del suo «vasello snelletto e leggero» (II, v. 41), s’avvicina rapidamente al lido, e Virgilio
commenta: «Vedi che sdegna li argomenti umani» (II, v. 31). Non glossa scolastica, bensì aurea sentenza, che può
essere assunta a chiave dell’intero canto II del Purgatorio: tutto ciò che è umano, si vorrebbe dire troppo umano,
è inesorabilmente respinto al di qua di uno spazio ordinato su valori più alti. […] Si tratta qui di fissare, dopo il
buio d’inferno, le coordinate spaziali del nuovo mondo, antipodo a quello sensibile, e solo in apparenza emisfero
simmetrico a quello noto. Si celebra l’entrata in vigore e l’efficacia di una «nuova legge» con la quale fare i conti.
Cose e creature ritrovano un diverso equilibrio. La cautela dantesca nei confronti di Casella, «Se nuova legge
non ti toglie / memoria o uso a l’amoroso canto» (vv. 106-107), è una riserva mentale acquisita nel primo canto,
dove Catone chiedeva severamente «Son le leggi d’abisso così rotte? / o è mutato in ciel novo consiglio, / che,
dannati, venite a le mie grotte?» (I, 46-48), e ancora al v. 89 parlava «per quella legge». È ovvio che questo riflesso
condizionato, che Virgilio e Dante subito contraggono, è avvertito innanzitutto come limitazione di possibilità.
Il verbo “togliere”, spia linguistica della privazione, occupa due volte la sede di rima, «Se nuova legge non ti toglie»
(v. 106) e «ma a te com’è tanta ora tolta» (v. 93); con significato diverso, ma con persistenza del significante, al v.
98, «da tre mesi elli ha tolto». Il secondo sarà appunto il canto della rinuncia all’umano, ancorché caro un tempo;
all’amicizia che ancora conservi traccia terrena, abbraccio o canto. Catone, replicando a Virgilio, lodatore indiscreto degli «occhi casti» (I, 78) di Marzia e supplice in nome di lei («per lo suo amore adunque a noi ti piega», I,
81), aveva già dato nel primo canto una lezione della nuova morale. «Più muover non mi può» (I, 89) è il suggello
di uno stato refrattario alle passioni, e solo mosso dall’amore divino.
Un abbraccio vano, una canzone bruscamente interrotta alle prime note; e soprattutto, in tutto il canto, una volontà di moto continuamente delusa. Se l’aliscafo purgatoriale sopraggiunge «sì ratto, / che ’l muover suo nessun
volar pareggia» (w. 17- 18), anche la sparizione è celerrima («ed el sen gì, come venne, veloce», v. 51). Se il sole
«da tutte parti saettava il giorno» (v. 55), affida bene la sua luce a «saette conte», esperte, infallibili nel loro percorso. Il sole, l’angelo sanno dove andare; tutti gli altri ne sono ignari. I due pellegrini son «come gente che pensa
a suo cammino, / che va col cuore e col corpo dimora» (vv. 11-12); la «masnada fresca» delle anime purganti è,
a sua volta, «com’om che va, né sa dove riesca» (v. 132). Anche nella domanda di Casella, «però m’arresto; ma
tu perché vai?» (v. 90) è vigile quest’angoscia del moto, congiunta a un’incertezza nell’orientamento. Se il movimento dei personaggi viene frustrato ogni volta che si manifesta, lo stato di quiete, per parte sua, non dà garanzia
di salute; talché il secondo canto del Purgatorio viene a configurarsi come studio critico del moto umano, come
rappresentazione della vanità di ogni atto o percorso che si attenga esclusivamente a ragioni terrene.
Due volte la stasi è interrotta ex abrupto, col ricorso a una costruzione sintattica che si riproduce identica ai due
estremi del canto: «Noi eravam lunghesso mare ancora… Ed ecco» (vv. 10-13), «Noi eravam tutti fissi e attenti
/ a le sue note; ed ecco il veglio onesto» (vv. 118-119). L’aspra riprensione che ne consegue censura proprio
questa sosta inopportuna: «Che è ciò, spiriti lenti? / qual negligenza, quale stare è questo? / Correte al monte a
spogliarvi lo scoglio» (vv. 120-122).
(G. Gorni, Lettera nome numero. L’ordine delle cose in Dante, Il Mulino, Bologna 1990)
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