Marcella D`Abbiero Il dolore imperfetto Perché la filosofia sviluppi le
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Marcella D`Abbiero Il dolore imperfetto Perché la filosofia sviluppi le
Marcella D’Abbiero Il dolore imperfetto Perché la filosofia sviluppi le sue potenzialità di “sapere pratico” occorrono percorsi difficili: non sembra si possa evitare, come troppo spesso è accaduto e accade, l’impatto frustrante e doloroso con l’“umano”, cioè con la realtà degli individui. Gli individui hanno avuto sempre una vita difficile nel mondo dei filosofi, e per molti secoli sono stati relegati alla volgare empiria, o all’irrilevante accidentale. Se gettiamo uno sguardo allo svolgimento della filosofia nel Novecento, scorgiamo che neanche è stato sufficiente liberarsi dell’ansia di trovare fondamenti e verità eterne per avvicinarsi al mondo umano. Molti filosofi – penso a Heidegger e alla nutrita schiera dei suoi seguaci – hanno per esempio prodotto, liberandosi dai fondamenti, rifiuto e avversione per il mondo umano, svalutato come “tecnica” in nome di una dimensione sacra dell’Essere. Alcuni di loro hanno quindi finito per riallacciare la filosofia alla religione, con un pericoloso disprezzo per gli scenari democratici. Non mi pare soddisfacente tuttavia neanche quel trend di origine anglosassone che, per tenersi lontano dalla ontologia e dalla pseudo-teologia, si limita a compiere una arida analisi del linguaggio. La filosofia può fare molto di più. E neanche mi soddisfa il trend della filosofia ermeneutica, che anche se in maniera molto soft , spaccia per protagonista degli eventi umani non il singolo individuo, ma una assai fumosa “situazione storica”. Che sotto questi atteggiamenti filosofici alberghi un qualche fastidio per la realtà inquietante dell’individuo, è fortemente ipotizzabile, e talvolta è anzi esplicitamente dichiarato. Calasso, citando Platone, insinua: “Ma perché la manìa è più bella? Socrate aggiunge: ‘ Perché la manìa nasce dal dio’, mentre la sophrosyne ‘nasce presso gli uomini’”1. Ancora più sorprendente è ritrovare questo atteggiamento anche in quei filosofi dissacratori che rivendicano dignità filosofica al “basso” e all’“osceno” – penso per esempio a Bataille e ai suoi numerosi seguaci – e che poi, quasi paralizzati dalle loro stesse scoperte, non riescono sulla base di esse a sviluppare una riflessione sull’umano. È proprio su questo che mi voglio soffermare: perché la filosofia, anche quando affronta il territorio delle passioni, ha tanta difficoltà a sviluppare una prospettiva ampia e ricca, se il protagonista è il misero animale bipede “uomo”? È significativo che tra i percorsi “affettivi” maggiormente presi in considerazione nel mondo filosofico ci siano il Simposio di Platone, l’Etica di Spinoza e la Fenomenologia dello Spirito di Hegel: percorsi ricchi di suggestioni e spunti profondissimi, è vero, ma che tutti nel gran finale 1 R. Calasso, La follia che viene dalle ninfe, Adelphi, Milano 2005, p. 44 vedono risolversi il misero individuo in essenze eterne e comunque sovraindividuali. È anche significativo, su un altro crinale, il rapporto dei filosofi con Freud e con le psicoanalisi a lui seguite. Anche qui (paradossalmente, invero), si nota un qualche fastidio per l’“umano”. Non a caso Freud è piaciuto come filosofo del sospetto, come filosofo della rottura e del disagio; molto minore ascolto hanno trovato gli stimoli costruttivi disseminati nei suoi scritti. Spesso si è liquidato il padre della psicoanalisi con una interpretazione piattamente razionalista o scientista, trascurando i ricchi significati che emergono dai suoi testi per costruire un cammino dell’uomo nel mondo. A Melanie Klein e a Wilfred Bion, che hanno raccolto e sviluppato questi stimoli, i filosofi hanno preferito Lacan, le cui prospettive appaiono spesso segretamente guidate più dalla ricerca di estasi distruttive che non dal desiderio di ricostruire. Perfino Sartre, così attento a non trasbordare dalla dimensione individuale, ha subito in parte il fascino dello psicoanalista francese. Ma da che cosa si origina questo fastidio per l’“umano”, che induce la filosofia o a rifugiarsi nei suoi eremi, oppure, se affronta la vita – e questo è il caso che ci interessa – la spinge a prediligere l’ambigua fantasia dell’eccesso e dell’estasi al piacere di espandersi e di costruire? Che la induce a disprezzare la difficile ricerca di una vita buona, e piuttosto ad inseguire una promessa di sublimità che residua un retrogusto arido e mortifero? Siccome è questa la doppia sensazione che si prova leggendo i testi di Nietzsche, e sappiamo che è lui il capostipite di questo modo di sentire, nel quale è per intero immerso anche Heidegger (nonostante gli sforzi immani da lui fatti per differenziarsi) interroghiamo ancora una volta le sue pagine magnifiche e terribili. Nietzsche è in effetti un pensatore complesso e ambiguo. Ha demolito favole e invenzioni per riportare la filosofia all’individuo dotato di corpo; e non si è contentato solo della decostruzione, perché sull’individuo e sul mondo privo di Dio o dei suoi surrogati, ha provato a costruire una nuova visione, ampia e ricca; e tuttavia dalle sue pagine trasuda spesso una prospettiva povera, ristretta, e politicamente scorretta. Interrogando ancora una volta i testi di Nietzsche, soprattutto il suo testo più costruttivo, Così parlò Zarathustra, ivi leggendo, come lui voleva, il tormento dell’animo umano, possiamo forse gettare qualche luce sulla genesi della profonda ambivalenza legata all’assunzione dell’umano, così diffusa in certe correnti filosofiche contemporanee. Dopo la sua opera di demolizione, Nietzsche si guarda intorno ed esprime il suo disappunto soprattutto per due tipi di persone: per quelli che non vogliono vedere la tragedia dell’esistenza e si chiudono nel loro piccolo mondo, accontentandosene; e per quelli che invece a tal punto sentono la tragedia, da perdere la voglia di vivere. Da questo primo assaggio sembra emergere una prospettiva ampia e ricca, che vuole conoscere e affrontare il dolore, senza per questo perdere la gioia. Siamo però subito colpiti da alcune gravi incongruenze, ed è opportuno analizzarle, per cercare di fare chiarezza nella prospettiva che Nietzsche ci propone, e che tanto ha sedotto e continua a sedurre. Il filosofo, per bocca di Zarathustra, non esprime il suo fastidio solo per quelli che vivono in modo piccolo e superficiale, ma anche per quelli che si battono per la giustizia e l’uguaglianza; non è infastidito solo da coloro che diventano pessimisti e quindi finiscono nelle braccia dei preti – un “quindi” su cui ci sarebbe molto da discutere – ma anche da coloro che vedono il male e cercano di aggiustarlo, e soprattutto da coloro che cercano di elaborarlo attraverso la sua espressione nella musica e nell’arte. Ad uno sguardo più approfondito risulta quindi che quello che infastidisce Nietzsche è la contingenza, comunque essa si presenti. È inutile per lui cercare sfumature e differenze: nella contingenza, qualunque prospettiva migliorativa è comunque segnata dal dolore. Il filosofo ci propone allora di assumere in toto il dolore, nella sua interezza, e in questa assunzione ritrovare la gioia suprema. Le suggestioni di questa “filosofia della tragedia” sono molteplici. Vivere fino in fondo il dolore, senza cercare consolazioni, accogliere un dolore totale e perfetto, è un’idea affascinante, come ci racconta per esempio il bel romanzo di Ugo Riccarelli che porta questo titolo (Il dolore perfetto)2. In Nietzsche tuttavia questa idea assume anche altre connotazioni. Il dolore perfetto non è per lui solo un dolore vissuto fino in fondo, ma è anche un dolore puro, innocente e libero, senza pesi e senza tormenti. Con una movenza molto aporetica il filosofo ci raccomanda sì di vivere fino in fondo il dolore, ma di viverlo senza rischi e senza ambivalenze, senza invidia e senza sensi di colpa. Come se per salvaguardare la grandezza del dolore finisse, togliendogli pathos, per sottrarlo alle differenze dell’umano. Come se enfatizzasse il dolore solo dopo averlo trasformato in nondolore. E questo spiega bene perché Nietzsche si scagli contro Wagner proprio perché questi ha cantato il dolore come una splendida emozione umana. In effetti, l’operazione del dolore perfetto si compie per Nietzsche solo se l’uomo si solleva in uno spazio – quello dell’oltre-uomo – nel quale non ci sono più ostacoli e pesi, non ci sono più rapporti e differenze, non ci sono più rischi e pericoli: uno spazio nel quale lo stesso dolore non è più contingente, e quindi è un dolore che non è più tale, perché un dolore che non sorprende e non travolge sembra piuttosto assumere le fattezze di una sublime indifferenza. Possiamo così constatare che, anche se in modo toccante, ancora una volta il filosofo è fuggito di fronte alle vicende umane. Nietzsche del resto lo dice apertamente parlando della musica di Wagner, che lui sente come 2 U. Riccarelli, Il dolore perfetto, Mondadori, Milano 2004. una metafora della vita, che attrae e seduce, ma che toglie i punti fermi, che è bella, bellissima, ma pericolosa. ( Nietzsche contra Wagner, “ Dove io ammiro”, “Dove io muovo obiezioni”). Come si potrebbe sopportare la ricchezza della vita rimanendo un individuo dentro la vita, esposto alla mancanza, cercando invano Dioniso assente? come si potrebbe tollerare che la vita e la gioia si ritrovano cantando e mettendo in musica un dolore imperfetto, cioè un dolore? Come se Nietzsche non fosse riuscito ad accettare che nella vita esiste “un tempo per il dolore”, come recita il titolo del bel libro di Tonia Cancrini3, che contiene una profonda indagine su questi vissuti. In un brano importante di Cosi parlò Zarathustra (“Il convalescente”) Nietzsche invita invero a cantare, di fronte all’orrore dell’ insensatezza del “tutto che ritorna”: ma il suo cantare non proviene dalle situazioni della vita, bensì dall’alto di uno spazio nel quale la vita contingente è vista come una totalità. E qui ci imbattiamo in una aporia invalicabile: una “vita totale” rischia di tramutarsi in una “non-vita”: che cosa è infatti la vita se non lo sforzo dei singoli viventi di emergere dall’essere indifferenziato e insensato? Ma Nietzsche in fondo lo sa: il canto che aleggia dal suo scritto è infatti mortifero e arido e oscilla dalla monotonia di un automartirio ascetico, dal sordo rimbombo di una fantasia delirante al sinistro giocare con gli esseri umani. La nostalgia verso una vita non contingente ha infatti immediatamente un risvolto sinistro, per Nietzsche come per i suoi molti seguaci: la mancanza di cura e di interesse per le contingenze, cioè per i singoli esseri viventi, che arriva fino al disprezzo. Per Nietzsche la vita si può amare soltanto con un amore perfetto, soltanto se si avverte in essa un sentore di assoluto, fosse anche l’assoluto agghiacciante dell’eterno ritorno (una sorta di anti-spirito hegeliano). Ma come il dolore perfetto non è dolore, così anche l’amore perfetto non è amore. I tentativi messi in opera dai filosofi per teorizzare un amore perfetto senza povertà e senza dolore sono tutti fallimentari. Un amore senza differenze e senza dolore è infatti irrealizzabile, e quindi è insignificante, senza pathos e senza spessore, come un banale sogno a occhi aperti. Così appare lo stridulo amore di Nietzsche per tutte “queste animule lievi scioccherelle leggiadre volubili” (“Del leggere e scrivere”), perché gli manca una componente essenziale: l’interesse e la stima per la differenza. Notiamo en passant che pur di evitare ogni commercio con la differenza, a volte – pensiamo a Derrida – essa è stata ontologizzata come una “différance” per sempre invalicabile. Vedo insomma Nietzsche incapace di portare a termine la sua svolta epocale, forse proprio perché, avendo svelato fino in fondo il dolore di vivere, ne è rimasto travolto, e non è riuscito ad apprezzare il mondo umano. In tal senso capovolgo l’interpretazione di Heidegger, e ritengo che 3 Un tempo per il dolore. Eros, dolore e colpa, Bollati Boringhieri, Torino 2002 l’aria di morte che aleggia sulla filosofia del nostro dipenda dalla sua perdita di contatto con l’“umano”. Non basta infatti mettere in movimento il circolo (ci aveva già pensato Hegel) se non lo si lacera per sempre aprendosi al regno dell’opinione e degli individui. Certamente, Zarathustra è sempre in cammino, ma questo non basta, perché non esce mai dal suo circolo. Qualcosa di analogo accade a Heidegger, il quale, nella Lettera sull’umanismo , invoca sì una identità viva e fluida, ma che sappia liquidare il bazaar delle differenze. Come dire che le differenze, quando sono veramente tali, vengono liquidate con disprezzo come supermercato confuso di opinioni. Ma c’è di più. La mancanza di stima per le differenze, cioè per i singoli esseri viventi, rende a volte molto pesante il richiamo alla crudeltà operato da Nietzsche (imitato con sconcertante superficialità da molti interpreti): troppo spesso nelle sue pagine il filosofo confonde la capacità di affrontare la complessità e l’ambivalenza dell’umano, con il gusto, povero e amaro, di distruggere e annientare, nella folle aspettativa di raggiungere la perfezione almeno dalla parte dell’orrore e del dolore “Anche una viltà, una pigrizia che vogliano il loro eterno Ritorno – commenta Deleuze – diventerebbero altra cosa che una pigrizia, una viltà: diventerebbero attive e quindi potenze d’affermazione”4. Quanto ancora oggi è diffuso nell’immaginario collettivo il culto segreto della perfezione, con il conseguente fastidio per il “diverso”, cioè per le opinioni, lo scorgiamo osservando come, spesso, nelle migliori famiglie, la scelta della forza è preferita alla scelta, considerata debole, del dialogo e dell’amore per gli altri. Invito a riflettere su questo punto essenziale: se la filosofia si apre all’esperienza e alle emozioni, è incongruo che chiuda gli occhi di fronte alle differenze infinite rappresentate dagli esseri viventi. E altrettanto incongruo appare che la filosofia, aprendosi all’esperienza, preferisca mandarla in rovina (“solo un Dio ci può salvare”, diceva Heidegger), piuttosto che inventare nuove storie, piene di dolore e di incertezza, ma anche ricche di vita e di emozioni. Però dobbiamo essere molto grati a Nietzsche, perché raccontandoci i tormenti dell’animo e il dolore insopportabile che “tutto sia umano”, ci aiuta a prendere contatto con questa emozione. Ci fa penetrare nelle plaghe più oscure del nostro sentire, là dove il dolore per la contingenza fa montare l’attrazione per l’orrore e il piacere dell’annientamento. Svelare che queste plaghe oscure sottostanno a molte scelte apparentemente razionali ha fatto compiere alla filosofia una svolta epocale. Ma qui dobbiamo essere grati anche a Freud il quale ci ha mostrato che queste pieghe oscure non provengono da un “sacro mistero”, ma dal narcisismo onnipotente che non riesce a fluidificarsi 4 G. Deleuze, Nietzsche, Bertani, Verona 1973, p. 40. e non riesce ad amare l’imperfetto e l’ambivalente. È in esso, e non nella patologia occidentale, che si annida e prolifica il culto della identità, che preferisce mandare tutto a in rovina, piuttosto che cercare un rapporto dialogico tra le differenze, sempre imperfetto e pieno di dolore, ma pieno anche di ricchezza vitale. Freud ci ha anche mostrato (non senza difficoltà) quanto sia importante una qualche elaborazione del narcisismo, perché ci permette di comprendere la realtà nella sua molteplicità e nelle sue differenze. E ha anche aperto una via, sviluppata da alcuni suoi seguaci, soprattutto dalla Klein e da Bion, percorrendo la quale osserviamo che, se si accetta di entrare nella realtà, e ci si abitua a vivere nell’orizzonte della imperfezione, si possono scoprire, coi sentimenti e col pensiero, nuove figure di piacere vitale. Come dire che se diamo valore all’umano, e quindi alle differenze e alle opinioni, possiamo ritrovare per la vita senso e spessore. Come dimenticare la terribile consequenzialità, che Freud ci descrive in Al di là del principio di piacere, con la quale il ciclo insensato della natura produce voglia di morire, al cui dilagare solo il fragile Eros, cioè i sentimenti umani, possono porre un argine? Se la filosofia esce dal suo rifugio e va in giro nel bazaar acquista un nuovo gusto e una nuova ricchezza, e magari può far sentire il suo peso perché prevalga l’opinione migliore: ci aiuta così a trovare un qualche senso per il nostro vivere e insieme rinforza l’orizzonte democratico.